Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

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Capo V.

La Settimana santa in Aden. — A Suez, al Cairo. — A Roma. — Il cardinal Wiseman. — Per la Francia. — A Lione e a Parigi. — Dal ministro francese. — A Londra da lord Palmerston. — Di nuovo a Parigi. — Notizie tristi. — Una tentazione. — Un’altra volta per l’Africa. — In Terra Santa. — Ad Alessandria e al Cairo. — In barca sul Nilo. — Avventure buone e cattive. — Al monastero di S. Antonio. — Pietà e scienza dei monaci eretici. — Un pranzo all’aperto. — Una liberazione.

Presi gli opportuni provvedimenti, lasciati il padre Gabriele e fra Pasquale a Massaua, il nostro vescovo insieme col padre Leone des Avanchères e un giovane di nome Giorgio condotto seco dal Goggiàm salpò verso Aden dove con suo piacere trovò la missione del sacerdote Sturla molto ben avviata e dove ebbe la consolazione di battezzare dieci soldati e di poter celebrare con una solennità per quei luoghi straordinaria le feste di Pasqua che cadevano appunto in quei giorni. Giunta intanto dall’isola Maurizio una nave che faceva viaggio per Suez s’imbarcò egli col giovane Giorgio e con un gesuita travestito, il padre Spasiani. Da /52/ Suez su vettura offertagli dal signor Ennes, cattolico, che già altra volta aveagli prestato un buon servizio, si condusse insieme coi suoi compagni al Cairo, indi ad Alessandria ove furono ospitati da mons. Guasco e donde poi s’imbarcarono per l’Europa, toccando Marsiglia e scendendo a Livorno. Da Livorno il Massaia proseguì per Firenze, Assisi, Perugia, quivi incontrato da un suo antico condiscepolo, il padre Francesco di Villafranca, e si diresse quindi a Roma, dove fu dal Papa a dar conto della sua missione, e dove, alla congregazione di Propaganda, lasciò il giovane Giorgio perchè venisse formato all’educazione ecclesiastica e a suo tempo mandato ad evangelizzare i suoi connazionali.

Ripartì quindi per Lione affine di raccomandare a quell’uffizio della propagazione della fede l’opera sua e di qui mosse per Parigi, dove fu a far visita al presidente della Repubblica, Luigi Napoleone, e dove ebbe molte interviste dal presidente del Ministero, generale Lahite, da deputati e alti personaggi sulle cose dell’Africa che poteano riguardare gli interessi francesi. Anzi dal presidente del Ministero fu pregato volesse stendere in iscritto le sue idee in proposito; ciò che egli fece in un opuscolo, aggiungendone un altro sulla Propaganda mussulmana nell’Africa e nelle Indie, opere per cui si ebbe molti elogi dai governi francese e inglese. Passato a Londra, le stesse accoglienze onorifiche e premurose trovò nel presidente del Ministero, lord Palmerston, e nel ministro della marina. Nè la colonia italiana si mostrò meno sollecita nell’onorare questo illustre compatriota. Questo suo abboccamento coi ministri gli valse un largo sussidio per /53/ la missione di Aden e la ricognizione legale di quella casa; affare che sommamente importava. Congedatosi dal card. Wiseman, di cui era stato ospite, ritornò a Parigi, dove gli premeva di concludere un affare, ottenere cioè che il suo buon amico, signor Degoutin, cassato dall’ufficio di viceconsole francese a Massaua, fosse rintegrato nella carica. Questo non potè ottenere, ma ben potè ottenere gli fossero riparati i danni patiti nell’assalto della sua casa durante la guerra, che già abbiamo accennata, tra gli Egiziani e gli Abissini. A Parigi ricevette dal marchese Brignole Sale una cattiva notizia, che i padri Giusto, Cesare e Felicissimo erano stati cacciati da Tedba Mariàm, ed avean dovuto tornare a Massaua. Terribile prova per il suo cuore di apostolo!

