/255/
29.
Paganesimo, ateismo europeo, islamismo.
Notizie consolanti e dolorose.
lode dovuta agli oromo pagani. Debbo poi far giustizia a quella povera gente, la quale, benché corrotta, e piena di superstizioni, eppure dietro le quinte di tutte quelle passioni materiali, e superstizioni fabricate dagli uomini, esiste ancora un lavorio molto schietto e semplice della legge naturale nel cuore di quei barbari, che sarebbe a desiderarsi anche fra molti dei nostri civilizzati, divenuti troppo [p. 449] schiavi del calcolo materiale, lavorio che mantiene sempre chiara e netta l’idea d’un Dio, frammezzo il prisma di tante superstizioni. Un fatto accaduto non molto lontano dalla mia casa di Lagamara mette in chiaro questa gran verità.
un castigo tremendo di Dio. Un contadino aveva invitato molta gente per mietere il suo tieffe, grano che appena maturo, assalito dalla pioggia, cade, come suole accadere al nostro miglio, a cui assomiglia nella mappa. Mentre s’incomminciava a mietete viene minacia di piogia anzi incommincia a piovere; il poveretto, dominato un momento dalla collera se la prende contro Dio, e fece un’atto molto lontano dall’uso oromo, piuttosto proprio di un mostro libero pensatore d’Europa. Come per vendicarsi di Dio lanciò la sua lancia in alto contro di lui, ma fatta tremendo! questa lancia andò a battersi in un branco di albero tutto vicino e ricadde dall’altezza di sette [o] otto mettri colla punta sul mezzo del cranio di quel povero disgraziato entrando in gran parte nel cervello, a segno che il poveretto cadde, ma poco sorvisse e morì.
impressioni diverse sul fatto Questo fatto stordì tutti, come una cosa affatto nuova in quei paesi, benché barbari e pagani, e tutto il mondo non dubitò di dire che era un tremendo castigo di Dio. Io stesso, venuto colà per insegnare la fede, ma abituato ad analizzare ed esaminare simili fatti o combinazioni che si vogliano chiamare, mi accorsi in quel momento [p. 450] che io sacerdote ed apostolo di quel paese, accostumato a tutto analizzare, secondo la malatia nostra, io aveva una fede molto più debole di quei /256/ indigeni barbari, ed era costretto a nascondere alcuni miei ragionamenti per non scandalizzarli. già si sa, diceva uno di quei vecchi, che la lancia gettata in alto, deve cadere, e che possa anche cadere sopra quello che l’ha gettata, ma poi che cada colla punta diretta sulla testa di quello che si è rivoltato a Dio, e che lo uccida quasi sul momento, questo bisogna dire che è la mano di Dio evidente.
i barbari ragionano meglio dei civilizati. Il poveretto mancava [di] tecniche e sacramentali per esprimersi, ma le sue idee camminavano per una via retta, ed arrivava al vero, forze a preferenza di molti dei nostri, in simili casi straordinarii, i quali col sistema dell’analisi credono di avere toccato il cielo, per essere arrivati a spiegare un fatto possibile per una sola via a forza di analisi e di calcolo, egli invece armato di sintesi ne calcolava tutte le cause e le circostanze concomitanti che si dovevano supporre concorrervi al fatto medesimo. Un gogiamese spara un fucile, diceva, (il vecchio diceva gogiamese, perché i soli gogiamesi in quel tempo conoscevano il fucile) una volta il fucile sparato si sa che la palla deve cadere in un qualche luogo, ma affinché la palla arrivi a quel tale, in quella tale parte, ed opportunamente, bisogna ancora di più [p. 451] calcolare il cuore, la volontà, e l’occhio del gogiamese che ha sparato, e che ha colpito opportunamente. Il caso fortuito può qualche volta arrivarci, ma egli è cieco non sà di opportuni[ni]tà, quella che domina nel caso nostro.
