Agostino d’Ippona
La Regola

Maurizio Pistone
Introduzione
[Da: Vezzolano, Guida alla Canonica Regolare di Santa Maria
Seconda edizione, Edizioni del Capricorno, Torino 2018]

1. Sant’Agostino e la vita comune del clero

Durante l’Impero Romano l’Africa Settentrionale era uno dei principali centri di civiltà. Dopo la ricostruzione di Cartagine, che assunse il nome di Colonia Iulia Concordia Karthago, ad opera di Ottaviano Augusto (29 a.C.), un crescente flusso di coloni era partito dall’Italia ancora sconvolta e impoverita dalle conseguenze delle guerre civili e si era riversato su quelle fertili terre, dando vita ad una società fiorente, caratterizzata da un radicato senso di identità italica. Città principali dell’Africa Proconsularis, oltre a Cartagine, erano Cirta, Ippona, Utica, abitate da discendenti dei soldati romani. Non è un caso che, assai prima di Agostino, venga dall’Africa il primo grande scrittore cristiano in lingua latina, Tertulliano (155-230).

La vita di Agostino (354-430) occupa l’ultima parte della storia dell’Africa romana e cristiana: già durante la sua vita gravi conflitti religiosi e sociali avevano caratterizzato il diffondersi del movimento donatista, che Agostino combatté con tutte le sue forze; intanto i Germani dilagavano in tutto l’Impero, e nel 430 i Vandali di Genserico giunsero ad Ippona: il 28 gennaio di quell’anno Agostino moriva nella città assediata, di cui era vescovo.

Aurelio Agostino era nato a Tagaste, odierna Souk Ahras nell’attuale Algeria, un piccolo centro a circa 70 km. da Ippona (oggi Annaba). Manifestò subito, oltre a un carattere esuberante e inquieto, vivaci interessi culturali, che lo portarono a seguire diverse scuole filosofiche e religiose fino all’approdo al Cristianesimo. In questa conversione fu determinante l’influenza della madre Monica, cristiana fervente, e di sant’Ambrogio, che Agostino conobbe a Milano dopo un lungo peregrinare tra l’Africa e l’Italia.

Subito dopo aver ricevuto il battesimo, cominciò a coltivare l’ideale di una vita monastica, seguendo modelli che, nati in Oriente, si erano diffusi anche nell’Occidente cristiano, dove uomini consacrati a Dio conducevano una vita solitaria (eremiti) o si riunivano in cenobi o case comuni.

Tornato nella sua Tagaste nel 388, cominciò a organizzare intorno a sé un gruppo di giovani decisi a condividere con lui una vita dedita all’“ozio” religioso, cioè alla preghiera e al culto, in un clima di totale armonia e condivisione.

Nel 391, nonostante le sue resistenze, fu ordinato sacerdote da Valerio, vescovo di Ippona; quando questi, ormai in età avanzata, chiese che qualcuno lo assistesse, Agostino fu nominato vescovo coadiutore (395). Si rese subito conto che la nuova carica non era compatibile con la vita riservata del cenobio di Tagaste; si trasferì quindi nella casa vescovile d’Ippona, dove però volle condividere con il suo clero gli stessi ideali di vita comunitaria che aveva sviluppato nella sua città natale. Egli rimase ugualmente il punto di riferimento spirituale della sua antica comunità, così come stimolò la nascita e seguì lo sviluppo di altre case di religiosi, fra cui quella femminile, guidata da una sua sorella.

Agostino rappresenta quindi uno snodo fondamentale sia nella storia del movimento monastico sia nella nascita delle comunità diocesane. La regola agostiniana fu diffusa in tutto l’Occidente ed ebbe grande influenza anche sugli altri ordini monastici. Le canoniche regolari ebbero fin dall’inizio come modello ispiratore la comunità che si era raccolta attorno al vescovo d’Ippona.

Distinto dal movimento dei canonici regolari fu l’ordine monastico agostiniano, nato da piccoli gruppi di eremiti che, nel 1256, si riconobbero nell’ordine degli Eremitani di Sant’Agostino.

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2. Il testo della Regola

La Regola agostiniana ha sempre posto problemi testuali complessi. Essa non è mai citata direttamente né da Agostino stesso nelle altre sue opere, né dal suo biografo Possidio, che lo conobbe personalmente.

Di questa Regola anticamente circolavano numerose versioni, variamente tramandate. Una diffusa tradizione medioevale le riuniva col nome di Regula prima, Regula secunda, Regula tertia, e si supponeva che fossero state redatte da Agostino in circostanze successive per tre monasteri diversi.

1. Come Prima si indicava la cosiddetta la Consensoria Monachorum, oggi attribuita ad autore incerto, ma di probabile origine dalla Spagna visigotica, e diffusa soprattutto nel monachesimo spagnolo e galiziano.

2. La Secunda era il cosiddetto Ordo Monasterii, un testo piuttosto breve, che nella prima parte elenca in modo dettagliato le letture, i canti e le preghiere che devono scandire la vita quotidiana dei religiosi, nella seconda parte enuncia norme di vita molto rigorose: si prescrive il lavoro manuale per parecchie ore al giorno, il silenzio, e sono perfino contemplate punizioni corporali per i giovani indisciplinati. Questo testo, secondo la critica moderna, non sembra opera di Agostino, ma proviene probabilmente da un monastero africano dei suoi tempi, e se il Santo non l’ha composta, forse l’ha conosciuta e approvata.

3. Come Tertia si considerava un testo, più ampio, indicato anche come Praeceptum o Regula ad servos Dei, in cui sono enunciate le finalità morali e spirituali della vita monastica. Più che elencare delle norme rigidamente prescrittive questa Regola esalta il valore della concordia che deve regnare all’interno di un convento.

Molti manoscritti contenevano combinazioni di questi testi; in genere il Praeceptum era preceduto dall’Ordo Monasterii (l’insieme è indicato come Praeceptum longius). Tra i vari manoscritti c’erano inoltre delle varianti testuali più o meno importanti.

Del Praeceptum circolava anche, col nome di Regularis Informatio, un’antica versione femminile, per i monasteri di religiose; è del resto noto che Sant’Agostino aveva curato anche il sorgere di case di vita religiosa per donne, una delle quali era diretta da una sua sorella. La versione femminile era solitamente preceduta dalla cosiddetta Obiurgatio (“Rimprovero”), indicata nell’edizione delle Opere come Lettera 211; in essa il Santo ammonisce le monache ad abbandonare atteggiamenti contrari alla disciplina.

Gli studiosi hanno discusso a lungo se la Regola femminile derivasse da quella maschile, o il contrario. La tesi che considerava come testo originario della “terza” regola la versione femminile fu sostenuta da personalità autorevolissime come Erasmo da Rotterdam e il cardinale Bellarmino. Oggi questa posizione non ha più seguaci, e l’opinione prevalente è che Sant’Agostino sia l’autore del solo Preaceptum, nella versione maschile.

