P. Reginaldo Giuliani

Gli Arditi

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XI Battaglione d’assalto.

Le prime fiamme.

L’undicesimo Battaglione d’Assalto fu il primo costituito nella terza armata. I felici esperimenti compiuti delle altre armate e specialmente della seconda che, cogli arditi, aveva sgomentato e sbaragliato fulmineamente il nemico alla Bainsizza e al San Gabriele, ebbero il sopravvento sulla indecisione di chi temeva di impoverire i reggimenti col sottrarne i migliori elementi per raggrupparli in reparti speciali. La circolare 111 660 partita dal Comando Supremo il ventisei giugno millenovecentodiciassette ebbe finalmente il suo compimento al dieci ottobre di quello stesso anno.

Borgnano, piccolo borgo situato tra Medea e Cormons, a pochi chilometri dall’Isonzo, divenne quello che Manzano era /41/ per la seconda armata, cioè la città degli arditi. V’erano già parecchie baracche per le truppe a riposo: una compagnia del genio da giorni lavorava alacremente per riparare, ingrandire ed abbellire la nuova dimora degli arditi che affluivano dai diversi reggimenti dell’armata.

Stavano formandosi alcuni battaglioni: tra gli altri si distingueva quello assegnato all’undecimo Corpo d’Armata, che il sedici ottobre, per disposizione del Comando Supremo, si ebbe il nome di Ventesimo; e questo numero ritenne sino al maggio segnente quando (secondo il nuovo ordino generale che stabiliva che ogni battaglione prendesse il numero del proprio Corpo d’Armata) fu detto Undicesimo. Le reclute portavano i fregi e le mostrine di armi di brigate diverse. La fanteria era rappresentata da numerosissimi soldati del 49 e 50, 69 e 70, 215 e 216, 227 e 228, 259 e 260, 265 e 266, e del 78.° reggimento di marcia.

C’erano poi gli artiglieri del 44.° Campagna ed eleganti cavalleggeri del Foggia ed Umberto Primo; si notava con soddisfazione un bel numero di carabinieri che avrebbero potuto, sotto le mostrine dell’ardito, rendere molto onore all’arma, se non fossero stati richiamati al corpo dopo /42/ una quindicina di giorni, per essere impegnati nei servizi della ritirata.

Non si erano accettati che i volontari e gli immuni da qualsiasi condanna penale. Queste due condizioni che il comando dell’Armata ha fatto valere sin dal principio ci rivelano quale fosse l’indirizzo morale dei nuovi reparti e il valore di quegli elementi preziosi.

L’opera di accurata selezione venne poi continuata al reparto, con tutta quella libertà che i regolamenti nostri concedono ai comandanti, i quali sono giudici della capacità morale e fisica di tutti i soggetti. Riuscì quindi facile dare alle scelte schiere un sano orientamento disciplinare: il rispetto dei regolamenti, la puntualità, si mantenne con severo scrupolo, mentre pure li concedevano ai nuovi arditi certe libertà che non si possono godere in altri reparti; per esempio a Borgnano non esistevano limiti di presidio che impedissero all’ardito di portarsi dove meglio credeva durante la libera uscita; ma guai se non era presente all’ora della ritirata.

Il reparto ebbe sin dal primo giorno per comandante il maggiore Tani, vecchio combattente animato da forte sentimento del dovere, tutto nervi e vivacità, fatto apposta /43/ per guidare e dominare le mobili schiere ch’egli andava formando.

Ma il vero re della città degli arditi era il ten. colonnello Giuseppe Pavone cui era stata affidata la direzione dei nuovi battaglioni d’assalto. Chi non lo conobbe alla Terza Armata? è una figura che in tutte le occasioni domina, cattiva gli sguardi generali, anche in mezzo alle più grandi folle. Alto e grosso colla barba nera e gli occhi grandi, colle nostre fiamme e una buona dozzina di nastrini sul largo petto, si impone al piccolo fante che alza il capo per contemplarlo, e ai pezzi grossi che se lo tengono volentieri ai fianchi. È la migliore insegna che si poteva dare agli arditi: ha fatto la guerra dal primo giorno: è vissuto in linea, fante tra i fanti: ha espugnato più d’una trincea e conta parecchie vittorie. Conosce il nostro soldato e conosce il nemico quanto basta per preparare e condurre un assalto. Egli suole dire, – per citare le sue parole – che «l’istruzione oltre che un dovere degli ufficiali verso i dipendenti, è un diritto di questi, poichè devono essere messi in condizione di ottenere massimi risultati con minimi danni». Questa teoria dimostra quale è il suo cuore e rivela il suo amore por i sol- /44/ dati. Sin dai primi giorni ebbe voga nei campi degli arditi uno stornello che cantava:

Se non ci conoscete, guardateci il maglione:
noi siamo gli Arditissimi del Colonnel Pavone.

Per le sue cure costanti, gli accantonamenti di Borgnano acquistarono presto molte comodità. Ogni ardito doveva avere la sua piccola cuccetta pulita e decente: tenere in uso due diviso complete, onde mostrarsi decorosamente nella libera uscita e nelle feste. Si stavano costruendo le sale di ritrovo, le scuole e «La casa dell’ardito» con divertimenti di ogni genere. Insomma si improvvisava una vera cittadina per formare e confortare i muscoli e lo spirito dei nuovi difensori della patria. Dalle baracche che ospitavano più di un migliaio di abitanti grigio-verdi, si scorgevano in lontananza, al di là dell’Isonzo, le quote contese del Carso e l’altipiano roccioso che nella notte s’illuminava di razzi candidi e di vampe rossastre. Quali e quanti ricordi assalivano l’anima dell’ardito che con lo sguardo avido abbracciava tutto quell’immenso e tragico teatro di gloria e di sacrificio, dal San Michele alla Rocca di Monfalcone!

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Dall’Isonzo al Piave.

L’addestramento delle reclute procedeva con grande celerità: ma non si ebbe tempo di terminare gli esercizi principali di ginnastica, e non si era ancora incominciata l’istruzione tecnica delle bombe a mano. I tragici avvenimenti trassero al fuoco l’undecimo reparto.

La terza armata che aveva sempre, con rinnovati incitamenti, fomentata nel cuore dei suoi fanti invitti la speranza di arrivare alla meta a cui s’era avvicinata con più di due anni di sacrifizi cruenti, doveva ora dire ai suoi reggimenti che presidiavano trincee appena occupate che bisognava ripiegare: doveva rotolare nel vallone i grossi calibri che avevan cantato tante vittorie: doveva abbandonare i cimiteri che inghirlandavano tutta la Pre-Carsica e il fondo del vallone.

Con quale angoscia i combattenti abbiano inteso l’ordine doloroso, può dirlo /46/ solo chi in quelle notti ultime d’ottobre aveva ributtato assalti nemici e, uscito al contrattacco, aveva occupato la trincea avversaria, catturando gli scornati assalitori. La rotta di Caporetto già dilatava sul Carso i suoi dolorosi effetti. Gli arditi di Borgnano scorgevano il fuoco accelerato delle lontane batterie, raccoglievano le voci che già annunciavano confusamente il disastro. Quando poi videro piazzarsi i cannoni proprio sulla collina del paese, furono certi che il nemico si avvicinava e che si sarebbe tentato di arrestarlo. Intanto le notizie si fanno più precise e più gravi. Nella notte del venticinque si apprende che bisogna prepararsi ad un ripiegamento: al mattino del ventisei gli accampamenti sono animati dall’accelerata preparazione dei bagagli. Giungono autocarri carichi di moschetti, di bombe, di mitragliatrici che vengono distribuite d’urgenza: la partenza fu prorogata alla sera successiva. Il ventesimo battaglione, che stava alle dipendenze dell’undecimo Corpo d’Armata, ricevette l’ordine di avviare il carreggio verso il Tagliamento e di portare invece tutte le sue forze all’Isonzo, presso il ponte di Peteano.

Era quasi notte allorchè le compagnie, /47/ fatto l’appello, si schierarono sulla strada dell’Isonzo. Pioveva a dirotto, e l’orizzonte s’illuminava sinistramente dei lontani incendii: rintronavano le fragorose esplosioni dei depositi di munizioni del Carso sopraffacendo l’ultimo fuoco tambureggiante. Le arterie principali della pianura friulana venivano battute dai reggimenti, che, inquadrati, marciavano verso il Tagliamento, e da lunghe, interminabili file, di pezzi di artiglieria trascinati sulle ruote cigolanti. La truppa era quasi muta e marciava ordinata sotto il peso di un immenso dolore. Di tanto in tanto s’incontravano gruppi di borghesi, uomini, donne, bambini, famiglie complete sui piccoli carri, o a piedi, carichi dei loro poveri bagagli: molti piangevano.... avevano abbandonato la casa e il paese, preferendo la fuga e il pane del povero con i fratelli italiani, al giogo abborrito del tedesco.

La marcia era ancora relativamente ordinata. Tutta quella fiumana umana era diretta verso il fiume che nelle comuni speranze avrebbe dovuto fermare l’onda nemica. Gli arditi soli andavano avanti, in direzione opposta, aprendosi un varco tra le file serrate dei fanti, sgusciando fra le ruote, scendendo nei fossi coll’acqua a /48/ mezza gamba. Camminavano frettolosi e silenziosi, consapevoli di non correre alla vittoria ma a proteggere una ritirata.

Veramente non era quello il miglior modo di esordire, per un battaglione di assalto: ma l’allegria e le canzoni che mancarono in quei giorni, vennero abbondantemente ritrovate per tutte le strade che condussero il simpatico battaglione alle trincee del Piave, durante tutto l’anno seguente. Nato in giorni angosciosi, il reparto doveva più tardi accendere la fiamma della più sonora allegria e diffonderne i vividi riflessi intorno a sè. La strada che lo portò quella sera all’Isonzo, fu come l’oscuro ambulacro delle sue catacombe ove preparavasi una risurrezione di gloria.

Quando gli arditi giunsero alla riva del fiume, si schierarono sui fianchi del ponte, per accogliere le ultime pattuglie e i dispersi, inseguiti già dalle scariche di fucileria nemica.

Mentre le avanguardie austriache sopravvenivano, si fece saltare il ponte, e, disposte le compagnie per le diverse strade da cui era ritirata la truppa del Corpo d’Armata, ordinate le pattuglie di coda, il battaglione prese la via di Gradisca, dove arrivò verso le sette e mezza del giorno /49/ ventotto. Sotto la pioggia dirotta riprese la via di Romans. Procedeva ordinato, a compagnie inquadrate, rastrellando colle pattuglie fiancheggianti gli ultimi soldati dispersi per la campagna, e tenendo a bada il nemico.

Sino a Romans il battaglione formò l’estrema retroguardia del Corpo d’Armata: il delicatissimo compito, affidatogli in prossimità dell’Isonzo, rivela che i Comandi Superiori facevano grande affidamento del nuovo reparto. A Romans i granatieri si avvicendarono con esso nelle operazioni di copertura.

A Crauglio si sostò nelle baracche deserte per consumare mezza scatoletta di carne, e far sgocciolare i panni inzuppati. Si riprese la via, s’oltrepassò Versa e a sera ci si trovò di fronte a Palmanova. La bella città, chiusa entro le sue mura, mandava al cielo bigio lampi e chiarori, nel testo: lampi chiarori; corr. negli → Errata lampi e chiarori rossastri dai numerosi incendii: per le sue porte fuggivano i cittadini asportando i piccoli tesori e le povere masserizie. Le strade principali erano ostruite da cannoni, autocarri, carri e carrette. Tutti si affrettavano a sgombrare.

A notte il battaglione, sempre compatto sotto la sorveglianza degli ufficiali, si ac- /50/ cantonò a Faugliis. Presso Palmanova s’era rinvenuto un carico abbandonato di scatolette di carne: e ognuno se n’era messo nel tascabombe qualcuna, che servì bene per la cena. È piovuto tutto il giorno e gli arditi fradici d’acqua si accosciano l’uno di fianco all’altro nelle baracche. Il sonno non si fece attendere per quelli stanchissimi.

Grida disperate di donne e di bambini furono la sveglia del mattino: volavano nel cielo, che s’era alquanto schiarito, molti aeroplani dalla croce nera. Gli sbandati che avevano pernottato nelle case, nelle stalle e sui fienili, fuggivano in fretta per la campagna affollando le vie del Tagliamento: molti borghesi li seguivano, altri rimanevano indecisi o si abbandonavano alla disperazione. Le fiamme nere, sbucando dalle baracche, puntavano i moschetti e le mitraglie contro gli aereoplani, per tenerli a distanza: ufficiali con uomini di truppa indugiavano a consolare quella popolazione: altri caricavano sui carri gli ultimi feriti rimasti in un ospedaletto, e che imploravano di essere trasportati a qualunque costo.

Si camminò tutto il giorno: alla sera si giunse ad Aris ove si pernottò.

/51/ Il mattino del trenta cominciò la difesa dei ponti del Tagliamento, difesa nella quale gli arditi ebbero nuovamente parte principale. Il battaglione giunto a Rivignano, dalla quarta divisione riceve l’ordine di formare una linea di difesa sulla sinistra del fiume, tra Camino di Codroipo, Gorizzo e Mulino della Siega, e di chiudere il passo alle eventuali infiltrazioni nemiche del nord, fra il Tagliamento e il Rio Stella, affine di assicurare il passaggio del ponte di Madrisio alle truppe e ai carreggi in ritirata. Le compagnie si muovono ai posti loro assegnati: la prima a Camino di Codroipo, la seconda a Gorizzo, la terza a Mulino della Siega: il maggiore Tani pose il Comando del Battaglione a San Pietro.

Sul sentiero che corre parallelo all’argine sinistro del Tagliamento da Madrisio a Camino di Codroipo, gli arditi si incontrano con una fila interminabile di militari sbandati e di borghesi che si affrettavano verso il ponte.

Appena le due file indiane s’incontrano, i borghesi cominciano a gridare parole di benedizione e di incoraggiamento: i militari sbandati, al contrario, urlano e fischiano in coro e prorompono in queste /52/ esclamazioni: «Vigliacchi.... volontari.... siete voi che fate continuare la guerra». Ma le fiamme nere non si scompongono; poche parole di risposta e molte botte: a cazzotti, a pugni e urtoni si aprono la via: alcuni più petulanti gustarono anche in testa e sui fianchi le carezze del calcio dei nostri moschetti. Credo che mai gli arditi hanno battuto con più gusto e maggior giustizia.

Alle cinque di sera le compagnie sono a posto: continua a piovere spietatamente sui poveri arditi appostati attorno alle mitragliatrici nei croce-via, dietro le siepi, nei fossi. Il freddo era intenso e pure la fame si faceva sentire....

Da Revignano era stato inviato il tenente Bella con alcuni carri tirati da buoi e scortati da una pattuglietta, in requisizione di viveri. In un borgo aveva trovato pane, salumi, formaggi e frutta, lasciando il regolare buono di prelevamento, ed era andato in giro cercando il battaglione. Aveva già raggiunto l’argine del Tagliamento, quando alcune scariche di fucilate, partite da un vicino boschetto, annunciarono che il nemico stava ai fianchi, discosto poche centinaia di passi. In un baleno la pattuglia di protezione fa /53/ scomparire ogni cosa: carro bagaglio e buoi. I buoi sono spinti in una prossima fattoria e regalati ai contadini che quasi rifiutano il dono troppo generoso.... il carro ribaltato nel fosso.... e le preziose munizioni (dopo che ogni tascabombe e ogni giubba fu empita) vennero buttate nel fiume. Quest’ultimo sacrificio fu assai doloroso: si raccontò che un ardito afferrò una forma di cacio parmigiano, lo baciò, l’addentò, ne morse via un buon boccone, e gettandola poi nel fiume borbottò a bocca piena: «Meglio nell’acqua italiana che nello stomaco tedesco».

Così sfumò tutta quella grazia di Dio, ed i compagni che attendevano corsero il rischio di rimanere digiuni.