lo stesso bestemiatore è reo perché crede. Io ho portato questo fatto per far conoscere lo stato normale di quei poveri pagani relativamente alla legge naturale, segnatamente rapporto al primo di tutti i principii, quello cioè di credere all’esistenza di Dio. Facio riflettere prima di tutto, che lo stesso bestemmiatore, e autore di questo crime, il quale suoleva ricorrere al serenatore, e suoleva pagarlo per avere a suo tempo il sole e la pioggia, nella sua collera non si rivoltò contro il serenatore, ma pensò a Dio come primo autore della pioggia, e padrone del suo serenatore pagato, ed appunto doveva giudicarsi reo di gran peccato, e meritevole di gran punizione, perché credeva e bestemiò, altrimenti bisogna dire che avrebbe fatto un’atto ridicolo. Tutti gli altri oromo poi che restarono grandemente scandalizzati del misfatto, non fecero altro che giudicare il loro confratello meritevole della punizione, in seguito alla fede da lui professata e confessata col misfatto. Acadde a lui niente più di quello che suole accadere ai nostri bestemiatori, i quali intanto sono colpevoli, in quanto dobbiamo dire che credono, perché sarebbe ridicola la loro bestemia se non precedesse la fede alla [persona che si] bestemia. i barbari liberi pensatori coi barbari non liberi La cosa forze potrebbe essere diversa dei nostri bestemiatori [p. 452] di nuovo conio, i quali si dicono liberi pensatori. Sarebbero da scusarsi quando si potesse dire di loro /257/ che sinceramente credono, e sono persuasi di ciò che spaciano, cosa impossibile, essi sono niente più avanzati nel loro ateismo di quello che sia il diavolo loro maestro, il quale credit et contremiscit. L’odio stesso che professano contro Dio prova che lo credono e gli condanna nel loro misfatto, perché sarebbe ridicolo l’odio di una cosa che si crede non esistere. Questa è la gran ragione per cui i nostri barbari civilizzati, i quali vanno fra i barbari ancora semplici ed elementari a disprezzare ogni segnale di religione sono giudicati mostri degni di disprezzo, ed anche di morte, perché essi dietro le quinte delle loro superstizioni aggiunte hanno ancora in tutta [la] sua forza la legge naturale come istinto invincibile che gli por[t]a a Dio e gli detta un retto giudizio. dove consista la vera civilizzazione. Molti dei nostri fanno consistere la civilizzazione in belle vesti, in alcune commodità per la vita materiale, nell’aggiunta di alcuni invenzioni frutti di calcoli materiali, ma non è questa una civilizzazione per i barbari non ancora guastati nelle leggi naturali. La vera civilizzazione consiste avanti tutto nell’osservanza di certe leggi fundamentali incarnati colla natura nostra per tutto quel bene perfettibile di essa. Tutto il resto è una civilizzazione aggiunta ed accidentale alla natura nostra.
Che l’uomo cammini a piedi, che cammini a cavallo, oppure sopra una vettura, oppure sopra un treno a vapore, oppure anche sopra un pallone areostatico; che l’uomo mangi un poco di pane, oppure [si assida] ad una tavola [p. 453] [tavola] di 20. piatti; che vesta di tela oppur di seta e di oro; che sappia contare sino a cento, oppure sino a milliaia; e così discorrendo in altre materie, potrà chiamarsi un bifolco, oppure civile, nobile, sapiente come si vuole, ma pure non son questi gradi di civilizzazione, perché anche con tutto questo, se sarà superbo da non rispettare, ne Dio, ne autorità; se sarà ingiusto col suo prossimo; se sarà un ladro, un’assassino, un’omicida, è chiaro che [non] si dirà mai uomo civilizzato. Or bene, in un paese, dove non sono ancora arrivati certi rami d’industria o di commercio, si troverà un uomo mezzo nudo e pieno di vermina, ma pure con tutto ciò se gli parlate di Dio egli vi sentirà volontieri, egli non vuole sentire cose sconcie ed immorali, si risente se vede offeso qualcheduno; entrate in casa sua vi rispetta se siete forestiere e vi protegge, divide con voi la sua povera cena, e vi darà ancora il miglior luogo nella sua povera casa; lo chiamerete voi perciò un barbaro, un selvagio? no, anzi sappiatelo compatire, e conversando con voi, aggiungerà il resto che voi chiamate civilizzazione, perché nella sostanza è già civilizzato possedendo Iddio sorgente di tante altre belle qualità morali che lo rendono degno di essere trapiantato in una società più ricca d’industria, ed abitare con fratelli [p. 454] /258/ forniti di idee un poco più vaste dove si spoglierà di certe superstizioni, ed imparerà la vera fede, e con essa una perfetta morale, e maniere di trattare più delicate; tutto il resto del bagaglio esteriore di vesti, di richezze, di scienza, se lo troverà sarà riconoscente, se no saprà bene essere rassegnato nei suo stato di povero, il quale sa anche rispettare il ricco, ossequente all’autorità, se ne è [ri]vestito, oppure alla sola sua condizione più agiata. Questi a preferenza è il vero civilizzato, a preferenza di colui, che spacia d’essere sapiente, mentre è un’ignorante, spacia di essere ricco, mentre sta organizzando il fallimento, ingannando il suo fratello, e cova invidia della fortuna altruj.