Si noti che la Regola agostiniana mette a capo del convento, accanto al praepositus (prevosto, superiore), un presbyter (prete). Essa era quindi stata concepita originariamente da Agostino per un monastero di laici, non per la casa episcopale di Ippona. Richiedeva quindi un adattamento per i canonici, i quali sono in linea di principio tutti ecclesiastici.

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3. Una regola in cerca d’autore

Fondazioni di canoniche regolari furono numerose già nel corso della cosiddetta Rinascita Carolingia, fra l’VIII e il IX secolo; ma a quell’epoca si preferiva un’interpretazione mitigata delle norme di condotta, poiché si riteneva che gli ideali originari di vita ascetica e di rinuncia totale ai beni terreni non fossero totalmente applicabili1.

Molte di queste canoniche avevano norme proprie, che nascevano da esigenze particolari. Fra queste si possono citare le disposizioni di Crodegango, arcivescovo di Metz (712-766), che fu consigliere in materia religiosa di Pipino il Breve, e spinse il clero della sua diocesi a riunirsi in comunità modellate sullo stile di vita benedettino, ma senza l’obbligo assoluto di rinuncia alla proprietà e con alcune eccezioni all’obbligo di vita comune.

Nell’816 ad Aquisgrana fu elaborata una nuova regola, che combinava testi di diversi autori, fra cui San Girolamo e Sant’Agostino, ma che ugualmente non imponeva l’obbligo assoluto di comunione “apostolica” dei beni. Questa regola, che portava il nome della prestigiosa capitale carolingia e aveva l’approvazione dell’imperatore Ludovico il Pio, ebbe una grande diffusione, suscitando reazioni a volte violente da parte di autori che ne denunciavano lo stile di vita troppo rilassato, assai lontano dal rigore del movimento monastico. Essa rimase stabilita come “regola canonica” almeno fino al tempo della fondazione di Vezzolano

Il ritorno ad una vita ad instar primitivae ecclesiae (“secondo il modello della Chiesa primitiva”) era l’ideale proposto dal Sinodo del 1059 (vedi cap. 1.3); le canoniche che seguivano un’interpretazione rigorosa della “vita apostolica”, o “canoniche riformate”, furono una sorta di bandiera della Riforma Gregoriana; e la loro grande diffusione fra la seconda metà dell’XI e il XII secolo è un segnale della profonda penetrazione di questo movimento religioso nella società del tempo.

Ai tempi della Riforma gregoriana, quando si parlava di “regola agostiniana” non sempre si indicava un testo preciso, ma più genericamente un richiamo ideale ai principi ascetici esaltati nelle opere di Agostino. In alcuni casi si trattava della Regola di Aquisgrana emendata da quelle norme che autorizzavano la conservazione dei beni di proprietà personale.

Si poneva quindi la necessità di superare la regola di Aquisgrana, per conformarsi all’ideale di vita ascetica e comunitaria. Un segno di questa tormentata evoluzione si trova nell’atto di fondazione della comunità di Vezzolano. Il testo del 1095 ha carattere insolito per un documento notarile: gli aspetti relativi alla concessione di proprietà fondiarie sono trattati in modo molto sommario (si è anche supposto che tali questioni fossero precisate in un allegato), mentre s’insiste sugli aspetti propriamente normativi della vita comune. Il riferimento è la regola «canonica» (secundum canonicam regulam), ma a essa si aggiungono puntualizzazioni che ne correggono il carattere mitigato per quanto riguarda i temi chiave della rinuncia alla proprietà personale e della vita comune2.

Mancava ancora un testo di riferimento che recepisse questo comune orientamento. Fu decisiva per l’evoluzione della questione la vicenda di Norberto di Xanten (circa 1080-1134), il quale, dopo aver abbandonato la canonica della sua città natale ed essersi dato a una vita rilassata, tornò alla vocazione religiosa, cercando però l’ispirazione per uno stile di vita più rigoroso, che superasse le consuetudini tradizionali. Per un lungo periodo fu predicatore itinerante e nel 1118 ottenne da papa Gelasio II l’autorizzazione ad adottare la regola agostiniana, che applicò dal 1120 con la fondazione della comunità di Premontré. Rimaneva da stabilire quale delle Regole attribuite a sant’Agostino fosse la prescelta. Norberto insisteva sull’Ordo Monasterii, da lui giudicato più rigoroso, nella stringatezza e brevità delle prescrizioni; ma le autorità papali orientavano la loro preferenza verso la Regula ad servos Dei. In un clima storico e religioso ormai profondamente mutato, il concilio Laterano IV (1215) stabilì l’obbligo, per tutti i monasteri veri e propri, di adottare la regola di san Benedetto; per tutti gli altri tipi di comunità religiose, fra cui le canoniche regolari, era prescritta quella di sant’Agostino, intendendo con quest’ultima la Regula ad servos Dei. L’Ordo Monasterii fu ridotto al solo primo paragrafo, con il richiamo all’amore evangelico:

Sopra ogni cosa, fratelli carissimi, si ami Dio, quindi il prossimo, poiché questi sono i precetti che principalmente ci sono dati.

Il tema della regola agostiniana rimase importante all’interno del dibattito teologico e culturale anche nelle epoche successive; esaurendosi poco per volta l’impulso alla diffusione delle comunità canonicali, lo sviluppo dell’umanesimo mise a disposizione più raffinati strumenti d’indagine filologica.

Nei secoli XVII e XVIII, poco per volta, sulla regola agostiniana scese il silenzio: le canoniche regolari si riducevano di numero e perdevano adesioni; alla fine, furono travolte dalla Rivoluzione francese e dalle successive soppressioni un po’ in tutta Europa.

Gli studi sulla regola agostiniana ripresero a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, quando poterono contare su materiali bibliografici più vasti e più puntuali ricognizioni di manoscritti.

Purtroppo non sappiamo quale versione della regola fosse in vigore a Vezzolano: ancora un inventario del 1744 cita un volume in cartapecora contenente le Costituzioni di Sant’Agostino, ma di questo documento non è rimasta traccia.

Per informazione del lettore, in appendice a questo volumetto proponiamo i testi della seconda e della terza regola, secondo l’edizione critica oggi ritenuta più affidabile3.

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Ordo Monasterii4

1. Ante omnia, fratres carissimi, diligatur Deus, deinde et proximus, quia ista sunt praecepta principaliter nobis data5.

1. Sopra ogni cosa, fratelli carissimi, si ami Dio, quindi il prossimo, poiché questi sono i precetti che principalmente ci sono dati.

