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25.
Trionfale ingresso in Lagàmara
sconfitta dalla rivale Celia.

in vista di Lagamara; un gran ficomoro. Eravamo al più dieci kilometri da Tullu Danko, e dalla casa nostra. Un gran movimento di gente si scorgeva in tutto il paese: la casta cristiana dell’Abissinia, molto numerosa in Lagamara, veniva ad incontrarci con alcuni canti di giubilo a modo abissino. Noi abbiamo fatto alto sotto un portentoso ficomoro, l’umbra del quale bastava per parecchie centinaia di persone; mentre stavamo aspettando la gran turba dei nostri che progrediva verso di noi, io contemplava quell’albero portentoso, il quale stendeva i suoi branchi a dieci o quindeci mettri all’intorno; portava alcuni cassoni sospesi ai branchi intorno all’enorme tronco; era questo un gan fetisso o idolo del paese, il quale soleva ricevere in quelle casse le oblazioni dei fedeli; più basso il trunco era tutto fasciato di filo in gran quantità, e vicino a terra era tutto unto e bisunto di butirro; se io fossi stato un mago galla, quello sarebbe stato una bella cattedrale per me, ma sgraziatamente [p. 379] io veniva per abbatterla e distruggerla, ed era perciò per me un’argomento di grande malinconia pensando a tutti quei poveri galla che ne facevano il loro idolo, e confidavano in lui.

la missione mi viene all’incontro. Mentre io stava così preoccupato, ecco arriva in bell’ordine la falange dei nostri tutta contenta di vedermi alla fine arrivato dopo mille agitazioni ed incertezze, se Gama mi avrebbe sì o no lasciato partire dal Gudrù; quindi dopo che seppero la mia partenza di là, il mio ritardo di quasi tre mesi in viaggio. Deo gratias, dissero tutti, alla fine è arrivato, ed un numero senza fine mi si getta ai piedi in modo così tenero da cagionarmi una commozione innesprimibile; il P. Hajlù aveva portato con se la stola, e l’aqua benedetta, ma io già gli aveva aspersi colle mie lacrime di consolazione; non sono ancora cristiani, disse il prete, epperciò non si intenerisca troppo, perché temo ancora che queste lacrime di consolazione non si cangino poi in lacrime di dolore: incommincio [a] ricevere questo cordiale, risposi, mi disporrò in seguito a digerire i cat- /216/ tivi bocconi. trionfale ingresso in Lagamara
[inizio set. 1955].
Così gli ho benedetti tutti, e ci siamo messi in viaggi o, mentre io col prete recitavamo il Te Deum, la turba cantava i suoi cantici abissini preparati. La nostra processione era come un fiume, il quale scorrendo aggiunge sempre [nuove acque] a destra ed a sinistra, ma non diminuisce: a misura [p. 380] che ci avvanzavamo l’accompagnamento cresceva a dismisura; avanti di noi camminava un drapello di circa 50. giovani a cavallo, i quali facevano a destra ed a sinistra delle scorrerie, e delle finte battaglie per divertirci. Dopo di loro una quantità di vecchi a cavallo di muli, i quali figuravano come nostri scudieri sempre intorno a noi. Il resto poi della popolazione non si numera[va], perché quasi si poteva dire [che c’era] tutto il paese, eccettuato il vecchio Abba Gallet, quello che ha dato il movimento a questo nuovo stabilimento, il quale era divenuto quasi immobile nel suo letto.

La nostra entrata in Lagamara fu dunque un vero trionfo che non si può descrivere. Appena arrivati tutti si ritirarono per lasciarci liberi; solamente i capi del paese prima di lasciarci mi dissero che sarebbero venuti l’indomani per parlarmi di qualche affare. Credendo io che questo affare fosse quello dell’inoculazione del vaïvolo, va bene, dissi, ci vedremo. In simili circostanze per poco che si dica si dice sempre molto, e l’emozione vale più che un lungo discorso, a segno che io cadeva di stanchezza, e rinunziando al bisogno che aveva di gustare qualche cosa, preso un poco di caffè, ho dormito.

