/114/

13.
Convalescenza a Gualà presso Ghebra Mariàm.
De Jacobis canonizzato dalle tribù Soho.

si pensa [di] spedire [qualcuno] a Gualà L’indomani vedendosi che la malatia progrediva sempre ancora, e la speranza di partire si faceva sempre più lontana; avuto principalmente riguardo ai bisogni miei spirituali ad ogni caso anche di morte, ho sortito il progetto di spedire [un corriere] in Gualà Agamien, dove sapeva trovarsi il sacerdote Cattolico Ghebra Mariam. Da Terrà a Gualà non [p. 740] vi era gran distanza, di mio viaggio ordinario mi bisognava almeno da quattro a cinque giorni, ma una persona con un buon cavallo al più [ci impiegava] un giorno e mezzo, ed accelerando poteva arrivare anche in un giorno. Abba Josef pregò la padrona di casa a spedire un’uomo a cavallo. parte il corriere per Gualà Io ho potuto ancora fare una breve lettera, anche Abba [Josef] scrisse un poco più a lungo ad Abba Ghebra Mariam, e partì il corriere la mattina del quarto giorno dal mio arrivo a Terrà. Eravamo ancora nel mese di Settembre e la stagione era buona. La padrona della casa compiacentissima, vedendo che io non poteva nutrirmi fuorché di pane secco in forma di biscotto ne fece fare con butirro e miele, e [io] prendeva qualcheduno di questi biscotti quasi carbonizzati, e mi nutriva di questi; al più [di] qualche pezzo di carne secca quasi carbonizzata; altrimenti [non potevo ingerire] qualunque altra cosa; beveva un poco di aqua, con aceto.

ritorna il corriere In capo a tre giorni ritornò il nostro corriere da Gualà, e ci annunziò che il nostro sacerdote Ghebra Mariam sarebbe arrivato fra due giorni con due persone disposte anche a portarmi sopra una lettiga. Ciò mi fece coragio. Comunque, diceva fra me, [p. 741] in caso di morte potrò sempre ancora confessarmi e ricevere i sacramenti. Questa sollecitudine di meno mi sollevava. La padrona di casa poi, sbrigata dalle cerimonie del pianto, occupò tutta la sua sollecitudine per farmi qualche cosa per nutrirmi; ma non cessando la febbre, ne la diarrea poco era quello che si poté guadagnare in forze. arrivo di Ghebra Mariam. Due giorni dopo l’arrivo del corriere arrivò Abba Ghebra Mariam da Gualà. Era questo un sacerdote ordinato da /115/ me nel 1847. Io [non] l’aveva mai più veduto dopo la mia partenza. Il nostro incontro fù perciò una gra[n] consolazione reciproca. Egli conosceva la padrona di casa, la quale amava anche molto di tenerci ancora qualche giorno, perché era una persona che sentiva anche molto volontari [discorrere sul]le cose di Dio; giova poi anche sperare, essa diceva, che aspettando l’ammalato aggiungerà un poco più di forze. L’uso del caffè più forte con qualche goccia di vino delle messe che portò con se mi ricrearono un pochetto.

nostra partenza da Terrà In capo a due giorni abbiamo lasciato Terrà facendo piccole stazioni, e viaggiando parte portato sopra un letto, e parte anche a piedi. La signora [p. 742] aveva aggiunto ancora qualche portatore di più, ma per me era quasi più faticoso viaggiare in lettiga che a piedi. Nel primo giorno si fece appena una lega, e ci siamo arrestati in una casa [di] proprietà della stessa famiglia, dove fummo come in casa nostra. non ho pegiorato nel viaggio Il viaggio non mi fece male, anzi mi fece [del] bene; mi sono nutrito qualche cosa di più, e la diarrea non diminuì, ma andava cangiando di natura perdendo insensibilmente quellà di dissenteria. Nel secondo giorno si viaggiò qualche cosa di più, forze una lega e mezza, ed io ho potuto camminare un poco più a piedi; ho potuto anche nutrirmi un poco di più bevendo qualche ovo fresco. Così fu poco presso [durante] tutto quel viaggio, nel quale, occupato a portare, e sopportare me stesso, non ho potuto trattenere la mia attenzione sopra le cose del paese per cui passava. Da Terrà a Gualà, provincia di Aldegrad [abbiamo impiegato] da otto a nove giorni, e mentre scrivo di tutto quel viaggio non mi ricordo di altro che delle mie tribolazioni e di quelle che ho fatto soffrire ad altri.