Qualche lettore malizioso vorrebbe insinuare che questo sarebbe stato il primo e l’ultimo digiuno degli arditi. Si sbaglierebbe assai: all’undicesimo battaglione digiuni se ne son fatti, e durante la ritirata, e in tutte le azioni sino alla vittoria finale. E non solo concorsero a farci digiunare tutte le cause che normalmente impediscono l’arrivo del rancio in trincea nei giorni di combattimento, ma si aggiungono altre ragioni tutte proprie e particolari del battaglione. Successe talvolta /54/ che si cercavano i cuochi o i conducenti per preparare e portare il rancio e la mensa, e si cercavano invano poichè quelli, presi da invidia pei compagni combattenti, erano venuti in trincea a maneggiare il moschetto e il pugnale invece delle padelle.

Quella sera dunque si correva rischio di rimanere a stomaco vuoto, mentre tanti altri sbandati erano provvisti di cibi abbondanti. Non era forse bene fare un po’ di partizione? L’idea non tardò ad affacciarsi alla mente di un bravo tenentino, che tosto diede ordine che a tutti i militari isolati che passavano per raggiungere il ponte, fossero lasciati i viveri per una giornata, ma consegnassero il rimanente. Con tal dazio si raccolse tanto da sfamare la compagnia.

Più tardi, quando già si era distrutto il ponte del Rio Stella, si udirono rumori come di truppa accantonata in una casa posta al di là, e comparvero dei fuochi timidamente accesi sotto la fitta pioggerella. Venne ordinata una pattuglia. Alcuni uomini con un tenente, guadano l’acqua, s’avvicinano cautamente alla casa, ma s’accorgono subito che quelli sono italiani in carne ed ossa. V’erano soldati di tutte le armi, ritardatari, che nel lungo /55/ e disastroso cammino avevano smarrito la speranza e le forze. Il tenente intima loro d’affrettarsi a passare il fiume, perchè il nemico sta per sopraggiungere; ma quelli rispondono che non v’è più ponte. Dopo un breve dialogo, l’ufficiale constatando che quelle volontà, intorpidite nelle stanche membra, si adattavano troppo facilmente al pensiero della resa al nemico, colla ingenua speranza di trovare nella prigionia la fine di tutti i loro mali, prese a parlare con calda eloquenza, ricorrendo anche alle minacce. Quei disgraziati finalmente si scossero. Per agevolarli a guadare il torrente, gli arditi trascinarono in acqua i cavalli, in groppa ai quali si traghettarono quelli avviliti.

Tra quei cavalli uno ve n’era, di forme colossali, che era stato trovato in quei giorni stessi per la campagna, e che rese poi ottimi servizi, per più di un anno, al nostro reparto. Le fatiche più dure, in viaggi più lunghi, le carrette sovraccariche erano per lui: che fu sempre docile e paziente, come in quella notte oscura, quando tratto dal piccolo ardito, trasportava due o tre invalidi alla volta, da una riva all’altra. Se avesse potuto parlare avrebbe però protestato contro il nome di Gugliel- /56/ mone che, con manifesta ma saporita ingiustizia, gli era stato dato.

Questi ed altri episodi ingannarono il sonno e parvero affrettar l’alba del primo novembre. S’era appena schiarito il cielo all’oriente, quando comparvero le prime pattuglie austriache agli avamposti di Gorizzo. La seconda compagnia mandò subito un pattuglione ad affrontarle, ed esso con poche fucilate le respinse e poi le inseguì. Verso le nove si delinea il ritorno del nemico con forze preponderanti: la compagnia minacciata d’accerchiamento riceve l’ordine di ripiegare su San Marizza. La terza, analogamente premuta, dal Mulino della Siega si porta a San Martino e poi raggiunge la seconda disponendo con quella una nuova resistenza.

Si attendevano ansiosamente notizie della prima compagnia dislocata a Camino di Codroipo, quando, verso le dieci, giunge un gruppo di arditi (trentacinque in tutto) che si erano aperta la via, a viva forza, tra i plotoni serrati del nemico: narrano che la compagnia è stata accerchiata e si è difesa strenuamente; il capitano e tutti gli ufficiali sono rimasti feriti o morti: anche molti soldati sono caduti. Non si ha il tempo di far commenti, che le pat- /57/ tuglie avanzate arrivano per avvisare che il nemico è giunto a Gradiscuta: perciò si continua il ripiegamento sino a Varmo, di dove, in seguito ad ordine del Comandante della difesa di Madrisio, si passa alla destra del Tagliamento.

I Comandi avevano già fatto schierare le nostre truppe sugli argini, nella speranza di fermare il nemico a quella grande linea naturale che il fiume segna col suo corso dalle Alpi al mare. Invece, come tutti sanno, non ebbimo quella fortuna e dovemmo ripiegare nuovamente. Il battaglione, ridotto a poco più di dugento uomini, venne richiamato in azione per la difesa della testa di ponte di Meduna di Livenza. Vi giunse nel pomeriggio del cinque novembre e si trincerò attorno al paese, accogliendo gli ultimi fuggiaschi e tenendo a bada le più avanzate pattuglie nemiche. Nelle prime ore della notte, le fiamme nere sfilano silenziose sul ponte deserto e si schierano lungo l’argine della riva destra, per oltre un chilometro a monte. Sulla sinistra si era in contatto colla Brigata Pinerolo: sulla destra col ventiduesimo reparto d’assalto e coi granatieri.

Verso le otto del mattino del sei no- /58/ vembre si fece saltare il ponte che unisce Meduna alla strada di Motta: e subito dopo il rombo fragoroso, giunsero nel paese nuclei di ciclisti austriaci. Si iniziò fra le due rive forte scambio di fucileria e di mitraglia: la posizione del nemico dominava la nostra e gli dava modo di colpirci facilmente con armi postate sulle finestre dei fabbricati. Per tutto il giorno le mitraglie vomitarono fuoco contro di noi dal piccolo campanile di Meduna. Nella notte si udirono gli austriaci spaccare i tetti delle case per asportarne le travi, onde ricostruire il ponte. Colle grida di gioia degli ungheresi ubbriachi, arrivavano a noi i pianti e gli strilli delle donne e dei bambini spaventati. Presso i ruderi del ponte si aggiravano ombre di borghesi e di militari nostri, che avrebbero voluto passare al di qua: ma non era possibile permetter loro la traversata, senza offrire al nemico la possibilità di qualche tranello. Si resistette tutto il giorno seguente sotto le raffiche ben aggiustate di mitraglia e delle piccole ma terribili artiglierie che il nemico aveva trascinate fin presso l’argine. Verso le ventidue, alcune pattuglie avversarie riuscirono ad infiltrarsi in qualche punto della riva destra, onde fu ne- /59/ cessario ripiegare su Fossalta Maggiore. Là si sostò tutto l’otto novembre e si riprese quindi la via del Piave.

Il nostro reparto stava in coda alla brigata granatieri e aveva a sua protezione un camion, riattivato dagli arditi, e da essi munito di alcune mitragliatrici. In tale assetto si passò il fiume all’alba del giorno nove, a Ponte di Piave.

Pioveva ancora, pioveva sempre. Dietro alle ultime pattuglie del reparto brillarono le mine del ponte con assordante fragore: nelle trincee fangose della riva destra del fiume salvatore rimasero i piccoli fanti alla pioggia, alla neve, al vento, al solleone, rimasero incontaminati difensori della patria.

Così terminò il doloroso cammino dell’esercito dall’Isonzo al Piave. Il ventesimo battaglione d’assalto, assieme alle più forti truppe, aveva attraversato compatto la terra seminata di tante sventure e di tante rovine, portando in cuore il germe di infallibili rivendicazioni.

L’esercito e il popolo italiano, nell’abisso del dolore ritrovarono se stessi, la loro dignità, il loro valore, e la forza per sollevarsi tanto più in alto quanto più profonda era stata la caduta.

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Alla difesa di Venezia.

L’esercito austro-ungarico, prorompendo dagli sbocchi della Valle del Natisone, dilagava nella pianura.

A mala pena l’incalzante pressione era stata ritardata dall’immolazione eroica dei reparti che fecero pagar caro all’invasore la profanazione del suolo italiano. Il Tagliamento aveva ceduto: il Piave resisterà?

La situazione era assai difficile. Arrivato al Piave, il nemico attaccò su tutta la fronte coll’impeto delle soldatesche eccitate dalla non difficile avanzata. Puntate eseguite contro Fagarè e l’ansa di Zenzon ebbero, sul principio, qualche risultato, ma poi furono contenute e quindi respinte al di là del fiume, dal rinforzo d’armi e d’entusiasmo che i fanciulli del novantanove avevano portato tra i fanti delle nostre vecchie brigate.

Non essendo riuscito ad aprirsi il varco nel centro della linea, il comando avver- /61/ sario tentò forzarci alle ali. I battenti della gran porta che chiudeva al nemico il paradiso d’Italia, si incardinavano sui due estremi baluardi del Grappa in alto, e del basso Piave; il primo è una difesa naturale, come un castello elevato dalla mano dell’Onnipotente ad ultimama infallibile difesa d’Italia: il secondo invece, fu reso inespugnabile, più che dalla natura, dal valore dell’esercito nostro. La difesa a mare era tanto necessaria quanto quella a monte, poichè da quella dipendeva pure la salvezza di Venezia. La regina dell’Adriatico era la meta del barbaro; ma gli arditi seppero difenderla da ogni profanazione.

Tutte le forze dei battaglioni d’assalto dell’armata, al comando del colonnello Pavone, furono inviate a Cavazuccherina; le scarse reliquie arrivate al Piave erano formate dagli avanzi del ventiduesimo reparto d’assalto, del diciannovesimo, e di due compagnie dell’undecimo.

Al quattordici novembre s’imbarcano a San Giuliano di Mestre, e, risalendo i canali della laguna, arrivano nella notte a Cavazuccherina. Non si trovarono che nuclei di armi diverse, i quali erano stati raccolti allo scopo di fermare il nemico. /62/ Non si sapeva precisamente fin dove questi si fosse infiltrato: perciò primo compito nostro fu un assaggio del terreno. Si sostò qualche ora nelle case abbandonate, poi, gettata una passerella sul canale Cavetta, che limitava a nord-est il paese, si lanciò innanzi una pattuglia e quindi tutta la terza compagnia. Questa formò una larga testa di ponte al di là del gomito Sile-Cavetta, e si estese, a mare, sin presso Cortelazzo, ove poi la linea si curvava per prendere collegamento coi marinai, posti sulla destra del canale. La seconda compagnia si portò in alto verso Capo Sile. Gli altri due battaglioni rimasero di rincalzo.

I piccoli posti avanzati s’erano annidati tra le rovine della antica città di Esulo. Della presenza del nemico, nessun sintomo diretto. Alcuni borghesi, che durante il giorno quindici s’erano imbattuti nei nostri avamposti, ci avevano detto che gli austriaci erano arrivati al Canale Settimo. Quindi alla sera, gettata una passerella con due pali del telefono, una pattuglia al comando del tenente Orelli, passò il canale, e perlustrando il terreno della riva opposta, non trovò altro che pochi contadini raccolti in una stalla. Non volevano /63/ lasciare le loro case: il tenente impiegò tutta la sua buona grazia a spiegar loro che era necessario sgombrare, perchè erano di grande impedimento alla nostra difesa, non essendo noi così barbari come i tedeschi, da buttar granate sopra le case loro. Finalmente, le donne si arrendono e inducono tutti a seguire gli arditi, i quali aiutano a portare i bambini e i bagagli e li guidano per i viottoli alla nostra linea, mentre la luna guarda dal cielo.

Sull’albeggiare, il tenente porta fuori una seconda pattuglia di dieci volontari, per constatare se la località di «Quattro Case» è occupata dal nemico. Arrivati al posto avanzato, di dove si scorgevano le case, si stette ad osservare. Tutta la campagna era allagata: sull’acqua riflettente la rossa luce della più bell’alba, emergevano solo i rami dei cespugli e l’alta strada, che correva quasi diritta sino alla meta della pattuglia. Delle «Quattro Case», duo erano situate a destra e due a sinistra della strada. Su questa vagava lentamente un paio di buoi, alla vista del quale, il tenente ebbe subito un nuovo disegno per l’operazione. Un ardito si offrì all’impresa: vestì abiti contadineschi rinvenuti in quella stessa casa, e si preparò a portarsi presso /64/ i due animali. L’ufficiale parve un po’impressionato dalla pronta offerta del giovane al pericoloso e delicatissimo compito.

— Senti, — gli disse, — devi comprendere che il tuo compito è difficile assai: se ti scoprono e ti prendono, guardati dal rivelare le nostre posizioni e le nostre forze.

— Stia certo, signor tenente, che so il fatto mio: sono napoletano ma ho fatto il contrabbandiere sulla frontiera svizzera e saprò cavarmela con onore.

— Se ti prendono, anche minacciassero d’ammazzarti, non devi parlare!

— Le giuro che mi farò uccidere, piuttosto che parlare.

Si nascose il pugnale nei calzoni, infilò alcuni petardi nelle larghe tasche: il tenente gli diede la propria rivoltella. L’ardito così camuffato, con un bastoncino andò a pungere gli animali volgendoli alle «Quattro Case». Dietro a lui, nascosto sotto la strada, avanzava il tenente colla pattuglia per raccogliere il segno convenzionale che doveva indicare la presenza degli austriaci, e, in caso d’attacco, difendere il compagno. L’improvvisato boaro spinse gli animali avanti: ma quando fu presso alla meta, si vide un ragazzotto precipitarsi dalla strada nella prima di quelle case, e /65/ subitamente da quelle finestre, sprigionarsi raffiche di mitraglia sulla pattuglia che stava cinquanta metri innanzi. Gli arditi d’un balzo la circondano: il boaro si getta primo sulla soglia e lancia petardi nell’interno dove stavano austriaci avvinazzati a spassarsela. Da tutte le quattro case si apre un fuoco infernale.

Lo scopo dei nostri, di rilevare la presenza del nemico, era raggiunto, perciò rientrarono tutti sotto la gragnuola di pallottole fischianti; tutti tranne il povero ed eroico boaro, che era caduto sulla soglia.

In tal guisa si prese contatto col nemico.

Incominciò subito la costruzione delle difese, che per la mancanza di materiali non furono da principio che una trincea vigilata, munita più. che altro dal valore delle vedette. Il giovane tenente Bella con alcuni volontari di truppa chiese ed ottenne di rimanere a custodia continua, senza alcun turno, dello sbocco della strada, che era forse la sola dalla quale avrebbero dovuto affacciarsi i plotoni affiancati dell’invasore. Questi non tardarono a mostrarsi: dopo alcuni giorni di preparazione, durante i quali si ebbero scontri di pattuglie, si sferrò l’attacco nemico per terra e per mare: ma gli arditi e i marinai, ap- /66/ poggiati dalle nostre artiglierie appena piazzate, resistettero meravigliosamente. La laguna rispecchiante le vampe e gli incendi, pareva talvolta diventar un mare di fuoco: la notte era rotta dai razzi che i nostri arditi lanciavano per scoprire le masse avanzanti e colpirle con le infallibili mitragliatrici. Tra le artiglierie che allora appoggiarono con grande maestria le nostre azioni, va ricordata la cannoniera Nazario Sauro, vecchia carcassa austriaca armata di nostri bei cannoncini vomitanti fuoco sul nemico; la comandava Rizzo, l’affondatore.... Altri tre tentativi di avanzata, preparati e scatenati in breve tempo con le maggiori forze, si infransero sulla salda resistenza dei piccoli difensori. La catena delle volontà valse meglio dei reticolati di ferro e di qualsiasi artiglieria di sbarramento a trattenere le orde austriache.

