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9.
Oltre il Takkazè verso gli Agàu. L’arresto.
Abissini a Gerusalemme. La magia.
nostra partenza verso il fiume Così si terminarono le nostre sacre funzioni, e non si pensò più ad altro che alla mia partenza. [p. 671] Come tutte le nostre funzioni furono sempre secrete, e nascoste al publico, ho benedetto quella piccola famiglia, si radunarono tutti gli arredi sacri, si è disfatta la cappella e l’altare, e ci siamo abbraciati per l’ultima volta. Scialaca Gember, disceso dall’alto Nagalà, per altra strada comminava[no] a gran passi verso il fiume, e noi pure ci siamo posti in viaggio. Dal luogo dove noi eravamo, il fiume pareva vicino, ma pure vi vollero più di tre ore per arrivarvi. A misura che noi discendevamo, discendevano pure da vari altri punti molti che venivano ad assistere il nostro passagio del fiume. L’ordine dell’imperatore era che tutti i nuotatori della Provincia bassa [di] Nagala, ed i principali impiegati assistessero al nostro Passagio, e sulla riva del Takazè si trovavano radunate più di cento persone. Alla riva opposta circa una decina di persone ci aspettavano.
preparativi per il passaggio Mentre si stava preparando una specie di zattera composta di vari fascii di canne uniti e ben legati insieme alle due rive si facevano fuochi e gran fracasso per allontanare i cocodrilli, che non mancavano [p. 672] da quanto si diceva. Quando tutto fu in ordine, ebbe luogo l’ultimo addio con tutti i conoscenti, massime con Scialaca Gember, e coll’Alaca Kidana Mariam nostro antico conduttore e novello cattolico. passagio del Takazè Siamo quindi montati sulla zattera, io coi due miei compagni, ed i due novelli sposi, cioè l’antico mio coregna e padron di casa col suo schiavo sposato nella notte; una gran quantità di nuotatori tutti nudi e crudi che sembravano angeli senza ali, spinsero la nostra zattera dalla riva nella gran corrente nelle mani della providenza; [con] una linea obliqua obliqua verso ponente, portati da 25. e più nuotatori, al più in dieci minuti siamo arrivati alla riva opposta degli Agau circa le due pomeridiane, dove ci aspettavano due inviati del Procuratore viciniore con una decina di nuotatori in caso di bisogno.
/81/ L’ora era già tarda e noi eravamo stanchi, con un quarto d’ora di salita siamo arrivati ad un gruppo di case degli stessi nuotatori, dove abbiamo passata la notte sopra un ripiano pieno di boscaglie, e poco coltivato. Dietro le notizie [p. 673] notizie politiche del paese avute, il paese degli Agau non era in rivolta, ma non era tranquillo; in alcuni luoghi incomminciavano i paesani a rifiutare i tributi, ed i Procuratori imperiali disarmati usavano prudenza, e non mancavano alcuni capi banda che giravano in certi paesi più lontani. La sera si fece consiglio sul partito da prendere. Il giovane sposo mio padrone di Nagalà, che mi aveva seguito, sarebbe stato di parere di ritornarsene, ma io ho tenuto fermo per continuare il mio viaggio. Passammo la notte in conferenze religiose solo con lui ed il suo schiavo, anche egli sposo di una giovane ancora molto tenera, epperciò molto bisognoso di essere da me consigliato; questioni del mio viagio. ma intanto non abbiamo dimenticato il nostro piano di viaggio: per parte mia, dissi, sono risoluto, ad affrontare qualunque pericolo per continuare il mio viaggio; egli poi vedendomi così risoluto, io non l’abbandono, diceva, a costo anche di restare molti mesi fuori di casa.