quarto giorno in una grotta La sera del quarto giorno abbiamo passato la notte in una grotta di toffo bianco in un luogo, dove non si trovava villagio. Ho domandato la ragione per cui in quel luogo così bello, e così sano non si vedeva un villagio: [p. 743] mi risposero facendomi vedere dirimpetto della nostra grotta una montagna isolata in mezzo ad un piano, quasi simile ad una piramide d’Egitto: una fortezza abissina quella, mi dissero, è una fortezza dei detenuti politici, dove morirono per il passato molti principi e molti rivoltosi. (Nel momento in cui scrivo posso dire che là appunto morirono del valvolo [† 1869]
[† feb. 1875]
il Governatore Goxà, e la cara sua madre Waletta Salassie; là pure morì l’imperatore Tek[a]la Ghiorghis.) Alla nostra destra a sinistra esistono molte altre grotte fatte per mano del uomo, come quella in cui noi siamo, e tutte queste grotte sono abitazione di soldati, quando nella fortezza esistono i detenuti politici. Oggi tutti i detenuti politici si trovano a Magdala, ed a Celga nel Dembea; questa fortezza perciò è come /116/ vuota, custodita da una piccola stazione di soldati, i quali abitano nella fortezza medesima, motivo per cui tutte queste grotte sono vuote.

i soldati abissini, ed i contadini Ora rispondo, disse Ghebra Mariam, alla difficoltà che Ella mi fece; nei nostri paesi dove vi sono soldati non possono rimanere i poveri contadini. Nei vostri paesi il soldato difende la proprietà dei poveri, e dei contadini, e dove vi sono soldati non vi sono ladri. Nei nostri paesi invece i poveri contadini devono fugire i soldati per essere sicuri dai ladri; i nostri contadini invece devono fugire nei luoghi lontani dove non girano [p. 744] i soldati, altrimenti quando arriva il grano, l’orzo, le fave, e simili, sono loro che le mangiano, quando vi è una pecora è per loro, quando la moglie ha preparato un poco di cena, arrivano essi a mangiarla, e persino, quando siamo a dormire caciano il marito per mettersi essi in letto. Il monaco che mi contava queste cose, [esso] un viaggio all’Abissinia
[ago.-set. 1841]
parlava dei tempi passati, quando vennero in Europa gli abissinesi sotto il Pontificato di Gregorio XVI., e sotto il regno di Ferdinando di Napoli, e desiderava per il suo paese i bei giorni passati anche per noi. Oggi a forza di scienza e di progresso, a forza di predicare libertà ed indipendenza, siamo sulle porte dell’anarchia, ed eccoci in Abissinia senza passare il mare. La povera Abissinia porta la pena per avere esautorato il suo imperatore legittimo, e manca di pane e di tutto, perché manca di coltivatori e di [gente dedita ai] mestieri; se Iddio non fa un miracolo questo castigo sarà anche per noi a suo tempo.

passiamo vicino al campo di Ubiè Lasciata la grotta, dopo due altre giornate del nostro penoso, e cortissimo viaggio mi ricordo che siamo passati non lontano dall’antico campo di Usien, dove io nel 1849. aveva visitato Degiàce Ubiè, lasciandolo alla nostra sinistra, per camminare verso Aldegrad. In quelle vicinanze Abba Ghebra Mariam ci fece [p. 745] entrare nella casa di un suo parente, il quale mi aveva già ricevuto con gran segretezza nel 1849. camminando verso Degiace Ubie. mia gran debolezza Io non ne poteva più dalla debolezza; camminare a piedi non ne poteva più; farmi portare poi ancora peggio, già due giorni prima, non potendo più reggere la [marcia in] lettiga l’avevamo mandata indietro dagli uomini di Terra, i quali ritornaro[no] al loro paese con Abba Josef. Come si avvicinava Aldegrad Abba Ghebra Mariam trovava ad ogni tratto, ora parenti, ora amici da farmi riposare, e così a piccolissime tape siamo arrivati finalmente a Gualà.