Ciò che scrivo sono tutte cose vedute, o provate io stesso presso quei poveri barbari. Con ciò non intendo asserire che tutti i barbari siano modelli; solamente intendo rilevare come anche fra i medesimi esista ancora qualche residuo di legge naturale, e certe buone qualità da essa derivate, che il missionario può sempre calcolare, come la solidità del terreno per le fundamenta di una fabrica qualunque.
diversità tra l’europeo incredulo e il galla corrotto. Se nei paesi nostri Cristiani, anzi Cattolici esiste oggi una Setta, la quale [non] vede più nulla al di là della materia, e si fa avanti tentando di negare ogni tracia di legge naturale, e calpestando i rimorsi della medesima, sta spiegando una morale che spaventa il mondo, non è da stupirsi che qualcheduno anche fra gli oromo barbari e privi affatto d’istruzione, vinti dalle passioni materiali, [p. 455] si lascino [s]trascinare un poco più avanti, massime sopra certi punti; niente da stupirsi quindi che il povero missionario sia poco consolato nel suo ministero, massime frà gli adulti, persone tutte che hanno fatto il callo in queste stesse passioni materiali, epperciò meno atti a ricevere i benefici influssi della grazia dello Spirito Santo rigeneratore. è molto anzi che queste povere creature, legate dal diavolo con moltiplici catene di donne nella loro poligamia, non siano direttamente contrarii al sacro ministero, che lo lascino libero di avvicinarsi ai figli, ai famigli, ed ai poveri. Io non nascondo anzi che il galla, sopratutto il galla ricco ed influente, non sia difficile a convertirsi, ma esso al meno non si oppone alla diffusione del vangelo, e sente all’opposto la parola con rispetto, benché poi il suo cuore sia molto lontano da una generosa risoluzione per convertirsi. i due soli punti della corruzione galla. La legge naturale frà il galla è ancora intatta, ma è paralizzata sopra due punti solamente, quello cioè della poligamia, e quello del sangue. I peccati del senso contro natura sono come sconosciuti all’oromo; l’omicidio anche è affare gravissimo per lui in tutti i casi, ma è una vera passione in caso di guerra. Ecco i due punti soli, nei quali la legge naturale è stata eclissata da un’abitudine inveterata, non nell’adulterio /259/ riconosciuto come gravissimo eccesso, non l’omicidio in genere, [p. 456] ma nel solo caso di guerra. In tutto il resto della legge naturale al uomo, vi si troveranno delle superstizioni passate in massima, anche gravissime sul dogma, si troveranno dei trasgressori, ma la legge è sempre ancora viva per dichiararli e giudicarli tali in facia alla loro informe società civile stessa.