La mattina con due ore di salita siano arrivati all’alto piano, dove, non molto lontano si trovava il campo del Messeleniè o Procuratore imperiale della provincia più vicina, il quale conosceva molto il giovane sposo mio compagno. nostro arrivo al campo: il meslenì stupito Egli classico nel gran mondo [p. 674] fece un gran chiasso col suo arrivo, ma egli caciò via tutti dicendo che aveva sposato la cugina dell’imperatore, la quale lo stava aspettando nel basso Nagalà. Lo stesso Procuratore restò molto ammirato, vedendo questo giovane così cangiato da marcare le ciglia al solo comparire di una donna. Si rinnovò qui alla presenza del Messeleniè imperiale il consiglio sul mio viaggio, ed il giovane mio compagno fece gli ultimi sforzi per farmi ritornare, ma tutto fù inutile: io dissi al suddetto Messeleniè che io avrei amato che questo giovane ritornasse a Nagalà, perché avendo sposato di fresco la cugina dell’imperatore, non conveniva lasciarla sola; egli poi, dissi, venendo con me con un mulo di lusso avrebbe complicato anzi il mio viaggio, mentre io andando da povero mendico nessuno mi avrebbe cercato.
io, risoluto, ed egli più risoluto di me Egli vedendo la mia risoluzione; io non posso assolutamente lasciare questo viaggiatore particolarmente raccomandatomi, perche l’imperatore mio cugino riposa sopra di me; io lascierò qui il mio mulo e camminerò a piedi da povero come lui sino a Soccota, [p. 675] dove me l’intenderò col Governatore Generale molto mio amico. Ciò detto parlarono essi in disparte, e la cosa fù conchiusa nel senso suddetto. si risolve la partenza Caro mio, dissi, mi fa pena vedervi allontanare ancora di più dalla vostra /82/ moglie; sono pochi giorni che [vi] avete sposato, e temo che il diavolo non entri a distruggere quella bella unione. eroiche proteste del giovane Caro Padre mio, esso rispose, non sia in pena: essa è che mi ha mandato, e se io ritorno senza poter dire che Ella è in sicuro sarà desolata, come sarà desolata la sua schiava. In ciò, quando si tratta di Lei siamo tutti intesi; questo stesso mio schiavo ieri mi diceva, sarei fortunato di morire anche se fa bisogno per il nostro padre; le nostre mogli oggi pensano più a Lei che a noi; le ripeto non sii in pena per noi; per grazia di Dio, oggi conosciamo i nostri doveri, e ci lascii fare. Quando è così, dissi io, partiamo subito alla povera tanto che possiamo; nei torbidi non bisogna dar tempo ai consiglii, e partiamo sul momento.
nostra partenza di notte Il giovane sposo consegnò al governatore una piccola letterina per la sua moglie, e siamo partiti nella notte con una semplice guida del paese, la quale nulla conosceva dei nostri misteri. Vi bisognavano due giorni per arrivare a Sokota città capitale degli Agau; abbiamo camminato due ore [p. 676] col chiarore della luna, ed arriviamo in un luogo pericoloso, ed affrettiamo il passo per attraversare un luogo basso e quasi deserto; ecco una banda ci corre dietro e ci ferma; siamo legati da un capo banda dove andate, ci disse il capo banda; abbiamo premure di arrivare presto in Sokota per vedere un’ammalato, rispose il giovane mio compagno, ma nulla valse e siamo arrestati. Io non conosceva la lingua degli Agau, ma il giovane compagno conoscendola, era egli colla guida che parlavano. Fra di noi non osavamo comunicate le nostre idee in lingua amarica, perché conosciuta dalla guida; ma mi accorgeva che il giovane era molto cruciato, perché con un rivoltoso non conveniva farsi conoscere come uomo dell’imperatore. Per la forza delle cose ci troviamo condotti in una casa patriarcale, dove si trovava un vecchio, forze il Padre del capo banda; vicino a quel vecchio si trovava un monaco di mezza età con aspetto imponente a modo abissino, che io conosceva, e noi legati [siamo] eravamo là da un canto.
