/141/

14.
A Urrà Ilù: arrivo dei compagni.
I principati di Adera Villi e Legàmbo.

[5.7.1879: qualche ora prima dei compagni] Arrivato in Warra Ilù, se non erro, il primo Luglio 1879., prima che arrivassero da Liccè i miei due compagni di esilio Monsignor Taurin, ed il P. Luigi Gonzaga, se fossi stato più tranquillo avrei dovuto studiare un tantino la città di Warra-Ilù quella città, stata incomminciata dal Re Menilik nell’anno 1870., e che in seguito fù come il centro di tutte le operazioni militari di quel principe nelle sue guerre e conquiste di tutti i principati galla musulmani, detti dei Wollo. [p. 105] Avrei certamente aggiunto una pagina di più, molto interessante nella storia di quei paesi, in queste mie memorie storiche, da divertire il mio lettore, ma il momento di crisi in cui mi trovava non si prestava per occuparmi di storie materiali. suo incendio
[giu. 1877]
D’altronde quella città stessa, due anni prima, in tempo della rivolta della Regina Bafana, era stata incendiata da un principe amico della rivoltosa (1a), ed al mio arrivo non era stata ancora rifabricata dal Re Menilik. Esisteva però la solita amministrazione che si trova in tutte le case reali, dalla quale io sono stato onoratamente ricevuto, ricevendo giornalmente il solito dergò o pensione, come era solito ricevere in Liccè, in Ankober, ed in altre città del Re.

industria di quei paesi alti Prima di continuare la storia del viaggio debbo riferire quì un genere d’industria tutto proprio di quelle Provincie dell’alto piano in discorso, come cosa tutta propria di quei paesi, che non si trova in tutta l’Etiopia, e che forma un’articolo di commercio indigeno molto notabile. È questa la fabricazione di un certo sajo o drappo di lana, il quale di là è portato dai mercanti indigeni a quasi tutta l’alta Etiopia, dei quale se ne /142/ fanno vesti, coperte di notte, e sopratutto tende per i campi militari. Quei paesi alti e centrali sono quasi gli unici, nei quali suole utilizzarsi la lana, la quale è filata a mano, e quindi tessuta coi loro telai primitivi. Il forestiere che passa in quei paesi, anche strada facendo, [p. 106] incontra ogni momento uomini, donne, o ragazzi vestiti di un drappo grossolano o nero o bianco, i quali filano, anche strada facendo. origine del lanificio etiopico. Come in tutti quei paesi alti, benché non si vegga il gelo, pure non lascia di farsi sentire un certo freddo, e regnano le pioggie e le nebbie, come nelle nostre montagne, dal bisogno di coprirsi e di ripararsi, per mancanza di cotone, ha dovuto nascere il bisogno di utilizzare le lane delle pecore, ed anche di alcune capre. Salomone quando ci parla della donna forte ed industriosa di famiglia, ci dice che ha cercato la lana ed il lino[:] quæsivit lanam et linum, prova questa che l’uso delle lane è una cosa molto antica, e diremo quasi tradizionale nella famiglia umana, anche nei paesi non molto freddi: ciò per un certo bisogno naturale di coprire alcune parti del corpo umano, le quali non son fatte per la piazza e per il mercato, e ciò per una certa economia facile a capirsi dal uomo che conosce la sua superiorità sopra le altre creature che vivono solo d’istinto regolare, senza ragione e calcolo, da poter abusare della nobile passione, che deve regnare sotto la pressione dell’oracolo divino, e sacramentale. (1b)