i mussulmani più bassi dei galla nella legge naturale Non così dei mussulmani, i quali in molte cose sono caduti più bassi degli stessi galla. Come io in queste memorie tengo una via puramente storica dei paesi da me esaminati, dirò semplicemente ciò che ho veduto in paesi abissini e Galla. In tutti quei paesi dell’alto piano etiopico i mussulmani sono di scandalo in tre cose particolarmente, le quali toccano non il dogma solamente, ma la legge naturale. La prima cosa è la corruzione del senso contro natura; tanto gli abissini, quanto i Galla in ciò, presenteranno delle anomalie particolari, principalmente nei centri, ma non sono propagatori, e conoscono il gran male che è la corruzione di Pentapoli; i galla particolarmente hanno per questo un vero orrore; mentre i mussulmani ne sono maestri quasi per massima, ed i padri di famiglia sentono il bisogno di tener lontana la loro gioventù dai mussulmani. La seconda cosa conosciuta da tutto il mondo, è la schiavitù. In ciò tanto gli abissini, quanto i galla sono toleranti, ma non propagatori, ed io ho conosciuto molti, anche frà gli stessi galla, i quali avranno dei schiavi, ma non gli vendono, come cosa che non piace a Dio, [p. 457] come essi dicono. Laddove i mussulmani non solo fanno il commercio dei schiavi, ma lo propagano, e sono nemici mortali degli europei, perche si oppongono. La terza cosa è il furto fatto a tutti quelli che non sono della loro religione. In ciò potrei ancora [potrei ancora] estendere la corruzione del mussulmano allo stesso giuramento, o semplice testimonianza in giudizio, quando si tratta di giurare in favore di un’infedele qualunque. Tanto gli abissini, quanto i galla conoscono questa corruzione del mussulmano, e la detestano. Abba Giffara Re di Gemma Kaka non riconosceva in testimonianza del mussulmano fatta contro gli infedeli; si noti che questi era un principe mussulmano.
propaganda mussulmana molto facile. L’islamismo in tutta l’Abissinia fa molto proselitismo, ed anche nei paesi galla. Come il proselitismo mussulmano non raffrena le passioni, anzi le favorisce, ed in certo modo le consacra, di sua natura è più facile di quello che sia il proselitismo cristiano cattolico, non essendo egli che una semplice tendenza al basso, ed una corruzione della stessa legge naturale, corruzione che viene consacrata con un titolo religioso; tanto più poi che la professione mussulmana non domanda istruzione precedente, consistendo questa, [consistendo questa] nella confessione della /260/ fede in un Dio solo, e Maometto suo Profeta, due sole formole brevissime e semplicissime. I Propagandisti di questa religione non hanno bisogno di studiare, e tutti possono esserne apostoli, e lo sono difatti [p. 458] perché trovano nella propaganda medesima due vantagi, uno, quello del commercio, massime dei schiavi, e l’altro è quello che viene di seguito, cioè sempre persone fresche per lo sfogo delle loro passioni coi schiavi dei due sessi dei quali abusano.
Con tutto ciò l’islamismo [non] avrebbe fatto nulla sia in Abissinia che nei paesi galla, attesa la ripugnanza che hanno tutti quei popoli all’islamismo, sia per causa del commercio dei schiavi, e sia ancora più per la corruzione contro natura di cui sono vaghissimi. Ciò che hanno ottenuto ed ottengono non è coll’istruzione, ma piuttosto col sistema di propaganda, il quale è tutto particolare a loro. sistema della propaganda mussulmana dell’interno. Questi mercanti arabi, tutti fanatici mussulmani, i quali possedevano anticamente il totale monopolio del commercio di tutto quell’alto piano etiopico solevano attaccarsi ai principi e despoti di tutti quei popoli semibarbari, e facevano loro da commessi o servitori nel commercio colla costa, mangiando due terzi del capitale, consistente per lo più in schiavi, avorio, e muschio, ad oggetto di ottenere qualche articolo europeo, cioè o drappi rossi, o seterie, oppure qualche pistola. Questi facendo ogni anno, oppure ogni due anni il loro viaggio, tutto il resto del loro tempo lo passavano nell’interno in casa di simili principi facendo la loro propaganda mussulmana presso i principi medesimi, o poche altre persone importanti. Raccontavano loro delle grandi bugie, cioè che la maggior parte del mondo era mussulmano, e che tutti gli altri principi della terra pagavano [p. 459] tributo al gran Sultano. come si fecero mussulmani i principi; come restò il popolo. Quindi per alettare i principi loro padroni a dichiararsi mussulmani facevano loro conoscere la legge maumettana, in virtù della qual[le] il Re dal momento che si è fatto mussulmano diventa padrone assoluto di tutto il suo paese, tutta la terra è sua, e tutti gli uomini grandi e piccoli diventano sul fatto suoi schiavi che può vendere o amazzare come gli piace. In questa maniera riusciva loro di fare i principi mussulmani non curandosi dei popoli, i quali come schiavi per forza dovevano seguire il loro principe o Re.