un monaco providenziale Quando tutti i bravi del capo banda furono sortiti, forze a marodare [= depredare], il monaco si avvicina al mio monachello e gli domanda chi sono io, io non lo conosco, [rispose questo,] ma pare un’uomo di Dio che parte per Gerusalemme, [p. 677] ed io che da tanto tempo cercava di andare a Gerusalemme mi sono unito a lui. il monaco cerca [di] seguirmi Come quel monaco parlava la lingua amarica, egli si avvicina a me, e mi domanda se veramente vado a Gerusalemme; sì, dissi io, se Dio mi assiste; forze sarebbe questa per me una bella occasione, disse egli; Quando è così, dissi io, lasciateci partire e ne discorreremo. Va bene, disse, io parlerò un poco a questo vecchio, e vedrà, ma sarà difficile che possiate di- /83/ spensarvi di dargli qualche cosa, vedrò cosa posso fare. incomminciai a parlamentare Mentre il monaco va dal vecchio per parlare dell’affare, io, rivolto al giovane mio compagno con tutta secretezza gli dico = fatevi coragio spero di aggiustare la cosa = Ritorna il monaco, e mi dice che il vecchio ha promesso di aggiustare la cosa subito che venga il suo figlio, il quale non tarda a venire; [soggiunge:] Solamente che dovrete dare qualche piccola cosa; se sarà una piccola cosa si guarderà di fare quello che possiamo, [commento io,] altrimenti sarà impossibile. [Conclude il monaco:] Vorrei andare anche io a Gerusalemme; ma questa gente non mi lascieranno subito partire.
Venne intanto il figlio del vecchio, parlano e discorrono fra loro, e chiamano il monaco, e dopo aver parlato un bel pezzo, ritorna da me questi con una proposizione di dare almeno quattro o cinque talleri di regalo. Io facio uno sforzo e gli do un tallero, [dicendo:] ecco tutto quello che posso fare. Va il monaco [p. 678] e parla di nuovo, e sorte col capo banda senza portarmi una risposta. Il giovane mio compagno era in pena, e sospirava una risposta decisiva, ma si dovette ritardare qualche ora prima di averla. la nostra libertà è decisa; il monaco vuole seguirci Dopo qualche ora venne il monaco e mi disse che era decisa la nostra liberazione, e che il padrone sarebbe venuto a farci slegare, ed aspettava solo che fosse preparato un poco di pranzo. Ma come faciamo, disse, io non posso partire con voi, perché non ho ancora ottenuto la permissione da questi signori. Quando è così, risposi io, io resterò due giorni in Sokota, non so in che casa, ma questa mia guida ve lo dirà. Se non mi troverete in Sokota mi troverete certamente nell’Enderta, o in Antalo, oppure in Cialikot, in casa di Ozoro Waletta Salassie, dove penso [di] riposarmi molti giorni. si parla di abba Josief, e di abuna Jacob Se vi fermate in Cialikot, disse il monaco, domandate di un certo Abba Josief, è un Santo monaco, antico discepolo di Abuna Jacob; esso è quasi sempre in casa di Ozoro Waletta Salassie.
Avendo sentito il nome d’Abuna Jacob, cioè di Monsignor Dejacobis, allora gli ho domandato se l’aveva conosciuto; io era già come deciso di abbraciare la sua fede Cattolica, [mi rispose,] ma poi, venuta la persecuzione, egli si allontanò, io sono venuto nell’Enderta, e dall’Enderta sono venuto [p. 679] in Sokota, dove sono rimasto molto tempo, e poi sono venuto quì; grandi lodi a monsignore Dejacobis ma vi assicuro, che non ho dimenticato la fede di Abuna Jacob, e ne ho parlato molto a questa famiglia. Caro mio, dissi, Abuna Jacob era mio Padre, ora è morto, e prima di andare a Gerusalemme passerò a visitare il suo sepolcro. Voi avrete inteso, disse il monaco, quante cose maravigliose si raccontano della sua morte, e dopo la sua morte. Il mio giovane compagno col suo schiavo sentivano queste /84/ cose con un gusto inesprimibile. Ma non tardò a venire il Padrone a farci slegare; appena slegati venne subito un Panié o Mosseb con pane fresco ed un piatto di carne aggiustata, un vaso di birra, e latte in quantità. Dopo [aver] gustato qualche cosa volevamo partire, ma era tardi, ed il padrone ci esortò a passarvi la notte. Quando è così, dissi io, possiamo congedare la guida, affinché ritorni in casa sua; congedatela pure, disse il padrone, ed io penserò a farvi accompagnare, e vi farò consegnare ad un mio amico, il quale vi accompagnerà sino a Sokota.