si parte da Aldegrad per Gualà
[26.9.1863]
Erano circa le due dopo mezzo giorno quando siamo partiti da Aldegrad; camminavamo verso l’Est, ed avevamo di fronte Gualà lontano appena da noi pochissimi kilometri, per un sano era [una] strada di 20. minuti o poco più, ma noi vi abbiamo messo due ore. Come era di sera il sole batteva nel piccolo villagio di Gualà e potevamo distinguere l’an- /117/ tica chiesa di S. Giovanni le antiche ricordanze di Gualà stata uffiziata cattolicamente ai nostri tempi, e divenuta di nuovo eretica dopo la mia partenza. Ghebra Mariam mi faceva [p. 746] vedere l’antica casa di Dejacobis, dove io coi miei compagni era rimasto [19.12.1846-23.11.1847] da Novembre 1846. sino a Ottobre 1847.; casa in quei tempi, immensa, dove esisteva una famiglia di circa 40. persone, casa dove furono fatte tante ordinazioni, e lo stesso Ghebra Mariam con suo fratello maggiore Tecla Hajmanot [2.2.1847]
[9.10.1848]
furono ordinati sacerdoti; quella gran casa stata abbandonata dopo la persecuzione cadeva in rovina. Io ammirava il famoso boschetto vicino di proprietà della missione lazzarista; si distinguevano le antiche nostre passeggiate, i luoghi delle nostre solite conferenze; quante rimenbranze! Sarebbe bella, che io, venuto quì oggi, diceva fra me stesso, vi dovessi lasciare quì le mie ossa...!

entro in casa di Ghebra Mariam Mentre pensava a tutte queste cose eccoci arrivati alla casa di Ghebra Mariam, [a] pochi passi dalla casa antica di Dejacobis. Il mio arrivo fu una vera crisi tenerissima per quella famiglia che mi aveva conosciuto nell’anno 1846. ma che differenza di entrata! allora tutto il paese [era] in movimento ed in feste, mentre ora, diceva frà me, tutto è malinconia: godono i fedeli, ed arrossiscono gli apostati i fedeli [p. 747] hanno avuto gran piacere nel rivedermi, ci pare di rivedere Monsignore De jacobis risuscitato da morte, dicevano, ed erano in feste; quasi tutto il villagio divenuto apostata, da una parte dovevano star quieti, e rispettarmi, perché io veniva accompagnato da ordini dell’imperatore; dall’altra parte poi, come avevano apostatato per forza nella persecuzione, erano anche da compatire, essi si vergognavano di comparire alla mia presenza; osservavano perciò un rispettoso silenzio. L’indomani venne a trovarmi lo stesso Scium Agamien (specie di Procuratore imperiale) il quale era un cugino di Ghebra Mariam. Questa famiglia rimase sempre fedele [al cattolicesimo]; i due fratelli sacerdoti tenevano ancora viva la missione. Essi [in casa propria], dopo molte persecuzioni, furono liberi in casa loro, dove avevano oratorio privato, facevano le preghiere di uso, e si prestavano come potevano.