Appena riposato un poco, ho chiamato subito Abba Hajlù per mettermi al corrente delle cose di casa; ho veduto i lavori fatti, ma erano ancora molto lontani dall’essere sufficienti per alloggiare [p. 381] tutta la nostra gente, e domandando la ragione per cui si lasciarono certi lavori, cosa vuole, egli disse, quando si incomminciò erano altri tempi, ed abbiamo scielto questo luogo come il più a proposito, questione di guerra; S[c]illa e Cariddi. ma oggi è nata la guerra con Celia, e questo luogo è divenuto troppo esposto al nemico, e questa ragione ci scoraggì, perché saremo forze obligati a stabilirsi al di là del fiume; domani verranno questi signori capi di Lagamara, e sentirà tutta la gravità della questione; essi confidano in Lei. Io caddi dalle stelle, Dio buono, dissi, io credeva di venire qui a riposare da questi torbidi di guerra, e mi trovo in mezzo ad un vespajo. Io credeva che sarebbero venuti per sollevarmi la questione del vajvolo, invece è ben tutt’altro ciò che mi aspetta, una questione di guerra che mi minacia persino di caciarmi di casa; con questa gente poi piena di superstizioni, e che tutto attribuisce a prestigio oltre natura, che brutto impicio! Sono caduto in S[c]illa volendo schivare Cariddi: Mio Dio! siate il mio scudo in queste battaglie, tutta la mia speranza è in voi.

/217/ Non ho potuto più occuparmi di altro, questo pensiero mi sconcerto, e mi fece passare una notte molto agitata; neanche poteva sollevarmi conferendo coi due Sacerdoti indigeni, perché questi guidati da una fede forze troppo cieca, e da una fiducia in me, o[l]tre prudenza [p. 382] non facevano che farmi coragio, e forze facevano anche coragio agli stessi capi del paese. primo ministero esercitato in lagamara. Con tutti questi pensieri, ho dovuto intanto passare una parte della notte nell’ascoltare le confessioni di tutte le persone di casa, massime di quelli che erano venuti con me, i quali sospiravano la S. communione da molto tempo, per poter celebrare la Santa Messa prima delle visite; così suole arrivare ai poveri missionarii, i quali, stanchi dai viaggi e da fatiche anche materiali, invece di riposarsi, arrivano sulle messe e devono prendere la falce, arrivano fra le battaglie della passioni umane, e debbono prendere parte interessata in questioni ben soventi estranee al suo ministero, perché sta scritto che egli [il missionario] è una vittima sacrificata a Cristo e con Cristo per essere un rimedio a tutti i cuori afflitti, anche infedeli.

Difatti, appena celebrata la S. Messa, e dette alcune parole al mio pusillo gregge, un gran numero di persone già mi aspettavano fuori per abbeverarmi di aceto e di fiele. Stava mangiando un poco di zuppa di tavita e latte, ed ogni momento venivano di fuori le mie persone a chiamarmi, ho trangugiato quattro bocconi e sono sortito col mio dragomanno Abba Joannes. In quell’epoca io comprendeva abbastanza la lingua oromo, e poteva anche parlarla, ma la convenienza voleva di servirmi di un dragomanno per essere più sicuro delle mie espressioni. Il dragomanno era fedele, ma, trasportato dal suo zelo e dalla sua viva fede, poteva piuttosto [p. 383] inclinare all’esaggerare che a diminuire quello che io avrei detto; comunque io non aveva altro dragomanno migliore di lui.

parlano i capi di Lagamara. Seduti dunque sotto un’albero, in luogo appartato da molta gente accorsa, coi capi del paese, incomminciarono questi ad esporre il caso loro: noi, dissero, da alcuni mesi a questa parte, siamo in guerra con Celia altro paese confinante, ed in tutti gli attacchi che hanno avuto luogo fin qui l’ajana (spirito tutelare) dei nostri nemici è stata superiore alla nostra, e siamo stati quasi sempre battuti. Ora Iddio ci ha mandato voi, e noi abbiamo tutta la confidenza in voi: dove siete voi cade la lancia dalla mano del nemico, come è accaduto in Gudrù, dove arriva la vostra saliva le malattie più terribili diventano come le mosche che compajono, e se ne vanno; noi non domandiamo che combattiate per noi e con noi; ma [che] il vostro Dio sia la nostra ajana, e voi custoditeci.