industria della lana Le lane della zona [torrida] sono per lo più meno fine di quelle delle zone temperate, come suole accadere dei capelli del uomo medesimo. Quei paesi mancano d’industria per purgare le lane; al più in alcuni luoghi usano lasciarle qualche giorno nell’aqua corrente, e poi lavarle e batterle prima di filarle. [p. 107] Da ciò nasce che il filo deve essere più grosso, e più torto per dare un tessuto di una certa forza. drappo per le tende e per le vesti Per fare delle tende si comprano al mercato delle pezze larche circa due palmi, e lunghe anche 40. o 50. braccia ad un prezzo molto modico, essendo drappo brutto tal quale è sortito dal telajo. Per fare delle vesti poi si cuciono insieme tre o quattro pezzi della lunghezza di circa dieci bracia; quindi in alcuni luoghi gli lasciano qualche giorno nell’aqua stagnante ben legati insieme; in altri luoghi poi, così legati gli mettono al /143/ sole, gli versano sopra aqua, e gli lasciano qualche giorno a fermentare. Dopo questa operazione sono battuti oppure pestati sino a tanto che si restringono e sortono il pelo. Sorte quindi un sajo molto compatto da riparare anche [da] una forte pioggia. Così si vendono nei mercati al prezzo di circa uno scudo ciascuno, e ne fanno certi mantelli, quasi simili al mantello dei Cappuccini; oppure ne fanno delle coperte per la notte, ed in certi paesi se ne fanno anche camicie di donne (1c). Narrato ora, così di passaggio, un prodotto d’industria di quei paesi percorsi, riprendo il corso del mio diario.

La sera del 5. Luglio mi pervenne la consolante notizia, che la piccola carovana dei due miei compagni di esilio già mentova[tova]ti, accompagnati anche essi da una quantità di giovani e servi, passava la notte in un villagio vicino sulla riva Sud del fiume che separa il paese di Warra Ilù dal regno di Scioa. arrivo dei due compagni
[5.7.1879 notte;
partiti da Aman: 30.6.1879].
L’indomani mattina sono discesi al fiume molti dei miei giovani al loro incontro, sia per assisterli nel passaggio del fiume, e sia ancora per ajutare la carovana [p. 108] a portare [le masserizie] nella lunga salita per arrivare alla città reale, dove arrivarono circa le due dopo mezzo giorno. Il Re Menilik, dopo che ci siamo separati al campo, dove ci siamo trovati, fatta la sua sorpresa ai Galla nemici, prese immediatamente la via di Liccèe, loro incontro, ed aboccamento col re
[1.7.1879]
dove arrivò il giorno stesso, in cui i miei due suddetti compagni d’esilio arrivavano da Gilogov. Questi ebbero col Re due lunghe conferenze, nelle quali terminarono tutti i loro affari. La stagione delle pioggie era già nel suo forte; il Re, nell’impegno di ritornare al suo campo di Effrata, gli congedò muniti di tutti i documenti, e di tutte le lettere domandate; essi perciò, dopo due giorni passati in Liccèe, presero la via diretta di Warra Ilù, dove arrivarono il giorno 6. di Luglio, dopo cinque giorni di penosissimo viaggio, battuti ogni giorno dalla pioggia, e stanchi di calpestare il fango.

reciproco bisogno di parlare Appena arrivati in Warra Ilù, nella crisi in cui eravamo, il mio lettore non stenterà ad imaginarsi, dopo tutto ciò che già ho narrato, il gran bisogno che sentivamo a vicenda di comunicarsi le cose passate; essi volevano sentire tutto il risultato delle mie conferenze avute col Re Menilik, ed io non [ero] meno impaziente di sapere delle loro conversazio- /144/ il gran problema del re ni col medesimo. Nel nostro cuore eravamo tutte [e] tre convinti che si trattava niente meno che del nostro esilio, ma [p. 109] pure fù sempre ancora un gran mistero quello di giudicare, se cioè il Re Menilik dovesse considerarsi consapevole e complice di tutte le decisioni che ebbero luogo alla corte dell’imperatore Giovanni a nostro riguardo. Il gran problema già da me detto sopra [così formulato]: o che il Re Menilik è un gran sciocco, oppure un gran fellone, [esso] rimaneva sempre insolubile. Il Re, sia con me, sia con loro conservò sempre tutta la sua antica cortesia e generosità, e stette sempre fermo nel dire che si trattava solo di una missione in Europa dei due miei compagni, e che io, terminate le conferenze coll’imperatore, sarei ritornato in Scioa. Io per prudenza, e per non moltiplicare le difficoltà e le afflizioni degli uni, e degli altri, non ho creduto bene di manifestare ai miei compagni, tutto ciò che mi disse il principe Masciascià in proposito della certezza del nostro esilio, ma dissi loro solamente che lo stesso principe credeva fermamente all’innocenza del Re ad ogni caso di esilio da noi supposto come certo.