abbiamo passato la notte presso di lui Fu congedata la guida, e noi passammo la sera, decisi di partire nella notte al levare della luna. Si passò la serata a parlare di Monsignore Dejacobis. Il monaco allora ebbe tempo a raccontarci tutta † 31.7.1860 la storia della morte di Monsignore Dejacobis, ed i miei due proseliti erano fuori di loro per la contentezza; quello era un Santo a miracoli, diceva il monaco, e se non moriva [p. 680] la metà dell’Abissinia sarebbe corsa presso di lui. Bisogna confessare, proseguiva, che la fede è di là che viene, e chi vuole salvarsi deve attaccarsi a questi campioni di santità; io non ho ancora incomminciato, ma spero di finire presto questo affare; noi non abbiamo più di Cristiano altro che il nome. bellissimi discorsi fra i due proseliti nella notte Nella notte i miei due proseliti dormivano vicino a me; appena furono liberi di parlare fra loro, hai sentito, figlio mio, quante belle cose! noi credevamo ieri di essere perduti, invece ci siamo trovati in mezzo a fratelli; Signor mio, disse lo schiavo, voi siete maritato e già avete qualche creatura che vi aspetta per conoscervi a suo tempo; io pure sono maritato colla piccola schiavetta della padrona; abbiamo giurato fedeltà e non possiamo fare diversamente che ritornare, e ritorneremo ad ogni costo, perché Iddio lo vuole, senza di questo mi sarei inginocchiato ai vostri piedi per [ottenere] la permissione di seguire l’abuna; permettetemi che vi apra il mio cuore: prima della vostra conversione io era già molto guasto, come sapete, ma dopo, anche io mi sono convertito; ho passato già più di un mese in famiglia colla mia sposa e mai ho sentito la menoma inclinazione o amore per essa; appena fatto il matrimonio non posso piu staccare il cuore da essa.
essi confessano una gran verità Al sentire queste parole dello schiavo, prese la parola il padrone, figlio mio, disse, tu hai detta una gran verità, che ho provato anche io; tu conosci tutte [p. 681] le mie pazzie passate, e talmente le conosci che al solo pensare ai scandali che ti ho dato, oggi mi fa piangere (qui debbo confessare io d’aver sentito le sue lacrime dirotte), tu sai come io non era più capace di amare una donna, perché veduta un’altra m’invaghiva di quella ed odiava la prima, e quante volte tu non ti sei affaticato per procurarmi la nuova amata. Ora ecco qui appunto il gran mira- /85/ colo che tu confessavi avvenuto in te, verificatosi molto più in me dal momento che ho ricevuto il Sacramento del matrimonio; prima io [non] aveva mai conosciuta ne pensato all’attuale mia sposa, è cresciuta talmente e cresce tuttora l’affezione per essa, che nell’impegno in cui siamo stati in questi giorni di astinenza per i Sacramenti che dovevamo ricevere dovevamo starne lontani, e quando per necessità dovevamo incontrarci eravamo entrambi obligati a non guardarci, e non dirigerci la parola, per non occasionare in noi cattive impressioni contro il nostro mutuo proponimento; siamo divenuti a vicenda come il fuoco, essa per me, ed io per essa.
