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Bafana prigioniera di Masciascià.
Domicilio coatto. Debolezze di Menelik.
un fatto curioso
Ora nel cuore di quelle feste accadde un fatto che ha del curioso, del barbaro, ed anche dell’istruttivo nel tempo stesso. Già è stato detto, che quelle feste si facevano appunto come una dichiarazione della rivolta che Bafana faceva al Re Menilik suo marito. Già è stato detto pure, come questa donna pensava a distruggere la dinastia del Re per far regnare i suoi figli in Scioha coll’intervento dell’imperatore Giovanni. Si disse pure altrove che essa mirava alla morte del giovane Masciascià, come erede presuntivo del regno, e che fu sempre essa che lo fece legare altre volte mirando alla sua perdita. Ciò tutto premesso, Bafana in quel momento voleva far credere al publico che faceva tutto ciò colla mira di far regnare il giovane prigioniero, onde utilizzare la simpatia del paese per compire la sua rivolta, mentre secretamente aveva ordinato ai suoi fidi di custodirlo gelosamente.
una controrivoluzione
[inizio lug. 1877]
Ora ecco il gran fatto avvenuto: nella notte stessa, essendo tutti ben bevuti, slegarono il prigioniero, e lo dichiara-
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rono loro capo, con patto che esso, legata la regina Bafana, la gettasse nel precipizio, svelandogli tutto il mistero d’iniquità della maligna loro padrona.
Masciascià passa dalle catene al trono
Masciascià, passato dalle catene al trono: io vi ringrazio disse, tutto si farà, ma con giudizio; voi dunque siete miei figli, ecco cosa dovete fare: circondate la sua casa, affinché non possa fuggire, legatela, e portatela in una casa a parte, dove nessuno arrivi, all’infuori di una schiava che gli porti da mangiare. Tutto il resto poi si farà quando essa avrà fatto la consegna della fortezza, e delle cose nascoste che vi possono essere. In questo modo riuscì al giovane principe di liberare la povera Bafana dal furore della sua stessa gente. Essa dunque, dopo tanta protervia fu legata colle [stesse] catene dello stesso suo prigioniere, e posta in stretta custodia, fortunata di ottenere la vita dallo stesso Masciascià che mirava a far morire.
ritorno di re Menilik Ciò detto, facio ritorno al Gogiam, ed al Re Menilik. Questi vedendo che l’armata dell’imperatore Giovanni al Nord dalla parte di Gondar si /364/ avvicinava, ed a misura che quella veniva alla volta del Gogiam Ras Adal, disceso dalla fortezza, all’ovest incomminciava ad organizzare la sua armata e presentargli qualche piccolo attacco in lontananza, piantò il suo campo al Sud-Est sulle rive del Nilo ancor passabile verso il fine di Aprile: fece passare prima tutte le donne ed il servizio, restando tutta l’armata attiva in guardia dalla parte del Gogiam, dove poteva essere preso alle spalle; [p. 854] ma l’armata del Re Menilik poté passare il fiume senza nessun inconveniente, perché questo principe, sempre buono, ed amico del popolo, non mancò di lasciare in Gogiam una certa simpatia. Appena passato il fiume, sarebbe stato impaziente di arrivare al suo paese, dal quale erano arrivate sino a lui notizie di ogni colore. Egli, essendo ancora in Gogiam, aveva già avuto qualche notizia della rivolta di Bafana, e delle trame da essa ordite coll’imperatore Giovanni, ma il povero Re Menilik era stato tanto acciecato da quella donna, che ancora non credeva alla realtà del fatto, ed attribuiva ancora alla malignità dei relatori ciò che sentiva. Bafana, mentre in Scioha lavorava alla rivolta, non lasciava di spedire corrieri al Re spiegando il suo operato in senso favorevole allo stesso Re. suo arrivo ad Ennawari Egli, appena arrivato in Scioha, andò direttamente ad Ennawari, dove fu ricevuto dal vecchio regente, tutto inteso con Bafana, il quale non mancò di dare una relazione tutta favorevole alla regina. Il Re trovò in Ennawari il suo zio Mered Haily il fallito Re di Ankober, il quale giaceva in letto ancor ammalato di certe ferite avute nella seconda battaglia: da lui, e da qualche suo servo stato legato con lui, ebbe qualche deposizione poco favorevole alla regina, ma erano questi testimonii troppo sospetti. Della realtà di questo gran fatto il Re Menilik non fu persuaso che un’anno dopo, quando egli, fatta la pace con Giovanni, poté liberamente parlare con lui.
il suo regno con due piaghe Fratanto il regno di Menilik, dopo tutti questi fatti, rimase con due gravissime piaghe, una all’interno, quella di Tammo che gli diede molto [d]a pensare, e l’altra all’estero coll’imperatore Giovanni, e con Ras Adal [p. 855] principe del Gogiam, bracc[h]io diritto dell’imperatore.