/218/ disparere tra me edi i miei preti. Per fortuna che io conosceva la mia miseria, e conosceva il linguagio di quella povera gente, vero linguagio di ragazzi, del resto guai al mio povero cuore! Per una parte io avrei voluto utilizzare questo prestigio, il quale sarebbe stato molto utile per la missione; per l’altra poi sentiva tutto il bisogno di distruggere tutti quei pregiudizii sui quali il mio prestigio si fundava; Iddio, mi dicevano i due Sacerdoti indigeni, avendo sollevato tutto questo entusiasmo per il bene [p. 384] della missione, perché distruggerlo? verrà il suo tempo, quando la missione sarà stabilita, allora noi faremo conoscere tutte le cose come sono. Iddio, cari miei, dissi io, nemico della menzogna, principalmente in noi suoi apostoli, permetterà il trionfo di Celia sopra Lagamara, ed allora il nostro prestigio basato sopra principii falsi, dove anderà? non è egli vero che noi caderemo molto più bassi, e saremo esposti sul vero terreno della nostra debolezza? Io diceva questo per schermirmi, anche indirettamente, dal prendere parte in questa guerra, secondando la falsa fiducia di quella gente in me; ma tutto mi fu inutile, e mi sono accorto che i miei stessi, guidati da una cieca fiducia, correvano per quella stessa via; cosa farci adunque? risolsi di abbandonarmi alla Providenza.

una mia domanda Obligato intanto a dare una risposta a quei capi del paese, impazienti di averla, e già stanchi di aspettare l’esito della conferenza coi miei; obligato a rispondere colla parola dei miei interpreti inclinati a camminare nel senso dei medesimi, ho preso una via di mezzo, ed ho domandato a quei capi come aveva incomminciata la guerra con Celia, e ciò per attaccarmi almeno al mezzo termine della giustizia, ad ogni evento che Iddio si fosse dichiarato [p. 385] in favore dei nostri nemici: la via tenuta da me era una via tutta di calcolo, e di prudenza, mentre gli altri camminavano per la via più corta di una fiducia oltre misura in Dio. come incominciò la guerra con Celia. Una donna, rispose uno dei capi da me interrogati, fuggita dalla casa di un capo di Celia si ricoverò nella casa di uno dei nostri, il quale si rifiutò di restituirla, per questa ragione incomminciarono a battersi, e poco per volta i due paesi, secondo l’uso, obligati a prendere parte nella lotta, naque la collisione; Lagamara per l’addietro sempre vincitrice, credendo di vincerla ancora questa volta, fu invece vinta; si sparse già molto sangue da una parte e dall’altra; noi in particolare abbiamo molti morti; ciò che è più [grave:] dalle due parti vi [è] l’emasculazione, epperciò stato di guerra completo, e più nessuna communicazione frà noi e Celia

avilimento di Lagamara. Mi sono accorto che quella povera gente era caduta in un patema d’animo ed avvilimento tale, da cui nasceva la loro debolezza, epperciò mi sono guardato bene dall’avvilirli di più per paura di aggiungere debo- /219/ lezza a debolezza. I popoli barbari molto limitati nelle loro idee, e guidati da principii superstiziosi sono molto facili a passare da un’eccesso all’altro; nell’auge sono per lo più di [p. 386] un orgoglio insoffribile, nell’abbattimento poi cadono così bassi, e diventano così vili che movono a compassione. Quello spirito di grandezza che rende l’uomo padrone di se per dominare egualmente il vento favorevole dell’auge, come il suo opposto della contrarietà, e della tribolazione, questo è un dono che viene da Dio solo, e proprietà inviolabile del solo cristiano, anzi del solo cattolico. Vedendo che il paese era molto avvilito, ho cercato di far coragio, ed ho voluto prendere un poco di tempo per rispondere alle domande che mi si facevano, assicurandogli in pari tempo che io vi avrei pensato.

calma da parte di Celia; mie esortazioni. Intanto stando alle notizie che venivano il paese di Celia, avendo sentito il mio arrivo, dopo tutte le storie di Gudrù, di Gombò, di Giarri, e di Gobbo, ebbe un poco di paura epperciò [mi] lasciò passare un certo tempo di riposo a Lagamara, a segno che i capi del paese venivano bensì molto soventi da me, ma non mi fecero più grandi istanze sulla questione di Celia. Ma io non riposava, e parlando or con l’uno, or con l’altro, [non] ho lasciato mai di far conoscere, che il principio della guerra gravitando sopra Lagamara e non sopra Celia, perché la donna non è fuggita in seguito ad una persecuzione per salvarsi da un grave timore, sibbene trasportata dalla corrente di una passione, dietro consiglio e calcolo equivalente ad un rapimento, motivo per cui il paese di Lagamara non doveva [p. 387] appoggiare il colpevole quando negò di restituirla; tutto il paese avendo preso la difesa del colpevole, diventò risponsabile avanti [a] Dio del suo peccato; questa era la ragione unica per cui Iddio si spiegò in favore di Celia invece di Lagamara. Io stesso poi essendo un Servo di Dio, [non] avrei nessun potere presso il mio padrone, se non a certe condizioni, che Lagamara domandi prima la pace, disposto ad una soddisfazione per l’offesa. Quindi, fino a tanto che questa pace non sarà domandata dovevano guardarsi molto gelosamente a non attaccare essi Celia, perché si sarebbero esposti ad una battuta, essendo sempre Iddio dalla parte della giustizia.

