/51/

Capitolo VI.

Fiori alla Vergine.

Colei, che egregiamente fu detta il più gentile amore del popolo italiano, esercitò un vero fascino materno sul cuore del nostro popolo combattente.

Dallo Stelvio al mare, per le trincee serpeggianti sulle creste e nelle valli, fascianti di ferro e di fuoco i confini della patria martoriata, l’amore alla Vergine suscitò una mistica creazione di poesie, di invocazioni e di momenti graziosi.

Ricordi cari di preghiere mormorate colle famiglie lontane, di sagre campagnole, di rustici tabernacoli, di basiliche e di pii pellegrinaggi, conservavano nell’anima del soldato il purissimo culto della Madre divina. Davanti ai pericoli, sotto il flagello del fuoco tornavano sul labbro le devote preghiere apprese dalle labbra materne e raccomandate forse dalle stesse labbra fra i baci e le lacrime dell’ultimo addio. E dalla Vergine, si passava al Figlio Redentore: fra i cori che in cielo rendono perpetua testimonianza di lode al Creatore, vi sono ghirlande di anime colte all’ultimo istante dalle mani misericordiose della Vergine, nel rosso giardino delle battaglie.

/52/

Anche in guerra il santo rosario fu la regina delle divozioni mariane, la più bella catena che avvinse i cuori alla celeste madre.

Sin dai primi tempi di guerra sorse la bella istituzione del Rosario vivente fra i soldati di terra e di mare, che aveva il suo centro in Roma nello zelo del P. Fanfani O. P. I militari iscritti venivano raggruppati in quindicine da uno zelatore, e recitavano ogni giorno la posta di un padrenostro e dieci avemaria, meditando uno dei quindici misteri del rosario. Ogni mese da un mistero si passava al successivo: e il soldato ne era avvisato con la distribuzione di un foglio apposito recante la vignetta del nuovo mistero, con acconcie spiegazioni. È una bella pratica che non solo stimola l’affetto e la confidenza nella Madonna, ma illumina le anime nella cognizione dei misteri fondamentali della nostra santa religione.

Parecchie di tali quindicine, sparse nei diversi corpi, viventi rosai in fiore, spandevano un profumo gradito al cielo e alla terra. Nel mio reggimento, oltre a quindicine di militari di truppa, ve n’era una completamente formata di ufficiali.

La bella preghiera del rosario spesso veniva recitata in comune o sommessamente nelle trincee, o solennemente negli accampamenti lontani dal nemico.

Uno dei nostri migliori generali era solito narrare che avendo udito un improvviso clamore proveniente da un campo prossimo, vi andò egli stesso per cono- /53/ scere la causa di quel vociare; ma con stupore soddisfacente constatò che non si trattava di una sommossa, ma della recita comune del santo rosario.

Nella visita ad un piccolo posto avanzato di montagna, ove da parecchi mesi vivevano isolati alcuni militari, fui edificato della pace e concordia che regnava fra quei dodici uomini. La baracca e il posto di vedetta erano appiccicati ad una parete di roccia, sospesi sull’abisso. Il vento impetuoso che soffiava di continuo per quella gola non permetteva l’accesso che nei giorni di eccezionale bel tempo: i viveri vi erano trasmessi con un canestro appeso a una lunga corda che faceva capo ad un posto vicino. Ma quanto più mancava il contatto col mondo, tanto più quei cuori s’erano fusi in dolce armonia.

— «Come passate il vostro tempo quassù?» chiesi al giovane caporale che pareva il fratello maggior d’una bella famiglia.

«Ogni sera diciamo il rosario. Quando la tormenta è più impetuosa e scuote le assi della baracca come una foglia, minacciando di subissarla nel burrone, ci stringiamo attorno a quella Madonna che abbiamo raccolto nelle macerie d’una casa di Monfalcone, e continuiamo tranquilli il nostro turno di vedetta.»

La Madonnina pareva guardare con una passione sovranamente materna, dalla logora tela che i divoti soldati avevano appesa alle assi affumicate del miserabile ricovero.