Nel uomo infermo le piaghe interne sono sempre più o meno micidiali, e difficili a guarirsi, a preferenza della piaghe esterne, massime quando queste si trovano nelle estremità. la piaga di Tammo La perdita della fortezza di Tammo al Re Menilik, non sarebbe stata ancora una gran cosa, perché egli non avrebbe mancato di altre fortezze nel suo regno da compensarlo. Se questa fortezza medesima fosse rimasta nelle mani di Bafana, non sarebbe stata ancora una gran cosa, perché alla fine sarebbe stata dimenticata da tutti, e forze dall’istesso imperatore Giovanni, al quale non piaque /365/ la trama da essa ordita contro il suo stesso marito. Divenne una piaga mortale dal momento che la fortezza di Tammo passò nelle mani del Principe Masciascià, persona molto simpatica a tutto il regno, e passò nelle sue mani con delle circostanze che rendevano quasi come impossibile la pace tra il Re Menilik, ed il principe Masciascià suo cugino.
Difatti il Re Menilik dopo il suo arrivo dal Gogiam stette circa un mese inoperoso per lasciare riposare un tantino la sua armata; dopo di che publicò che si radunasse sulle pianure di Ennawari, dove egli si recò a raggiungerla, ma l’armata stentò a completarsi.
blocco di Tammo
Dopo aver aspettato molto, l’armata del Re discese nel basso, si fece il blocco ad una certa distanza; si tentarono degli attacchi; ma tutto fu inutile, perché il suo paese non si batteva volontieri col principe Masciascià; anziché battersi, molti dell’armata del Re passavano a quella di Masciascià. Il Re dopo avervi passato più di due settimane
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dovette ritornarsene a Liccèe scoraggiato.
un mio corriere di Tammo
[4.10.1877]
Voi solo, mi dicevano alcuni, potete mettere la pace tra il Re ed il principe Masciascià suo cugino; il Re me ne fece parola, ed io gli ho spedito uno dei miei giovani con delle mie lettere, che feci vedere al Re stesso.
risposta del principe
Masciascià ricevette con molto rispetto il mio inviato. Padre mio, egli mi rispondeva, io [non] farò mai la guerra al Re mio cugino, e mio padrone; se egli mi attacca io mi difenderò. Io bramo la pace, ma dobbiamo intendersi sul punto della regina Bafana. Essa mi fece legare molte volte, e se essa ritorna al suo posto io sarò sbranato da essa. [Per di] Più, cosa dovremo fare dell’armata di Bafana? che pace più vi potrà essere tra [di] essa e la mia armata? Io muojo piuttosto, ma non posso tradire tutta questa gente, quella che mi slegò e mi diede il comando della fortezza. Il Re si consigli con tutti i vecchi del regno, e convenuti che saremo sopra questi due punti, la pace sarà fatta.
i due articoli famosi
Dopo questa lettera, si fecero molti congressi. Tutti i vecchi e consiglieri del paese tennero sempre fermo sopra due punti: primo[:] che la regina non potesse più entrare alla corte, e che essa fosse giudicata sul punto della trama ordita contro il Re Menilik. Secondo punto[:] che l’antica armata della Regina sarebbe sempre stata col Principe Masciascià, il quale avrebbe avuto sempre un’impiego sufficiente per mantenere onoratamente la sua armata.