Fu in questo modo che cinque principi Galla, cioè [quelli di] Ennerea-Limu, Gemma Kaka, Goma, Ghera, e Guma si fecero mussulmani con molti dei loro grandi impiegati. Il basso popolo si mantenne sempre nelle sue tradizioni galla; nella parte governativa osservava le leggi del principe per forza; ma in tutto il resto, più particolarmente nella parte religiosa concernente il suo culto, il popolo si mantenne galla; così attualmente i galla di quei paesi, proseguono ad eleggere i loro Bukù /261/ ogni otto anni, ed ha sempre luogo l’anno Botta, e l’elezione dei Gaddà, benché questi non esercitino più le loro autorità, come nei paesi galla liberi.
Anche il popolo di quei principati si dice mussulmano, benché non lo sia in realtà; [p. 460] col tempo però si abituano anche i popoli poco per volta, e diventano in realtà mussulmani misti di paganesimo, più difficili a convertirsi al cattolicismo. Fu in questo senso che, pochi anni avanti, quando arrivò la missione in Ennerea, Abba Baghibo disse ai missionarii, se foste venuti trent’anni prima io a quest’ora sarei cristiano, e cristiano sarebbe tutto il mio paese; ma oggi la cosa è più difficile.
Queste parole di Abba Baghibo furono una gran sentenza. La missione Galla invece che fù fundata nel 1846. sul fine del pontificato di Gregorio XVI. fosse stata fondata nel 1800. sul principio del pontificato di Pio VII. avrebbe certamente trovato minori ostacoli, perché non avrebbe avuto da combattere che col solo paganesimo, il quale in verità è molto duro, ma non è persecutore. Invece incomminciata più tardi nell’epoca che l’abbiamo incomminciata, trovò tre nemici potenti da vincere, cioè l’Abissinia eretica di dietro padrona delle strade, e minaciante di estendersi al Sud sopra i Galla. Un secondo nemico nel paganesimo da abbattere, il quale, benché non persecutore, non lasciava di presentare le sue difficoltà. In terzo luogo incontrò l’islamismo già stabilito abbastanza in tutti [p. 461] quei principati del Sud summentovati, dove non era ancora padrone del popolo, ma si era impadronito di tutti i principi, divenuti anche fanatici. Fu anche questa una delle ragioni, per cui ho dovuto pensare alla missione di Kafa, quasi unico paese che restava ancora intatto, come già dissi.
la missione cammina bene in Gudrù, in Ennerea, ed in Lagamara. Correva l’anno 1856. passato l’anno della mia venuta dal Gudrù in Lagamara. Il P. Hajlù Michele andava di quando in quando in Gudrù, dove passava qualche tempo, quando in Assandabo, e quando in Gobbo per il sacro ministero a quelle due piccole cristianità; andando e venendo passava [passava] all’Ovest tenendo la strada che aveva fatto io venendo per visitare alcuni cristiani lasciati in diversi luoghi, ed alcune volte passava al[l’]Est per la strada tenuta dai missionarii di Ennerea, dove pure esistevano alcuni neofiti, e le cose da quella parte andavano mediocremente bene. Anche dall’Ennerea il P. Felicissimo mi scriveva consolanti [notizie]: oltre la casta mercante sempre assidua alla parola [evangelica], da Nonno Billò andavano ogni Sabbato molti neofiti a farsi istruire e battezzare. Anche io in Lagamara mi trovata abbastanza consolato nel ministero. La Chiesa nostra [era] abbastanza frequentata, si facevano battesimi, e si frequentava [p. 462] i sacramenti; /262/ di modo che tutto andava sufficientemente bene. Kafa solamente, dopo la partenza del P. Cesare con Abba Jacob [non] dava nessun segnale di vita, cosa che incomminciava molto ad inquietarmi.