2. Qualiter autem nos oportet orare vel psallere describimus: id est in matutinis dicantur psalmi tres: sexagesimus secundus, quintus et octogesimus nonus; ad tertiam prius psalmus unus ad respondendum dicatur, deinde antiphonae duae, lectio et conpletorium; simili modo sexta et nona; ad lucernarium autem psalmus responsorius unus, antiphonae quattuor, item psalmus unus responsorius, lectio et conpletorium. Et tempore oportuno post lucernarium, omnibus sedentibus, legantur lectiones; post haec autem consuetudinarii psalmi ante somnum dicantur. Nocturnae autem orationes, mense novembri, decembri, ianuario et februario, antiphonae duodecim, psalmi sex, lectiones tres; martio, aprili, septembri et octobri, antiphonae decem, psalmi quinque, lectiones tres; maio, iunio, iulio et augusto antiphonae octo, psalmi quattuor, lectiones duae.

2. Descriviamo ora in che modo si debba pregare e cantare i salmi. Nel mattutino si dicano tre salmi: il sessantaduesimo, il quinto e l’ottantanovesimo. Nell’ora terza, si dica per prima cosa un salmo con responsorio, quindi due antifone, una lettura, ed una preghiera conclusiva; in modo simile all’ora sesta e nona; all’accensione delle lucerne (Vespro) un salmo responsorio, quattro antifone, di nuovo un salmo responsorio, quindi una lettura e una preghiera conclusiva. Al tempo opportuno dopo le preghiere della sera, mentre tutti sono seduti, si leggano le letture; quindi si leggano i salmi consueti prima del sonno. Siano le orazioni notturne nel mese di novembre, dicembre, gennaio e febbraio, dodici antifone, sei salmi, tre letture; in marzo, aprile, settembre ed ottobre, dieci antifone, cinque salmi, tre letture; in maggio, giugno, luglio e agosto, otto antifone, quattro salmi, due letture.

3. Operentur a mane usque ad sextam, et a sexta usque ad nonam vacent lectioni, et ad nonam reddant codices, et, postquam refecerint, sive in horto, sive ubicumque necesse fuerit, faciant opus usque ad horam lucernarii.

3. I fratelli lavorino dal mattino fino all’ora sesta, e da sesta a nona siano liberi dalle letture; all’ora nona restituiscano i libri, e dopo la refezione lavorino nell’orto, o dovunque sia necessario, fino all’ora delle lucerne.

4. Nemo sibi aliquid suam vindicet proprium, sive in vestimento, sive in quacumque re; apostolica enim vita optamus vivere6.

4. Nessuno rivendichi alcunché come proprio, sia negli abiti, sia in qualunque altra cosa; desideriamo infatti vivere la vita degli Apostoli.

5. Nemo cum murmurio aliquid faciat, ut non simili iudicio murmuratorum pereat7.

5. Nessuno faccia alcunché mormorando, affinché non perisca del giudizio che tocca a chi mormora.

6. Fideliter oboediant, patrem suum honorent post Deum, praeposito suo deferant sicut decet sanctos.

6. Obbediscano con fedeltà, onorino il loro Padre subito dopo Dio, e onorino il loro superiore come è giusto che facciano i santi.

7. Sedentes ad mensam taceant audientes lectionem. Si autem aliquid opus fuerit, praepositus eorum sit sollicitus. Sabbato et dominica, sicut constitutum est, qui volunt, vinum accipiant.

7. Seduti a tavola tacciano, mentre ascoltano la lettura. Se però c’è bisogno di qualcosa, il loro superiore se ne occupi subito. Il sabato e la domenica, secondo quanto stabilito, quelli che lo desiderano prendano del vino.

8. Si opus fuerit ad aliquam necessitatem monasterii mitti, duo eant. Nemo extra monasterium sine praecepto manducet neque bibat, non enim hoc ad disciplinam pertinet monasterii. Si opera monasterii mittantur fratres vendere, sollicite observent ne quid faciant contra praeceptum, scientes quia Deum exacerbant in servis ipsius; sive aliquid emant ad necessitatem monasterii, sollicite et fideliter, ut servi Dei agant.

8. Se per qualche necessità del monastero c’è bisogno di uscire, vadano in due. Nessuno mangi o beva fuori dal monastero se non per ordine espresso, poiché questo è in contrasto con la disciplina del monastero. Se per necessità del monastero dei fratelli saranno incaricati di vendere qualcosa, stiano bene attenti a non fare nulla contro l’incarico ricevuto, sapendo che altrimenti offendono Dio nei suoi servitori; allo stesso modo, se compreranno qualcosa per le necessità del monastero, lo facciano con scrupolo e sollecitudine, da servitori di Dio.

9. Otiosum verbum apud illos non sit. A mane ad opera sua sedeant. Post orationes tertiae eant similiter ad opera sua. Non stantes fabulas contexant, nisi forte aliquid sit pro animae utilitate. Sedentes ad opera taceant, nisi forte necessitas operis exegerit, ut loquatur quis.

9. Non ci sia fra loro parola oziosa. Fin dal mattino attendano al loro lavoro. Dopo le preghiere dell’ora terza tornino al lavoro. Non stiano a far discorsi fra di loro, se non per cosa che torni utile alla loro anima. Durante il lavoro tacciano, a meno che non intervenga qualche necessità di parlare per l’opera a cui attendono.

10. Si quis autem non omni virtute, adiuvante misericordia Domini, haec conatus fuerit implere, contumaci vero animo despexerit, semel atque iterum commonitus, si non emendaverit, sciat se subiacere disciplinae monasterii sicut oportet. Si autem talis fuerit aetas ipsius, etiam vapulet.

10. Se qualcuno non si impegnerà a rispettare con tutte le sue forze e con l’aiuto della misericordia divina questi comandi, ma al contrario li disprezzerà con animo ribelle, e se, dopo essere stato ammonito una volta ed una seconda, non si emenderà, dovrà essere sottoposto alla disciplina del monastero. Qualora l’età lo permetta, sia anche battuto.

11. Haec autem in nomine Christi fideliter et pie observantes et vos proficietis et nobis non parva erit laetitia de vestra salute. Amen.

11. Osservando tutte queste cose fedelmente e piamente in nome di Cristo voi progredirete e noi avremo grande gioia per la vostra salvezza. Amen.

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Praeceptum8 (Regula ad Servos Dei)

1. 1. Haec sunt quae ut observetis praecipimus in monasterio constituti.

1. 1. Questi sono i precetti che comandiamo, affinché voi che siete stabiliti nel monastero li osserviate.

1. 2. Primum, propter quod in unum estis congregati, ut unianimes habitetis in domo et sit vobis anima una et cor unum in Deum.

1. 2. Per primo, poiché siete riuniti in un solo corpo, comandiamo che abitiate concordi nella casa e abbiate una sola anima ed un solo cuore rivolto a Dio.

1. 3. Et non dicatis aliquid proprium, sed sint vobis omnia communia, et distribuatur unicuique vestrum a praeposito vestro victus et tegumentum, non aequaliter omnibus, quia non aequaliter valetis omnes, sed potius unicuique sicut cuique opus fuerit. Sic enim legitis in Actibus Apostolorum, quia erant illis omnia communia et distribuebatur unicuique sicut cuique opus erat9.