pace trà il re ed il principe
[29.11.1877]
Il Re Menilik fece molte difficoltà
[p. 857]
per accordare questi due punti. La questione durò più di sei mesi, ma poi vedendo che tutti gli oracoli del paese tenevano fermo sopra questi due punti, il Re finalmente risolse di accordare i due famosi articoli, e ne fece il giuramento in congresso. Così fu conchiusa la pace tra il Re Menilik ed il Principe Masciascià. La regina Bafana fu messa
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in libertà, ma obligata a restare in un luogo lontano dalla corte, dal quale non avrebbe potuto sortire a volontà. Fu accordata un’amnistia generale a tutta l’armata del principe, il quale ricevette subito il governo delle provincie sud dei galla di Antotto, dove si sarebbe trovato vicino a Monsignore Coadjutore mio, al quale fu particolarmente raccomandato dal Re. Fu fissato il giorno in cui il Principe Masciascià doveva consegnare al Re la fortezza di Tammo, e si sarebbe recato a Liccèe per trovarsi solennemente col Re.
ingresso di Masciascià a Liccèe
[28.12.1877]
Per quel giorno io fui chiamato a Liccèe, e fu chiamato anche Monsignore mio coadjutore Taurino. Si trovarono in Liccèe in quella circostanza tutti i grandi del regno, non solo, ma tutte le persone di qualche riguardo sì ecclesiastiche, che secolari. Quando il Principe Masciascià
gran festa in tutto il regno
fece il suo ingresso a Liccèe fu un vero spettacolo di consolazione universale, spettacolo che io [non] aveva mai veduto in dieci anni, e tale, che lo stesso Re Menilik non mancò di risentirsene un poco; le persone che conoscevano la Sacra Scrittura, è il caso di Davidde e di Saul dopo la sconfitta di Golliat, si diceva quasi da tutti.
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Il principe Masciascià, dopo avere passato quasi l’intiera giornata col Re, e coi grandi del regno, verso sera prese congedo dal Re, per passare da me, che non aveva più veduto da molto tempo, prima di ritirarsi al suo campo. Io mi trovava con Monsignore Coadjutore a discorrere dei nostri affari, quando egli arrivò tutto solo, e si gettò ai nostri piedi: Padre mio, disse a me, siete contento della pace? io non ho potuto rispondergli, perché era una di quelle questioni, nelle quali il cuore volendo prendere la mano alla lingua, sbaglia la strada e salta prima agli occhj e fa parlare le lacrime di consolazione; tanto io, quanto il mio coadjutore restammo mutoli alla sua interrogazione; era Masciascià uno di quei giovani che sapevano farsi amare; egli conosceva tutte le speranze nostre sopra di lui, ma conosceva altresì le grandi difficoltà che vi erano framezzo, affinché il cuore di noi tre fosse contento. Il mondo troppo ci guarda, vattene, gli dissi, e parleremo poi dopo con maggiore commodità. Egli mi comprese, e se ne andò senza nulla più aggiungere, perché un mondo immenso lo aspettava alla porta.
ma la piaga non è la guerra Si direbbe guarita la piaga sopra citata fattasi all’interno del regno di Menilik colla pace giurata qui sopra descritta. La festa suddetta dell’incontro fu così simpatica a tutto il regno di Scioha, che per qualche giorno si passò sopra da tutti alla rugine che poteva ancora rimanere nei cuori di alcuni; amici e nemici tutti convennero nel celebrare detta festa di comune consolazione per tutti. Ma certe piaghe, una volta impossessatesi [p. 859] esse permettono un poco di tregua per dare luogo /367/ ad una nuova crisi, ma si guariscono difficilmente in modo da non reagire poi a suo tempo. tre cause di recrudescenza Due cause rimanevano in tutto il loro vigore per richiamare la piaga suddetta ad un nuovo parosismo, una era l’affezione del Re Menilik per la regina Bafana, e l’altra era la posizione di quest’ultima già radicata, di patrona del partito Karra eutichiano conosciuta, non solo nel regno di Scioha, ma ancora alla corte dell’imperatore Giovanni medesimo. Lo stesso servizio che fece là missione cattolica, produsse un buon’effetto nel cuore del Re Menilik, il quale sospirava molto la pace col suo cugino Masciascià; ma non lasciò di essere un’esca di ricrudescenza nel partito eutichiano, detto Karra, il quale andava ogni giorno più guadagnando terreno, non solo in Scioha, ma alla corte dell’imperatore Giovanni, ed in quella del Gogiam. Io debbo sviluppare queste tre cause, perché è sopra questo terreno che prese forza il movimento che finì colla guerra tra Menilik, e l’imperatore Giovanni; guerra che condusse quel paese ad una pace peggiore della guerra.