/54/

Un vecchio soldato dalla testa calva, che esercitava, presso il comando del reggimento, il mestiere del falegname con una operosità ammirevole, il primo giorno che lo conobbi, fra una piallata e l’altra, mi fece il racconto della triste avventura, in cui ebbe salva la vita quasi per miracolo.

Stava anch’egli a bordo della Principe Umberto, la nave che nel Giugno del 1916 racchiuse in fondo all’Adriatico le salme di quasi tutti i vecchi fanti del cinquantacinquesimo fanteria. Egli era sulla coperta, quando il siluro diede il fragoroso scoppio e il mare apriva la voragine per inghiottirvi la nave colpita nel cuore. Di tratto si trovò sommerso nelle acque fra una moltitudine di uomini e di cose. Non aveva mai imparato a nuotare. Chi lo tenne a galla, e lo portò al largo e lo conservò per parecchie ore, in mezzo a mille e mille vite inghiottite inesorabilmente?

— «Ecco la mia salvezza» diceva commosso il vecchio soldato, alzando una manica, per mostrare una vecchia corona scolorata che gli cingeva il polso. «È questa corona che nell’ora del siluramento io stava passando nelle mani e che sola non mi sfuggì. È questa che mi tenne a galla finchè arrivarono i soccorsi!»

Un bruno ardito meridionale mi portò una corona del rosario rinvenuta da lui per una strada prossima all’accantonamento.

/55/ Giudicai subito che fosse venuto piuttosto per tenere un colloquio privato, cuore a cuore, col cappellano che per consegnarmi l’oggetto trovato, perchè mi accorsi che quella piccola corona gli piaceva assai e che l’avrebbe lasciata a malincuore.

— «Peccato che io non sappia recitare questa preghiera» soggiunse con accoramento.

— «Sai tu il Padre Nostro

— «Nossignore; io non lo so.»

— «Vedi, bisogna impararlo... è tanto necessario dire le preghiere, quanto è necessario mangiare. Chi non mangia non può vivere: e chi non prega non può conoscere ne amare Iddio, ne avere la speranza di essere ricevuto nel suo paradiso, dopo morte. Ti darò un libriccino...».

— «Ma non so leggere, padre.»

— «E la santa comunione l’hai già fatta?»

— «No, mai: anche per questo sono venuto.»

— «Ebbene caro figliuolo, tornerai da me ogni sera. Impareremo assieme tutte le preghiere, e poi faremo una bella Comunione.»

—«E la corona posso tenerla?»

— «Sì, conservala poichè assai difficilmente il proprietario si farà vivo: e poi, è essa che ti ha aperto la via a Gesù, e sarà ancor essa che Lo legherà per sempre al tuo cuore».

Ma il padrone della coroncina venne da me quella sera stessa, poco dopo il congedo dato al povero analfabeta, e si mostrò desideroso di ricuperare l’oggetto smarrito, caro ricordo di famiglia.

/56/ Egli apparteneva alla federazione della Gioventù Cattolica Italiana, ed era ascritto ai battaglioni d’assalto; ardito non solo della patria, ma anche della religione, poichè esercitava un vero apostolato di bene fra i compagni, portandomene spesso qualcuno fra i più ritrosi, a ricevere i santi sacramenti.

— «Questa volta è la tua corona da sola che ha compito un’opera buona,» gli dissi cominciando a raccontargli l’accaduto. Egli ascoltò con piacere la storia del rinvenimento della sua coroncina, e prima che io terminassi mi annunciò ch’era felice di fare il sacrificio dell’oggetto caro; anzi soggiunse che voleva egli stesso istruire il camerata e prepararlo alla prima comunione.

Le sue prime lezioni furono intorno al rosario: recitarono insieme il Padre Nostro e le dieci Dio ti salvi, scorrendo le palline della corona cara ad ambedue. Presto il piccolo montanaro analfabeta della Sila fu portato all’altare dal buon milanese, e credo che la Vergine stessa del santo Rosario abbia compito l’opera presentando a Gesù una nuova anima, sbocciata tra le rose a Lei care.