Di ritorno da Parigi giunto a Lione fu a far visita a mons. Fransoni arciv. di Torino, colà esiliato dal governo piemontese, perchè non ossequente ai nuovi principii liberaleschi. Intavolati discorsi sulla sua missione, l’Arcivescovo, certamente con buone intenzioni, gli disse, stando le cose come stavano, pensasse a fermarsi in Piemonte. Ma il generoso apostolo in un affare di tanta importanza volle, prima di decidersi, consultare la volontà di Dio con alcuni giorni di spirituale ritiro, risoluto di attenersi in fine al consiglio del suo direttore. E il consiglio fu che non ponesse tempo in mezzo a mettere in salvo la sua vocazione di missionario; ed egli, fedele alla voce di lui, decise di partire immediatamente per l’Africa, senza nemmen visitare la sua patria, senza nemmen rivedere la sua famiglia, che pur gli era tanto cara. Era una battaglia campale che aveva vinto.

/54/ La mattina del 27 marzo 1851 mons. Massaia montava su un bastimento che salpava per l’Oriente per ritornate al campo delle sue fatiche e de’ suoi sudori. Caso volle che si trovasse sul vascello Arnoldo d’Abbadie, fratello di Antonio, col quale ebbe tosto attaccata conversazione, e d’una in altra cosa passando, saputo come fosse in relazione col vescovo eretico Salama, lo pregò si adoperasse per farlo smettere di perseguitarlo. Volentieri l’Abbadie accettò l’incarico e premurosamente lo compì. Il Massaia stesso poi scrisse una lettera a Salama facendogli osservare parecchie cose, specialmente come invalida fosse la consacrazione che dava a’ suoi preti; ma a questo per tutta ragione quel valentuomo rispose: che non essendo gli Abissini uomini, ma scimmie, non conveniva dar loro la vera ordinazione. Degna risposta di un tale soggetto.

Ad Alessandria si separò dall’Abbadie e dovendo quivi aspettare parecchi giorni pensò di approfittarne per movere a visitare la Terra Santa. Fu dunque a Gerusalemme, a Betlemme, a S. Giovanni in Montana e in altri luoghi, dappertutto trovando pascolo alla sua ardente pietà di apostolo; ma noi non ci fermeremo a descrivere questi luoghi, che troppo ci porterebbe fuori del nostro argomento e dei limiti impostici.

Pochi giorni dopo il suo ritorno in Alessandria giungeva il suo segretario, padre Agostino di Alghero, col quale recossi tosto dalle autorità per ottenere le necessarie protezioni pel viaggio; cosa che pei buoni uffici del console francese facilmente gli venne concessa. Ma una difficoltà rimanevagli tuttavia a superare; bisognavangli lettere di raccomandazione presso le autorità ecclesiastiche e civili che /55/ avrebbe incontrate nel suo viaggio per l’Egitto e pel Sennàar, donde intendeva penetrare fra i Galla, e queste lettere non potevano dargliele che il patriarca copto eretico, per una parte, e per l’altra il governatore egiziano, il primo suo grande nemico e il secondo non troppo benevolo. Ma in buon punto un francese si offre mediante compenso di ottenergli le desiderate raccomandazioni. E veramente riuscì di ottenere pel sig. Giorgio Bartorelli (così figurava il Massaia) le più ampie lettere di favore, anzi un firmano del viceré stesso con cui si ordinava venisse trattato come persona di gran conto. Noleggiata quindi una barca, con un giovane che gli servisse di garzone e interprete, la sera del 24 giugno 1851 partì.

S’era convenuto coi marinai di viaggiare anche di notte, ma il più delle volte, calate le tenebre, s’era costretti a fermarsi, attesa la grande quantità di coccodrilli che infestavan le acque e contro i quali non avendo fucili da sparare non era cosa agevole il difendersi. Il 4 luglio approdarono ad una città lungo la spiaggia, dove ebbero cortesi accoglienze dallo Sciech (sindaco) e dai monaci cattolici di un convento, ed eguale trattamento trovarono il giorno dopo nel villaggio di Benesuet da alcuni monaci eretici. Di qui in compagnia di una carovana composta di cinque persone e sei cammelli mossero a visitare il monastero di S. Antonio.