consiglio di partenza Intanto premeva la partenza, perché le pioggie andavano sempre crescendo, e le aque dei fiumi e torrenti crescevano a gran forza per rendere più difficile il passo. Gli inviati del Re Menilik e dell’imperatore Giovanni, i quali avevano con loro cavalli, muli, e buoi da portare all’imperatore, già erano partiti prima ancora del mio arrivo, dicendo che ci avrebbero aspettati in strada a Saïnt, oppure al di là del fiume [p. 110] Bascillò, e rimase solo ad aspettarci un giovane della corte del Re Menilik, risponsabile delle nostre persone, ed incaricato della sua parola. Questi, d’accordo coll’amministrazione della corte del Re colà esistente, ci facevano gran premura di partire per il timore delle aque, e sopratutto del fiume Bascillò, il quale avrebbe potuto impedire il nostro passo al Beghemeder, ed obligarci a passare il tempo delle pioggie a Saïnt. ultime risoluzioni Dopo molte conferenze risolvettero di darci due giorni di tempo per il necessario riposo ai novellamente arrivati, e per organizzare la nostra carovana, divenuta troppo numerosa, e bisognosa di essere decimata, con rimandare indietro una parte [dei componenti]. Fratanto, siccome il Re aveva ordinato di somministrarci tutto il necessario per il viaggio, tanto per i viveri, quanto per le bestie di trasporto del bagaglio, l’amministrazione avrebbe fatto tutti [i] preparativi al uopo.

ancora divisione di famiglia Per parte nostra, prima di ogni altra cosa abbiamo dovuto fissare le persone che dovevano seguirci, e quelle che dovevano ritornare. Coi due compagni europei vennero più di dieci persone, una gran parte dalla missione galla di Finfinnì, ed altri da quella di Gilogov. Tutti /145/ questi uniti ai miei la nostra carovana sarebbe arrivata al numero al dissopra di venti, numero esorbitante. Quasi tutti avrebbero voluto seguirci ad ogni costo, ma pure era forza venire ad una risoluzione di rimandarne qualcheduno indietro. Dopo molte difficoltà ci riusci di escluderne cinque fra le persone più capaci di ajutare i rimasti sacerdoti, sia nel ministero apostolico, sia ancora per l’amministrazione materiale delle diverse missioni. ultime e misteriose lettere [6.7.1879] Ciò fatto, abbiamo passato una parte del nostro tempo [p. 111] a scrivere lettere, sia ai nostri di casa, e sia ancora a molte persone influenti, i quali avrebbero potuto assistere gli interessi della missione, tanto spirituali che temporali. Fra le molte lettere io non ho lasciato di scriverne una allo stesso Re, nella quale non ho lasciato di fargli noti alcuni nostri gravi timori; io lo benediva in certo modo per il bene fatto alla missione, ma la mia benedizione era avvolta da un certo linguagio di minacie paterne, le quali dovevano andargli al fondo del cuore, per lasciare nel medesimo un gran bisogno di pensare. ultima conferenza. Ciò fatto, se non erro, la sera del 7. Luglio, ho fatto, si può dire, l’ultima mia conferenza alla famiglia: conferenza piena di espressioni tenere e piene di speranza, ma nel tempo stesso anche fatidiche di un certo colore, come quello del cielo azzurro di certe imagini che pajono unirsi col cielo. Il mio cuore commosso, come suole essere in simili circostanze, mi faceva dire anche quello che avrei voluto nascondere.