Gli arditi vigilavano, perchè sapevano di essere i difensori di Venezia; comprendevano che se la loro catena si spezzava, era infranto l’ultimo, scudo che proteggeva la bella città, apparente nella lontananza nel plenilunio invernale, sotto l’aureola di fuoco e ferro lanciato dalle artiglierie di difesa contro le incursioni aeree che tentavano di dilaniarle il bel seno. Un foglio del co- /67/ lonnello Pavone, letto e commentato a tutta la truppa, l’aveva edotta pienamente della situazione: non si può dire quale fierezza di propositi abbiano eccitato negli animi, nel testo: nelle anime; corr. negli → Errata negli animi le parole chiare e vibranti dell’intelligente comandante. Un ardito illetterato, il sergente maggiore Torquato Torquati, aveva composto una di quelle canzoni, che, a dispetto della mancanza di forma, spandono il profumo della vergine poesia che sgorga dal cuore popolano. Tutto il battaglione l’aveva imparata, ed era divenuta la preferita; cantavano:

Quante notti ho sorvegliato
sulla Cavazuccherina;
gli austriaci alla rovina
noi arditi dobbiam mandar.
. . . . . . . . . . . . . .
Venezia ci hanno affidato,
Noi fiamme nere la difendiamo:
paura noi non abbiamo
e il contrattacco non si fa far.

Gli arditi rimasero a Cavazuccherina sino al sedici dicembre: furono quindi i primi difensori contro i più forti attacchi del nemico. Consapevoli della grandezza del compito loro, non si lagnavano mai del servizio permanente di trincea, del tutto contrario all’impiego normale dei battaglioni d’as- /68/ salto, e contrario sopratutto allo spirito irrequieto delle fiamme nere. Si sentirono in parte ricompensati del sacrifizio, dall’onore proveniente dal fatto che i pochi residui dei tre battaglioni ebbero il cambio da un’intera brigata di bersaglieri e che il comando del colonnello Pavone fu sostituito da un comando divisionale.

Se la terza armata potè coniare croci e medaglie coll’impronta dell’alato leone di San Marco, simbolo di forza immacolata e di vendetta senza debolezze, se lo stemma di Venezia potè diventare l’emblema della terza armata, ciò fu anche per merito dell’ardore leonino degli arditi.

/69/

Noia e passatempi.

Quando da Cavazucoherina il battaglione ritornò all’undicesimo Corpo d’Armata, fu accantonato, nel testo: cantonato; corr. negli → Errata accantonato a Pero, piccolo borgo a mezzo della campagna fra Treviso e Piave. Il gentile paesello incominciava allora a venir chiuso dentro un ampio cerchio di grovigli di reticolati e di trincee: doveva diventare un caposaldo della cintura difensiva di Treviso, e venivano colà accantonati gli arditi, affinchè in caso di invasione nemica il battaglione si rinchiudesse in quelle trincee e vi resistesse, nel testo: si resistesse; corr. negli → Errata vi resistesse ad oltranza.

Le casette da cui s’affacciavano i visi spauriti di pochi borghesi per interrogare le truppe che tornavano dalle non ancor salde trincee, di tratto cambiarono aspetto quando dai tinelli ai solai furono rigurgitanti di chiassose fiamme nere. Brusio, canzoni e zufoli riempirono l’aria d’allegria.

Giovinezza, giovinezza
primavera di bellezza,
della vita nell’ebbrezza
il tuo canto squillerà.

/70/ Questi bravi ragazzi che s’erano azzuffati senza tregua con le truppe scelte del nemico si godevano ora giustamente un poco di meritato riposo. Gli ufficiali avendo conosciuto sul campo il valore dei dipendenti, distribuivano con larghezza i permessi consentiti dai superiori, e lasciavano sempre un margine a quelle piccole libertà che formarono il privilegio inviolabile della nostra truppa. Un certo spirito di equa bontà nel giudicare le mancanze che non toccavano l’essenza della disciplina nè lo scopo speciale del corpo, generò nei dipendenti una simpatia singolare verso i superiori.

In tal guisa si fermò quella bella tradizione di serena franchezza che tanto distinse gli arditi del reparto. Sono anime aperte, pronte, leali: occhi che guardano senza timidezza, fronti che non impallidiscono mai, labbra su cui fiorisce il sorriso, e il motto vivace, e lo scherzo e il canto. Quanta serenità e spontanea letizia per quei dormitori dai giacigli di paglia, e attorno ai villerecci focolari nelle serate invernali!

Il battaglione si ricomponeva. Coi resti del ventiduesimo d’assalto si ricostituì la prima compagnia perduta al Tagliamento: /71/ poi giunsero altri complementi alla spicciolata, che andarono assimilandosi con l’elemento veterano. Si ripresero gli esercizi di ginnastica e le varie forme di allenamento all’assalto.

Verso la fine del gennaio si parlava sommessamente di qualche grande azione che avrebbe dovuto richiamare nuovamente il battaglione sul campo: poi corse voce che si dovesse partire per la fronte francese.... ma queste voci non avevano altro fondamento che il comune desiderio di interrompere il troppo lungo riposo. Quei vecchi soldati, i quali forse erano stati i più fedeli e fortunati fanti delle brigate di tradizionale valore, parte viva di tutte le offensive carsiche, quei vecchi soldati che, appena vestita la divisa dalle fiamme nere avevano intrappreso la guerriglia della ritirata e per quasi due mesi avevano poi combattuto, ora dopo un breve riposo venivano punti dalla nostalgia dell’assalto. «Di riposo ne avevamo sentito bisogno un mese fa: ma ormai, troppa grazia Sant’Antonio..... Le compagnie sono all’ordine, e perchè si aspetta a lanciarle contro gli invasori? Forse che non ci sono più gli austriaci sul Piave? Perchè non ci mandano a cacciarli?»

/72/ Queste le loro parole, il tema di molti discorsi.

La nostalgia del combattimento era talvolta sentita sino al parossismo: la vita pareva loro priva di scopo: la noia struggeva gli spiriti. Nella brigata degli ufficiali comparve tutta una fioritura di stornelli che riflettevano il tedio del bivacco e il desiderio della pugna:

La vita al battaglione è sempre più indecente:
noi tutti ci si ammala a furia di far niente.

Ed oggi ancor gli arditi han perso la pazienza,
e vogliono far l’azione per andarsene in licenza.

Autore di questi e cento altri versi era il tenente Italo Leoni.

Oserei dirlo il nostro vero Tirteo, se, contrariamente a quanto si narra dell’infiammatore dei combattimenti di Grecia antica, non avesse una bella statura da granatiere e una folta capigliatura perpetuamente scoperta ed arruffata come un vello leonino, e due occhiettini vivaci pieni d’ingegno. Quattro nastrini azzurri gli spiccano sul petto. I versi gli venivano spontanei come l’ardire. Verseggiava, canticchiava sempre; ma specialmente all’approssimarsi di qualche azione le rime gli sgorgavano in vena copiosa e inesauribile. Nell’ultimo pranzo, /73/ avanti la partenza, non parlava più che in ritmo e in rima e le sue trovate erano sempre geniali e piacevoli: si godeva un mondo a sentirlo e tutti erano presi dal lieto fervore del suo spirito.

Le strofette del tenente Leoni venivano cantate da ufficiali e soldati, ma questi ultimi avevano pure dei poeti più popolari. Ho già nominato il poeta di Cavazuccherina: non bisogna perdere l’occasione di fare la conoscenza con una delle più belle macchiette del reparto.

Era un napoletano, napoletano dalla punta dei piedi ai capelli. Si chiamava Sticca, ma tutti lo conoscevano per il Cavalier Sticca, come egli si firmava nei programmi musicali che in ogni festa affissava al Comando del Presidio di Pero. Poeta, compositore, costruttore di strumenti musicali, cantore, insomma un Uom di quattr’alme da Ippolito Pindemonte, Il merito vero Uom di quattr’alme si potrebbe dire, se tutte queste belle qualità non avessero concorso a formare una sola figura, cioè il brillante cantastorie napoletano. Ogni domenica adunque, il cavalier Sticca svolge nuovo programma. Verso sera una strana banda con curiosi strumenti esce dall’accantonamento: chi fa scoccar le nacchere, chi batte i piatti, chi fa passare una sega di /74/ legno a guisa di arco su corde tese sopra cassette di bombe ornate di pendenti di latta, chi soffia nelle canne, chi trae suoni dalle vesciche compresse....

Il cavalier Sticca, in capo, dirige la marcia, segnando la battuta con un gran bastone. Giunti sul sagrato, la banda viene circondata da una folla di militari e di borghesi: vi sono pure tutti gli ufficiali del reparto. Il piccolo napoletano grassoccio, dagli occhietti furbi, dai calzoni rotti, prende l’atteggiamento di un maestro per dirigere il programma annunziato: La Traviata, oppure Canzona arditi. Ma l’aspettativa del pubblico non è tanto per quelle canzonette come Mare chiare, Concettina, ch’egli canta con tutta la grazia patetica della sua dolce Napoli, quanto per certe strofette che ha preparate, e toccano i fatti e gli uomini del giorno.

A sostituire il maggiore Tani, era stato nominato, nel testo: eletto; corr. negli → Errata nominato dal ventidue gennaio il conte Umberto Augusti. Tale era il suo nome, ma gli arditi lo battezzarono subito col soprannome di Caramella, per la gran lente che portava costantemente all’occhio. Quando il maggiore s’accorse del nomignolo, con bello scherzo disse agli arditi: «Caramella mi chiamavano quand’ero tenente, Cara- /75/ mella da capitano: sarò ancora il maggiore Caramella». Tali dichiarazioni e altri atti di gioviale famigliarità parvero autorizzare gli arditi a servirsi del soprannome tanto per il maggiore quanto per tutto il reparto: anzi, nel battaglione caramella per un tempo infierì la manìa di portare all’occhio vetri di orologi, fondi di bicchieri e cocci d’ogni genere. In una pattuglia sul Piave il maggiore aveva mostrato che sapeva mantenere la sua gaiezza anche in trincea. E Sticca, alla domenica, cantava tra una battuta e l’altra:

Sto maggiore mi sembra ‘nu pazzo,
che allegria che porta in trincera....

Il maggiore s’era scelto un nuovo aiutante, buono ma alquanto serio, il quale aveva detto ad alcuni arditi: «Avete proprio bisogno della trincea per stare in freno»; Sticca ripetè l’ammonimento:

Giovinotti è finita a’ cuccagna,
a’ maggiore elicette l’aiutanta:
“Per punire sta gente canaia
in trincera l’avimmo a purtà”.

Se potessi raccontare tutti i tratti di spirito che raccolsi nelle camerate, per le strade, tra le palme e presso le fontane dei /76/ giardini del grazioso paesello, raccoglierei un volume non privo di curiosità, nè di rilievi psicologici. Ogni compagnia ogni plotone aveva il suo trovatore che eccitava il più largo e fresco riso.

Un passatempo non trascurabile era la «Casa dell’Ardito» che da prima fu modestamente preparata in un salone presso il Comando ed ottenne poi miglior sede nel locale che sta innanzi alle scuole comunali. Era una casa in costruzione, formata dai muri e dal tetto, senza pavimento e senza soffitto; ma gli arditi s’arrangiarono per compirla e renderla degna di essere la loro casa. Andammo sul Piave per parecchie notti consecutive a raccogliere tra le rovine legname e mattoni che venivano poi lavorati da un bel gruppo di operai agli ordini del tenente Felice Galanti, un bravo alpino che senza aprir bocca, coi cenni e col bastone otteneva ubbidienza allegra e pronta dai suoi arditi. La casa riuscì bellina e comoda: fu inaugurata una domenica di maggio con una bella festa. V’intervennero molti ufficiali che assistettero con piacere a gare e ad esercitazioni: tra l’altro si fece una finta azione contro una casa difesa disperatamente da mitragliatrici e lanciafiamme; si diede una curiosa /77/ scalata, per la parte esterna, al campanile, alto non meno di trenta metri; si eseguì una corsa del torrente.

I rischiosi esercizi che quotidianamente allenavano gli arditi, li rendevano sempre più impazienti di affrontare il nemico. Si desiderava d’andare di pattuglia; al tre di febbraio giunse l’ordine che tutto il battaglione si portasse in linea per eseguire una operazione nell’Isola Caserta, sulla sinistra di Fagarè. Si annunciò l’ordine alla truppa con alte parole di gioia: gli arditi scoppiarono in urrà, si fregarono le mani e presero la via del Piave. Ma quale indignazione! quando si seppe che si trattava solo di una corvée per trasportare la legna che i villani un tempo, prima di Caporetto, avevano ammucchiato sull’isola! Il terreno, è vero, era tra la nostra e la linea austriaca, e il nemico vi bazzicava in modo che si poteva anche sperare un abboccamento coi signori cecchini: «Ma — dicevano le fiamme nere — da quando in qua si son visti gli arditi a far la corvée; noi combattiamo!...». Quella sera si rovesciò una passerella sull’ultimo filone del fiume che metteva sull’Isola Caserta, in modo che due soli plotoni di tutto il battaglione poterono trasportare la legna; gli altri rimasero inoperosi /78/ protestando e rientrarono a Pero senza aver fatto nulla.

Due sere dopo, il battaglione era nuovamente comandato allo stesso servizio: ubbidì, ma protestando energicamente contro quell’impiego, e tutti, dal novellino ai veterani, sapevano citarti per filo e per segno la circolare numero dieci, sessantotto e novanta spedita dal Comando Supremo il cinque luglio millenovecentodiciassette, nella quale si proibiva di impiegare i reparti d’assalto «nei lavori di sterro, costruzioni, trasporti, ecc....». I Comandi, venendo a conoscenza di queste lagnanze, mitigarono il servizio, inviando una compagnia per sera invece di tutto il reparto. Ma gli arditi non si appagarono di questa via di mezzo. Continuarono le canzoni «Sul Battaglione della legna» e i frizzi e gli scherzi. Un bel giorno si strappano il fregio dalla manica e ne mettono un altro al suo posto raffigurante due pezzi di legno incrociati. Con tale nuovo distintivo si presentano anche a qualche generale. Bisognò accontentarli e presto. Ai quindici dello stesso mese un ordine del comando da cui si dipendeva stabilì che ogni sera fosse inviato un plotone di quaranta uomini con un ufficiale, per proteggere la /79/ corvée di fanteria che avrebbe dovuto trasportare la legna dall’Isola Caserta. Da quel momento il plotone che ogni sera partiva per il Piave era non di quaranta ma di sessanta ed anche ottanta uomini, tutti volontari. Mi ricordo che una volta accompagnai il tenente Fortunato Silla che s’avviò al Piave, con la lieta schiera cantante. Giungiamo all’argine che non è ancora notte e perciò sostiamo un poco per ordinarci; il giovine tenente si accorge che nella fretta della partenza abbiamo dimenticato la solita distribuzione di bombe a mano: onde va per fare un prelevamento, al Presidio della trincea. Siccome però è difficile aver bombe a sufficienza, io voglio vedere se ne trovavo, nel testo: se ve ne trovavo; corr. negli → Errata se ne trovavo alcune di vecchia data in fondo alle tasche degli arditi. Bisogna notare che, ad evitare inconvenienti, è stato proibito agli arditi conservare esplosivi: «Via, chi ha qualche bomba in tasca la metta pur fuori, che ce n’è bisogno e stavolta perdono io la scappatella». Chi ne mette fuori una, chi due, e qualcuno anche quattro. Un ragazzetto del novantanove mi si avvicina colle sue due bombe nelle mani e mi dice: «Signor Cappellano, ci proibiscono di portar le bombe, ma intanto vede che sono necessarie come il pane».

/80/ Passiamo tre o quattro filoni di Piave: ma appena arrivati sulla Caserta ci accorgiamo che attorno alle cataste di legna vi è del movimento:... vediamo distintamente alcune ombre fuggire.... sono certamente austriaci, che sono, nel testo: che erano; corr. negli → Errata che sono venuti a prendere quella legna già preparata, e che han fatto in tempo a svignarsela verso la loro linea. Ci schieriamo in ordine d’attacco: strisciando tra le erbe ci allarghiamo sui fianchi avanzando di fronte. Tutta l’isola è perlustrata in un paio d’ore: disposti gli uomini a gruppi sull’orlo verso la fronte nemica, facciamo venire il battaglione di fanteria che in poco compie il suo lavoro. Quando quelli si sono ritirati noi ce ne torniamo a Pero canterellando e fischiando le nostre canzoni.