la famiglia di Walde Joannes religione di quella famiglia Il Padre di Ghebra Mariam per nome Walde Joannes era ancora vivo, vecchio venerando di casa. La Madre era morta da due anni, e perché aveva resistito potentemente, alla persecuzione, non potendo essere sepolta nel cimittero publico della parrochia di S. Giovanni [p. 748] divenuta chiesa eretica, la sepelirono in un piccolo cortile della casa, ed il suo sepolcro era a tre, o quattro mettri dal mio letto. Il figlio primo genito di Walde Joannes per nome Abbà Tekla Hajmanot per ordine dei superiori si trovava assente in [una] lontana missione. Il secondo genito Abba Ghebra Mariam rappresentava la piccola missione di Gua- /118/ là, governava la casa paterna, ed assisteva il vecchio genitore. [Ualètta Berhan] Una sorella di Ghebra Mariam, ancor giovane figlia non volle maritarsi e si fece monaca; essa nella persecuzione ebbe a soffrire più di tutti per due o tre anni; dopo ottenne di ritirarsi in casa propria, ed era divenuta la madre di famiglia che assistette i due vecchi genitori. Si trovava poi in casa una sorella maritata con molti figli. Quella famiglia era una vera famiglia patriarcale cattolica, nella quale si sentiva la parola di Dio dalla bocca di Abba Ghebra Mariam, e della monaca sua sorella religiosa fervidissima.

vi sono rimasto 40. giorni Io sono rimasto in quella casa circa 40. giorni, e la mia malatia percorse tutti i periodi i più critici, da essermi stati persino amministrati gli ultimi sacramenti della Chiesa, e ciò nelle prime tre settimane. detagli della mia malattia Nel forte della malaria sono arrivato persino ad avere da 15. a 20. evacuazioni: [p. 749] dopo quel periodo, ebbi un periodo di prostrazione quasi estrema; sono divenuto immobile in letto, e dovevano cangiarmi ogni giorno la paglia di sotto. Ho passato un gior[no] come in agonia, e mi aspettava da un momento all’altro di essere chiamato dal mio padrone, e così dovere abbandonare la povera carcassa, la quale in molte cose aveva an[che] servito a Dio come un’asino porta il suo peso, ma poi non lasciò qualche volta di prendere il partito della rivolta innalberata dal nostro Padre Adamo, e prepararmi anche un capitale di debiti. Comunque, conoscendo io il mio padrone in tutta la sua bontà e misericordia, per una grazia tutta speciale, io era molto tranquillo e disposto a partire. Ma non era ancora registrato il gran decreto, epperciò dopo questa crisi il mio ventre si calmò; ho passato un giorno intiero senza evacuazioni; incommincia la mia convalescenza l’ultimo mio cibo [assaggiato] da molte settimane, cioè i piccoli biscotti, lasciati da cinque giorni, ripresero il loro gusto, e di là incomminciò la convalescenza.

Questa fu molto longa. I primi otto giorni passarono con pochissimo nutrimento, coll’uso dei miei biscotti, bevendo un poco di farina di linosa sciolta nell’aqua con miele. La seconda settimana fu migliore, ho potuto movermi un tantino, e nutrirmi con [p. 750] [con] qualche palentina di orzo abrustolito condita con butirro fresco, e bevendo qualche mezzo corno d’idromele che soleva mandare il Procuratore dell’imperatore Teodo[ro]. Nella prima settimana di convalescenza, ancora vi erano evacuazioni, ma nella seconda il ventre si era sistemato e rimesso al suo stato normale. Passata la terza settimana incomminciava [a] camminare, epperciò incomminciarono i progetti di viaggio per Massawah.