Nel tragitto fecero due o tre soste alle oasi che ebbero trovato, fermandosi a prendere un po’ di cibo e di sonno; s’intende sul suolo, al luccicore delle stelle. Finalmente dopo un lungo cammino fra aride sabbie si giunse al famoso monastero. Esso sorge ai piedi di una montagna o meglio catena di /56/ montagne, detta amba Antun, montagna di S. Antonio, che s’adergono solitarie nella sconfinata pianura. Il non men famoso monastero di S. Paolo si trova alla parte opposta della montagna, a una giornata di cammino dal nostro. Questo è un gran quadrilatero doppio formato da due cinte, una esterna e l’altra interna, entro la quale sorge l’abitazione e la chiesa dei monaci. Il muro esterno, di fango battuto ma durissimo, tanto che da secoli resiste alle intemperie, misura 160 passi di lato, quattro metri di spessore e sei di altezza; tanto largo che sopra vi possono camminare cinque o sei persone di conserva. Parrebbe incredibile, ma è così, non ha porta e in luogo di essa in un volto che s’innalza su due sporti della cinta s’apre una botola circolare da cui s’abbassa una fune recante all’estremità un bastone traverso sul quale mettendosi a cavalcioni la persona viene tirata su da due monaci che di sopra girano un verricello, a cui un capo della fune è raccomandato. Il nostro Massaia al vedere una sì curiosa entrata stette un momento perplesso se dovesse fidarsi o no, ma poi fattosi animo salì, e dietro lui i suoi compagni.

Entrati e presentate le lettere del patriarca, furono accolti dai superiori e dai monaci con grandi feste e tosto ammessi a visitare il monastero, la fontana del santo, di getto perenne e abbondante, l’abitazione dei singoli monaci, la chiesa e la torre quadrata. S’eleva questa nel centro, un quattro metri più alta delle abitazioni e da ciascun lato di essa si abbassa un ponte levatoio che va a posare sul corrispondente lato del monastero, che, come tutti gli edifizii di quei luoghi, termina orizzontalmente a terrazza. La torre, oltre che di ornamento, /57/ serve di difesa negli improvvisi assalti dei nemici, perchè, alzati i ponti, si rende loro impossibile l’accesso. Visitarono il refettorio; uno stanzone con una lunga tavola di alabastro; la sala di scuola e di studio, dove in dodici giorni che i nostri dimorarono colà non videro mai nè insegnare nè studiare, e dove trovarono invece una gran cesta piena di tabacco e di pipe madornali, essendo il fumare la loro maggiore occupazione durante il giorno e parte della notte; la biblioteca, veramente magnifica! quattro o cinque cestoni di libri e di pergamene polverose; la chiesa, piccolina, e di qui scesero nella cripta o sepolcro del grande anacoreta dell’Egitto, S. Antonio; una stanzetta disadorna, chiusa con porta. In questa camera, come per favore, chiese il nostro Massaia di poter passare la notte, cosa che gli fu concessa; ma, prima di andarsi a riposare, volle trattenersi in giardino aspettando un giovane, Michelangelo di nome, già alunno di Propaganda, che colà era stato condotto fraudolentemente e trattenutovi quasi come schiavo, e per la cui liberazione veramente egli aveva visitato il monastero. Venne, lo confessò e quindi ritirossi nella sua camera.

La mattina presto sente un baccano del diavolo; che era? Quelle buone lane di monaci aspettavano la colazione; e questa volta con tanta più allegria in quanto che il signor Bartorelli aveva loro promesso acquavite e altre coserelle. Come lo videro comparire fu un’ovazione generale: evviva il signor Bartorelli! Se avesser saputo chi si nascondeva sotto questo signor Bartorelli! ch’egli era proprio l’abuna Messias contro cui il loro abate Daùd era andato a predicare la crociata nell’Abissinia!

/58/ La domenica assistette alla Messa celebrata in rito copto (1) e coll’accompagnamento di qualche canto e del suono del triangolo e di campanelli; tutti i monaci vi stavano in piedi col loro bravo bastone alla mano, il quale, appena il S. Sacrifizio fu finito, come se scottasse, gettarono a furia per terra e se ne uscirono schiamazzando a far colazione.

Volle anche trovarsi una volta al pranzo comune; i monaci sedevano a tavola divisi per decina ed uno fra essi, che faceva come da scalco, scodellava la minestra, distribuiva un pezzo di carne e una pagnottella; la carne v’è tutti i dì, eccetto il mercoledì e il venerdì, nei quali in luogo suo si dà un piatto di fave o di lenticchie. Di lettura spirituale, di preghiera prima e dopo il pranzo non è manco a discorrersi, non fanno neppur quelle del mattino e della sera. Dopo il pranzo vi fu ricreazione nella sala comune: furono distribuite pipe lunghe un metro e tabacco e fuoco: in breve la sala fu inondata da un nugolo denso di fumo, e aggiuntovi un baccano incomposto pareva una vera tavola. Poscia per onorare il nuovo ospite si volle dare una rappresentazione, della quale per essere recitata in quella loro lingua particolare altro al nostro Massaia non riuscì di capirne salvo che non era un fiore di moralità.