passione del re per Bafana Ora incomminciando dal Re Menilik, egli, come per forza giurò gli articoli della pace con Masciascià, e si obligò per giuramento a tenere la regina lontana da se, ma nel suo cuore non rinunziò alla passione cieca che aveva per essa, e non vi rinunziò, perché non fu persuaso che essa avesse torto. Quindi ne avvenne come naturalmente il desiderio che essa vi ritornasse. Egli, dopo la solenne pace, con tutti prese una posizione di pacificatore [p. 860] lagnandosi con tutti dell’odio che avevano per essa, ed esortando tutti a fare visita alla medesima e farvi con essa la pace. Gli stessi amici di Bafana vi lavoravano indefessamente, facendo vedere a tutti che il Re non era capace di governare la sua casa senza di essa, con gran disonore del re Menilik. brighe di Bàfana Bafana quindi molto furba si giovava di questo vento favorevole, ed invece di trovarsi umiliata, si pavoneggiava, e si faceva preziosa; essa riceveva le visite, ed incomminciava anche [ad] accostarsi alla corte. La cosa arrivò al punto, che il publico, sempre cieco nella sostanza degli affari, incomminciò a sentire il bisogno di questa pace. Molti dei vecchi si viddero come obligati a cedere. Bafana acettava [questa condiscendenza] negli utili, ma [non] toccò mai il punto di Masciascià, ne quello dell’amnistia generale a tutti [i] famigliari, che la tradirono, essa mirava solo a riprendere la sua posizione di prima alla corte, e di ottenere che fosse annullato il decreto di confisca generale dei suoi beni stabili, e delle sue richezze antiche.
il re rimette la regina al possesso dei suoi beni Il Re Menilik non tardò molto a fare questo passo, dichiarando Bafana rientrata in possesso di tutti i suoi beni immobili antichi. Essa in dieci anni di regno quasi assoluto era divenuta padrona di una gran quantità /368/ dei migliori beni del regno, o col mezzo di compre simulate, oppure col mezzo di confische del governo. Bàfana ritorna alla corte Ritornata quindi al possesso dei suoi beni [p. 861] essa ottenne dei mezzi colossali per farsi un nuovo seguito quasi reale. Intanto aquistando essa terreno verso la corte del Re, non mancava di innalzarsi nell’opinione publica; l’idea quindi della sua rivolta contro il Re Menilik andava perdendosi fra le nubi, ed il consiglio di stato si vidde ben presto obligato a cedere anche in tutto il resto, accordando che essa ritornasse alla corte, a fronte di tutti i giuramenti precedenti del Re. trionfo degli eutichiani È inutile quindi il dire, come il partito eretico in Scioha abbia in ciò portato una gran vittoria. L’eutichianismo figlio della bugia in tempo del concilio di Calcedonia, e di S. Leone magno, anche in Scioha arrivò collo stesso mezzo [arrivò] a giustificare la regina nella sua rivolta, ed a rimetterla nel suo antico splendore, affinché essa potesse continuare la sua operazione all’estero contro il Re Menilik, e contro la missione cattolica. Il mio lettore non deve scandalizzarsi vedendo il trio[o]nfo dell’iniquità, esso deve tener fermo sopra questo principio: chi lavora con Satana e per Satana ha per se tutte [tutte] le vie, e tutti i mezzi; per lui il fas ed il nefas, tutto è buono; mentre chi lavora con Dio e per Dio, da una mano ha la bussola della verità che lo guida, a dall’altra la bilancia del giusto, e fuori di questo esso guarda in Cielo, ed aspetta di là l’esito degli eventi.