1. 3. E non dite di alcuna cosa: è mio, ma tutte le cose siano fra di voi comuni, e cibo e abiti siano distribuiti a ciascuno di voi dal vostro superiore; ma non in modo uguale fra tutti, poiché non ugualmente siete in salute, piuttosto a ciascuno secondo il suo bisogno. Così infatti leggete negli Atti degli Apostoli: Tutte le cose erano fra di loro comuni, ed a ciascuno era dato secondo il suo bisogno.

1. 4. Qui aliquid habebant in saeculo, quando ingressi sunt monasterium, libenter illud velint esse commune.

1. 4. Quelli che nella vita del mondo avevano qualcosa, dal momento in cui sono entrati nel monastero, lo diano spontaneamente alla comunità.

1. 5. Qui autem non habebant, non ea quaerant in monasterio quae nec foris habere potuerunt. Sed tamen eorum infirmitati quod opus est tribuatur, etiam si paupertas eorum, quando foris erant, nec ipsa necessaria poterat invenire. Tantum non ideo se putent esse felices, quia invenerunt victum et tegumentum, quale foris invenire non poterant.

1. 5. Quelli invece che non avevano nulla, non chiedano nel monastero quello che non potevano avere neppure fuori. Purtuttavia si dia ciò che è necessario a sostenere la loro infermità, anche se la loro povertà, quando erano fuori, non poteva trovare neppure l’indispensabile. Soltanto, non ritengano di essere felici per aver trovato quel cibo e quell’abito che fuori non trovavano.

1. 6. Nec erigant cervicem, quia sociantur eis ad quos foris accedere non audebant, sed sursum cor habeant et terrena vana non quaerant, ne incipiant esse monasteria divitibus utilia, non pauperibus, si divites illic humiliantur et pauperes illic inflantur.

1. 6. Né montino in superbia perché ora sono uniti a coloro ai quali fuori non osavano avvicinarsi, ma stiano di buon animo, e non chiedano vani beni terreni, altrimenti i monasteri cominceranno a diventare utili ai ricchi, ma non ai poveri, se i ricchi si umilieranno, mentre i poveri si daranno arie.

1. 7. Sed rursus etiam illi qui aliquid esse videbantur in saeculo non habeant fastidio fratres suos, qui ad illam sanctam societatem ex paupertate venerunt. Magis autem studeant, non de parentum divitum dignitate, sed de pauperum fratrum societate, gloriari. Nec extollantur, si communi vitae de suis facultatibus aliquid contulerunt, nec de suis divitiis magis superbiant, quia eas monasterio partiuntur, quam si eis in saeculo fruerentur. Alia quippe quaecumque iniquitas in malis operibus exercetur ut fiant, superbia vero etiam bonis operibus insidiatur ut pereant; et quid prodest dispergere dando pauperibus et pauperem fieri, cum anima misera superbior efficitur divitias contemnendo, quam fuerat possidendo?

1. 7. Ma d’altra parte anche quelli che credevano d’essere qualcuno nel mondo non guardino con fastidio i loro fratelli, che giunsero a quella santa società dalla miseria. Anzi si sforzino d’essere orgogliosi non della gloria di genitori ricchi, ma della società con fratelli poveri. Non si esaltino, se hanno contribuito con qualcosa delle loro ricchezze alla vita comune, né si insuperbiscano per aver distribuito le loro ricchezze nel mona­stero più di quanto farebbero se le avessero godute nel mondo. Infatti ogni altro vizio fa sì che si compiano nuove cattive azioni, ma la superbia corrompe anche le buone azioni fino a farle perire; e a che giova spogliarsi dei beni e darli ai poveri e diventare poveri, se la misera anima diventa più superba nel disprez­zare le richezze di quanto lo era nel possederle?

1. 8. Omnes ergo unanimiter et concorditer vivite, et honorate in vobis invicem Deum cuius templa facti estis.

1. 8. Vivete dunque tutti unanimi e concordi, ed onorate in voi reciprocamente Dio di cui siete fatti tempio.

2. 1. Orationibus instate horis et temporibus constitutis.

2. 1. Dedicatevi alle preghiere nelle ore e nei tempi stabiliti.

2. 2. In oratorio nemo aliquid agat nisi ad quod est factum, unde et nomen accepit; ut si forte aliqui, etiam praeter horas constitutas, si eis vacat, orare voluerint, non eis sit impedimento, qui ibi aliquid agendum putaverit.

2. 2. Nell’oratorio nessuno faccia alcunché se non ciò per cui esso è fatto e da cui trae il nome; affinché se alcuni, non avendo altra occupazione, volessero pregare anche al di fuori delle ore stabilite, non vi sia loro impedimento da parte di chi avrà ritenuto di farvi altre cose.

2. 3. Psalmis et hymnis cum oratis Deum, hoc versetur in corde quod profertur in voce.

2. 3. Quando pregate Dio con salmi e inni, si mediti nel cuore ciò che si dice con la voce.

2. 4. Et nolite cantare, nisi quod legitis esse cantandum; quod autem non ita scriptum est ut cantetur, non cantetur.

2. 4. E non cantate se non ciò che è prescritto che si canti; ciò che non è espressamente destinato al canto, non si canti.

3. 1. Carnem vestram domate ieiuniis et abstinentia escae et potus, quantum valetudo permittit. Quando autem aliquis non potest ieiunare, non tamen extra horam prandii aliquid alimentorum sumat, nisi cum aegrotat.

3. 1. Domate la vostra carne con i digiuni e l’astinenza dal cibo e dalle bevande per quanto la vostra salute lo permetta. Ma se qualcuno non può digiunare, non prenda ugualmente cibo al di fuori dell’ora del pranzo, a meno che non sia malato.

3. 2. Cum acceditis ad mensam, donec inde surgatis, quod vobis secundum consuetudinem legitur, sine tumultu et contentionibus audite; nec solae vobis fauces sumant cibum, sed et aures esuriant Dei verbum.

3. 2. Da quando vi accostate alla mensa, fin quando vi alzate, ascoltate senza rumore e confusione ciò che vi si legge secondo la consuetudine; affinché voi non solo con la bocca siate nutriti, ma anche le orecchie siano affamate della parola di Dio.

3. 3. Qui infirmi sunt ex pristina consuetudine, si aliter tractantur in victu, non debet aliis molestum esse nec iniustum videri, quos facit alia consuetudo fortiores. Nec illos feliciores putent, quia sumunt quod non sumunt ipsi, sed sibi potius gratulentur, quia valent quod non valent illi.

3. 3. Se alcuni hanno un trattamento speciale nel vitto, poiché sono più deboli a causa del precedente tenore di vita, ciò non deve dare fastidio o sembrare ingiusto a coloro che per diversa abitudine sono più forti. Questi non dovranno considerare più felici quegli altri, che ricevono più di ciò che hanno loro, ma piuttosto si rallegrino di godere di maggiore vigore.