mio criterio sopra le cause della mia malatia In tempo della mia convalescenza, e prima che mi fossero state consegnate le lettere venute dalla costa di Massawah, quando incomminciava /119/ a giuocare la mia imaginazione, non sapeva darmi pace, dove io avessi potuto raccogliere tanti miasmi da svegliarmi una malaria così grave. In quanto alla febbre periodica già l’aveva preveduta dopo che ho passato la notte sul bordo del fiume, detto da alcuni indigeni il piccolo Takasiè, sortito da Sokota. Ma la febbre periodica non fù che una causa determinante lo sviluppo della malaria seguente, perché essa scomparve affatto dopo la seconda dose di solfato di Kina. Ma vi rimase una vera malatia che aveva del bilioso, del gastrico, dell’infiammatorio e tanti altri sintomi che mai io ho potuto spiegare. [p. 751] i miasmi degli animali morti e putrefatti Costretto io a dare una spiegazione a tutto quello sbilancio nella mia povera persona, il mio criterio cadeva sempre sopra tutte quelle bestie morte ed imputridite che si trovavano in quasi tutto il Beghemeder. Difatti nel campo di Teodoro regnava un mall’essere quasi generale, così negli altri piccoli campi militari subalterni. Così parimenti in quasi tutti i villagi. Difatti molti dei contadini si lagnavano per essere scomparse le jene tanto numerose nel centro dell’Abissinia; così non si vedevano più certe grandi nuvole di avoltoj che vivono di animali morti. In certi luoghi mi accusarono anche scomparse di scimie ed altri animali. Ciò detto di passagio passo agli affari più gravi venuti dalla posta.

corrispondenze dalla costa Quei di casa, prima ancora del mio arrivo a Gualà, avevano spedito a Massawah un corriere per significare alla costa il mio prossimo arrivo. Senza che io lo sapessi il corriere andò e ritornò ancora altre volte dando notizie della malatia mia. Vennero parecchie lettere d’Egitto, d’Europa, e di Massawah, le quali furono trattenute da Ghebra Mariam per non aggravare di più i miei mali con nuove preoccupazioni. Alla fine avendomi consegnato tutte quelle lettere, ne ho avuto per due giorni solamente per leggere. Tra i molti affari gravissimi ne ho avuto [avuto] [p. 752] uno che molto mi occupava. In Europa era arrivata la notizia della mia morte. Questa notizia, benché falsa prevalse in Roma ed in Francia. [decreto: 8.1.1863]
[2.7.1863]
La S. C. di Propaganda scrisse al Provinciale dei Cappuccini di Francia di preparare una spedizione al più presto, composta, almeno di tre soggetti, uno col titolo di Vice Prefetto, accompagnato da due altri missionarii. Mi si diceva nuovi missionarii venuti [da Marsiglia: 19.10.1863; ad Aden: 4.11.1863]
[scritto da Massaua: 8 e 25.12.1863]
che questi missionarii erano già arrivati in Egitto e stavano per partire alla volta di Aden. L’operazione non sarebbe stata cattiva, ma trovandomi io in viaggio era bene vederli, e fare in modo che non partissero senza prima vederci e consultare insieme. Ho dovuto adunque scrivere in Aden, in Egitto, ed a Roma significando il mio prossimo arrivo.

Fratanto, benché ancora debole, bisogno venire alla risoluzione della partenza. mia partenza da Gualà
[22.10.1863]
Ho lasciato in Gualà i due giovani miei compagni, il mona- /120/ chello Rafaele e Stefano, affinché non dovessero restare molto tempo in Massawah fra i mussulmani, per timore che si guastassero, restate quì, dissi loro, verrete poi verso il fine [p. 753] di Novembre, quando i calori di Massawah saranno diminuiti, e così, accompagnato da Abba Ghebra Mariam, e da alcune persone da lui scielte per accompagnarci, abbiamo lasciato Gualà sul principio di Novembre. la strada da noi tenuta Abbiamo fatto la stessa strada già fatta sul principio di Decembre 1846. nel nostro primo ingresso in Abissinia, e ripetuta sul fine di Novembre 1847. per sortirvi esiliato, epperciò non mi trattengo a descrivere ciò che già è stato detto.