Una vera pattuglia fu compiuta nella notte del cinque aprile: tre piccoli gruppi passarono sull’isola San Pietro, ma traditi dall’allarme nemico dovettero ripiegare causando e subendo alcune perdite. Abbiamo lasciato nell’isola il cadavere del caporale Turchetto, telefonista del Comando, che fu poi ritrovato dalla pia tenacia del tenente Galanti, dopo due notti di ricerche pericolose.

Questa gioventù briosa e vivace amava /81/ ardentemente il combattimento. Quando v’era bisogno di dieci uomini per servizio di linea se ne presentavano cento e sorgevano liti tra i più caldi pretendenti come se si fosse trattato di concorrere ad un divertimento: e invece andavano ad affrontare pericoli e morte.

Quando io volevo portarmi in linea per qualche operazione, dovevo tener celato il mio disegno come un segreto, che altrimenti venivo circondato da tanti, che imploravano insistentemente l’ambito onore della trincea!

Quale bontà e gentilezza in questi piccoli fanti delle fiamme nere! L’amore che essi portavano alle loro fiamme, non generò mai in loro un esagerato spirito di corpo, che li rendesse intolleranti. Altri reparti vivevano presso di loro a Pero: mitraglieri, artiglieri, fanti: mai si ebbe a lamentare il più piccolo incidente. V’era fra l’altro, in mezzo agli accantonamenti degli arditi, un ufficio della fonotelemetrica. Gli arditi ufficiali e soldati, s’erano subito fatti amici di quei calcolatori calmi e serii e invadevano spesso le loro stanze tranquille, piene di carte e di disegni.... ridevano scetticamente di quelle lunghe file di numeri che precisavano le posizioni /82/ dell’artiglieria nemica: ma non fu mai turbata l’armonia fra lo studioso e l’ardito.

Tutti coloro che poterono avvicinare questi giovani pieni d’entusiamo ne furono rapiti. Bicordo fra tutti i nostri più cari amici il tenente Beccaria che comandò per alcuni mesi il presidio di Pero. Spirito pacato di osservatore e di studioso, egli per tendenze, per età e per condizioni fisiche era lontano dalle qualità richieste per far l’ardito; eppure dopo che ebbe conosciuto quel nostro piccolo mondo e il suo valore spirituale, chiese ed ottenne di passare al battaglione.

/83/

Una partenza per la trincea.

Un grazioso intermezzo alla monotonia di Pero, si ebbe verso la fine del febbraio quando il battaglione passò temporaneamente alle dipendenze tattiche del ventitreesimo corpo d’armata, il quale lo fece accantonare ad Altino, piccolo Borgo che sorge alla destra della strada che da San Michele del Quarto va a Porte Grandi, sopra le rovine dell’antica città romana, che cominciavano appunto allora a emergere dai lavori di sterro eseguiti per la costruzione delle trincee.

V’era là un amplissimo poligono, nel quale tutto il battaglione poteva spiegarsi e liberamente manovrare con ogni arma. Si sapeva che era prossima un’azione, in cui il reparto doveva operare: perciò la preparazione s’intensificava. Le compagnie trascorrevano la maggior parte della /84/ giornata in esercizi ora separati e vari, ora d’insieme: l’aria era continuamente scossa da scoppi di bombe, spezzoni, stokes e dai colpi di moschetti e di mitragliatrici, nel testo: mitraglia; corr. negli → Errata mitragliatrici.

Chi entra nel campo vien subito colpito dall’intenso e vario movimento che tutto lo anima: qua presso giovani dal torso nudo snodano e torcono le membra vigorose in difficili esercizi; più in là vi sono squadre di diversi saltatori; da quell’altra parte si costruisce una piramide umana; infine vi sono i corridori.... Sullo sfondo divampano repentinamente rosse fiammate che lanciano al cielo nuvoli nerastri; scoppiano con fragore i petardi e squittiscono le mitragliatrici.

Mentre ci avviamo verso il combattimento, possiamo incontrarci in una barella che trasporta un ferito dal medico, il dottor Pagani, simpatica figura cara a tutti e da tutti conosciuta sotto il nome arabo di Tabibu. Si può dire che le perdite subite nei nostri esercizi, rappresentarono abbondantemente quelle che avremmo potuto avere se avessimo dovuto presidiare, continuamente, una trincea del Piave.

Al poligono ci davano senza difficoltà ogni sorta di esplosivi: se ne fece uso ed abuso. Il tenente Leoni, il poeta, spesso /85/ faceva terminare le tattiche fantastiche della compagnia distribuendo un razzo a ciascuno dei suoi circa dugento uomini che dovevano spararlo tutti insieme ad un suo cenno. Devo però soggiungere che si impiegavano gli esplosivi, sovente, con altra utilità. I canali frequentissimi che attraversano tutta la palude altinate erano ricchi di ottimo pesce e gli arditi non tardarono ad accorgersene: spezzoni carichi di gelatina scoppiarono per tutte le sinuosità delle correnti, e fornirono abbondante e delizioso nutrimento a tutti.

Quante barcheggiate su quelle acque tranquille ed azzurre! Talvolta si remigò parecchie ore continue per approdare a Burano od a qualche isola della laguna, lanciando al vento, che stormiva tra i canneti delle brughiere, i nostri canti e la nostra gioia.... Alla mensa gli ufficiali sfoggiavano una singolare allegria; era l’idea della prossima azione che li scaldava. Il poeta cantava:

Il nostro battaglione cessato ha d’esser vile,
perchè va a far l’azione vicino a Capo Sile.

L’azione progettata del ventitreesimo corpo aveva per oggetto l’occupazione del territorio che si distende al mare tra i due /86/ Piave. Dopo ordini e contrordini si venne a conoscenza che l’azione si sarebbe svolta all’undici o dodici del corrente marzo. Il giorno dieci si doveva partire per le trincee di Intestadura. Io sono certo che nell’anima dei miei arditi quella partenza rimase come uno dei più dolci ricordi, ed è per tale ragione che la racconto.

L’alba annunciò una magnifica giornata. Le recenti pioggie avevano purificato l’atmosfera dandole una cristallina limpidezza in cui si versava il più bel sole. La campanella della chiesina suonava a distesa e i bambini del borgo vestiti a festa, si affacciavano alla soglia del Comando per chiederci a qual’ora era la messa. Alcuni arditi sotto il portico della chiesa lavoravano per ornarne il rosso arco con fronde d’alloro: il bianco altarino improvvisato nel centro aveva per sfondo il tricolore.

Verso le dieci, sulla piazzetta rettangolare s’era adunata tutta la popolazione: i bambini circondavano l’altare. Le compagnie vollero intervenire inquadrate: in capo a ciascuna un ardito reggeva una bandiera. Quella di mezzo era stata rinvenuta nel Municipio di Cavazuccherina, ed era l’oggetto più caro a tutto il battaglione: le altre due, larghe poche spanne, /87/ erano state donate dal Cappellano il giorno innanzi, affinchè ogni compagnia che doveva operare separatamente, potesse sempre avere innanzi un segno di unione e di elevazione, anche sul campo di combattimento. Quale culto ebbero i nostri battaglioni per questi piccoli tricolori, pei gagliardetti neri e rossi attorno ai quali la compagnia o il plotone compiva nella zuffa prodigi di valore! Le due nuove bandiere aspettavano la benedizione di Dio. Dopo la Messa il sacerdote parlò raccontando dell’amore piangente che Gesù ebbe per la sua patria e della bellezza del sacrificio, incitando tutti a purificarsi e a rendersi degni di salvare la patria. Poi, mentre il battaglione presentava le armi, pronunciai solennemente la formola rituale: «Benedici, o Signore, le nostre bandiere, per l’intercessione della Vergine Maria, di San Giorgio e di tutti i Santi della Nostra Italia». Indi il maggiore si fece innanzi e con forti e nervose parole incitò gli arditi a giurare con lui davauti all’altare: «Giurate voi di compiere qualunque sacrificio per ricacciare i barbari e riconquistare l’onore d’Italia?».

«Lo giuriamo», rispose tutto il battaglione con un urlo, alzando le mani e le /88/ armi. Molti occhi giovanili luccicavano di passione.

Verso le tre del pomeriggio si formano le squadre; le compagnie si allineano lungo la strada e quando tutto il battaglione è in ordine, la tromba dà il segnale della partenza. I buoni villani, le fanciulle dalle soglie e dalle finestre salutano con parole e con gesti finchè non sono passati tutti gli arditi; i bambini ci seguono per un tratto. S’intonano le più belle canzoni: ogni plotone ne canta una diversa e non v’è ardito che resti muto. In capo sventolano le bandiere baciate dall’ultimo raggio di sole.

La interminabile fila di soldatini dalle giubbe e dai tascapani rigonfi di bombe, colle mitragliatrici, gli stokes e i bidoni lanciafiamme sulla schiena si snoda per la strada oosteggiante il Sile; le canzoni sono alternate dagli urrà e dai saluti chiassosi. Di tanto in tanto lo scoppio di qualche petardo rimbomba nell’allegro frastuono come i mortaretti delle nostre sagre campagnuole.

Io camminavo in capo alle prime schiere discorrendo con il capitano Chierici, giovane pieno di coraggio e di intelligenza: avevo saputo che la sua compagnia doveva /89/ operare il tragitto più difficile, perciò sentii il dovere di rimanere con quella. Dietro di me due arditi accompagnavano con le chitarre stornelli e canzonette a cui gli altri facevano coro. Passando innanzi alla Sezione di Sanità, da un gruppo di medici e di ufficiali d’artiglieria raccogliemmo improvvisati applausi ed evviva, che solleticarono l’amor proprio delle fiamme nere e riaccesero le loro canzoni. Qualche disfattista in grigio-verde che guardava con meraviglia e con una cert’aria di disprezzo dovette ritirarsi pel timore di provocare uno sdegno forse troppo terribile. Un soldato passandoci innanzi a cavallo osò fare un verso di scherno: gli volò dietro una bomba che scoppiò pochi metri discosto e gli fece prendere un tale galoppo che in breve scomparve sulla strada che pure correva avanti diritta. Credo che non si sarà mai più preso il capriccio di schernire l’entusiasmo degli arditi.

Quando a notte inoltrata arrivammo presso le trincee, solo allora i canti si spensero: ma non morì l’entusiasmo. Ogni cosa era pronta, ma sopratutto l’animo degli arditi. Però ogni ordine di operazione militare sinchè non è diventato fatto compiuto è sempre soggetto al contr’ordine.

/90/ Così quella volta accadde che, a dispetto della sicura preparazione e con grande malumore delle fiamme nere, fummo, nel testo: siamo stati; corr. negli → Errata fummo fermati e richiamati ad Altino e quindi a Pero per conservarci ad altre battaglie.

/91/

La grande battaglia.

La resistenza che l’esercito nostro oppose all’offensiva austriaca nel giugno del millenovecentodiciotto è da scriversi fra le più belle vittorie di tutta la guerra mondiale. L’impero Austro-Ungarico aveva preparato il gran colpo con tutte le sue forze e si riteneva certo di una vittoria pronta e decisiva; ma le sue truppe ingannate e sacrificate conobbero tutto il valore italiano e in meno di una settimana rinviarono gli ultimi avanzi dei gruppi d’urto: gli Stoßtruppen omologhi degli arditi italiani gruppi d’urto ad annunciare ai comandi il fallimento completo dell’impresa. Il peso massimo dell’offensiva gravò dapprima nella regione montana e poi scese gradatamente sul Piave. La Terza Armata ancora questa volta ebbe l’onore di vincere una grande battaglia: ed i fidi reparti d’assalto, lanciati ove ardeva intensa la pugna, nel testo: intensa pugna; corr. negli → Errata più intensa la pugna, furono tra i primi a cogliere palme di vittoria.

/92/ Non è facile narrare, sia pur sommariamente, ciò che fece l’udicesimo battaglione durante i sette giorni dell’offensiva; le compagnie vennero staccate in diversi settori ove la minaccia era più forte, e in ciascuno di questi alle volte si azzuffarono in combattimenti d’insieme, alle volte, frantumati in gruppi scelti, impegnarono audaci duelli colle avanguardie nemiche. Quanti episodi di inestimabile valore, o non conosciuti, od obliati, o suggellati dalla morte!

Gli arditi aspettavano l’offensiva nemica e vi si preparavano riconoscendo i capisaldi, le trincee, le piste delle difese avanzate e retrostanti. Il maggiore Fedozzi che da poco tempo aveva preso il comando del reparto, tutto aveva disposto colla preveggenza singolare di chi ha fatto tesoro di una lunga esperienza di guerra. Quando alle tre del giorno quindici udì accendersi il fuoco tambureggiante, trasferì il battaglione da Pero in una località scelta antecedentemente, più propizia alla difesa del capo-saldo e meno esposta al tiro. La prima compagnia era appena uscita dall’accantonamento che la casa venne colpita in pieno e quasi completamente abbattuta da una granata. I contadini che fuggivano per la campagua o s’erano rinchiusi nelle /93/ cantine, strepitavano: urli di donne e pianti di bambini riempivano le brevi lacune dei laceranti scoppi. Nell’aria mattinale si diffondevano i tenui vapori dei gas asfissianti e lagrimogeni.

Verso le nove e mezzo si ingiunge al battaglione di mettersi a disposizione della quarantacinquesima divisione, e di partire immediatamente puntando su Villanova.

L’ordine viene appreso con grande giubilo, come una buona novella lungamente attesa.

Gli arditi si allineano sulla strada e ad un cenno del maggiore s’inizia la marcia: non si conobbe mai al battaglione un movimento più spigliato nè più gaio. Scoppiano le granate sulla strada e per le campagne all’ingiro, ed ogni colpo è salutato con frizzi, motti e risate. Si cantano a squarciagola le nostre canzoni, e le bandiere bianche, rosse, verdi e nere sventolano nell’aria tra le mani che vogliono onorarle e difenderle sino alla morte. Per la strada vi è un gran movimento di militari; tutti ci guardano, molti con ammirazione; molti visi esterrefatti sgranano tanto d’occhi e tendono le orecchie quasi increduli alla gioia che le canzoni spandono nell’aria. Al nostro passaggio il ge- /94/ nerale della brigata «Sesia» telefona ai suoi eroici soldati: «Gli arditi passano cantando: Mantenete la linea: presto saranno con voi».

Un ordine improvviso stacca la prima compagnia e la dirige, per il quadrivio delle Orosere e Casa Alberghetti, a disposizione del Comando del terzo battaglione del dugentodue fanteria, impegnato sull’Argine Regio. Il Comandante della nostra compagnia, capitano Vincenzo Marchese, è in testa ai suoi soldati e ne stimola l’ilarità. Un alto ufficiale lo ferma e gli dice:

«Capitano, riordini la sua compagnia e prosegua.»

Il Comandante senza frappor tempo, con un secco accento siciliano risponde: «Sappia che i miei soldati sono tutti eroi e non v’è bisogno di riordinarli perchè siamo sempre, ma ora specialmente, pronti a tutti gli ordini.»

E riprende la strada: ad un amico che lo saluta, risponde: «Oggi o faremo cose da pazzi, o ci ammazzeranno tutti».

Quando ebbe rintracciato il Comando a cui doveva indirizzarsi, seppe che non v’era tempo da perdere, poichè il nemico si infiltrava per diverse parti. Disposti i suoi /95/ in agguato, si spinse innanzi con alcuni dei più fidi per scoprire gli appostamenti austriaci; ma, mentre si piegava tra le frondi per tendere l’orecchio ad un lieve rumore, fu scoperto: una pallottola gli trapassò il cuore e non gli lasciò più vita che per esclamare: Mamma, mamma!

Colla sua perdita venne a mancare al battaglione, sin dal primo urto, uno degli ufficiali più valorosi ed efficaci. Era il vero tipo dell’ardito: alto, con due baffoni a punta, neri come i capelli, e due occhi indagatori e vivaci, se si fosse involto in un bianco baraccano sarebbe sembrato un arabo autentico del deserto. Aveva nel cuore il fuoco dei suoi vulcani, ed era amato dagli arditi alla follia. Il sangue isolano e le lunghe abitudini contratte in Libia e per tutta la nostra guerra lo avevano reso combattente audacissimo e comandante perfetto.