3. 4. Et si eis, qui venerunt ex moribus delicatioribus ad monasterium, aliquid alimentorum, vestimentorum, stramentorum, operimentorum datur, quod aliis fortioribus et ideo felicioribus non datur, cogitare debent quibus non datur, quantum de sua saeculari vita illi ad istam descenderint, quamvis usque ad aliorum, qui sunt corpore firmiores, frugalitatem pervenire nequiverint. Nec debent velle omnes, quod paucos vident amplius, non quia honorantur, sed quia tolerantur, accipere, ne contingat detestanda perversitas, ut in monasterio, ubi, quantum possunt, fiunt divites laboriosi, fiant pauperes delicati.

3. 4. E se a coloro che sono arrivati al monastero da condizioni più raffinate si danno alimenti, abiti, letti e coperte che non si danno agli altri, che sono più rudi, e proprio per questo più felici, coloro che non ricevono queste cose devono pensare quanto quegli altri siano scesi dalle condizioni di vita secolare, pur senza aver potuto eguagliare la frugalità di coloro che sono più forti di costituzione. Né devono tutti volere quelle cose che pochi ricevono, non perché sono onorati, ma perché sono tollerati, affinché non si verifichi nel monastero quella perversione per cui i ricchi diventano quanto più possono laboriosi, e i poveri al contrario s’infiacchiscono.

3. 5. Sane, quemadmodum aegrotantes necesse habent minus accipere ne graventur, ita et post aegritudinem sic tractandi sunt, ut citius recreentur, etiam si de humillima saeculi paupertate venerunt, tamquam hoc illis contulerit recentior aegritudo, quod divitibus anterior consuetudo. Sed cum vires pristinas reparaverint, redeant ad feliciorem consuetudinem suam, quae famulos Dei tanto amplius decet, quanto minus indigent. Nec ibi eos teneat voluptas iam vegetos, quo necessitas levarat infirmos. Illi se extiment ditiores, qui in sustinenda parcitate fuerint fortiores; melius est enim minus egere, quam plus habere.

3. 5. D’altra parte poiché gli ammalati devono mangiare meno per non aggravarsi, dopo la malattia devono essere trattati in modo tale da riprendersi al più presto, anche se venivano da condizioni di estrema povertà; si trovano quindi nella stessa condizione di debolezza di coloro che erano abituati ad una vita più agiata. Ma appena abbiano ripreso le loro forze, tornino alle loro più felici abitudini, che è tanto più adatta ai servitori di Dio quanto meno hanno pretese. Una volta tornati in forze, non rimangano per motivo di piacere in quelle condizioni in cui si trovavano per causa della malattia. Si considerino più ricchi quelli che saranno più forti nel sopportare le strettezze; è meglio avere meno bisogni che maggiori ricchezze.

4. 1. Non sit notabilis habitus vester, nec affectetis vestibus placere sed moribus.

4. 1. Il vostro abito non sia appariscente, e non cercate di piacere per gli abiti, ma per il comportamento.

4. 2. Quando proceditis, simul ambulate; cum veneritis quo itis, simul state.

4. 2. Quando uscite, rimanete insieme; quando tornate alla vostra dimora, state da soli.

4. 3. In incessu, in statu, in omnibus motibus vestris nihil fiat quod cuiusquam offendat aspectum, sed quod vestram decet sanctitatem.

4. 3. Nel vostro modo di camminare, nella postura, in ogni vostro movimento non ci sia nulla che possa offendere lo sguardo altrui, ma tutto sia conforme alla vostra santità.

4. 4. Oculi vestri, et si iaciuntur in aliquam feminarum, figantur in nemine. Neque enim, quando proceditis, feminas videre prohibemini, sed appetere, aut ab ipsis appeti velle, criminosum est. Nec solo tactu et affectu, sed aspectu quoque, appetitur et appetit concupiscentia feminarum. Nec dicatis vos animos habere pudicos, si habetis oculos impudicos, quia impudicus oculus impudici cordis est nuntius. Et cum se invicem sibi, etiam tacente lingua, conspectu mutuo corda nuntiant impudica, et secundum concupiscentiam carnis alterutro delectantur ardore, etiam intactis ab immunda violatione corporibus, fugit castitas ipsa de moribus.

4. 4. I vostri occhi, anche se cadono su qualche donna, non si fissino su nessuna. Infatti quando vi trovate fuori dal convento non vi è proibito vedere donne, ma è un delitto desiderarle, o voler essere desiderati da loro. Non solo attraverso il tatto e l’affezione ma anche attraverso lo sguardo la concupiscenza delle donne desidera e si fa desiderare. E non dite di avere l’animo pudico se avete l’occhio impudico, poiché l’occhio impudico è segno di un cuore impudico. E quando due cuori si rivelano l’un l’altro impudichi con sguardo complice, anche se la lingua tace, e si dilettano di passione reciproca secondo la concupiscenza della carne, anche se i corpi rimangono intatti dall’immondo peccato, la castità sfugge ugualmente dai loro comportamenti.

4. 5. Nec putare debet qui in femina figit oculum et illius in se ipse diligit fixum, ab aliis se non videri, cum hoc facit; videtur omnino, et a quibus se videri non arbitratur. Sed ecce lateat et a nemine hominum videatur, quid faciet de illo desuper inspectore quem latere nihil potest? An ideo putandus est non videre, quia tanto videt patientius, quanto sapientius? Illi ergo vir sanctus timeat displicere, ne velit feminae male placere. Illum cogitet omnia videre, ne velit feminam male videre. Illius namque et in hac causa commendatus est timor, ubi scriptum est: Abominatio est Domino defigens oculum10.

4. 5. E chi fissa gli occhi in una donna e ama esser fissato da lei, non deve pensare di non essere visto da altri, mentre lo fa; è sicuramente visto, anche da quelli da cui non pensa di essere visto. Ma anche se riuscisse a nascondersi, e a non farsi vedere da nessuno, come se la caverà con quell’Osservatore dall’alto, a cui nulla resta nascosto? Dovremo credere che non veda, solo perché è tanto più paziente nel vedere, quanto più è sapiente? A Lui dunque l’uomo santo abbia timore di dispiacere, così che non gli venga voglia di piacere peccaminosamente ad una donna; e pensi che Lui vede tutto, così da non aver desiderio di vedere pecca­mino­sa­mente una donna. Anche in questo si raccomanda il timore verso di Lui, là dov’è scritto: L’uomo che fissa lo sguardo è in abominio del Signore.

4. 6. Quando ergo simul estis in ecclesia et ubicumque ubi et feminae sunt, invicem vestram pudicitiam custodite; Deus enim qui habitat in vobis, etiam isto modo vos custodiet ex vobis.

4. 6. Quando dunque siete insieme in chiesa ed in qualunque altro luogo dove vi sono donne, custodite l’un l’altro la vostra pudicizia; Dio che abita in mezzo a voi anche in questo modo vi custodirà da voi stessi.

4. 7. Et si hanc de qua loquor oculi petulantiam in aliquo vestrum adverteritis, statim admonete, ne coepta progrediatur, sed de proximo corrigatur.