memorie di Dejacobis in bocca di tutti Erano già passati tre anni dalla morte di Monsignor Dejacobis, eppure, strada facendo i viandanti, nelle case dove ci fermavamo, sia per riposarci a mezzo giorno, sia per passarvi la notte dapertutto e da tutti non si faceva che parlare di lui. Come in una casa, dove è morto di fresco l’oracolo ed il sostegno, s’incontra il suo nome in tutti gli affari, ed in tutti i luoghi pare ancora a tutti di vederlo, tale era il nord dell’Abissinia, principalmente nei paesi dove noi passavamo; i detti di Dejacobis, i fatti ultimi della sua morte, ed anche alcune grazie e miracoli [p. 754] erano i trattenimenti ordinarii di quelle popolazioni. E vero che noi viaggiando [nel]le nostre fermate di mezzo giorno e della sera erano per lo più sempre [in] case di amici della missione, ma ciò che io sentiva da essi non vi badava gran cosa. Strada facendo, persone che non ci conoscevano, parlavano di lui; gli stessi eretici, ed anche alcuni fanatici conosciuti, rendevano testimonianza alla sua santità. la profezia di un’eretico fanatico Mi restò impressa la conversazione di un fanatico amico del Vescovo eretico Salama. Questi vedendo che noi eravamo viaggiatori provenienti dal Sud ci domando se Teodoro aveva fatto la pace col Vescovo Salama, dicendo l’ira di Dio contro Teodoro che lo perseguitava. Dopo parlò di Dejacobis e disse: Se Abuna Jacob non fosse morto, Abba Salama alla fine sarebbe stato vinto; ora che Abuna Jacob è morto è finita per i cattolici, e regnerà Abba Salama.

arrivo in Tukunda Non mi ricordo più il numero esatto, ma credo di esser venuto da Gualà a Tukunda in nove, o dieci giorni. Al sud-est di Tukunda in una gola qualche kilometro lontano abbiamo fatto una fermata in un luogo, dove si trovavano dei ruderi ed antichità europee ruderi antichi, cioè colonne [p. 755] rovesciate capitelli, e simili pezzi con qualche pezzo di muro. Io ho veduto quasi tutta l’estremità est dell’alto piano etiopico, e non ho veduto altrove residui di dominazione europea fuori di quella, la quale aveva un carattere più greco che latino. È forze quello l’unico luogo, dove la dominazione della costa è arrivata sino all’alto piano; io l’ho creduto un avan- /121/ posto di Adulis, perché è in quella direzione. La sera siamo arrivati a Tukunda, dove abbiamo passato la notte nella casa di un nostro cattolico. lascio il sepolcro di Dejacobis Io aveva fissato di visitare ad ogni costo il sepolcro di Monsignore Dejacobis, col quale era legato da tanti titoli; ma la mia malatia mise in ritardo tutte le mie operazioni quasi di due mesi, compreso il viaggio fatto a piccolissime tape. Più di tutto aveva diminuite le mie forze; mi conveniva perciò tenere la via più diretta per Massawah; la quale era appunto quella di Tukunda, e non quella di Halaj e Dixan.

partenza da Tukunda L’indomani di notte siamo partiti da Tukunda; i nostri bravi cattolici vedendo la mia debolezza, ed il mio bisogno di essere sostenuto nella discesa si offrirono di accompagnarci in tutta la discesa sino al basso della montagna Taranta. discesa del Taranta Io avrei creduto di trovar facile la discesa, [p. 756] ma invece ho sperimentato tutto il contrario. Una persona debole sortita da malatia, non essendo ancora ben padrone delle articolazioni, è per lui molto più pericolosa e fatigante la discesa che non la salita, quando la discesa è molto rapida e con precipizii, come appunto era quella della [montagna] Taranta, benché la discesa di Tukunda fosse molto più commoda di quella di Halaj, che già conosceva. Ogni mezzo kilometro io era obligato a fermarmi per calmare l’ossilazione o tremolo, il quale [mi] minaciava d’impadronirsi di me e gettarmi per terra. Per questa ragione, quella discesa che un’altro avrebbe potuto fare in un’ora, io ho dovuto mettervi tutta la giornata, e sono arrivato la sera ai piedi della montagna, [e sono arrivato] così stanco da dubitare se l’indomani avrei potuto continuare il mio viaggio.