La salma dell’amato capitano, riportata dai compagni di pattuglia, incitò alla vendetta tutti gli arditi che si gettarono sulle avanguardie nemiche con risoluto sbalzo e dopo aspro combattimento le scompigliarono e li ricacciarono.

Per tutto il giorno seguente la prima compagnia rimase su quella posizione, e /96/ vi ebbe a sostenere furiosi contrattacchi. Gli Magyar Királyi Honvédség ovvero Regia Guardia Nazionale Ungherese, colloquialmente honvéd, è l’esercito magiaro costituito nel 1867 con il riconoscimento dell’autonomia dell’Ungheria all’interno dell’Impero Austo-Ungarico le rame piemonte­sismo per i rami Honved venivano avanti in file serrate, sotto le mitragliatrici che gli arditi avevano postato tra le rame degli alberi, dietro le case diroccate, sulle buche delle granate; quando essi furono sotto tiro tutte le armi scattarono improvvisamente, mentre gli arditi intonarono l’inno preferito. Leoni, il tenente poeta che aveva assunto il comando della compagnia, aveva combinato quella scena fieramente suggestiva! Colla mitraglia volavano le strofe da lui stesso dettate:

Vogliamo redimere il suolo
Che il piede straniero ha oltraggiato:
Gli arditi l’han tutti giurato,
Sterminio e morte all’invasori

Con il pugnal si sgozzerà
Ogni nemico senza pietà.

Combattevano, morivano, colle armi in mano e il canto sulle labbra.

Gli ungheresi; negli → Errata si suggerisce la corr. I nemici Gli ungheresi ebbero perdite senza numero e per di più lo scorno! E sentirono tanto quelle, quanto questo. Per quattro volte in una sola giornata ripeterono l’assalto con un crescente furore infernale, ma per quattro volte il canto e le terribili mitraglie degli arditi li ributtarono. I man- /97/ dolinisti sapevano suonare assai a proposito!

Le altre due compagnie al mattino del quindici avevano preso posto lungo il fiume Meolo. Verso le tredici, la seconda fu portata sulla strada Le Crosiere-Molino Vecchio-Saletto, per tentare un contrattacco sulla destra del nemico che era penetrato tra San Bartolomeo e Villa Nova. A circa mezzo chilometro da Le Crosiere, noi ci si dovette appostare sul terreno per ripararci da raffiche di mitraglia, provenienti dalle case situate presso l’argine del Piave. Si staccano tosto delle pattuglie guidate da alcuni ufficiali volontari. Tra questi è il tenente Ugo Lampiasi, caro giovane troppo animoso, pieno d’entusiasmo e di gentile bontà. Subito scoperto dal nemico egli cade tra i primi. Rimane pure ferito il tenente Benzo di Giacomo che comandava la compagnia. Nonostante queste perdite capitali, le pattuglie avanzano fin sotto le posizioni e riescono a puntare l’armi contro i fianchi: il nemico dopo disperata e cruenta difesa, riconoscendo la propria impotenza di fronte agli audaci assalitori, ripiega sulle linee retrostanti. Ristorata in tal guisa la situazione, la compagnia ritorna /98/ al posto di prima, attendendo di venir richiamata contro nuovi attacchi.

La notte, rotta solo da qualche allarme e da scariche intermittenti di ambe le artiglierie, passò senza gravi incidenti.

Il nemico si assestava e preparava poderosi attacchi. Nel pomeriggio tentò una pressione a fondo che richiamò in combattimento la seconda compagnia la quale vi lasciò la spoglia esanime del tenente Nanni Amodio, mentre la terza fu inviata a rinforzare il caposaldo di Casa Verduri, fortemente scosso. Questa si schierò fra due reparti di bersaglieri e pernottò in vigile attesa.

Al mattino del diciassette le tre compagnie vennero raccolte fra le due case, Pastori e Verduri. Il vantaggio riportato all’inizio dalle truppe nemiche nel guado del Piave, parve annientato dall’insuccesso dei cozzi formidabili che per più di due giorni tentarono inutilmente contro la valida resistenza dei fantaccini. Già nell’aria si disegnava l’insuccesso di tutta l’offensiva.

I Comandi austriaci fermarono per poco ogni movimento, allo scopo forse di prendere nuovi orientamenti. Ne approfittarono i nostri per preparare un contrattacco. Pioveva sempre e dentro ai piccoli capi- /99/ saldi improvvisati tra le Case Pastori e Verduri, s’addensavano due brigate e il reparto allo scoperto e coi piedi conficcati nel fango e nell’acqua. Alle ore quindici si riceve l’ordine che stabilisce l’operazione per le sedici e mezzo. Ma un quarto d’ora prima del nostro attacco, i posti avanzati rientrano gettando l’allarme: il nemico avanza. Gli arditi volano sulla linea e, mescolandosi coi fanti, piazzano tutte le mitragliatrici. Gli austriaci che rapidamente si gettano fin sotto ai deboli reticolati vengono falciati dalle nostre raffiche, e s’abbassano a terra, corrono ai ripari, scompaiono. Le nostre compagnie, ad un cenno balzano dalle trincee e li inseguono; la terza avanza di circa ottocento metri mordendo audacemente la ritirata nemica; ma è costretta ad arrestarsi davanti ad una improvvisa resistenza. S’invia immediatamente un porta-ordini a chiedere soccorso, specialmente per la protezione dei fianchi che rimangono scoperti. Il tenente Orilli è colpito da una prima pallottola che gli ha traforato il polpaccio della gamba sinistra: ma non lascia la linea. Egli distacca una staffetta chiedendo disperatamente i rincalzi, poichè si vede stretto alle ali e già quasi aggirato da pat- /100/ tuglioni nemici: ma un ardito che giunge trafelato gli porge un biglietto in cui il tenente legge l’ordine di rientrare alla trincea di partenza. Era troppo tardi anche per questo movimento, poichè ormai tutto all’intorno si era rinchiusi da un robusto cerchio di austriaci che avanzavano concentricamente, lanciando bombe e intimazioni di arresa. Fu un momento di supremo ardire! Gli uomini si strinsero attorno agli ufficiali e tentarono strenuamente di aprirsi una via tra le folte file nemiche. Sul punto indicato dal tenente volano gli ultimi petardi, ma le schiere nemiche anzichè assottigliarsi e cedere, aumentano di numero e intensificano il fuoco. Il cuneo degli arditi le penetra a viva forza: nelle estremità s’impegnano duelli sanguinosissimi: le fiamme nere si svincolano dalle strette gagliarde degli ungheresi e poco sotto: ungherese; negli → Errata si suggerisce la corr. dei nemici, nemico degli ungheresi non senza terribile vendetta. Orelli è nuovamente ferito alla coscia destra; anche l’intrepido tenente Felice Galanti che aveva fatto prodigi di valore, rimane gravemente colpito. Finalmente arrivano al caposaldo.... ma non tutti. Parecchi rientrarono poi nella sera o nella notte, narrando diverse avventure: chi era rimasto nelle mani di qualche ungherese a cui colla /101/ forza o coll’astuzia era sfuggito; chi se n’era stato accoccolato per lunghe ore fra le alte erbe selvaggie, e fasciandosi alla meglio una ferita attese; negli → Errata si suggerisce la corr. attendendo, ma mi sembra preferibile la forma originale attese le tenebre per raggiungere i nostri.

La notte fu relativamente calma: la pioggia batteva con insistenza disperante. Il getto quasi continuo dei nostri razzi faceva brillare tutto quel verde lussurreggiante, in mezzo al quale le vedette cercavano di scoprire i caschi cupi e massicci degli assalitori.

Sorse il mattino, che era il diciottesimo di giugno, e segnò le più gravi perdite del battaglione. La lotta si riaccese più terribile che mai. Le artiglierie nemiche avevano individuato i capi-saldi della nostra resistenza e si sfogarono sin dalle prime ore mattutine a scaricare raffiche intermittenti di piccolo e medio calibro. Verso l’una pomeridiana il bombardamento s’intensifica e si protrae per oltre un’ora e mezzo con speciale insistenza sulla nostra ala sinistra che è tenuta dalla seconda compagnia. Gli Honved si presentano nuovamente all’attacco; la resistenza della nostra linea, fiera e salda, ributta le prime ondate, ma il nemico non si stanca e continua a batterci alle spalle con le artiglie- /102/ rie per impedire l’affluenza dei rincalzi e lancia nuovi plotoni affiancati contro la nostra fronte. Per due ore infuriò questo urto sanguinoso, senza che la difesa si spezzasse. Però le perdite lentamente diradavano sempre più le nostre file, e le rendevano in qualche punto assai tenui, mentre quelle nemiche erano sostituite da elementi freschi. Di sorpresa, quasi tutta la seconda compagnia si vede assalita sui fianchi e alle spalle da forze smisuratamente preponderanti; ma con suprema abnegazione, anzichè arrendersi persiste nella difesa ad oltranza. Fu un sacrifizio eroico che non valse ad altro che a meritare maggior gloria ai martiri, gloria riconosciuta pure dagli elogi di qualche leale capo nemico.

Una parte dei circondati riuscì a svincolarsi dalla ferrea stretta e si diresse a casa Pastori dove stava la prima compagnia che aveva pure bisogno di soccorso per resistere ai continuati, nel testo: a continuati; corr. negli → Errata ai continuati attacchi.

Mentre le altre due si struggevano nella eroica resistenza, la terza compagnia, con riuscitissimo movimento e senza grandi perdite, rioccupava la sponda del Meolo sin presso il Mulino nuovo. Il cronista del diario storico del battaglione chiude la /103/ breve storia dei fatti esposti con queste parole: «In questa giornata specialmente emerge il valore degli arditi, che con vera abnegazione ed ardire, hanno sostenuto eroicamente numerosi e furiosi attacchi nemici riuscendo a svincolarsi dall’accerchiamento con gravi sacrifici». E segue il numero delle perdite che supera i centocinquanta uomini.

Il reparto era naturalmente stremato di numero e di forze. Quattro giorni e quattro notti di attacchi e di contrattacchi, di trepidazioni e di sforzi avevano logorato i muscoli e i nervi degli eroici difensori. La pioggia noiosa e insistente al pari dei tedeschi rendeva più tetra la battaglia. Tuttavia i resti del battaglione resistettero ancora quasi tre giorni in linea, continuando a sostenere gli ultimi sforzi dell’ormai sfinita offensiva.

Il giorno diciannove col concorso di pattuglioni del quinto bersaglieri ciclisti si diede un brillante assalto al Mulino Nuovo e lo si conquistò. Nei due giorni susseguenti s’infransero parecchi assalti.

Alla sera del ventuno il battaglione venne ritirato a Carbonera di Treviso per riposo e riordinamento. Nel pomeriggio della domenica ventitrè, la terza compa- /104/ gnia ebbe ancora l’incarico di inseguire la ritirata nemica sulla strada di San Biagio di Callalta. In tal guisa ebbe termine quella che potè giustamente esser detta la nostra settimana di passione, sia pei sacrifici acerbi patiti serenamente dal nostro soldato, sia per la risurrezione delle speranze in ogni cuore italiano.

Un’eco della grande vittoria di giugno risuonò ancora sul Basso Piave nei primi del luglio, quando i valorosi resti dei Battaglioni d’Assalto della Terza Armata furono là raccolti per riconquistare il delta formato dai due Piave. Le prime ondate d’assalto avevano alla punta le fiamme nere.

Gli antichi difensori di Cavazuccherina eran diventati baldi assalitori. La mattina del quattro luglio sulla laguna splendeva un sole incantevole: gli arditi si preparavano all’attacco sui diversi settori, mentre che il nemico, presentendo il pericolo, controbatteva fortemente. Una granata scoppiò proprio nella trincea di partenza e ferì alcuni dei nostri: tra di essi era il tenente Bella, che ebbe parecchie lesioni e la mano orribilmente lacerata e guasta per sempre. Il giovane ufficiale mantenne a tutta prima il suo abituale sor- /105/ riso, ma poi non potè trattenere il pianto che gli scese abbondante sul giovane viso, per il dispiacere di essere allontanato dalla battaglia.

L’azione riuscì: materiali e prigionieri abbondanti rimasero in mano nostra. Si raggiunse l’estremo argine segnato, si sostennero fulminei ed impetuosi contrattacchi, e poi si consegnarono le trincee alla fanteria colla solita parola che anche quella volta fu un augurio di più grande vittoria: «L’Austriaco non passi».

/106/

Due arditi.

Fra coloro che diedero la giovane vita sul Piave per arginare l’offensiva nemica del giugno, vi sono due arditi sui quali conviene fermare la nostra attenzione. Sono due semplici soldati, caduti in mezzo alla falange dei nostri martiri, coi quali dovrebbero avere sempre comune la celebrazione: ma io non separo i loro nomi dalla gloria di tutti, se non per rilevare brevemente gli antecedenti singolari della loro immolazione. I due racconti stanno qui uniti per sola forza di antitesi, poichè il primo dei due arditi è venuto al Battaglione d’Assalto dalla calma sacra della famiglia e del Seminario, il secondo invece dalla strada e dal carcere.

Mi pare assai bello e commovente leggere nella stessa pagina la storia di due anime che vengono, una dalla luce e l’altra dalle tenebre, per versare il sangue nello stesso sacrificio, sullo stesso altare!

Il primo adunque era un giovane più /107/ somigliante ad un angiolo del paradiso che ad umana creatura. Lo conobbi là dove stanno gli angioli. Un pomeriggio d’aprile entrando nella chiesina di Pera, tutta azzurro e stelle, scorsi in fondo, attraverso alla polvere d’oro dei raggi solari, inginocchiato presso il tabernacolo, un ardito, immobile, colla faccia rivolta al Signore come uno dei serafini dipinti sulle pareti. Lo volli subito conoscere: il viso infantile, fresco e roseo, con due grandi occhioni dolcissimi, mi si volse sorridendo in tal guisa che pareva esprimere la sorpresa gioconda di chi ritrova un vecchio amico. E mi narrò con confidenza mista a timidezza tutta la storia della sua vita, limpida come una vena d’acqua nascosta tra i fiori.

Il suo nome è Vitaliano Grilli, la sua patria Monte Urano delle Marche ove egli sorrise la prima volta nel maggio del milleottocentonovantanove. Era cresciuto tra le cure d’una famiglia delicatissima, dalla quale era passato nel Seminario dei Padri Sacramentini di Castelvecchio, presso Moncalieri di Piemonte. Seppi poi quale amore e stima s’era guadagnata tra i compagni e i superiori del collegio: era comunemente stimato il fiore più puro di quell’orto chiuso. L’anima sua s’apriva ad una reli- /108/ giosità fatta di fervori che talvolta rassomigliavano all’estasi. «Vorrei poter star sempre, anche fisicamente, vicino a Gesù nell’Eucaristia: vi si sta tanto bene!» diceva ai compagni; e in vero non si sarebbe staccato mai dall’altare, specialmente nel tempo destinato al divertimento. Nutriva anche una passione profonda per la musica, e nelle note delicatissime dell’organo, durante le sacre funzioni, trasfondeva i più vibranti sensi del cuore innamorato.

Quando l’Italia dichiarò guerra all’Austria, il professore diè questo tema agli studenti: Che farò io per questa guerra? Il buon Vitaliano che toccava appena i sedici anni, scrisse un bel componimento nel quale spiegò che egli avrebbe voluto arruolarsi nell’aviazione per volare sul cielo di Vienna per cogliere il nemico nel suo covo. L’ingenua e significantissima aspirazione fece battezzare il fervoroso giovane col nome di aviatore. Ma i voli dell’ardito collegiale ebbero principio quando, vestito il corpo diciottenne del grigioverde, spontaneamente passò fra gli arditi. I compagni meravigliarono assai quando lo seppero, ed un parente lo consigliava con tenerezza a ritornare in un corpo meno pericoloso; ma l’angelico giovane rispon- /109/

deva: «Si more? Tanto meglio! Sarà il paradiso assicurato, sarà veder Gesù, e per sempre; morir martire dell’obbedienza». La qual risposta fa comprendere facilmente che le sue virtù militari sgorgavano dalla fiamma soprannaturale che gli infocava l’anima. Le critiche di volgari scettici a cui faceva difetto o l’amore di Patria o la fede religiosa o ambedue queste virtù, non gli sono mancate; ma non turbarono mai la serenità di quell’animo limpido come l’azzurro che splende eterno al di sopra delle nubi.