Essi parlando credevano che io dormissi, ma io non dormiva, epperciò ho voluto prendere la parola; figli miei, dissi, ho sentito tutto quello che avete detto, e mi sono tenuto persino di respirare per non interrompere, i vostri interessantissimi discorsi. Sì, voi avete tutti [e] due confessato [p. 682] una gran verità provata coll’esperienza di voi stessi, [voi siete] quasi [i] soli cristiani in questo paese che si dice, e che crede di essere cristiano, mentre non lo è. i paesi senza matrimonio cristiano Voi sapete come si trova il vostro paese, dove due coniugi possono appena passare qualche anno insieme, e conoscete il gran disordine delle famiglie; un poco più lontano trovate il paese mussulmano ancor più infelice del vost[r]o, là vi regna il monopolio delle donne in favore dei ricchi, mentre i poveri non trovano a maritarsi, e quindi [si commettono] peccati innominati senza fine, e diminuzione di popolazione; tutti questi paesi sono infelici perché mancano di matrimonio. i paesi di matrimonio cristiano Passati tutti questi paesi della maledizione, entrerete nei paesi cristiani, che per visitarli solamente vi vogliono degli anni, tanto sono vasti, delle grandi città, delle popolazioni immense, che godono tutti la fortuna che godete voi oggi; una gran quantità di figli, una pace di paradiso nelle famiglie, tutto frutto della grazia che voi avete ricevuto. Quanto è [è] buono il nostro Dio! Esso potrebbe mantenerci per altre vie, ma ama farci piovere aqua fresca per darci da mangiare e da bere; Così nel matrimonio, esso tanto e buono che piove anche amore, e direi passione materiale fra [i] due coniugi.
Io invece di dormire ho prolungato la mia conferenza in questo senso, ed essi mi sentivano con un’interessamento tale da caciare ogni prorito di sonno. [p. 683] nostra partenza e congedo dal capo banda Ma arrivò il canto del gallo, ora fiss[at]a per partire. Il monaco sopra citato era stato destinato per accompagnarci, e venne a farci levare; allestate le cose nostre, e bevuto un poco di latte quagliato, noi già eravamo di partenza, quando ci arrivò il padrone per congedarci; ho pensato che forse si [si] aspettava qualche retribuzione, e presi i due talleri che aveva messo da parte a tale effetto ho cercato di metterli /86/ nelle sue mani, ma egli gli rifiutò con queste parole: voi siete un uomo di Dio e partite per Gerusalemme, là voi farete invece una preghiera per me; così ci siamo separati in buona armonia.
L’abissino in mezzo a tutta la corruzione in cui si trova da renderlo di una morale inferiore ai Galla, pure conserva una gran venerazione per i Luoghi Santi; molti vi vanno in pellegrinagio, ed invece di trovare colà la loro salute, all’opposto trovano la loro rovina, e quella del loro paese quando ritornano. La ragione è che arrivati là, invece di mettersi in contatto coi cattolici, prendono dagli eretici tutto il veleno orientale.
E difficile poter andare a scoprire tutta l’origine di questo male, tuttavia non voglio lasciare di dire tutto ciò che a me pare. Prima di tutto è innegabile che l’Abissinia è naturalmente orientale, sia per la sua posizione [p. 684] geografica, sia per le sue relazioni di sangue, di religione, di costumi, di commercio, e simili. odio orientale contro Roma pagana Come paese d’oriente poss[i]ede tutto il capitale di atra bile proprio di tutti quei paesi orientali contro il governo di ferro della Roma pagana. Pare incredibile, eppure è una gran verità, quest’odio divenuto proverbio in bocca massime della razza bizantina contro la razza latina, è passato al cattolicismo, ed è arrivato sino al Papa. Chi medita la storia d’oriente vede questa gran verità proverbiale stata sempre viva in tutte le epoche, e vive ancora nei nostri tempi persino nell’Abissinia stessa. A questa sorgente ha bevuto anche l’impero della [mezza]luna che ci minaciò [per] tanti secoli, e beve ancora oggi l’impero massonico, che sta per ridurci alla primitiva barbarie. Roma cristiana è sempre Roma per gli orientali Roma cristiana e papale è sempre Roma in facia al gusto depravato di tutti i paesi che bevono alla sorgente orientale. Noi missionarii la troviamo in Abissinia. Chi nega speculativamente il primato papale di Roma? [Nessuno:] ma ne hanno fatto un primato ideale e di nome, bevendo sempre alla stessa sorgente, gli stessi nostri protestanti per scuotere la parte governativa di Cristo.