Ho detto[:] l’ultima conferenza alla mia famiglia, perché dopo quella la mia posizione cangiò talmente, che, ossia per la stanchezza, ossia per la mia salute alterata, io sono divenuto come un’estraneo, ed un’essere passivo in mezzo alla mia stessa famiglia. L’indomani fu giorno di partenza e di strette di mano tale che valeva una stretta di cuore. Io lasciava l’ultima casa o corte del Re Menilik, dove non mancavano molte persone di antica conoscenza che mi amavano, e che mi erano [p. 112] anche molto care; io salutava l’ultima volta una parte dei miei giovani, i quali dovevano portare gli ultimi saluti anche alla gran famiglia della missione. un terzo abbandono del mondo L’uomo di Dio quando lascia i proprii parenti per farsi religioso, egli fa un piccolo sacrifizio, perché si tratta di un’amore più materiale che altro. Quando lascia il convento e la Provincia religiosa per andare alle missioni fa un sacrifizio più grande, perché lascia fratelli in Cristo molto cari, coi quali ha contratto anche vincoli materiali di amore, ma il suo sacrifizio è compensato da una missione così sublime, che stringendolo a Cristo mittente, lo stringe anche di più agli stessi fratelli che lascia, perché egli vive lontano, ma vive con loro nella vita del corpo di Cristo che è la Chiesa, nella quale le congregazioni religio- /146/ l’esilio peggiore della morte se sono altrettanti centri di vitalità. Ma chi può dire il sacrifizio di un missionario apostolico, il quale da una forza brutale viene all’improvviso strappato dal mezzo di una nazione barbara, dove ha generato molti figli, e gettato molti germi futuri di altri? è forze sufficiente l’idea di una madre che si vede morire circondata da figli pupilli, e con in seno un feto che deve morire con se prima di aprire gli occhj al mondo della Chiesa? La partenza da Warra Ilù fù per me una vera morte.

Nei momento di partire il mio cuore era così derelitto, che dissi a Monsignore mio coadjutore = io non ne posso più, prendete voi le redini della carovana che io vi abbandono. Così fù, da quel momento incomminciarono [p. 113] certi momenti di una malinconia, come di chi cammina verso il patibolo. Da quel momento scomparve dal mio cuore tutto il brio, che [non] mi aveva fin là mai fatto difetto. partenza da Warra Ilù [8.7.18791 In questo stato abbiamo lasciato Warra Ilù, abbiamo lasciato, possiamo dire, anche la missione del regno di Scioa dopo quasi dodeci anni di ministero e di fatiche di ogni genere. Tutti i nostri, tanto cattolici che semplicemente amici, erano molto lontani dal solo pensare, che si trattasse di un’esilio per sempre, epperciò il sacrifizio si consummava per allora semplicemente nel nostro cuore, altrimenti sarebbero avvenuti certamente dei guai. Secondo l’uso del paese, il primo giorno della partenza [non] è per lo più mai un giorno di gran viaggio, sia per le difficoltà di lasciare un paese di amici, sia ancora per la difficoltà di organizzare la carovana, rimanendo sempre ancora indietro qualche cosa. Di quella giornata perciò non si fecero più di cinque o sei kilometri al nord-nord-ovest e si fece alto in [Haia-Mieda] un villagio non molto lontano da Warra Ilù, e dalla riva del fiume, che segnava i confini antichi di Scioa e dei principati Wollo conquistati.

prima stazione La sera, appena preso un poco di riposo, e detto un poco di officio, siamo sortiti in compagnia di un vecchio di quel villagio per prendere un poco di aria ed orizzontarsi del paese, e della strada che si doveva fare. uno sguardo all’orizzonte Il nostro vecchio che ci accompagnava [p. 114] ci fece vedere all’ovest il basso del Nilo azzurro, e al di là le altezze del Gogiam; più vicino al Sud la bassa provincia di Marabietiè, la fortezza di Tammo, e più lontano l’altezza e la città di Ennawari; quindi girando l’occhio più all’Est avrei veduto perdersi nell’orizzonte le altezze di Ankober, di Gorabela, di Kondì, dove, di qua e di là esistevano molte delle nostre case, e dei nostri cattolici, ma non ebbi coraggio neanche di vedere, per non accrescere la piaga del cuore che mi opprimeva. Monsignor Coadjutore, ed il P. Luigi Gonzaga con un’occhio di dolore rivolto al Sud salutavano per l’ultima volta Gilogov, Finfinnì, Antotto, Kataba, ed i Gallan: /147/ Monsignore, mi dissero, benedica il nostro P. Ferdinando, e tutti quei paesi che noi lasciamo nelle sue mani, affinché custodisca il cuore, e tanti figli, che appena incomminciavano a gustare le dolcezze della vita cristiana.