piano di guerra contro Menilik
[mag. 1877]
Ciò detto una volta per sempre io facio ritorno al Gogiam, di dove è partito il Re Menilik. Appena questi ebbe passato il Nilo arrivò l’imperatore Giovanni; ma non arrivò a tempo per prendere il Re Menilik
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nella penisola, egli era già sortito, perché il nilo tardò di 15. giorni la piena. La campagna militare del Re Menilik, a Devra Tabor, a Gondar, e sopratutto nel Gogiam irritò molto il partito dell’imperatore Giovanni; si fecero in Gogiam piani di vendetta contro il Re Menilik per l’anno seguente. La caduta della regina Bafana nelle mani del principe Masciascià, fece un gran colpo nel partito dell’imperatore Giovanni, e ritardò di molti mesi l’attacco del regno di Scioha. Tutta la speranza dell’imperatore Giovanni era riposta nel partito religioso dei Karra eutichiani, di cui la regina Bafana ne era divenuta come l’oracolo, colla speranza di far regnare il suo figlio in luogo del Re Menilik. Quando poi sentirono che Bafana aveva fatto la pace, aveva riaquistati i beni confiscati, ed aveva fatto ritorno alla corte, allora prese di nuovo vita il piano dell’attacco di Scioha. Non tardarono a ricomparire gli uomini dell’Alaca N. ministro del culto coi carichi di talleri mandati dalla lupa e da Abba Ghebra Salassie confessore della corte (1a).
Allora si rianimarono le speranze di conquistare il regno di Scioha.
/369/ un’errore del re Menilik Se il Re Menilik avesse tenuto fermo negli articoli della pace fatta col Principe Masciascià suo cugino, l’imperatore Giovanni non avrebbe osato più [di] tentare l’attacco di Scioha, ed il Re Menilik avrebbe mantenuto la sua autonomia. l’armata di Giovanni Come già si disse altrove, tutta la superiorità dell’imperatore Giovanni consisteva nella superiorità dei fucili più perfezionati; egli aveva circa 20. mille ramenton presi nella sconfitta degli egiziani, [p. 863] ma incomminciavano a mancare le munizioni, ed i suoi soldati accostumati a quei fucili, non sapevano più ritornare ai fucili detti piston, per i quali i soldati si vedevano obligati a ritornare al sistema antico, nel quale ciaschedun soldato si fabricava la polvere. I soldati dell’imperatore Giovanni quasi tutti col fucile ramenton, ricevendo dall’imperatore le cartuccie in numero molto scarzo, avevano [il] bisogno di risparmiare i colpi, tanto più che i soldati usavano [di] farne un traffico secreto, perché molti ramenton essendosi dispersi di contrabando, tutti cercavano cartuccie, e si vendevano a caro prezzo. Con questo risparmio di colpi i soldati dell’imperatore diventavano ogni giorno più deboli nella manovra del fucile. quella di Menilik. L’imperatore Giovanni aveva dei cannoni, ma questi sono in Abissinia una vera passività per un’armata, costando sacrifizii immensi per il trasporto per la mancanza delle strade e dei veicoli. L’Abissinia poi manca di canonieri, ed anche nel caso che gli avesse, a nulla servirebbe[ro] in guerra, perché l’armata non si batte in corpo organizzato, come i nostri. Di modo che il cannone in Abissinia è un vero spaurachio, e non serve, che per le fortezze. In materia poi di cavalli l’imperatore Giovanni non aveva il quarto di Menilik.
timori dell’imperatore Giovanni Per questa ragione l’imperatore Giovanni temeva molto l’armata del re Menilik; egli aveva meno [d]a temere di lui restando nel suo paese, perché una gran parte dell’armata di Scioha non essendo abituata all’estero, [una gran parte] soleva rimanere in paese suo, tanto più che il Nord dell’Abissinia, passava [p. 864] per un paese, dove non si trovava pane da mangiare, paese vuoto, dove non si trovavano grani maturi da raccogliere, oppure case da svaligiare. All’opposto aveva tutto [d]a temere andando in Scioha, paese popolatissimo, dove avrebbe trovato opposizione in ogni luogo, e cavalli in quantità per sorprendere la sua armata in giro di rappresaglie per vivere. L’imperatore Giovanni già sapeva in avanzo che colle ostilità aveva tutto [d]a temere in Scioha, e la sua unica speranza era quella di seminare la divisione e di attaccarsi ai partiti. Egli perciò, benché odiasse la regina Bafana, che soleva chiamare: la lupa in società col montone, pure la coltivava, perche essa si trovava alla testa del partito Karra eutichiano, il quale era il partito /370/ imperiale, mentre il partito Devralibanos fu sempre il partito tradizionale della dinastia di Scioha. Bafana sperava nell’imperatore Giovanni per essere dichiarata regente assoluta per il suo figlio ancor minore; Ati Joannes all’opposto coltivava Bafana a proprio vantagio.
(1a) [Manca la nota M.P.] [Torna al testo ↑]