4. 7. E se notate in qualcuno di voi questa petulanza degli occhi di cui parlo, subito ammonitelo, affinché il male una volta iniziato non si aggravi ma sia corretto subito.

4. 8. Si autem et post admonitionem iterum, vel alio quocumque die, id ipsum eum facere videritis, iam velut vulneratum sanandum prodat, quicumque hoc potuit invenire; prius tamen et alteri vel tertio demonstratum, ut duorum vel trium possit ore convinci et competenti severitate coherceri. Nec vos iudicetis esse malivolos, quando hoc indicatis. Magis quippe innocentes non estis, si fratres vestros, quos indicando corrigere potestis, tacendo perire permittitis. Si enim frater tuus vulnus haberet in corpore, quod vellet occultare, cum timet sanari, nonne crudeliter abs te sileretur et misericorditer indicaretur? Quanto ergo potius eum debes manifestare, ne perniciosius putrescat in corde?

4. 8. Se invece anche dopo l’ammonizione subito dopo, o in altro giorno, lo vedrete fare lo stesso, subito chiunque se ne accorga lo soccorra come un ferito da curare; per prima cosa lo mostri ad un altro o anche a un terzo, affinché possa essere convinto dalle parole di due o tre e sia corretto con adeguata severità. e non pensate di essere malevoli, quando denunciate una cosa simile. Anzi, non sareste innocenti se lasciaste perire col silenzio i vostri fratelli, che avreste potuto correggere denunziando. Se infatti il tuo fratello avesse una ferita nel corpo, che volesse nascondere, per paura della cura, non sarebbe da parte tua crudele tacere e misericordioso parlare? Quanto più doveroso quindi è per te parlare, affinché non imputridisca più rovinosamente nel cuore?

4. 9. Sed antequam aliis demonstretur, per quos convincendus est, si negaverit, prius praeposito debet ostendi, si admonitus neglexerit corrigi, ne forte possit, secretius correptus, non innotescere ceteris. Si autem negaverit, tunc nescienti adhibendi sunt alii, ut iam coram omnibus possit, non ab uno teste argui, sed a duobus vel tribus convinci. Convictus vero, secundum praepositi, vel etiam presbyteri ad cuius dispensationem pertinent, arbitrium, debet emendatoriam sustinere vindictam. Quam si ferre recusaverit, etiam si ipse non abscesserit, de vestra societate proiciatur. Non enim et hoc fit crudeliter, sed misericorditer, ne contagione pestifera plurimos perdat.

4. 9. Ma se colui negherà, se dopo l’ammo­nizione non avrà voluto emendarsi, prima di denunziarlo ad altri, dai quali dovrebbe essere convinto, deve essere indicato al superiore, affinché in seguito ad una correzione più segreta possa non essere palesato ad altri. Ma se anche allora negherà, allora si dovranno richiamare anche gli altri di fronte al renitente, affinché di fronte a tutti possa essere accusato non da uno, ma da due o tre; una volta che l’accusa sia provata, dovrà subire il castigo secondo la decisione del superiore, o anche del presbitero, a cui compete la riparazione. E se dovesse rifiutare il castigo, anche se non vorrà andarsene spontaneamente, dovrà essere cacciato dalla vostra comunità. Questa non è crudeltà, ma misericordia, per evitare che mandi altri in perdizione col suo pestifero contagio.

4. 10. Et hoc quod dixi de oculo non figendo etiam in ceteris inveniendis, prohibendis, indicandis, convincendis vindicandisque peccatis, diligenter et fideliter observetur, cum dilectione hominum et odio vitiorum.

4. 10. E ciò che ho detto dell’impudicizia degli occhi, si dovrà osservare in modo diligente e fedele nel ricercare, proibire, denunciare, condannare e punire tutti gli altri peccati, sempre con amore verso gli uomini e odio verso i vizi.

4. 11. Quicumque autem in tantum progressus fuerit malum, ut occulte ab aliqua litteras vel quaelibet munuscula accipiat, si hoc ultro confitetur, parcatur illi et oretur pro illo; si autem deprehenditur atque convincitur, secundum arbitrium presbyteri vel praepositi gravius emendetur.

4. 11. Chiunque poi fosse giunto ad un punto tale nel suo peccato da ricevere da qualche donna lettere o doni, per quanto piccoli, se lo confesserà spontaneamente, sia perdonato, e si preghi per lui; ma se sarà colto sul fatto, e sarà provata la sua colpa, sia punito più severamente secondo il giudizio del presbitero o del superiore.

5. 1. Vestes vestras in unum habete, sub uno custode vel duobus vel quod sufficere potuerint ad eas excutiendas, ne a tinea laedantur; et sicut pascimini ex uno cellario, sic induimini ex uno vestiario. Et, si fieri potest, non ad vos pertineat, quid vobis induendum pro temporis congruentia proferatur, utrum hoc recipiat unusquisque vestrum quod deposuerat, an aliud quod alter habuerat; dum tamen unicuique, quod cuique opus est, non negetur. Si autem hinc inter vos contentiones et murmura oriuntur, cum queritur aliquis deterius se accepisse quam prius habuerat et indignum se esse qui ita vestiatur, sicut alius frater eius vestiebatur, hinc vos probate quantum vobis desit in illo interiore sancto habitu cordis, qui pro habitu corporis litigatis. Tamen si vestra toleratur infirmitas, ut hoc recipiatis, quod posueritis, in uno tamen loco, sub communibus custodibus habete quod ponitis.

5. 1. Conservate i vostri abiti nello stesso luogo, sotto la custodia di uno o due o quanti saranno necessari a questo compito, perché non siano rosi dalle tarme; e come avete il cibo da una stessa dispensa, così prendete gli abiti da un unico guardaroba. E se è possibile non fate caso a quali abiti vi vengono dati a seconda delle circostanze, né se riceverete quello che già avevate indossato o qualcosa di indossato da altri; purché a tutti sia dato ciò di cui ha bisogno. Se invece dovessero nascere tra di voi attriti e mormorazioni a questo proposito, poiché qualcuno si lamenta di aver ricevuto un abito più scadente di quello che aveva prima, e trovasse non degno di per lui un abito che prima era stato indossato un fratello, questo vi deve dimostrare quanto siate in difetto nel sacro abito del cuore, se litigate per l’abito del corpo. Tuttavia se la vostra infermità richiede che riceviate ciò che avevate deposto, tenete ugualmente in uno stesso luogo, sotto la custodia comune, gli abiti che deponete.

5. 2. Ita sane, ut nullus sibi aliquid operetur, sed omnia opera vestra in commune fiant, maiore studio et frequentiori alacritate, quam si vobis singuli propria faceretis. Caritas enim, de qua scriptum est quod non quaerat quae sua sunt11, sic intelligitur, quia communia propriis, non propria communibus anteponit. Et ideo, quanto amplius rem communem quam propria vestra curaveritis, tanto vos amplius profecisse noveritis; ut in omnibus quibus utitur transitura necessitas, superemineat, quae permanet, caritas.