Chi visita quel monumento immenso del nostro dolore e della nostra gloria che è il Carso, a mezzo cammino della strada che dal Vallone di Doberdò sale per le quiete pendici di Oppachiesella, vede ancor oggi sulla destra un largo e corto sentiero e una tabella in legno, di quelle che i comandi di guerra apponevano /57/ per le indicazioni stradali, con questa soprascritta: «Dolina della Madonna.» (1)

Non è raro leggere dei nomi religiosi in quella regione sacra; ma nessuno all’orecchio e alla memoria suona più dolce di questo. Tale denominazione fu data da un cappellano della brigata Ferrara, del quale vorrei conservare il nome, così come conservo il ricordo dell’ardente sua divozione alla Vergine. Nei primi giorni della occupazione italiana di questi luoghi (agosto 1916) il buon cappellano eresse, sull’entrata della dolina un altarino addossato al tronco di un albero, che nella parte superiore, tra i rami fronzuti, reggeva un gran quadro raffigurante la Celeste Madre col Bambino. Onde la dolina fu detta comunemente della Madonna e il nome divenne anche ufficiale, perchè passò sulle carte topografiche della Terza Armata.

A destra di chi v’entra, tutta la parete interrata a semicerchio e riparata dai colpi dei nemici, s’era ricoperta di baracchette e di ricoveri ove stavano i posti centrali di medicazione. A sinistra, la piccola conca si slabbrava e s’alzava dolcemente, aprendosi in un campo di granoturco che ci offrì il terreno per le prime sepolture; le quali col tempo si moltiplicarono tanto da formare un gran cimitero, diviso da un viale e dominato nel centro da una grande Croce. Oggi ancora, con tutti i danni del tempo e dell’incuria, la dolina dalle baracche rovinate e diventate tane di volpi, e dalle tombe incorniciate dalle pietre corrose del Carso /58/ e protette dalle piccole croci conserva l’apparenza d’un vecchio giardino che ha portato con onore il bel nome della Madonna.

Nel periodo delle azioni, lunghe file di barelle, sorrette dai portatori vacillanti per stanchezza, vi entravano, si posavano davanti ai chirurghi, che osservano, cucivano, medicavano, bendavano, applicavano i cartellini indicanti il nome e la lesione del ferito, e il luogo e la data del combattimento... e poi le barelle venivano risollevate, uscivano e scendevano nel Vallone, verso gli ospedaletti da campo.

Ma parecchie barelle non sono ripartite da quel luogo: ad un cenno dei medici erano trasferite in un lembo remoto, fuori del tramestìo, perchè terminassero in pace la lunga agonia, e trasmettessero le salme nelle vicine fosse incessantemente preparate.

Dal rustico altare della Madonna si diffondeva un soave profumo di mitezza e di amorosità, che pareva trasportare quel luogo di guerra, in una lontana regione di calma che invano il combattente poteva desiderare. La lunga processione dei feriti, nell’entrare, salutava la Vergine con preghiere sommesse, con giaculatorie rotte da spasimi e da rantoli, con forti invocazioni: il sangue meridionale proruppe là nelle sue più fiammeggianti e più passionali invocazioni. Il cappellano, che talvolta dovette interrompere la messa quotidiana celebrata a quell’altare, per confortare gli agonizzanti, non aveva che a rivolgere verso il viso materno della Vergine lo sguardo semispento dei morenti per farvi risplendere l’ultima consolazione. Un ferito a morte che, sollevato sulle mie braccia aveva levato gli occhi /59/ chiese coi gesti qualche cosa rimasto fra i vestiti che i medici gli avevano tagliato d’addosso. I portaferiti frugarono tra quei cenci insanguinati e gli porsero il portafogli e le carte rinvenute nel panciotto. Ma il ferito rifiutò, portandosi la mano al collo. Gli presentarono allora la cravatta; ma quegli crollò leggermente la testa. Allora un compagno, pio e intelligente, gli mostrò il logoro e insanguinato abitino della Madonna del Carmine, e subito il giacente lo afferrò, lo baciò con trasporto, e se lo compresse colle palme sulle bende arrossate che gli fasciavano il petto.

La tranquilla dolina dal nome di pace e d’amore, fra quei campi sconvolti dalle sanguinose battaglie, oggi ancora rammenta al pellegrino la sorgente fresca del conforto di ogni più gran dolore.