Lagamara rompe gli argini, e corre alla guerra. Ho avuto bel dire e raccomandare, ma dopo due o tre mesi di quasi perfetta calma Lagamara, parte appoggiata ad una confidenza mal intesa sul mio arrivo, e parte anche inorgoglita dal silenzio di Celia, un bel giorno da un’estremità all’altra all’improvviso si alza il grido di guerra, tutto il paese corre ai confini di Celia. Io credo in buon fede che l’attacco sia venuto dalla parte di Celia, e tremo per i nostri; si raduna tutta la mia famiglia in Cappella, si passa tutta la giornata in preghiere /220/ nell’incertezza di cosa sia avvenuto, e come sia andata la cosa; i vecchi, le donne, e tutte le persone corrono verso la missione, [p. 388] Le mie stesse persone di casa che girano e parlano sentono tutto il processo della cosa come è accaduta, e non osano dirmelo, ma poco per volta la vera notizia arriva sino a me, e sento in fine che la nostra Lagamara orgogliosa andò ad attaccare Celia all’improvviso: io tremo perciò, e raddoppio le mie preghiere a Dio, affinché avesse pietà di quel povero paese.

esito della battaglia; molte vittime; La sera, quando il sole si avvicinava al suo occaso incomminciano a rientrare alcuni individui della Spedizione; quasi tutta la giornata [fu] una guerra accanita; caddero molto vittime da una parte e dall’altra; Lagamara [si] combatte vigorosamente, ma Celia non meno potentemente proibì l’entrata dei nostri verso il suo paese. Appena incomminciavamo [a] sentire qualche notizia, ecco che incommincia [a] rientrare il grosso dell’armata, pianti, grida, urli spaventevoli si sentivano da tutte le parti, si sarebbe detta la crisi dell’universale giudizio. Così sono le guerre Galla, mentre si battono si vede [a] cadere il fratello, e ciascheduno pensa a se stesso, ma appena incommincia la ritirata, e l’armata si trova lontana dal nemico, allora incomminciano le crisi dei pianti e degli urli spaventevoli. un cristiano ucciso. Fra i molti caduti un nostro cristiano, il più zelante di tutti, il primo che diede il buon’esempio nel fare il matrimonio cattolico in Lagamara fu una delle vittime, e lasciava la sua sposa incinta [p. 389] di un mese. Io ho fatto subito delle pratiche per far trasportare il cadavere di questo nostro cristiano, ma, come emasculato, mi è stato impossibile, perché nell’opinione publica è considerato come immondo, ed i pregiudizii del paese avrebbero dato questo atto come di cattivo augurio per l’avvenire della guerra, epperciò ho dovuto rinunziarvi. Il numero delle vittime dal nostro canto si calcolava da otto a dieci, ed altrettanti feriti; dalla parte di Celia si dicevano molto di più, ma il numero era incerto.

diversi pareri sul mio conto; il paese di nuovo avvilito. Questo fatto fece una gran crisi nel paese, il quale fù umiliato nella sua falsa speranza in me. Multi multa dicebant ognuno nel suo senso. Alcuni andavano perdendo la concepita fiducia in me, altri mi davano ragione, perché il paese non ascoltò la mia parola, e non mancavano di coloro, i quali spargevano [voci] che io secretamente aveva mangiato forti regali, e la mia ajana era passata alla parte nemica; chi conosce i paesi dove regna un governo popolare non stenta [a] farsi un’idea di quanto accadde in Lagamara in quel momento, ed in quali brutti panni io mi trovava: [16.10.1855] Passò appena la notte, e l’indomani tutto il paese fu di /221/ nuovo alla mia porta per conferire con me sul quid agendum. I capi del paese, che sapevano il mio primo linguagio, mi domandarono perdono, e cercavano di rapattumare la cosa [p. 390] promettendomi anche alcuni regali, onde assicurarsi della mia assistenza magica, come era concepita da loro, e da alcuni supposta comprata dai nemici di Lagamara. Ho preso quindi da ciò motivo di ragionargli, facendo loro conoscere lo scopo della mia missione molto lontana da tutte queste cose temporali, ed unicamente diretto al bene spirituale del paese, che io considerava come paese mio: non vi basta, dissi loro, aver scielto io il vostro paese per abitarvi, disposto a dividere con voi le prosperità, e le miserie vostre? non parliamo più di queste cose che mi offendono, ma parliamo invece del merito intrinseco della causa, e parliamo del modo di rimediarvi.