il principe Adera Villi. Rivolto quindi al nord, sopra un’altezza si vedevano [i] ruderi di un villagio antico[co], e domandai al nostro vecchio cosa fosse? Era, rispose egli, l’antica città di Adera Villi principe di questo paese, stato ucciso dall’imperatore Teodoro. [† 1853] Adera Villi, dissi io, quello che ha spogliato Meister Kraf nei tempi di Selaselassie? Appunto, rispose egli, ed in quello stesso luogo; io mi trovava presente a quella barbara esecuzione; ma voi dovete sapere, che Adera Villi non avrebbe fatto un’atto così crudele ad un raccomandato dal gran Re Selasalassie, se questi non fosse stato d’accordo; noi musulmani abbiamo [p. 115] il nome di essere cattivi, ma i cristiani sono più cattivi di noi, perché essi sono traditori: storia di Kraf
[nello Scioa: 29.5.1839-12.3.1842;
depredato poco dopo]
Meister Kraf era amico di Selasalassie, e stette molti anni con lui, ma poi, inimicatosi per causa dei suoi preti lo mandò via; egli non volle spogliarlo, ma lo fece spogliare dal mio Padrone. I fucili di Kraf e le cose più preziose furono subito mandati al gran Re Selasalassie. Ora una confessione così semplice e schietta non ha bisogno di commenti al mio lettore per fargli capire la civilizzazione della povera Abissinia, per norma dei viaggiatori nella medesima. Dopo tutto ciò il buon vecchio mi domandò, se Meister Kraf era mio fratello. No, risposi io schietto, anzi nella fede era un mio nemico, ma fosse anche stato un musulmano, oppure un galla, oppure qualunque altro: nel caso nostro dobbiamo sempre considerarci come fratelli. (1d)

L’indomani 9. Luglio partendo da quella prima stazione, abbiamo sempre tenuto poco presso la direzione Nord. Io non mi fermo a descrivere al minuto tutti quei paesi nel suo regno vegetale, perché sarebbe una cosa troppo monotona. prodotti dei paesi alti Tutti quei paesi alti producono solamente orzo, raramente fromento, o qualche altro legume in certi siti un poco più riparati dai venti. Tutto quell’alto piano è leggermente undeggiato di collinette, parte coltivate, e parte [adibite a] pascolo; esso però e quasi affatto privo di alberi a segno che gli abitanti trovano [p. 116] difficilmente legna per la costruzione delle loro capanne, e per il fuoco di casa devono servirsi dello sterco bovino secco; manca anche in quelle /148/ altezze quella certa erba, che nei paesi un poco più bassi serve per coprire le case, devono servirsi invece della paglia di orzo, meno alta e poco durevole. L’erba di quelle altezze è di un genere proprio che non cresce, ma serve mirabilmente per i pascoli. Per questa ragione la vera richezza di simili altezze sta nei bestiami di ogni genere, non solo bovini e pecorini, ma di cavalli bellissimi, di muli, e di asini per il trasporto. Benché quei paesi fossero stati più volte spogliati barbaramente in tutte le guerre che dovettero sostenere con Teodoro, e col Re Menilik, pure nel nostro passaggio trovammo ancora delle mandre in quantità.