corriere mandato da Dejacobis
[arrivo: giu. 1856];
Dalla costa venne anche un corriere portatore di molte lettere, il quale invece di venire a Lagamara se ne restava in Gudrù. Ho mandato subito Abba Joannes, il quale lo trovò fermo in Gobbo in casa di Aboi capo dei nostri Cristiani di quel villagio, di [cui] abbiamo già parlato più volte. Il giovane venuto dalla costa era un’antico schiavo del Signor Antoine d’Abbadie, da questi educato ed istruito e fatto battezzare col nome di Andrea, lasciato poi libero nella sua partenza per l’Europa, e da lui raccomandato alla missione. Questo giovane arrivando in Assandabo aveva consegnato 100. talleri di Maria Teresa a Gama Moras, e gli riprese partendo per Cobbo, onde portargli a me unitamente alle lettere.
perdita di denari.
Nel momento di partire da Cobbo per Lagamara, avendo domandato questi talleri ad Aboi, questi negò di avergli ricevuti; così all’arrivo di Abba Joannes [costui] trovò questi due in questione. Abba Joannes ricevette le lettere e me le mandò; quindi, presi con se questi due gli portò a Gama. La questione durò molto tempo e non si poté venire ad una decisione, come atto passato senza testimonii. Il giovane [non] aveva nulla da restituire, e così la povera missione andò priva di questo piccolo capitale, di cui aveva quasi estremo bisogno.
[p. 463]
La perdita del denaro non fù il più gran male; da quel corriere ebbi notizie molto dolorose, che molto mi afflissero.
[9.1.1856]
Un piego della S. C. di Propaganda, nel quale si contenevano lettere tutte gravissime di ogni genere. 1. Un breve di S.[ua] S.[antità] nel quale,
[18.12.1855]
si istituiva il Vescovo di Marocco in Partibus infidelium nella persona di un missionario da me eligendo con futuro diritto di successione al Vicariato Ap.o mio; breve che io ho tenuto secreto sino al mese di Aprile 1859.
notizia di tre morti dolorose che molto mi afflissero.
In secondo luogo una lettera autografa di S. Em. il Cardinale Franzoni, stata scritta molto addietro, la quale fù l’ultima che mi scrisse questo Eminentissimo Prelato, il quale era per me un vero Padre amoroso. In terzo luogo un’altra lettera della S. C. di Propaganda, nella quale mi si annunziava
[† 20.4.1856]
[20.6.1856]
la morte di questo stesso Em.mo Cardinale Prefetto, e l’elezione del suo successore S. Em. Barnabò. In quarto luogo un piego di lettere venuto dal Sennar, nel quale vi erano molte lettere e documenti del P. Giusto da Urbino, ed una lettera del Superiore di quella Missione nella quale mi si annunziava
[† 21.9.1856]
la morte avvenuta in Kartum del suddetto mio missionario
[p. 464]
P. Giusto da Urbino, di passaggio colà, mentre
[non andò a Roma]
da Roma ritornava alla missione nostra. In quinto luogo un piccolo piego di lettere venute dalla mia patria, nel quale mi si annun-
/263/
ziava
[† 29.3.1853]
la morte del mio Padre, e gli amici e parenti mi facevano le condoglianze di uso. In quinto [= sesto] luogo un piego che veniva di Aden, nel quale si trovavano molte altre notizie di quella missione. La S. C. di Propaganda acettava la mia rinunzia di quella missione.
rendiconto di padre Sturla, e di fra Pasquale
sulla costruzione della chiesa e case di Aden.