la guida fra i Soho Fra le tribù Soho uno straniero qualunque non può viaggiare senza una guida, presa a Tukunda, oppure in Halai per discendere a prezzo fisso, e presa in Arkeko per salire, e ciò anche per i mercanti; altrimenti il viaggiatore si esporrebbe a delle vessazioni. Ora la nostra guida presa in Tukunda, invece di camminare con noi, egli faceva delle diversioni ora a destra, ed ora a sinistra per visitare i suoi connazionali accampati vicino alla strada, e dove trovava qualcheduno dei suoi spargeva la notizia che discendeva un fratello [p. 757] di abuna Jacob, proprio quello che è passato quì molte volte accompagnato da lui. Probabilmente diceva loro il luogo, della nostra fermata nella notte. si radunano i Soho Tanto bastò, che la sera il luogo della nostra stazione divenne un piccolo campo; ne è da credersi che siano venuti colle mani vuote: i Soho sono poveri, e non hanno altro che bestiami, poche bestie bovine, molte capre, e poche pecore, formano la loro richezza, eppure quasi tutti portarono qualche cosa, naturalmente la più parte piccoli caprioli, e latte in quantità. Essi fecero il pianto come se Monsignore De jacobis fosse morto dello stes- /122/ so giorno. Hanno ragione, mi diceva Abba Ghebra Mariam, Monsignor Dejacobis gli proteggeva a Massawah, gli pacificava nelle loro questioni, ed anche gli socorreva nei loro bisogni; passando quì, la sera faceva sempre loro il catechismo.

religione dei Soho Quella tribù Soho, ad eccezzione di alcuni che passavano un tempo notabile in Massawah, tutti gli altri [non] sono ne mussulmani, ne cristiani, ma piuttosto pagani. Il loro paganesimo pero è un paganesimo senza tradizioni, non come i Galla, i quali hanno tradizioni, e leggi, essi invece, pare che adorino Iddio. Per questa ragione io penso piuttosto che la razza Soho sia una razza divenuta pagana per mancanza di una religione positiva rivelata, che o [non] ha mai avuto, oppure che ha perduto, perché abbandonata [p. 758] nella vita di un ministero sacro. notizie sopra la razza Soho È probabile perciò che quelle razze Soho sia[no] un deposito lasciato dalla diverse colonie che dominarono quelle coste africane del mare rosso. Nelle diverse volte che ho dovuto trattare cogli abitanti di quelle coste africane di diversi punti, ho potuto verificare che Soho, Taltal, Dankali, Danakil, e Adal, sono tutte [tribù] [del]la stessa razza; essi stessi me lo confessarono. In questi ultimi anni di mia dimora in quelle parti, ho potuto acertarmi che la lingua anche di tutti quei popoli sopra nominati è una sola nella sostanza, benché poi sia accidentalmente distinta da qualche variazione minima introdottasi dal reciproco allontanamento di molti secoli. Ancora una cosa ho potuto verificare dei medesimi, ed è che il capo di tutti è il Re di Aussa detto Anfari, quello che [† 14.11.1875] ha trucidato il Bascià Mussingher accompagnato da 300. egiziani. Questo Bascià aveva raccolto molte memorie di questi popoli.

i soho mi fanno vedere il luogo dove morì Dejacobis Ritornando ai miei Soho, non è solo nella prima sera ai piedi della montagna Taranta che mi fecero quella festa, ma in tutti i giorni, ed in tutte le mie fermate. [p. 759] Io, per la mia debolezza, camminava a piccole tape fermandomi a mezzo giorno ed alla sera. Molti di essi vollero seguirmi sino al luogo, dove è morto Monsignore Dejacobis dove vollero farmi vedere ogni cosa. Era cosa tenera a vedersi come erano commossi parlando del campione missionario che seppe tanto farsi amare; ciò mi era molto simpatico, perché in questo io divideva con loro la mia riconoscenza a Monsignore Dejacobis, e confesso quì ad onor suo, che se io nel mio ministero, e nei miei movimenti ho preso un sistema popolare da poter venire a qualche risultato lo debbo alle sue pratiche lezioni. Questa mia confessione spiegherà quel certo quale, direi quasi fanatismo, che io professo per quel uomo venerando.