arrivo ai Galla Legambo
[a Merka-Mecia: 9.7.1879]
Noi dunque nella direzione Nord abbiamo camminato due giorni; la sera del secondo giorno siamo sortiti dall’antico principato di Adera Villi, e siamo entrati in un’altro principato detto Legambo, di cui, nel mio viaggio precedente, era principe un certo Abba Salama, il quale nel 1849. si trovava in guerra con Toko Brillè, motivo per cui nel nostro viaggio di quel tempo, non si è potuto ottenere il passaggio per Legambo, ed abbiamo dovuto tenere la via più al nord, partendo da Saïnt, e toccare il paese di Horro haj̈manò governato allora da Aly-Babola, per arrivare ai Worro Kallo paese allora di Berrù-Lubò, altro zio di Ras Aly, come è stato detto a suo tempo. Il paese dei Legambo galla è forze il paese più alto di tutto quell’alto piano, noi dunque la sera del secondo giorno, o meglio del terzo giorno, [p. 117] se contiamo [il percorso compiuto] da Warra Ilù, siamo arrivati a passare la notte ai piedi di una elevazione, o specie di montagna [Uelelet: 10.7.1879] ad un grosso villagio, antica città o campo di Abba Salama suddetto, principe stato vinto ed ucciso dall’imperatore Teodoro. un bel ricevimento Siamo stati ricevuti in quel villagio da un messeleniè o Procuratore del Re Menilik che io aveva conosciuto alla corte di quel Re, e fummo ricevuti e trattati molto bene. Noi eravamo tutti bagnati dalla pioggia che mai cessò in quel giorno, ed egli ci fece fare dei gran fuochi per asciugarci, cosa molto difficile in quel paese, dove la legna da fuoco manca. Dopo il fuoco ci diede della buona birra ed anche dell’idromele, che ci confortò. L’amico avrebbe voluto regalarci anche un bove, ma noi ci siamo contentati di un bel castrato, il quale fù più che sufficiente per la nostra famiglia. Come il paese era tutto musulmano, e noi non potevamo fermarci, un bove sarebbe stato troppo, e dopo la nostra partenza nessuno avrebbe mangiato il resto della carne ammazzata da noi. (1e)


(1a) Il Principe di cui è [è] questione è un certo [n. c. 1850-† 1919] Mahumed Aly figlio di Aly Babola Padrone di Horròhaijmanò zio di Ras Aly dalla parte della madre Ozzoro Menen, dei quali già si è parlato. Questo principe, figlio di una schiava, diventò erede di Aly babola suddetto dopo la morte del suo fratello Amedy stato ucciso da Teodoro in Magdala nel 1868. Sposò quindi una [Manalebisc] figlia di Bafana, e diventò suo favorito nella rivolta. [Torna al testo ]

(1b) Alcuni viaggiatori abusano anche troppo della nostra credulità facendo supporre ciò che non è. L’arte di sedurre l’occhio e la passione del uomo ha un vero calcolo satanico nei nostri teatri, e nelle nostre conversazioni. Se qualche volta frà i barbari la miseria, e l’estremo bisogno scopre ciò che deve essere coperto, invece di stuzzicare la passione, eccita il ribrezzo e la compassione, come cogli ammalati. La nudità dei bimbi poi non fa il caso nostro, essa invece solleva il cuore allo stato d’innocenza. [Torna al testo ]

(1c) Nei primi anni del mio ingresso in Etiopia ho veduto in certi paesi, anche del nord e nello stesso Tigrè delle persone vestite di drappo nero con una tonaca quasi talare cinti alle reni di corda. Da lontano ho creduto di vedere [dei] francescani, ma poi ho saputo che erano donne dei contadini. Per due ragioni non ho potuto utilizzare questo drappo per un’abito religioso. La prima, perché una simile tonaca è propria della donna. La seconda ragione è stata la difficoltà di allontanare la vermina molto dominante in quei paesi. [Torna al testo ]

(1d) Il mio lettore troverà questa storia molto addietro nelle conversazioni [tenute] col Signor Mekev inviato del Re Menilik in Aden in tutto il mio viaggio fatto col medesimo da Aden al regno di Scioa nell’anno 1868. Il Signor Mekev fù un discepolo di Kraf che lo accompagnò nel suo esilio sino all’Egitto. [Torna al testo ]

(1e) In quei paesi la principale distinzione tra cristiani e musulmani consiste nel non mangiare la carne ammazzata dai cristiani, e vicendevolmente i cristiani [quella macellata] dai musulmani. In /149/ tutto il rimanente si vede molta tolleranza, anche troppa, perché i cristiani si maritano coi musulmani, e così questi coi cristiani. Questa mescolanza facilita l’apostasia. Cessata da secoli l’istruzione cristiana, la fede diventa una semplice distinzione, di razza e di nazione, come in quasi tutto l’oriente. Un vecchio deposito di panteismo asiatico non manca in tutte quelle razze, ed a mio giudizio è quello che abbassa il prestigio della religione rivelata. [Torna al testo ]