Il P. Sturla mi mandava il rendiconto della sua amministrazione spirituale e temporale. Quindi mi annunziava che in seguito a malattie egli era obligato a ritornarsene in Genova, e lasciava la missione al P. Giovenale nuovo missionario venuto dalle Indie. Nel medesimo piego Fr. Pasquale da Duno mio compagno da me incaricato della costruzione della Chiesa e della casa della missione di Aden, mi mandava il piano ed i conti di tutte le costruzioni già ultimate. Monsignor Lorenzo Biancheri,
[2.10.1853]
stato consacrato da Monsignor Dejacobis Vescovo di Legione e suo Coadiutore,
[7.10.1853]
si era recato in Aden per la consacrazione della nuova Chiesa, e di ritorno portava con se il giovane Paolo, il quale nella prima occasione favorevole sarebbe venuto da me per dedicarsi alla missione.
[p. 465]
Col mezzo di questo medesimo ordinario di Aden ricevetti pure molte altre lettere dell’Europa, dell’Egitto, e di altri paesi.
padri Leone e Gabriele;
Il P. Leone des Avançer era ritornato dall’Europa, e con lui venne pure il P. Gabriele da Rivalta destinato alla nostra missione.
loro viagi. Questi due missionarii d’accordo colla S. C. di Propaganda avevano fatto il piano di cercare una strada alla missione galla, o dalla parte di Zanzibar per la costa dell’Africa che versa nell’Oceano delle Indie [oppure da Kartum]. Mentre il P. Leone faceva una corsa in Italia ed in Francia in cerca di mezzi temporali per la missione, il P. Gabriele passò in Aden, di dove mi scrisse, e di là andò a Zanzibar, dove è rimasto molti mesi aspettando il P. Leone; fu il primo missionario che esercitò il ministero in quell’isola appartenente all’Himan di Mascad. Dopo esser rimasto colà quasi un’anno, non venendo il P. Leone, egli ripartì per Aden, dove giunto s’imbarcò per Massawah, sperando di trovar colà il P. Leone, ma questi ne era già partito per Zanzibar, e non s’incontrarono per mare.
Il P. Leone, il quale pensava di fate tentativi in grande per aprire la strada per l’interno dalla parte di Zanzibar, nonostante che avesse sentito il ritorno del P. Gabriele in Aden, egli continuò il suo viaggio, e vi andò, restando [p. 466] colà molto tempo, pendente il quale egli pure esercitò il s. ministero fra la colonia europea. Quindi di là fece parecchie corse lungo quella costa, meridionale dell’Africa; scrisse molte memorie, molte delle quali furono stampate in Europa. Esaminò la questione della strada per l’interno, e trovandovi pochissima probabilità di riuscita, dopo qualche tempo ritornò in Aden, e quindi a Massawah.
/264/
viagio del P. Gabriele a Kartum;
suo ritorno
[dic. 1857 - 1a metà 1859].
Prima ancora che arrivasse il P. Leone in Massawah il P. Gabriele, impaziente di fare qualche passo verso la missione dell’interno, esortato da alcuni della missione d’Abissinia, i quali non ne sapevano gran cosa più di lui prese la risoluzione di tentare la via del Sennar. Partito da Massawah andò a Keren fra i Bogos, dove si trovava il P. Giovanni Stella; di là andò a Kassela, detta anche Taka e di Taka a Kartum pensando di entrare in Abissinia o per la via di Matamma-Galabat, oppure per la via del Fasuglu più direttamente ai paesi galla. Una malattia però molto ostinata gli impedì di realizzare tutti questi progetti; ne scrisse al R.mo P. Alfonso di Rumily, allora procuratore Generale dell’Ordine, e questi gli ordinò di ritornare a Massawah, dove avrebbe servito di Procuratore della missione
[p. 467]
sino a nuovo avviso.