V’eran dei giorni in cui la calma sua mi pareva più lucida, la sua fronte più liliale, il suo sorriso più profondo: erano i giorni della comunione. Tanto era il godimento che ne traeva, che per godersi la santa estasi del banchetto eucaristico si sottoponeva a gravissimi incomodi.

Godeva di prestare qualunque servizio e con finezza incredibile andava in cerca dei più umili per sollevarne i compagni: i quali, anzichè motteggiare la dolce pietà, la veneravano e ne ambivano con emulazione la soave amicizia.

Alla mattina del quindici giugno fu visto passare tutto lieto in mezzo ai compagni che cantavano colle bandiere spiegate: /110/ era la prima volta che s’avviava al combattimento e vi portava tutto il fervore di un neofita. In un giorno colse la palma dei martiri. La mattina susseguente una granata cadde al suo fianco e lo lasciò morto per l’enorme spostamento d’aria prodotto dallo scoppio, senza punto dilaniare il suo bel corpo, che raffigurava perfettamente lo spirito angelico che l’aveva animato. La placida coscienza che non aveva mai ceduto alle burrascose tentazioni del male, che nell’amore di patria aveva vagheggiato la rinunzia suprema, s’affissò serenamente nella morte, e attraverso ai veli del mistero scoprì Gesù, il dolce amico delle sue ferventi comunioni.

Chi, anche per poco, ha gettato uno sguardo nel mare di luce che irradiava quel cuore, non lo dimenticherà più: e comprenderà la spontanea nostalgia del commilitone che un giorno mi disse: «Grilli era un giovane col quale si viveva tanto bene!».

Totalmente diversa è l’indole dell’altro ardito: diversa assai la sua storia.

Le mie preferenze fra i soldati, venivano sempre prodigate ai più vivaci o, dirò nel mio buon piemontese, ai più biricchini, /111/ cioè a certi tipi caratteristici pei quali mi pareva essere sopratutto giovevole la comunione con uno spirito sacerdotale.

All’undicesimo reparto avevo due di questi preferiti: due amiconi indivisibili, ambedue del più schietto popolo di Roma. Il più anziano, già prima della guerra nostra, aveva abbandonato spesso la bottega di barbiere in Transtevere per seguire i Garibaldi in parecchie spedizioni: durante la nostra campagna s’era meritato tre medaglie al valore. Il secondo, passato per analoghe vicende, era della stessa tempra. Un giorno mi presentarono una recluta che entrava a fare il terzo nella combriccola: un giovane sui venticinque anni, piccoletto, bruno, col viso pienotto completamente rasato, e un’andatura assai spigliata. Mi salutò con un grazioso accento romano e mi pregò di ascoltare la sua storia. Da poco era giunto al battaglione e si sentiva sommamente amareggiato da certe carte che erano giunte dalla Questura di Roma e che, secondo lui, non avevano più ragione di essere scritte; perciò mi chiese di rivedergli una protesta che intendeva inviare al questore. Conservo ancora quel documento che trascrivo dall’originale senza alcuna variazione:

/112/

“Egregio Questore.

Chiedendo scusa del disturbo, le invio la presente, onde sperare che la voce di un pentito, giunga al suo cuore di padre, e prenda in considerazione i fatti che espongo.

Figlio di onesti genitori, ed avendo cugini i quali col grado di ufficiali e sottufficiali combattono al fronte, provai ripugnanza del mio passato, e qui sul campo dell’onore e della Gloria, combattendo per una causa giusta e santa, cerco la mia riabilitazione.

Giorni or sono giunse a codesto Comando una lettera mandata dalla Questura Centrale così compilata: — «Si dia informazioni se il vigilato....; tipo violento e ladro si trova costì, s’informi noi ogni volta che va in carcere, all’ospedale, in licenza e suo trasferimento, per non perderne le traccie». Certamente i miei superiori non poterono mandare altro che notizie buone, e migliori nell’avvenire se Dio e la fortuna mi aiuterà.

Il .... non ha più bisogno di nascondersi, anzi avrà onore di mostrarsi d’avanti uomini buoni e coscienziosi, come soldato che ha fatto e fa il suo dovere per la Patria e per il suo avvenire.

/113/ La S. V. Ill.ma potrà attingere informazioni all’84.° Reggimento a Firenze, dove feci domanda per partire subito per il fronte, potrà domandare al 244.° Reggimento fanteria, 1.° Battaglione Sezione Bettica, e tutti potranno dire che fui un soldato animato d’amor di Patria, e che feci sempre il mio dovere.

Ora domando: Cosa si vuole da me sventurato? Non basta ciò per dar prova del mio ravvedimento? Non basta che qui dove si combatte e si muore cerco la mia redenzione a costo della vita? se io avessi avute idee cattive non mi troverei volontario in un Battaglione d’arditi.

Ill.mo tralascio e fiducioso che la S. V. prenda a cuore il mio caso e brami vedere un uomo riabilitato, le porgo ossequi

della S. V. Dev.mo

. . . . . . . . . . . . »

Ho riportato questa lettera perchè mi pare singolarmente commovente ed esemplare. Vibra in essa una coscienza ridestata e già salda. Chi la scrisse, colle sue colpe aveva tradito le speranze di onesti genitori e disonorato un nome rispettabile; ma l’amore della famiglia (infallibile stimolo ad ogni elevazione) non gli venne meno, /114/ non ostante i ciechi soprassalti del sangue giovanile, non ostante le lusinghe dei cattivi compagni che gli avevano spezzato all’uscita del carcere i propositi di ravvedimento fatti nelle fredde celle di Regina Coeli.

La guerra gli apparve come la grande emancipatrice da quella schiavitù di abitudini entro la quale sempre più cadeva.

Volontario al fronte in un reggimento di fanteria, volontario al Battaglione d’Assalto dove fu ricevuto in via d’eccezione per la sua insistenza e per la provata buona condotta, concepì la ferma volontà di lavare le sue colpe anche col sangue.

Il rammarico del suo passato era pieno e sincero. Un giorno mentre stava a discorrere con me, ci passò innanzi il buon Vitaliano: il figliol prodigo trattenne il discorso e, contemplando con schietta invidia l’innocente compagno, mi ripetè; «Che giovane felice....».

In questo stato d’animo, quando più egli voleva scordare il passato, giunse a turbarlo la lettera della Questura di Roma, ed essa gli parve un’ingiusta negazione dei suoi buoni propositi. Mi ci vollero lunghi discorsi per convincerlo che tale procedimento non era frutto di malanimo, ma effetto della sua precedente condanna.

/115/ Per toglierlo da quell’afflizione, trovandomi a Roma parlai col Questore, e ottenni promessa verbale che quelle dolorose indagini sarebbero state sospese. L’ardito mi ringraziò con alcune missive che mi commossero sino alle lacrime. Mi diceva: «Vorrei esserle vicino e farlo persuaso del mio fermo proponimento nel bene mio e della Patria», e «creda che mi sento felice vedendomi da lei tanto buono aiutato nei miei fermi proponimenti per l’avvenire. Non mi dimentichi e guardi di aiutarmi più che puole». Il tenero figliolo, stupito di aver finalmente trovato chi lo comprendeva e lo amava, si accese di una riconoscenza immensa. Un’ultima cartolina mi portò questo semplice saluto: «La rammenterò finchè avrò vita».

Il povero giovane aveva i giorni contati!

Stava all’ospedale per una ferita ancora aperta quando scoppiò l’offensiva del giugno, e fuggì senza alcuna autorizzazione, per seguire i compagni in trincea. In tutti i combattimenti tenne un contegno da eroe: finchè ferito al petto fu portato al medico del reparto. Dopo la prima medicazione, mentre già gli si preparava il foglio per l’ospedale, s’accorse che poteva reggersi ancora in piedi; perciò disse: «Posso fare /116/ ancora il mio dovere in linea». Il medico, il comandante del battaglione e gli ufficiali presenti tentarono persuaderlo di lasciarsi trasportare all’ospedale: furono parole vane. Ritornò in trincea appoggiato al braccio di un compagno. Dopo due giorni venne riportato al posto di medicazione con frattura della spina dorsale: il tronco e le gambe erano paralizzate; ma egli alzava le braccia dalla barella e congiungeva le mani esclamando: «Povero padre mio! è per lui solo che mi dispiace; del resto io muoio contento per la mia Patria».

Chiuse gli occhi pochi giorni dopo con tale serenità e cristiana elevazione di spirito che non lasciò supporre a nessuno degli astanti per quali abissi era passata la sua giovine vita.

La festa del ritorno di questo trasfigurato figliuol prodigo, fu la morte, ma la morte lucida di colui che ha la coscienza del valore immenso del proprio sacrificio. La volontà ferrea che gli impose la rinascita spirituale nella dedizione completa all’ideale cruento della Patria, è tanto sublime che pare una virtù leggendaria di antichi eroi! Invece essa fiorì nei nostri battaglioni accanto alla vergine coscienza di anime innocenti.

/117/

Sull’ali della vittoria.

Dall’ultimo giugno, quando le nostre truppe diedero il colpo mortale all’esercito austro-ungarico, gli arditi si domandavano: «Quando assesteremo il colpo di grazia? Quando?...».

S’avvicinava l’anniversario di Caporetto, triste pei ricordi, ma suscitatore di pensieri di riscossa.

L’undicesimo reparto, già flagellato dalla malaria estiva, raccoglieva dagli ospedali i vecchi militi e li ritemprava all’antico valore.

Nella seconda metà di ottobre si prese a parlare della nostra offensiva ed a conoscerne il piano. Il reparto, coll’intero corpo d’armata, staccato dalla terza, doveva far parte dell’armata inglese e costituirne l’estrema destra, in quel punto ove il Medio Piave si allarga tanto da formare parecchi filoni attraverso alle isole e penisole che sono conosciute sotto il nome /118/ generico di Grave di Papadopoli. Il giorno ventitrè si ebbe l’ordine di muovere in pieno assetto di guerra e di portarci sul fiume ad attendere l’ordine d’attacco. Figurarsi la gioia!

La mensa degli ufficiali fu un convito tripudiante di canti gioiosi. Il nostro poeta, con un volo che a qualcuno poteva parere troppo pindarico, aveva lanciato questo stornello, accolto dalla maggioranza come una profezia:

Ragazze di Trieste apriteci le porte,
Ripasseremo il Piave a costo della morte.

Alle quindici e mezzo le compagnie, allineate sotto i platani delle strade di Breda di Piave, si mettono in movimento. Non vidi mai un’allegria più vivace e spontanea: io stavo in coda a tutto il battaglione, e scorgevo innanzi a me cento bandiere di ogni colore ondeggiare nell’aria, e sentivo le voci dei diversi cori che si confondevano, e le grida di gioia. Soldati d’altri reparti uscivano dai vicini alloggiamenti e si stendevano sui margini della strada per assistere a quella festa: alcuni indirizzavano saluti cordiali agli arditi, altri avevano dipinto sul viso la meraviglia, altri l’ammirazione e invidia.... Qualche spirito /119/ scettico fu inteso mormorare: «Sono tutti ubriachi». Era certo un’alta ebbrezza di patriottismo e di sacra abnegazione: non di vino, che quella volta proprio non se n’era trovato.

A sera sostammo a Candelù, dietro l’Argine Regio. Verso la fine della notte attraversammo alcuni filoni del fiume sulle passerelle appena costrutte, e s’andò a prender posto sull’estrema destra dell’isola Caserta. Si rimase in quel luogo per tutta la giornata, di fianco a parecchi reggimenti che si stesero sulla nostra sinistra.

Il nemico s’accorse presto di quell’affluenza ed aprì un violento bombardamento sull’isola, protraendolo sino all’imbrunire. Gli arditi stavano accosciati nelle piccole trincee o in qualche buca scavata colla vanghetta, ingannando la noia col fumo o con vivaci discorsi. Le granate di ogni calibro scoppiavano avanti e dietro la trincea, tra le buche degli arditi, e sollevavano colonne d’acqua, di polvere e di fango. A tutta prima fummo un po’ meravigliati di questi saluti troppo solleciti dei signori austriaci, ma poichè nessun colpo coglieva nel segno, ricominciavano i motti e gli scherzi.

Il più allegro fra tutti era il tenente /120/ Galanti, o, come lo si diceva noi, l’Alpino: egli prese a fare l’indovinala-grillo delle granate. Tendeva le orecchie ai lontani colpi di partenza e aveva tempo di dire: «Questo andrà nell’acqua; quest’altro passerà di là...... D’un tratto mi sento chiamare dalla sua robusta voce:

«Cappellano, cappellano, questo è per te» e ne seguì una risata comune coperta dallo scoppio fragoroso avvenuto non troppo lontano.

«Se me ne fai inviare un’altra un po’ più vicino, ti prometto che te ne darò una fetta anche a te» gli risposi, andando a sedere presso di lui. Ma questo patto non gli parve accettabile. Continuò a trar l’oroscopo alle spese di questo e di quell’altro: ma quando gli scoppi si fecero troppo vicino al segno, lo pregammo di avvisare i suoi amici austriaci di cambiare il tiro. Così si passò con lieto animo tutto il giorno sotto il bombardamento e anche sotto la pioggia abbondante che nel pomeriggio ci inzuppò tutti.

Però la fortuna ci fu propizia, perchè mentre vi fu un forte numero di vittime in ogni altro reparto vicino, il nostro rimase completamente illeso.

Verso sera si spinsero alcune pattuglie /121/ in cerca di un guado; ma l’acqua, cresciuta improvvisamente per la pioggia, non ne offrì alcuno.

Nella notte le truppe della Caserta ricevettero l’ordine di ritornare nelle linee. Il reparto rientrò nei proprii accantonamenti fra Breda San Giacomo di Musestrelle quando già albeggiava.

Parecchi ufficiali, i reggimenti dei quali, destinati al rincalzo, avevano occupati gli alloggiamenti, requisirono per qualche ora l’osteria detta del Cristo: si stesero sui tavoli che la stanchezza di due notti insonni fece loro sembrare soffici come guanciali. Li ridestò il preavviso di un prossimo ritorno in trincea.

La partenza venne fissata per le ore sedici di quel giorno venticinque d’ottobre. «Forse, dicevo tra me e me, la gaiezza della partenza sarà ottenuta dal fatto che già l’altro giorno siamo stati delusi dal contr’ordine: l’ardito crederà di essere gabbato anche questa volta.» Ma inganno non c’era. Il generale Paolini, ci inviò un appello appositamente stampato con tre bandierine e.... una damigiana di cognac... da dividersi fra i cinquecento uomini del reparto.

Questa elargizione del comandante del /122/ Corpo d’Armata persuase gli arditi che quella era proprio la vigilia dell’attacco. E ripresero la via, freschi e giocondi, colle canzoni sul labbro e la speranza in cuore.

Cammin facendo, mi cercarono parecchi miei soldati: chi mi fece una confidenza, ohi mi lasciò un indirizzo, chi volle la pace del Sacramento.

Verso le ventuna siamo alla riva destra dell’argine, ove si sosta per qualche ora. Poscia, in fila indiana, sgusciando tra i carri del Genio Pontieri e le truppe assiepate lungo la strada, ci porta sulla Caserta. La luna diffonde uno scialbo chiarore che la foschìa illividisce e vela.

Vengono ordinati tre imbarchi (sulle estremità e sul mezzo della sponda sinistra dell’isola Caserta) i quali devono corrispondere con tre punti antistanti della Maggiore. Portiamo le barche sul greto e le variamo: scendo nella prima barca, colla pattuglia di mezzo, composta di otto uomini guidati dal tenente Peruzzo. Un ardito giovanetto che mi ama assai, mi si appressa nella barca e mi sussurra:

«Stavolta, signor tenente, il pericolo è grande; è meglio che lei resti a terra....».