Intanto il nostro signor Bartorelli, quasi a ripagarli dei complimenti comunque fattigli, disse voler dare un pranzo, ma gradirebbe fosse all’aperto. A quest’effetto comperò con meno di uno scudo tre capre, alcuni formaggi e acquavite, e il giorno assegnato sotto un capannone improvvisato, seduto cia- /59/ scuno bravamente per terra sopra pelli distese, dieder l’assalto al pranzo. Divorata la prima capra, venne recata la seconda, e in ultimo con gran pompa e al suono di certo loro strumento la terza, anch’essa come le altre arrostita sul fuoco, e a questa ancora senza bisogno di coltelli e di forchette, cose del resto inutili per chi come loro mangia all’araba, fecero la migliore accoglienza. Era un gusto veramente a vederli come si trionfavano quei pezzi di carne, e con che segni di approvazione! che furono anche maggiori quando in fine comparvero in tavola, cioè sulle pelli distese per terra, alcune bottiglie di acquavite. Oh il bravo signor Bartorelli, che sempre viva e che si prolunghi ancora un pezzo la sua compagnia! Ma veramente più che da ridere c’è da stizzirsi insieme e da compassionare a vedere a che cosa son ridotti i monaci eretici, nient’altro che buontemponi, e fosse solo così, ma il peggio si è che sono di più qualcos’altro, gente viziosissima.

Triste cosa a pensare davvero che là ove risonarono un dì le preghiere del grande anacoreta S. Antonio e de’ suoi santi discepoli, là ove si ammiravano prodigi di penitenza ed ogni sorta di virtù, ora da uomini che pretendono chiamarsi loro successori si diano così lacrimevoli spettacoli di vizi abbominevoli! Esulata la fede cattolica, è esulata anche la santità; partiti gli angeli del Signore, sono sottentrati i demonii. Sciaguratissimi effetti dell’eresia!

Intanto, passati dodici giorni fra quelle buone lane, il signor Bartorelli pensò a ritornare, ma non tornar solo, con sé voleva condursi quel poveretto di Michelangelo; ma come sarebbe riuscito senza /60/ destar sospetto? Il cielo gli presentò una buona occasione; un certo monaco erasi raccomandato al signor Bartorelli, che ormai era tenuto per un gran personaggio, un gran medico, un po’ di tutto insomma, perchè gli indicasse una medicina che lo guarisse di certa malattia. Egli allora gli disse che la medicina veramente c’era, ma averla lasciata al villaggio donde era partito colla carovana; se ai superiori non dispiacesse si sarebbe menato con se Michelangelo il quale gliel’avrebbe recata. Il permesso fu facilmente accordato e così il nostro signor Bartorelli, ottenuto l’intento (la liberazione del povero giovane), si partì accompagnato dalle benedizioni di quei monaci che non avevano mai visto un miracolo d’uomo simile.

Giunse la medicina, ma Michelangelo si ebbe un bell’aspettarlo; questi la notte seguente alla partenza del Massai, imarcatosi sul Nilo riparò ad Alessandria, quindi al Cairo, dove ebbe la consolazione di trovarvi i suoi parenti convertiti al catolicismo. Un’altra consolazione e insieme fortuna grande si ebbe: mons. Abucarìm, patriarca copto cattolico, quegli che aveva mosso il Massaia alla liberazione di Michelangelo, apprezzandone le virtù, lo venne preparando al sacerdozio, che indi a poco gli conferì. E abba Potros (tale fu il nome che Michelangelo assunse colla sacra ordinazione) mostrossi poi veramente degno della fiducia del suo protettore col lavorare indefessamente, finchè visse, al bene della Chiesa. Nè men riconoscente mostrossi dell’opera pietosa prestatagli dal nostro Massaia, che soleva chiamare, con quanti ne parlasse, il suo angelo liberatore. E l’era stato veramente!

(1) Copto, egiziano antico, viene da Ghept, Egitto. [Torna al testo ]