5. 2. Così nessuno lavori per sé stesso, ma tutte le vostre attività siano in comune, con maggior diligenza e più fervida alacrità che se ognuno si occupasse solo del suo. La carità, di cui è scritto che nessuno ricerchi ciò che è suo, s’intende nel senso che si antepone l’interesse comune al proprio, non il proprio interesse a quello comune. E dunque quanto più curerete il bene comune a preferenza del vostro, tanto più vi renderete conto di aver tratto vantaggio; affinché su tutte le cose che dipendono da una necessità passeggera, prevalga la carità, che è eterna.

5. 3. Consequens ergo est ut etiam si quis suis filiis, vel aliqua necessitudine ad se pertinentibus, in monasterio constitutis, aliquid contulerit, vel aliquam vestem, sive quodlibet aliud inter necessaria deputandum, non occulte accipiatur, sed sit in potestate praepositi, ut, in rei communi redactum, cui necessarium fuerit, praebeatur.

5. 3. Di conseguenza se qualcuno porterà qualcosa ai suoi figli o ad altri congiunti stabiliti in monastero, o una veste, o qualunque altra cosa utile, ciò non venga ricevuto di nascosto, ma sia messo a disposizione del superiore, affinché, posto fra i beni comuni, sia dato a chi ne avrà bisogno.

5. 4. Indumenta vestra secundum arbitrium praepositi laventur, sive a vobis, sive a fullonibus, ne interiores animae sordes contrahat mundae vestis nimius appetitus.

5. 4. I vostri indumenti siano lavati secondo le disposizioni del superiore, o da voi stessi, o da lavandai, in modo che l’anima vostra non si insozzi per troppo amore di abiti puliti.

5. 5. Lavacrum etiam corporum, cuius infirmitatis necessitas cogit, minime denegetur, sed fiat sine murmure de consilio medicinae, ita ut, etiam si nolit, iubente praeposito, faciat quod faciendum est pro salute. Si autem velit, et forte non expedit, suae cupiditati non oboediat. Aliquando enim, etiam si noceat, prodesse creditur quod delectat.

5. 5. Anche la pulizia del corpo, quando sia resa necessaria dalla malattia, non si deve negare, ma si faccia senza mormorazioni su prescrizione medica, cosicché ognuno anche se non vuole faccia ciò che giova alla salute, secondo l’ordine del superiore. Ma se qualcuno la desidera senza necessità, non ceda alla tentazione del piacere. Talvolta si pensa che giovi ciò che piace, anche se in realtà fa male.

5. 6. Denique, si latens est dolor in corpore, famulo Dei, dicenti quid sibi doleat, sine dubitatione credatur; sed tamen, utrum sanando illi dolori, quod delectat expediat, si non est certum, medicus consulatur.

5. 6. Se poi la sofferenza fisica è nascosta, si creda fiduciosamente al servo di Dio, che lamenta un’indisposizione; tuttavia si consulti il medico, se non è certo che gli sia di giovamento ciò che può procurargli un piacere.

5. 7. Nec eant ad balneas, sive quocumque ire necesse fuerit, minus quam duo vel tres. Nec ille qui habet aliquo eundi necessitatem, cum quibus ipse voluerit, sed cum quibus praepositus iusserit, ire debebit.

5. 7. Non si vada ai bagni, o in qualunque altro luogo sarà necessario andare, se non in due o tre almeno. E chi ha necessità di andare da qualche parte, non ci vada con chi vuole, ma con chi avrà deciso il superiore.

5. 8. Aegrotantium cura, sive post aegritudinem reficiendorum, sive aliqua imbecillitate, etiam sine febribus, laborantium, uni alicui debet iniungi, ut ipse de cellario petat, quod cuique opus esse perspexerit.

5. 8. La cura degli ammalati o dei convalescenti, o di coloro che soffrono di qualche infermità, anche senza febbre, sia compito di uno solo, il quale dovrà ritirare dalla dispensa ciò che avrà giudicato necessario a ciascuno.

5. 9. Sive autem qui cellario, sive qui vestibus, sive qui codicibus praeponuntur, sine murmure serviant fratribus suis.

5. 9. Chi ha ricevuto l’incarico della dispensa, del guardaroba, della biblioteca, serva i suoi fratelli senza brontolare.

5. 10. Codices certa hora singulis diebus petantur; extra horam qui petierit, non accipiat.

5. 10. I libri si prendano all’ora stabilita giorno per giorno; se qualcuno li chiede fuori ora, non li riceva.

5. 11. Vestimenta vero et calceamenta, quando fuerint indigentibus necessaria, dare non differant, sub quorum custodia sunt quae poscuntur.

5. 11. Invece abiti e calzature siano dati senza indugio da chi li ha in custodia quando siano richiesti per bisogno.

6. 1. Lites aut nullas habeatis, aut quam celerrime finiatis, ne ira crescat in odium, et trabem faciat de festuca, et animam faciat homicidam. Sic enim legitis : Qui odit fratrem suum homicida est12.

6. 1. Non ci siano fra di voi liti, o se ci sono, cessino al più presto, affinché l’ira non si trasformi in odio, e non faccia d’ogni paglia una trave, e non renda l’animo omicida. Così infatti trovate scritto: Chi odia il proprio fratello, è un omicida.

6. 2. Quicumque convicio, vel maledicto, vel etiam criminis obiectu alterum laesit, meminerit satisfactione quantocius curare quod fecit, et ille qui laesus est, sine disceptatione dimittere. Si autem invicem se laeserunt, invicem sibi debita relaxare debebunt, propter orationes vestras, quas utique, quanto crebriores habetis, tanto saniores habere debetis. Melior est autem qui, quamvis ira saepe temptatur, tamen impetrare festinat, ut sibi dimittat, cui se fecisse agnoscit iniuriam, quam qui tardius irascitur et ad veniam petendam difficilius inclinatur. Qui autem numquam vult petere veniam, aut non ex animo petit, sine causa est in monasterio, etiam si inde non proiciatur. Proinde vobis a verbis durioribus parcite; quae si emissa fuerint ex ore vestro, non pigeat ex ipso ore proferre medicamenta, unde facta sunt vulnera.

6. 2. Chiunque abbia offeso un altro con invettive, maledizioni, o anche col rinfacciare colpe, si ricordi di riparare al più presto ciò che fece, e colui che è stato offeso, sia pronto a perdonare senza discutere. Se invece si offesero vicendevolmente, dovranno perdonarsi l’un l’altro, per le vostre preghiere, che quanto più saranno frequenti tanto più dovranno essere assennate. È migliore colui che, pur essendo spesso tentato dall’ira, tuttavia si affretta a chiedere scusa a chi riconosce di aver offeso, di quello che più lentamente va in collera, ma più difficilmente si piega a chiedere perdono. Se poi uno non chiede mai perdono, o non lo chiede con animo sincero, è inutile che stia nel monastero, anche se non ne viene cacciato. Perciò astenetevi dalle parole offensive; ma una volta che vi siano uscite di bocca, non abbiate vergogna a proferire il rimedio dalla vostra stessa bocca da cui è uscita l’offesa.