«Caro figliuolo, gli rispondo, la mia vita /123/ non è più preziosa della tua: però Iddio ci guarderà tutti.»

I compagni mi ringraziano stringendomi le mani a lungo. La barca si stacca dalla riva, prende il largo e si dirige all’altra sponda senza cedere alla corrente: solo il lieve cader dei remi rompeva il sordo mormorio delle acque. L’ardito di prua punta la piccola mitragliatrice contro l’approdo che comincia a distinguersi come una linea nera fissata tra la nebbia e l’acqua. Gli altri, collo sguardo fisso verso la meta, stringono in pugno il petardo.

«Se alla prima scarica non cedono e sono molti, spareremo tutte le bombe e poi ci butteremo nel fiume» mi dice il tenentino senza punto distrarre lo sguardo dall’altra riva.

Finalmente ci siamo! in un baleno balziamo sulla sponda e ci stendiamo sulla sabbia in agguato mentre la barca ritorna lestamente a prendere gli altri. Strisciamo col ventre a terra fra i cespugli, aguzzando l’udito e lo sguardo. Arriva presto una seconda imbarcazione che si unisce a noi e ci permette di allargarci ampiamente a ventaglio. Non si sente rumore di sorta.... ci alziamo a poco a poco avviando il discorso, ma girando sempre l’occhio intorno. Si /124/ odono dei rumori sulla sinistra.... si vedono ombre avanzare: ci rimettiamo a terra e attendiamo. Quando quelle sono a tiro, si dà il Chi va là.

«Malcontenta», rispondono quelli.

«Pavone», gridiamo noi.

Erano queste le nostre parole d’ordine: Malcontenta era il nome della villa in cui si raccoglievano tutti gli arditi dell’Armata per le speciali esercitazioni; Pavone, si chiamava il colonnello direttore dei nostri reparti.

E poichè noi per precauzione si restò ancora qualche momento distesi a terra, colui che aveva risposto Malcontenta alzò le mani e ci venne incontro gridando: «Sono Fulmini, sono Fulmini; ecco che butto via le bombe, se non mi credete». Il tenente Giovanni Fulmini era fratello di Antonio, vecchio ardito del ventottesimo reparto, e non portava le fiamme con minor valore di quello.

Stabilita colle pattuglie di destra e di sinistra una larga testa di ponte, si spingono nuclei a perlustrare tutta l’isola. Un nostro caporale sorprende cinque austriaci e un ufficiale che cercano di svignarsela: li intimorisce con qualche petardo e, benchè solo, ne ottiene la resa.

/125/ Intanto il Genio ha costruito la passerella tra l’isola Caserta e la Maggiore, e per essa passa il reparto seguito dalle fanterie. Mentre ci schieriamo sull’isola, il nemico, avvisato dalla nostra occupazione, vi scatena la rabbia della sua artiglieria; noi ci ripariamo dietro un piccolo argine.

Io stavo verso la parte che guarda le Grave di Papadopoli, dalle quali la Maggiore è separata da un piccolo canale. Di tratto ci sentiamo fatti segno a scariche di fucileria: ma il colpo di fucile non era il solito tac-pun austriaco. Chi sarà mai? I nostri risposero degnamente ai colpi misteriosi, sparando però in aria, per la congettura che quelli fossero inglesi. Ma i colpi opposti continuarono. Onde mi affacciai al canale e gridai con quanta voce aveva in gola: «Viva l’Inghilterra: siamo italiani». Cessò istantaneamente il fuoco e vidi al di là un’ombra vestita di giallo che si avvicinò all’acqua e mi rispose in inglese; coll’aiuto di un capitano di fanteria scambiammo alcune frasi, e poi ci gettammo per il filone. L’acqua ci arrivava ai fianchi, ma non ne sentimmo affatto il freddo poichè ci spingeva il desiderio ardente di abbracciare i nostri alleati. Uscito all’altra riva, mi gettai tra le braccia del- /126/ l’ufficiale inglese colla confidenza di un vecchio amico. Gli arditi si precipitarono tutti al mio seguito.

Era l’alba del giorno ventisei. In un fosso improvvisato a trincea, trovammo una ventina di soldati inglesi, la maggior parte giovanissimi, che volgevano a noi le faccio rosee soffuse di seria compiacenza. Gli uni tenevano il fucile rivolto al di là contro gli austriaci, gli altri contro l’isola Maggiore. Tra di loro stavano intercalati una trentina di prigionieri austriaci intenti a sbocconcellare il bel pane inglese. I biondi figli di Albione si insegnavano a vicenda fra di loro e ci ripetevano poi questa frase: «Noi molto contenti voi venire qui». Si fece un po’ di festa scambiandoci rum e caffè, sinchè venne l’ordine di stenderci sulla sinistra. Fu un vero dispiacere per noi abbandonare quei giovani inglesi che si spiegavano più col sorriso simpatico e cogli occhi celesti che colle parole. Ma ci aspettava il bottino nemico: gli austriaci al nostro arrivo avevano abbandonate le trincee poco discoste dandosi alla fuga; quindi i loro ricoveri colle dotazioni di viveri di riserva furono rovistati e ne asportammo caffè, cognac e certi grossi pani di zucchero che ci nutrirono per qualche /127/ giorno. V’erano anche le marmitte piene di rancio fumante: ma quella broda nera mandava un certo puzzo nauseabondo di cavoli fradici che solo gli stomachi ungheresi potevano avere il coraggio di affrontarlo.

Si passò tutto il giorno ventisei sull’estrema sinistra della Grave. Gli arditi si scavarono alcuni ripari davanti ad un canale e vi si appiattarono. Verso sera li rividi tutti, raccomandai a tutti estrema vigilanza: poscia, invitato dal capitano Contarella mi accosciai presso di lui in una buca fatta dallo scoppio d’una granata; vi trovai il bravo tenente Peruzzo che era inzuppato da capo a piedi per un guado e tremava come una foglia. Al freddo notturno si aggiunse un acquazzone, contro il quale non ci fu nessun riparo: si guazzava nell’acqua.

La stanchezza ebbe finalmente il sopravvento ed io m’ero già appisolato, quando di tratto s’intese come un tuono così fragoroso che n’ebbi un sussulto, e uno stordimento che mi tenne intontito per un’ora. Scoccavano le tre del ventisette ottobre, e il colpo del più grosso calibro delle nostre artiglierie segnava il principio del bombardamento che suole scattare prima /128/ dell’assalto. Il fuoco non poteva essere più intenso o più assordante: la selva di cannoni italiani, inglesi e francesi affittiti nelle retrovie, vomitava fuoco e confondeva i colpi in orribili boati: centinaia di mitragliatrici martellavano l’aria col tiro indiretto. Non v’era una lacuna in quella musica lacerante e tuonante.

Il nemico controbatteva colle bombarde e con granate e tubi incendiarii, sollevando immense fiammate rossastre che s’alzavano al di sopra degli alberi e delle rovine e parevano lambire le grigie volute delle nubi. Non ricordo una scena altrettanto fantastica.

Scorsi tutta la linea: tra i cespugli stavano ritte le brune figure degli arditi che sgranavano tanto d’occhi su quello spettacolo.

Le pattuglie che erano uscite a cercare un guado per l’attacco, rientravano con risposte negative. Il nostro maggiore volle tentare egli stesso. Ci mettemmo alla prova con la scorta di alcuni soldati: si riuscì a passare per tre filoni, ma nell’ultimo l’acqua ci saliva alla gola e ancora noi si affondava: quindi ce ne ritornammo senza esser riusciti. Sull’alba corre voce che s’è trovato un guado sulla fronte della bri- /129/ gata Macerata; onde tutto il battaglione si piega verso quella parte, attraversa velocemente tre acque e si trova sulla sponda dell’ultimo filone. Come un’orda d’invasori, nel testo: d’invasione; corr. negli → Errata d’invasori, gli arditi si lanciano confusamente nell’acqua: alcuni, scostatisi ai fianchi corrono rischio di affogare, ma la massa arriva all’altra sponda; si apre la via fra i reticolati; in un baleno è sulla trincea. Una mitragliatrice che tenta di arrestarci viene annientata da un nuvolo di petardi.

Gli arditi saltano sull’argine, impegnano una lotta a corpo a corpo coi difensori e li travolgono. Il capitano Gaetano Contarella è tra i primi, il sangue siciliano non si smentisce mai.

Rotta la prima resistenza col pugnale e coi lanciafiamme, il battaglione si piega rapidamente sulla sinistra in due colonne, pei due versanti dell’argine, superando resistenze e catturando alcune centinaia di prigionieri. A gruppi, esterrefatti dal bombardamento che aveva crivellato tutta la linea, gli austriaci uscivano dai ricoveri e dalle tane alzando le mani per implorare pietà.

Sgombrata la trincea sin presso alle Fornaci di Boncadelle, la prima compagnia ai comandi del tenente Luigi Boncristiano si /130/ spinge all’assalto d’una seconda linea che il nemico ha prontamente formata sulle case retrostanti. Le nostre pattuglie d’attacco affrontano, circondano e sconvolgono quei nidi di mitragliatrici con celerità vertiginosa. In un quarto d’ora si raccolgono nuovamente dugentocinquanta prigionieri con diciotto mitragliatrici.

Frattanto era giunta la sesta brigata bersaglieri che si stese alla nostra sinistra. Le nubi s’erano squagliate e il sole trionfava, rendendo più bella la nostra vittoria.

Verso le quattordici si riprende l’avanzata: costituiamo sull’ala destra una linea perpendicolare all’argine, tra Fornaci e Roncadelle. Brevi duelli violentissimi ci danno nelle mani altri prigionieri ed armi ancora: poi spingiamo innanzi numerose pattuglie che rientrano tutte riportando bottino. Gli arditi combinano tra di loro delle spedizioni, che battono le campagne circostanti, con la stessa disinvoltura colla quale si va a caccia della lepre, e tornano sempre con ottime prede. Un uomo solo porta diciotto prigionieri; altri due danno l’assalto ad una casa e ne costringono alla resa una ventina: un terzo fa smontare da cavallo un capitano ungherese e salta /131/ in sella, spingendosi innanzi l’ufficiale prigioniero.

Verso sera il nemico, che s’era appena reso conto della sua disfatta, prese a battere furiosamente le nostre linee avanzate, mentre eseguiva forti contrattacchi contro le truppe dislocate sulla nostra sinistra. Per costituire una salda linea di resistenza, quelle ripiegarono verso l’argine Regio; onde noi pure si dovette subire la stessa sorte.

/132/

Immolazioni serene.

La notte fu rotta da un solo allarme provocato da una pattuglia nemica, che subito venne fugata.

Nella luce rosea dell’alba seguente ronzavano numerosi areoplani tricolori, mentre le fiamme nere si preparavano a balzare nuovamente dall’argine, per snidare il nemico dalle posizioni che avevano abbandonate il giorno avanti. L’operazione fu tanto efficace quanto veloce: ma ci costò alcune dolorosissime perdite.

Il ventotto ottobre è una delle più memorabili date del nostro reparto, pel ricordo del caro sangue versato colla serenità grandiosa dei martiri. Credo che non dispiacerà ai lettori ch’io racconti qui alcuni eroici sacrifici.

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Il primo caduto di quel giorno è il tenente Attilio Bonansinga. Stava al reparto /133/ da otto mesi: v’era giunto da Altino, mentre fervevano le speranze di prossime azioni. Subito parve meravigliosamente accordato con quella nostra milizia vivace e ardente, come fosse dei più anziani, poichè portava nell’animo le tre fiamme dell’ardito, giovinezza, amore ed entusiasmo.

Aveva nel viso la più fresca primavera: i grandi occhi neri riflettevano la bontà di un’anima quasi infantile: era un ragazzo pieno di ingenuità e di schiettezza, ma talvolta tra quelle gioconde fantasie il suo pensiero saliva ad alte e mature comprensioni.

Parlava della mamma e della famiglia con l’accoramento del collegiale che non è ancora avvezzo alla lontananza dei suoi cari. Quanto all’amor di Patria, egli aveva avuto le migliori lezioni; poichè aveva trascorso la sua infanzia all’estero, in Francia, ove aveva sentito più forte il desiderio della sua Italia. I piccoli affetti con la lontananza scompaiono, ma i grandi si radicano più a fondo nell’animo. La Costa d’Azzurro e la bianca Cètte (non Cétte) città della costa francese; nel 1928 fu ufficializzata la grafia Sète Regina delle Puglie: Bari Cétte, appollaiata sui verdi monti della Provenza, non gli avevano fatto dimenticare il suo glauco Adriatico nè la candida regina delle Puglie.

Scoppiata la guerra si arruolò diciot- /134/ tenne tra i bersaglieri e corse al fronte colle piume in testa e l’entusiasmo in cuore. Ferito una prima volta, ritornò presto al Battaglione d’Assalto. Nel giugno ebbe una seconda ferita e una seconda proposta di ricompensa. Lo rivedemmo presto al reparto, lo salutammo Aiutante Maggiore.

Era forse il primo fra quella schiera di ufficiali giovanetti che, punti dalla nostalgia della famiglia, si avvicinavano di più al Cappellano per bisogno di tenerezza.

L’astro della sua vita, come per tutti i nostri militari centenni, era la fidanzata, per dolce incitamento della quale aveva ripreso le pratiche religiose. Teneva con lei una corrispondenza tanto intima ed elevata che non si potevano leggere quelle lettere senza commozione. Cito due brani di queste, e le cito perchè furono già pubblicate molto a proposito, in una piccola memoria stampata pei suoi funerali: «Noi arditi l’abbiamo giurato: o vittoria o morte. E Iddio giusto che conosce il sacrosanto diritto delle nostre aspirazioni, con certezza esaudirà i nostri ardenti voti. Trieste sarà nostra e il cielo benedirà l’Italia fatta più grande, più una, sia pure a prezzo del nostro giovane la- /135/ tin sangue.». «Dubitare della vittoria è follia con arditi di simil tempra. Noi tutti siamo pronti a dare tutto pel solo bene della Patria. Il Signore prenderà i nostri sacrifizi o in vita o in morte. Mi sarà serbata la dolce consolazione di vedere avverato il mio sogno?»

Pur troppo la gioia sperata non gli fu concessa: alla mattina del ventotto, mentre dietro l’argine si preparava l’assalto, una piccola granata gli scoppiò all’altezza della gola lacerandogli le vene. Lo rialzammo subito, ma i suoi begli occhi, chiusi per sempre alla terra, già erano immersi nella lucente felicità degli eroi.

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Poco dopo la morte del tenente Bonansinga venne colpito gravemente il maggiore Riccardo Fedozzi, comandante del battaglione.

Nessuno di noi che lo conoscemmo lo dimenticherà mai.... Egli era veramente il padre degli arditi: in cinque mesi di permanenza tra di noi ci apparve sempre l’uomo degno di starci innanzi come l’esempio più bello del valore e della bontà. La sua nera barba patriarcale, lo sguaido dolce- /136/ mente penetrante erano popolari al reparto. Egli amava i suoi ufficiali e i suoi arditi. Non lo circondava quel rispetto timoroso che destano quasi sempre i comandanti: l’affabilità quasi borghese e famigliare del suo tratto gli otteneva l’obbedienza più pronta. A lui ognuno poteva manifestare senza reticenze le vedute ed i bisogni particolari, certo d’essere compreso. Aveva l’arte delle correzioni calme, giuste ed efficaci: non puniva se non in casi estremi, e sapeva difendere i suoi dipendenti, quando la giustizia lo reclamava, anche di fronte alle autorità superiori. Talvolta girava attorno ad un ufficiale o soldato parecchio, e accortosi che non era il tempo opportuno, si ritirava e attendeva l’ora propizia per fare con serenità paterna quegli ammonimenti che rendevano sempre migliori. Si dava conto egli stesso delle azioni che il battaglione doveva eseguire: e quando rilevava che forse il sangue dei suoi arditi sarebbe stato sparso senza degni frutti, trovava sempre la via di migliorare il piano delle operazioni.