[6.1.1859 - mar. 1859]
Il P. Leone poi rimase per qualche tempo in Massawah facendo le veci di Procuratore. La prima cosa che fece fu di spedirmi il giovane Paolo venuto di Aden, affinché la troppa dimora in Massawah in contatto coi mussulmani non lo guastassero. Con lui mi spedì una piccola somma di denaro, ed un carico di vesti sacre, con alcuni altri oggetti, raccomandando tutto ad un bravo mercante, il quale condusse ogni cosa al suo destino.
ritorno di fr. Pasquale a Massawah
[metà giu. 1857];
suo ritorno in Europa
[9.7.1857 e 25.8.1861.]
Fratanto Fr. Pasquale da Duno, avendo terminato i suoi lavori della Chiesa e casa di Aden, e colla partenza di là del P. Sturla dovendo cessare la mia giurisdizione sopra quella missione, anche egli venne in Massawah. Sarebbe stato disposto a riprendere la sua antica carica di Procuratore della Missione in Massawah, ma avendo inteso che il P. Gabriele doveva venire dal Sennar a questo scopo coll’ubbidienza del Procuratore Generale, trovandosi esso d’altronde molto indebolito per la dimora di molti anni in quei climi caldi, e sopratutto dietro i gravissimi lavori di Aden, conferita ogni cosa col P. Leone, e con Monsignore Dejacobis, il quale aveva da me tutte le autorità per ogni caso straordinario concernente il personale della missione Galla esistente sulla costa di Massawah, si decise che potesse fare il ritorno in Europa, dove avrebbe sentito gli ordini più precisi dei
[p. 468]
[dei] suoi Superiori. Così sortì questo ottimo religioso dalla missione dopo aver prestato molti e segnalati servizii alla medesima; in specie nei lavori stati eseguiti in Aden sotto la sua direzione, per i quali fù egli che fece il disegno, che fu anche approvato dagli ingegneri del governo. Questo povero religioso, non solo ha assistito ai lavori, ma ha travagliato anche colle sue mani.
Postoché ho toccato tutti questi punti nisguardanti gli affari della costa elogio dovuto a don Luigi Sturla. debbo ancora pagare un debito verso il P. Luigi Sturla nostro terziario, /265/ il quale servì quasi otto anni alla missione di Aden. Io viddi in Genova questo zelante Sacerdote, chi me lo fece conoscere colà me lo qualificava come una copia di S. Vincenzo de Paoli. Nel 1848. fu perseguitato in Genova dai liberali come una spia dei Gesuiti, motivo per cui fuggì in Roma, ma anche qui perseguitato dai medesimi, il Cardinale Franzoni lo mandò in Aden e me lo raccomandò. Stette in Aden sino al 1856. occupato sempre dalla mattina alla seta nell’istruire e medicare le piaghe dei poveri. Camminò quasi sempre a piedi coi gran calori di Aden, od al più sopra l’asino. Ho fatto dei regolamenti per quella casa, quali egli sempre osservò con tutto rigore sino all’ultimo giorno, portando sempre l’abito cappuccino, un poco più leggiero per causa dei calori di quel paese. Quando partì fu compianto universalmente non solo dai cattolici, ma dai protestanti, e dagli [p. 469] arabi e mussulmani medesimi, come alla partenza di un padre molto amato dalla sua famiglia. Le notizie di questo sacerdote arrivarono sino in Inghilterra, dove i giornali ne parlarono più volte sotto il nome del Cappuccino di Aden, dai quali io aveva raccolto articoli stati perduti nei miei esili. Per questo P. Luigi Sturla era molto rispettato dal governo inglese medesimo, e quando domandava qualche cosa era subito esaudito. Io debbo in gran parte a lui il compimento dei lavori sopracitati fatti per la missione, perché egni [= egli] non aveva che [da] parlare e tutti si prestavano. Sopratutto la casa Vitale gli mandò la bal[a]ustra di marmo ed il battisterio da Marsilia, oltre moltissimi altri oggetti. Ritornò in Genova, dove sorvisse ancora alcuni anni e [† 19.4.1865] vi morì in concetto di santo.