6. 3. Quando autem necessitas disciplinae, minoribus cohercendis, dicere vos verba dura compellit, si etiam in ipsis modum vos excessisse sentitis, non a vobis exigitur, ut ab eis veniam postuletis, ne apud eos quos oportet esse subiectos, dum nimia servatur humilitas, regendi frangatur auctoritas. Sed tamen petenda venia est ab omnium Domino, qui novit etiam eos, quos plus iusto forte corripitis, quanta benivolentia diligatis. Non autem carnalis, sed spiritalis inter vos debet esse dilectio.

6. 3. Quando però il dovere della disciplina vi spinge a usare parole dure nel correggere i sottoposti, se anche vi è parso di aver ecceduto nei loro confronti, non vi si impone di chiedere loro perdono, per evitare che un eccesso di umiltà vi porti ad incrinare l’autorità necessaria per governare su quelli che devono essere sottoposti. Però si deve chiedere perdono al Signore di tutti, il quale sa con quanta benevolenza amate anche quelli che forse avete ripreso più del giusto. L’amore fra di voi deve tuttavia essere spirituale, non carnale.

7. 1. Praeposito tamquam patri oboediatur, honore servato, ne in illo offendatur Deus; multo magis presbytero, qui omnium vestrum curam gerit.

7. 1. Si obbedisca dunque al superiore come a un padre, prestandogli il dovuto onore, per non offendere Dio in lui; e ancor di più si ubbidisca al presbitero che ha cura di tutti voi.

7. 2. Ut ergo cuncta ista serventur et, si quid servatum non fuerit, non neglegenter praetereatur, sed emendandum corrigendumque curetur, ad praepositum praecipue pertinebit; ita, ut ad presbyterum, cuius est apud vos maior auctoritas, referat, quod modum vel vires eius excedit.

7. 2. Sarà principalmente compito del superiore vegliare affinché tutte queste cose siano osservate, e se qualcosa non verrà osservato, non si trascuri con negligenza, ma si provveda affinché vi sia posto rimedio; e che riferisca al presbitero, che ha su di voi maggiore autorità, ciò che va al di là delle sue competenze o delle sue forze.

7. 3. Ipse vero qui vobis praeest, non se existimet potestate dominantem, sed caritate servientem felicem. Honore coram vobis praelatus sit vobis, timore coram Deo substratus sit pedibus vestris. Circa omnes seipsum bonorum operum praebeat exemplum, corripiat inquietos, consoletur pusillianimes, suscipiat infirmos, patiens sit ad omnes. Disciplinam libens habeat, metum imponat. Et quamvis utrumque sit necessarium, tamen plus a vobis amari appetat quam timeri, semper cogitans Deo se pro vobis redditurum esse rationem.

7. 3. Il vostro superiore non si consideri felice perché comanda con autorità, ma perché serve con carità. Di fronte a voi sia innalzato su di voi nell’onore; di fronte a Dio sia prostrato ai vostri piedi nel timore. Si offra a tutti come esempio di buone cose, corregga gli inquieti, conforti i deboli, sostenga gli inferni, sia paziente con tutti. Osservi lietamente la disciplina, e imponga rispetto. E seppure entrambe le cose siano necessarie, tuttavia preferisca essere da voi amato che temuto, sempre pensando che dovrà rendere conto di voi a Dio.

7. 4. Unde vos magis oboediendo, non solum vestri, verum etiam ipsius miseremini, quia inter vos, quanto in loco superiore, tanto in periculo maiore versatur.

7. 4. Perciò, se sarete più ubbidienti, mostrerete di avere misericordia non solo verso voi stessi, ma soprattutto di lui, poiché quanto più è elevata la sua condizione, tanto più grande è il pericolo per lui.

8. 1. Donet Dominus, ut observetis haec omnia cum dilectione, tamquam spiritualis pulchritudinis amatores et bono Christi odore de bona conversatione flagrantes, non sicut servi sub lege, sed sicut liberi sub gratia constituti.

8. 1. Il Signore vi conceda di osservare tutte queste cose con amore, così da essere amanti della bellezza spirituale, e emananti il buon profumo di Cristo grazie alla vostra buona convivenza, non come servi soggetti alla legge, ma come uomini liberi posti sotto la grazia.

8. 2. Ut autem vos in hoc libello tamquam in speculo possitis inspicere, ne per oblivionem aliquid neglegatis, semel in septimana vobis legatur. Et ubi vos inveneritis ea quae scripta sunt facientes, agite gratias Domino bonorum omnium largitori. Ubi autem sibi quicumque vestrum videt aliquid deesse, doleat de praeterito, caveat de futuro, orans ut ei debitum dimittatur et in temptationem non inducatur.

8. 2. Affinché possiate specchiarvi in questo libretto, e non si trascuri nulla per dimenticanza, esso vi sia letto una volta alla settimana. E se troverete che state facendo le cose che vi sono scritte, ringraziate il Signore che vi ha elargito tutti questi doni. Se invece qualcuno di voi vedrà in sé qualche mancanza, si dolga per il passato, si premunisca per il futuro, preghi che gli siano rimessi i debiti e che non sia indotto in tentazione.

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1 Charles Dereine, «Chanoines», in Dictionnaire d’Histoire et de Géographie Ecclésiastiques, t. XII, Letouzey et Ane, Paris 1953, coll. 353-405.
Cosimo Damiano Fonseca, Le canoniche regolari riformate dell’Italia nord-occidentale, Ricerche e problemi, in: Monasteri in Alta Italia dopo le invasioni saracene e magiare (sec. X-XII) Relazioni e comunicazioni presentate al XXXII Congresso Storico Subalpino, Pinerolo 6-7 Settembre 1964, Deputazione Subalpina di Storia Patria, Torino 1966 Torna al testo ↑

2 Aldo A. Settia, Ritorni a Santa Maria di Vezzolano, Deputazione Subalpina di Storia Patria, Torino 2015, Biblioteca storica subalpina, CCXXV. pp. 59-60. Torna al testo ↑

3 Luc Verheijen La Règle de Saint Augustin 2 voll. Études Augustiniennes Paris 1967 Torna al testo ↑

4 Luc Verheijen op. cit. vol. I pp. 105-107 Torna al testo ↑

5 Mt. 22, 37-40 Torna al testo ↑

6 At 4, 32 Torna al testo ↑

7 Num. 14, 1-37, Cor. I 10, 10 Torna al testo ↑

8 Luc Verheijen op. cit. vol. I pp. 417-437 Torna al testo ↑

9 Act 4, 32-35 Torna al testo ↑

10 Prov 27, 20 Torna al testo ↑

11 1 Cor 13, 5 Torna al testo ↑

12 1 Io 3, 15 Torna al testo ↑


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