Gli arditi che videro il suo coraggio durante l’offensiva del giugno, parlavano del loro maggiore come di un vero eroe. Nell’offensiva d’ottobre era sempre rimasto in /137/ testa al suo battaglione: anzi eseguì personalmente qualche pattuglia di somma importanza e di grande pericolo, per la quale avrebbe potuto servirsi di un dipendente: la sua coscienza però non glielo permetteva.

Al mattino del ventotto era uscito all’attacco in testa alle compagnie e le dirigeva verso una casa da espugnarsi, quando una pallottola di mitraglia gli trapassò l’addome. Si piegò leggermente senza cadere, indicando ancora ai combattenti l’obbiettivo dell’azione, poi chiese una barella. Lo accompagnai al vicino posto di medicazione, ove constatammo la gravità della ferita: aveva l’intestino aperto.

Calmo e sereno mi consegnò le carte e gli ordini da rimettersi al suo successore, e scambiando i miei auguri con parole di incitamento per tutto il reparto, sollevato sulla barella, fu portato via da quattro arditi....

Lo rividi all’indomani in una brevissima visita, disteso sul bianco letticciuolo dell’ospedale di Carbonara. Era stato operato, quindi doveva rimanere in perfetta quiete. Il pallore della fronte era uguale alla bianchezza delle lenzuola. Aprì gli occhi, mi guardò, sorrise e mi disse con un fil di voce:

/138/ — «E i nostri arditi?»

— «Vanno avanti, si fanno onore con poche perdite».

Abbassò le palpebre e sorrise ancora in segno di compiacenza. Ma i suoi occhi si accoravano di nostalgia.

Alcuni giorni dopo, quando già stavamo a Podgora, presso Gorizia, ci giunse la terribile novella. Non volevamo crederla; ma quando il tenente Orelli ci assicurò di aver assistito al funerale e di aver deposto sulla tomba una ghirlanda di fiori a nome degli ufficiali, non vi fu più dubbio.

Il dolore immenso della sua perdita ci fece sentire la grandezza del bene che gli volevamo.

Il sole era alto nel cielo, allorchè, tornando iu linea addolorato per le condizioni del maggiore, m’imbattei in un’altra barella che portava un giovane ardito col piede e la mano ravvolti di fascie arrossate.

— «Ah! sei tu! e che t’han fatto, caro figliuolo?» — gli dico io, facendogli passare la mano sulla guancia.

— «Una scheggia di granata, signor tenente, mi ha rotto il piede» e sensa scom- /139/ porsi, con grande serenità soggiunse: — «Mi dia la benedizione».

Lo seguii al vicino posto di medicazione che era nient’altro che una borsa di Sanità stesa a terra fra l’argine e il fiume; la barella fu posata e il tenente Salvoni, il nostro caro medico, si piegò sul ferito, gli aprì le bende, gli squarciò l’estremità dei rozzi abiti sudici e insanguinati e mise a nudo il povero piede che era diventato un grumo di ossa e di carne frantumata che gettava sangue a fiotti. Si dovettero chiudere le vene col laccio sopra la caviglia. Durante l’operazione che fu lunga e, a giudicarla dalle contrazioni della gamba, dolorosa assai, il buon ragazzo non lasciò sfuggire dalla bocca alcuna parola di sofferenza. Io gli sbendavo la mano che mi parve in condizioni non gravi, e gli dicevo:

— «Come ti chiami?»

— «Morozzi Arrigo», — mi rispose con accento toscano.

— «Ah!, tu sei un toscanino».

— «Signorsì, signor Cappellano, son di Firenze» — e accompagnò la dichiarazione con un sorriso repentinamente troncato dal dolore del piede.

— «E che facevi all’ombra del cupolone?»

/140/ — «Il fornaio».

— «Vedi», — gli dissi sollevandogli la mano ferita nella mia palma, — la mano è salva: muovi bene le dita».

A stento distese le dita e alzò la testa per guardare quel movimento.

— «È vero la mano è salva», — e accennando collo sguardo al piede, lasciò cadere la testa sulla barella mormorando:

— «Ma il piede non l’ho più. Signor tenente», — mi disse poi stringendomi la mano, — «mi dia una sigaretta».

— «Subito, figliolo: io non ne ho più, ma saprò trovartela».

Ma le sigarette erano tanto rare che era difficile trovarla subito. Mi allontano, giro un poco: finalmente torno col dono prezioso pel mio caro ferito, ma mentre m’avvicino odo, in mezzo al comune silenzio, una vose che canta:

Non pianger mamma se c’è l’avanzata;
tuo figlio è forte: in alto i cuor.

M’arresto per sorprendere chi osa cantare presso una barella: ma subito leggo sul volto di tutti la commozione più profonda.... era la voce del ferito stesso. Mi appresso, lo guardo mentre egli continua serenamente:

/141/

Rasciuga il pianto, o fidanzata,
che all’assalto si vince o si muor!

Gli occhi mi si empiono di lacrime, mentre il giovane fiorentino continua a cantare:

L’ardito è bello, audace e forte!

Quando la barella si allontanò, la rincorsi per salutare ancora quell’eroe.

Anche il fuoco aveva una pausa: il fiume, diventato d’argento sotto i raggi solari, ci mormorava ai piedi lambendo la riva erbosa: le allodole trillavano alte nel cielo.... ma il canto del piccolo e bruno fornaio fiorentino ci vibrava nell’anima con una eco fascinante. Mi struggeva il desiderio di seguire quella barella insanguinata: mi sentivo irresistibilmente avvinto a quell’anima pura, espressione autentica della più gentile elevazione del cuore popolano.

I portaferiti, al ritorno, ci narrarono che l’ardito aveva continuato a cantare anche all’ambulanza, dove un generale volle vederlo e conoscerne il nome.

Altro sangue si sparse in quel giorno: il tenente Felice Galanti ebbe una pallottola di shrapnel nella schiena: il tenente Luigi /142/ Gigliotti, calabrese, fu malconcio da una dozzina di ferite, nell’affrontare un nido di mitragliatrici che ci dettero grande fastidio: dal mattino alla sera si dovettero accerchiare e attaccare, con tutti i nostri mezzi, le case trincerate dai gruppi di mitraglieri. Verso sera una di queste difese era ancora attiva e minacciava seriamente la nostra quiete notturna: parecchi assalti s’erano spezzati contro il baluardo che resisteva e rispondeva con raffiche di una estrema violenza. Esponendo il caso al generale comandante del settore, otteniamo la cooperazione di un cannoncino di montagna. I bravi artiglieri vengono a portare il pezzo e le munizioni fin sulla nostra linea avanzata, orgogliosi di prestar mano alle fiamme nere. Dopo pochi colpi i formidabili difensori si affacciano alle porte e alle finestre alzando le mani per arrendersi.

Interrogai i prigionieri se nella casa fossero rimasti dei feriti e mi risposero che ve n’erano due. Avrei voluto andare a raccoglierli subito, ma il giovane intelligente capitano Marchesani mi sconsigliò di portarmi di notte in un terreno sconosciuto e soggetto ad agguati nemici.

Nella prima luce del mattino seguente /143/ (ventinove ottobre) con due arditi di fiducia andai a soccorrere i due feriti e li trovai in cattive condizioni. Faccio loro comprendere che io sono sacerdote, e quindi fascio ad uno le gambe e all’altro il torace e li adagio sovra certe coperte che trovo sul posto. Ho appena terminata l’opera pietosa che rialzandomi, mi vedo attorno, alla distanza di quaranta o cinquanta metri, delle faccio austriache, incorniciate nei caschi, che mi guardano tra i rami, e poi s’avanzano nella mia direzione. Non posso credere a quello che vedo: ma constatando che quelli sono austriaci in carne ed ossa, ordino a mezza bocca ai miei due arditi di tenere il moschetto in posizione di sparo; poi grido ai tedeschi di arrestarsi, e faccio cenno che sto medicando i loro compagni. Quelli si fermano, guardano con occhi spalancati. Fatto audace da questa insperata prima vittoria, grido: «Le mani in alto e avanti due per due», e quelli si guardano in viso e poi lentamente alzano le mani e vengono verso di me a due a due, facendo grandi inchini e gettando gli occhi senza compassione sui due feriti che gemevano pietosamente. Sono una trentina e paiono essi più felici di arrendersi che io di catturarli. Si fermano allineati a cop- /144/ pie, discoste pochi passi l’una dall’altra, sempre colle braccia in alto, impalati come statue. Quando sono giunti tutti, ordino agli ultimi di raccogliere i compagni feriti e di portarli con noi, all’ospedale, ma quelli si scusano adducendomi ragioni che io non comprendo che dai gesti: dicevano di essere stanchi.... di non poter far fatica.... allora prendo una verga e con quella li minaccio. L’argomento è persuasivo, onde danno mano alle cocche delle coperte su cui stanno i compagni e s’avviano. Ma tanto malamente strascinano quei poveri disgraziati, che i feriti gettano grida disperate ad ogni urto.

Ecco, noi italiani avevamo avuto il sonno turbato al pensiero di due feriti nemici rimasti senza soccorso, ed eravamo andati alla loro ricerca con pericolo della nostra vita stessa; ed essi, gli austriaci, erano crudeli perfino coi loro fratelli morenti!

/145/

Corsa trionfale.

L’esercito austriaco vide per l’ultima volta le acque del Piave il trenta ottobre. In quel giorno dovevamo scacciarlo dalla parte inferiore del fiume dove era rimasto dopo le nostre vittorie del settore montano e delle Grave di Papadopoli.

Per favorire l’azione della Terza Armata che s’apprestava a traghettare sulla nostra destra, l’undecimo battaglione ebbe l’ordine di piegarsi da quella parte e di espugnare il paese di Ponte di Piave.

I contadini che un giorno torneranno a ricostruire le rovinate casette del grazioso borgo, sappiano chi ha liberato la loro terra.

Con veloce sbalzo nelle prime ore del mattino gli arditi occuparono la prima linea austriaca situata tra Roncadelle e il Piave catturando più di centocinquanta uomini. Verso le tredici mossero all’attacco del paese stesso strenuamente difeso. La compagnia di punta era guidata dal te- /146/ nente Paolo Petani, un bel giovane che possedeva insuperabilmente l’arte di farsi amare e anche quella di guidare gli arditi alla vittoria. Gli assalitori si portarono cautamente sul rovescio del paese lungo la ferrovia di Oderzo, e scattarono quindi contro le prime case: il combattimento si divise in diversi duelli contro parecchie tenaci opposizioni. Rifulse anche qui il valore caratteristico del Battaglione. Il primo a metter piede in paese fu il maresciallo Giovanni Facchini di Frasso-Sabino, che aveva abbandonato di soppiatto le carte della fureria per venire a far qualche cosa anche lui. Un gruppetto avanzato costretto a riparare in una buca dalla opposta mitraglia resiste ad oltranza: uno dei quattro, un certo Donato Mancuso di Potenza, colla mascella lacerata da una pallottola esplosiva, continua a combattere mentre che le ferite filano sangue. Non han più che alcuni petardi, ma coll’incitamento del compagno Ezio Murolo continuano la resistenza, a corpo a corpo, contro circa cento nemici, finchè vengono liberati dai compagni. I capisaldi nemici cadono e i nostri lanciandosi per le contrade desolate finiscono le ultime resistenze: si fanno circa dugento prigionieri.

/147/ All’indomani si iniziò la marcia trionfale verso la Livenza. Si fece tappa su questo fiume tutto il primo novembre e la notte successiva: il nemico indugiava sulla sponda sinistra e sfogava la rabbia della disfatta con violento fuoco di bombarde contro l’abitato di Motta di Livenza: le sue mitragliatrici non vomitarono che pallottole esplosive!

Gli arditi stavano appostati sulla testa di ponte che guarda il paese di Meduna. V’erano giunti quando già il ponte di legno era caduto e incendiato, ma tentavano tuttavia di passarlo, quando furono richiamati. S’era al tramonto del giorno di Ognissanti, nell’ora che suole raccogliere le nostre famiglie attorno al pio banchetto che richiama la memoria dei cari scomparsi; ed anche questa volta gli arditi seppero mantenere le buone tradizioni. Coloro che restavano liberi dal servizio di vedetta si raccolsero nelle case retrostanti, appena abbandonate dai contadini, e là si apprestarono modestamente la cena dell’Ognissanti. Avevano trovato i fagioli e le castagne, e anche.... qualche gallina, sfuggita alle ultime requisizioni ungheresi; negli → Errata si suggerisce la corr. nemiche ungheresi. In ogni angolo della casa v’erano fuochi attorniati dalle brune teste di arditi, che rosolavano /148/ una coscia o facevano bollire la gavetta. Agli ufficiali avevano riservato una stanzettina, e qui venne anche il comandante della brigata a far festa alla tradizionale zuppa di fagioli fumanti.

Di fuori, nell’aria oscura e fredda scoppiavano le ultime pallottole esplosive. Intanto i pontieri del genio avevano terminato di fermare una chiatta sopra due botti legate insieme: la portammo in acqua in un angolo morto, ma appena vi saltarono sopra gli arditi, l’ordigno improvvisato si capovolse buttando a bagno i barcaioli. Erano le tre del mattino, quando le nostre vedette udirono la voce di un fanciullo che gridava dall’altra sponda: «Venite taliani, che i todeschi xe scampai».

Cautamente, per non cadere in un tranello, le nostre prime pattuglie, sotto la guida dei tenenti Claren, Boncristiano e Mazzantini sgusciano sulle travi galleggianti del ponte e dietro a loro passa tutto il battaglione.

La popolazione intanto si raccoglie. Quella notte nessuno dei medunesi aveva dormito, per difendersi dalle ultime rapine di quei briganti, e sopra tutto per attendere i fratelli italiani. La gioia di quella gente, dimagrita ed estenuata, non aveva alcun /149/ limite. V’era un vecchio che agitando il cappello colle mani gridava: «Oggi non ho da mangiare perchè quegli assassini m’han portato via tutto, ma non importa: oggi, domani, posdimani, una settimana intiera digiunerò, ma sarà ugualmente una settimana di festa perchè siete venuti voi, e avete cacciato quelle carogne, che Dio le maledica». Un altro, raccontando gli ultimi delitti di quegli immondi, esclamava: «Chi dice bene di quella razza, dovrebbe essere fucilato». In una povera casa trovai una fanciulla malata, ridotta quasi alla morte, e stava distesa su un tavolo in mezzo ai cenci: le avevano portato via perfino il letto! Tutto rubavano, anche gli Olii santi e il Sacramento della chiesa.

Una signora, durante il servaggio, riuscì a trafugare una botte nascondendola sotto una catasta di legna, attraverso alla quale aveva fatto passare un cannellino di gomma dal quale segretamente beveva qualche sorso di vino, in barba a tutti gli assetati requisitori: volle offrire gli ultimi bicchieri agli ufficiali degli arditi, colla stessa gioia di quel contadino, il quale ci mostrava i rami che andava disseppellendo ai piedi del fico tradizionale, e gridava: «Questo è il giorno della risurrezione».

/150/ Quando il reparto ebbe terminata la caccia agli austriaci, scovandoli per i fienili e le cantine del paese, prese la via del Tagliamento: scoppiavano le polveriere e numerosi incendii lingueggiavano e fumavano nell’aria, dietro la fuga nemica. Continuammo la corsa in capo alle truppe dell’undicesimo corpo d’armata.

Ad Azzano Decimo ci venne comunicato che «Il tricolore italiano sventola sul Castello del Buon Consiglio e sulla Torre di San Giusto» e che alle ore quindici di quel giorno stesso (quattro novembre) cessavano le ostilità. Ci portò la lieta novella il generale Paolini comandante del corpo d’armata che volle esprimerci personalmente la sua compiacenza e dirci che il reparto era stato citato nel Bollettino del Comando Supremo.

Il battaglione continuò il suo cammino sino a Podgora, di fronte a Gorizia, e quindi a Liga nella Valle del Iudrio; dove il venticinque gennaio millenovecentodiciannove lo colse l’ordine di scioglimento, comune a tutti i battaglioni della terza armata.