mia parlata ai capi del paese. Da quanto voi mi avete esposto l’altra volta, Lagamara ha dato causa ingiusta alla guerra. Celia dopo il mio arrivo stette tranquillo più di due mesi senza cercarvi in questo frattempo io [non] ho lasciato mai di parlare a chi di voi veniva a me, raccomandando sempre di non prendere parte attiva alla guerra, ma solo di star preparata alla difesa; non mi avete ascoltato, ed all’improvviso siete andati a svegliare il nemico che dormiva; Iddio è giusto, ed io non posso cangiare la sua parola, fate consiglio, e tocca a voi domandare la pace; dopo che avrete domandata la pace, se il nemico rifiuterà di entrare in trattative, allora possiamo sperare che Iddio sarà con noi, ed io vi prometto che farò dal mio canto tutto quello che potrò. scusa dei capi del paese; I capi [p. 391] del paese mi risposero facendo le sue scuse: cosa vuole? [dissero:] nei nostri paesi non esiste un governo che per giudicare di certe questioni: i nostri giovani fanno una bravura e partono, e per non lasciarli perire dobbiamo seguirli, ecco il caso di jeri, caso non deciso dai vecchj in consiglio, ma venuto per un’imprudenza di alcuni giovani. paragone tra la democrazia di Lagamara e dell’Europa. Mentre sto scrivendo questa vecchia storia sento i gridi e le lagnanze di tutta [la] Francia sopra la spedizione insensata di Tunisi, e sento cantarsi in Italia l’irredenta, mentre il Re nominale con due ministri si trova in Austria a far complimenti coll’imperatore; facio il paragone tra la republica di Lagamara e quella di Francia coll’equivalente monarchia della nostra Italia. La differenza sta nella quantità, e nell’elezione dei capi del governo; quest’elezione essendo popolare non può essere ne con calcolo, ne guidata da ragioni sufficienti, motivo per cui si vedono [ri]vestiti di potere persone incapaci di usarne per la fortuna del paese; è più facile che sussista una republichetta come Lagamara, che non una gran nazione come la Francia e l’Italia, dove vi sono calcoli profundissimi internazionali che il basso /222/ popolo non è capace di giudicare, ne le questioni ne tanto meno gli uomini capaci di maneggiarle.

un governo democratico è un’illusione. È una grande illusione la democrazia del popolo sovrano, e del suffragio universale. Le parole popolo sovrano ripugnano fra loro, e neanche cade il bisogno [p. 392] di spiegarsi di più, come cosa troppo chiara per se stessa. Il suffragio universale poi è una vera rovina, perché, non solo non è capace il basso popolo di scegliere persone di capacità proporzionata alla carica, ma come esseri ciechi che si lasciano guidare da ciechi partiti, impediscono i dotti dal fare un’elezione ragionevole, perche in questo ultimo caso un soldo di regalo ad un povero vale più che dieci anni di studio in diplomazia. Questa è la ragione per cui si vede in pratica che questi governi democratici sono una vera rovina, ed una prostituzione dell’onore nazionale dove regna.

Lagamara è ataccata; nuova strage
[18.10.1855].
Mentre i vecchi di Lagamara stavano ragionando sulla maniera di rimediare all’ultimo passo falso fatto dai loro giovani, Celia più astuta lasciò passare appena tre giorni, e venne ad attaccare Lagamara: lasciando in pace la frontiera dove io aveva la casa, forze per un rispetto a me, montò parecchi kilometri più [in] alto, e fece una vera strage di tutta la casta che aveva dato causa alla guerra; Lagamara ricadde nel suo avvilimento per [non poter] impedire [la guerra] e Celia riaquistò tutto il suo vigore primitivo. Uno sgomento generale regnava in tutto il paese: tutti coloro che avevano le loro case verso i confini di Celia incomminciavano [a] trasportare le loro provisioni ed i mobili principali verso i confini opposti. Io stesso, trovandomi nella medesima situazione, e non potendo fare detto trasporto in modo publico per non allarmare di più la popolazione, ho fatto trasportare le cose più essenziali di notte tempo, [p. 393] ed ho pregato alcuni amici di prepararmi della capanne provisorie, dove poter fuggire in caso di bisogno, in modo però che nessuno penetrasse il mistero.