altri pregiudizii orientali In origine questa è la gran ragione per cui gli abissini, a preferenza di Roma, si attaccano a Gerusalemme, ed in Gerusalemme stessa si attaccano di preferenza alle tradizioni [p. 685] orientali. Quelli che si dilettano del pellegrinagio ideale storico dell’oriente vedono nascere in oriente l’idea del patriarcato di pura instituzione ecclesiastica, la quale cresce e diviene gigantesca accanto del sommo pontificato di Pietro. Parimenti accanto al Patriarcato si leva per il primo Costantino il grande, e dopo di lui i suoi successori, nelle tradizioni si fanno sedere in Concilio come veri oracoli; tutte cose buone, ma nelle tradizioni orientali sono una vera dissoluzione dell’unità monarchica spirituale personificata nel sommo pontefice. Noi missionarii troviamo in Abissinia l’idea /87/ del Papa abassatasi a livello dei Patriarchi orientali, col solo diritto di avere una riverenza come primogenito; quindi in molti libri abissini venuti d’oriente troviamo gli oracoli imperiali bisantini [a] dominare nella Chiesa di Cristo, altro scandalo passato dall’oriente anche in Europa, divenuti idea di Chiesa imperiale, reale, o nazionale; tutti parassiti a danno dell’unità della Chiesa di Cristo, come se fossero tutti esseri sortiti dalla bocca di Cristo eguali al tu es Petrus.
Per finire la questione suddetta dirò ancora che l’ideale genio delle nostre razze occidentali, molto più alto, il loro contegno, la loro educazione, tanto religiosa che civile serve anche [p. 686] non poco ad allontanarci dalle razze orientali molto più basse nel loro ideale, con una religione più mitologica o poetica che non di precisione rivelata, con una morale molto più bassa e libera, e con un’educazione ed abitudini molto diverze, anzi opposte alle nostre.
i cattolici ed europei in Gerusalemme Parlando poi di Gerusalemme in particolare, noi siamo là come semplici forestieri facendo un corpo o razza sola coi protestanti di tutte le diverse famiglie, cogli Ebbrei d’Europa che vi vanno visitatori in abito europeo, coi filosofi anche atei, i quali vanno coll’ascia per tagliare in pezzi la Croce di Cristo simili al seminarista Renan, e cogli stessi epicurei, i quali riconoscono una perfezione eguale a quella del porco maturo. Ora tutte queste caste europee formano in Gerusalemme una babilonia chiamata con un sol nome di nazione Franca, in arabo, ed in abissino Frangi, nome che non po[ssiamo] tradurre per mancanza di sinonimo nelle nostre lingue, e che potrei solo parafrasare con una sentenza da me sentita le moltissime volte, non solo dagli abissini, ma ancora dagli arabi, quando si parlava di qualche europeo = quello non è uomo, è un Frangi.
i cattolici in Gerusalemme È vero che in Gerusalemme il cattolico è conosciuto, e possiamo dire che si distingue dagli altri, ma da chi? Qui sta il punto che scopre una certa illusione che ci governa: [p. 687] è conosciuto dai soli abitanti di Gerusalemme, ma notiamo bene, non da tutti, ma solo da quelli che hanno gli occhi cristiani per vedere, cioè dai nostri cattolici, e da pochissimi eretici di buona fede, perché l’eresia positiva, come l’avoltojo che cade sopra una vittima in guerra, non ancor morta, la prima operazione che fa è quella di cavare gli occhi; così l’eresia positiva la prima cosa che fà è quella di cavar gli occhj, affinché il vero non si distingua più dal falso; anzi dal vero veduto l’eretico positivo, o piuttosto mezzo eresiarca, prende motivo per armarsi contro un nemico. Non sarebbe perciò che un quinto di Gerusalemme [a fare tale distinzione], una metà della città essendo o mussulmana o ebbrea, l’altra meta in gran /88/ parte è eretica sistematica. Ma fosse bene tutta la città in stato di distinguere il cattolico dagli altri europei, questo sarebbe ancora un bel nulla, perché il gran male sta nella popolazione flottante dei pellegrini, i quali si fermano appena 15. giorni, e non hanno tempo di conoscere i cattolici dagli altri europei infra la casta detta Franca, come sopra si è detto.
Con ciò credo di aver abbastanza dimostrata la ragione per cui gli abissini, e così molti altri popoli che frequentano Gerusalemme come pellegrini non ricevano da quel gran centro cristiano un prestigio cattolico sufficiente per partirne, non scandalizzati dagli eretici levantini [p. 688] anzi edificati dai nostri. Riprendo perciò la mia storia. Accompagnati da quel monaco siamo partiti circa le tre di mattina, in piena notte colla luna. I quattro neofiti camminavano ad una certa distanza dopo di noi facendo la preghiera del mattino col monachello Rafaele, e col mio giovane Stefano, ed io camminava un buon pezzo avanti col monaco, il quale teneva bisogno di parlare con me; il monaco mi domanda consiglio io, diceva questo monaco, questa sera debbo ritornare ai miei padroni, e prendo questo poco tempo per parlare con voi e domandarvi alcuni consigli; consigli sopra di che? risposi io. Dovete sapere, disse egli, che questo signore mio padrone, unito con molti altri, si è rivoltato al governo dell’imperatore, e si deve fare una sortita di armi contro una parte del paese, la quale non ha voluto entrare in questa rivolta, per obligargli a mettersi con loro. Io nella casa di quel signore sono come consigliere, e debbo dire il mio parere sull’avvenire di questa guerra.
come il monaco facesse da mago, ed in quale senso Appena sentito questo ho compreso subito il brutto affare che mi cadeva sopra le spalle: In breve [breve] questo monaco, era nientemeno [p. 689] che il mago di quel rivoltoso, o per dire meglio era il Profeta Balaam di quel capo banda, impiego ordinario di molti monaci abissinesi, che si trovano sparsi in quasi tutte le grandi famiglie d’Abissinia; egli con bel pretesto, figurando anche come uomo di Dio, con solenne ipocrisia parlava a nome di Dio quando Iddio non parlava. Questa specie di maghi abissinesi, i quali in facia al publico sono monaci, non è già che si servano del demonio, direttamente invocandolo, ma solo si servono del nome di Dio, citando bugiardamente la sua parola nel senso della Scrittura[:] non mittebam prophetas et ipsi currebant. Se ne trovano di coloro, i quali sono anche un poco in buona fede, come sembrava appunto quello, di cui è il caso nostro, persona, la quale facendo questo mestiere pretendeva [di] essere chiamato uomo di Dio, e chiamandolo mago si sarebbe offeso. Prova di una certa sua buona fede si è il pensare di me che potessi guidarlo nel suo ministero di divinazione.
/89/ una domanda del monaco e mia risposta Io, diceva quel monaco, sperando appunto che mi avreste fatto questo servizio ho ottenuto dal mio padrone di mettermi in libertà, ed egli [p. 690] in questo senso vi ha liberato gratuitamente, altrimenti chi sa cosa avrebbe fatto! per lo meno vi avrebbe tenuto molto tempo legato per farvi pagare una gran somma. Egli mi ha mandato ad accompagnarvi, e mi ha raccomandato di parlare per voi al suo amico, e questa sera aspetta il risultato da me nel mio ritorno. Caro mio, riposi io, voi mi mettete in un grande imbarazzo; io vi sono riconoscente per il servizio che mi avete fatto, e per quello che ha fatto il vostro padrone; io non mancherò di pregare per voi e per lui; ecco tutto quello che posso fare. Se voi mi domandate cosa dovete fare voi ed il vostro padrone per salvarvi e non andare all’inferno, allora sarebbe stato mio dovere di rispondervi. Ma di tutte queste cose io [non] ne so un bel nulla. Voi altri abissinesi domandate a Dio, ed egli vi risponde; ma io ne oso domandare a Dio queste cose, ne egli mi risponde. In quanto a voi, avendo conosciuto Abuna Jacob, dovete sapere che ciò non va bene; guardate di sbrigarvi da quel Signore, e poi venite da me, e troverete tutto.
Il povero monaco non era una cattiva persona, anzi, stando a tutto quello che mi aveva detto, egli era già [p. 691] travagliato dai rimorsi, e faceva ciò unicamente per mangiare il pane onoratamente, come facevano molti altri. Avrebbe potuto anche fare il maligno e minaciarmi di farmi legare di nuovo, ma no, anzi si dimostrò tranquillo e contento. Io l’aveva esortato a lasciare dolcemente e con bella grazia il suo padrone esortandolo alla pace coll’imperatore. Egli mi diede speranza che avrebbe fatto tutto il possibile per raggiungermi. Cosa poi abbia fatto ritornando al suo padrone non lo so; arrivo alla staz[i]one e partenza del monaco Fatto sta ed è, che egli fu di parola, e ci condusse fedelmente all’amico convenuto; dove siamo arrivati verso le nove del mattino; parlò molto favorevolmente per noi, e se ne ritornò per i fatti suoi. Io ho voluto narrare il detaglio di questo monaco, come cosa abbastanza importante della storia abissinese, ed anche utile per i missionarii. Mi rincresce di non ricordarmi più del nome, ne del Monaco, ne del paese dove siamo stati legati, ne tanto meno del capo banda che ci legò.
Dove siamo arrivati siamo stati ben ricevuti, ed il padrone non sollevò questioni; da quanto pareva il monaco l’aveva prevenuto che io andava a Gerusalemme, e questa mi fù una potente raccomandazione presso di lui. Noi avevamo [p. 692] già fatto sei ore di viaggio, riposatevi, disse il padrone, e intanto ci fece subito portare un poco di pane con un bel piatto di scirò (farina di fave cotta a liquido) con del latte in abbondan- /90/ za per bere. buone notizie di Sokota consolano il mio compagno Il villagio, era un villagio molto piccolo, dove solevano fare stazione i mercanti partiti da Sokota per il Sud. Sokota città capitale degli Agau, da quanto si diceva, era ancora tranquilla, e ciò ci consolava. Il mio giovane compagno in tutti i due giorni passati aveva tenuto nascosta la sua qualità per timore dei rivoltosi, ed era impaziente di arrivare presto a Sokota, perché là trovava un suo amico Governatore generale; ma temperava questo suo futuro piacere il pensiere di doversi separare da noi. pensieri sulla nostra prossima separazione Io sono tormentato da due amori che mi straziano il cuore, diceva egli, uno è quello della mia sposa, il quale cresce a misura che mi allontano, l’altro è l’amore che ho per Lei, divenuto più che mio Padre, il quale mi strazia il cuore pensando alla prossima separazione. Quando siamo soli col mio angelo custode (il suo schiavo) non parliamo di altro. Signor mio, disse questi, io facio un piano; arrivati a Sokota, scriva una lettera a Nagalà, e noi potremo seguire il nostro Padre sino ad Antalo, al più tre giorni.