Dolina della Madonna! ogni tuo sasso è un altare consacrato dal sangue, e ogni tua Croce è una parola di fede, e ogni tuo fiore vapora l’innocente aroma alla gloria di Colei che sparse il sorriso e la pace e la speranza, sulla giovane carne martirizzata.

Mai più a te d’intorno suoni il doppio dei mortai: nè il tuo azzurro venga screziato dalle granate volanti, nè macchiato dalle rosse nuvolette degli shrapnel, gravida pioggia di piombo!

Cantino gli uccelli che nidificano tra i pruni e le braccia delle piccole Croci del cimitero; si diffonda alla quieta brezza il profumo della flora silvestre: ti guardino con melanconica invidia le alture crivellate del San Michele e del Faiti; il tuo cielo sia sempre di sole e di stelle, o sacra oasi del nostro martirio, o mistica dolina della Madonna!

/60/

Sull’estremo confine della Val Camonica, dove la grande strada giunge alla Sella del Tonale, a pochi passi dalle trincee in cui vigilarono per più che tre anni le vedette italiane, le nostre truppe ascendenti verso il martirio, videro con pia soddisfazione uno di quei rozzi tabernacoli dedicati alla Vergine, che sbocciano come fiori di campo sui margini di tutte le strade d’Italia. Quel tempietto fu guardato con amore, e divenne lo stimolo di tante preghiere. Mano ignota v’aveva sovrapposta una tabella con questi rozzi versi:

Fermati, o militare, un solo istante,

Se grazie tu vuoi, questo è il santo.

E i militari si fermavano, confidando alla Vergine i loro affanni, Le offrivano i fiori candidi di monte colti presso le vette, e da Lei benedetti rientravano nella trincea.

Sono passato in tutte le ore del giorno e della notte davanti a quel tabernacolo, e vidi sempre accesa la piccola fiammella tremante, anche quando riusciva impossibile trovare l’olio per gli usi di necessità.

Ai miei buoni fanti parvero insufficienti queste testimonianze ingenue di affetto tributate alla celeste Protettrice. Ne architettarono una nuova tra di loro, alla chetichella, che doveva superare tutte le passate.

Un mattino, mentre attraversavo di corsa la parte più alta della strada esposta al nemico, dove questa fa un gran giro, quasi per offrire più a lungo al passante /61/ il digradante panorama della magnifica valle superata, alcuni uomini, dietro un riparo improvvisato stavano scavando come per far luogo al getto di fondamenta.

— «Buoni figliuoli, cosa state facendo?» —

La mia domanda li arrestò come colti in flagrante. Si guardarono l’un l’altro, abbassarono gli occhi, e poi uno, facendosi rosso in viso, si sforzò di sorridere, e rispose:

— «Facciamo una cosa che lei non deve sapere.» —

— «Me ne state combinando qualcuna» — io soggiunsi: e poi tentai, con un po’ di arte, di strappare il segreto: ma non vi riuscii. Avevano convenuto di non svelare il loro disegno agli estranei della combriccola. Compresi di che si trattava solamente qualche giorno di poi, quando cioè i lavori erano avanzati e avevano acceso una gara fiammeggiante in tutta la quinta compagnia, comandata dal Capitano Treves. Non ho mai visto tanto fervore di lavoro nelle trincee: chi squadrava le pietre, chi preparava la calce, chi alzava i muri, chi batteva i ferri su d’una incudine improvvisata, chi andava questuando e raccogliendo il materiale necessario.

Il genio lamentava che si consumava troppo cemento nelle nostre trincee: ma non sapeva quale difesa potente si stesse erigendo col materiale che non ci pareva mai abbastanza scelto ed abbondante.

L’opera corrispose al desiderio dei buoni fanti.

Due massicci pilastri recanti la data (Agosto 1917) col numero del reggimento e della compagnia (55° fucilieri, 5ª Comp.) stringono la cappelletta e ne sorreggono l’arco sormontato dalla croce. Nell’arco s’apre un grazioso timpano che incornicia una lapide trian- /62/ golare su cui furono incisi i versi dettati dal papa Leone XIII per la Madonna del Rocciamelone; i quali, benché mutilati dall’imperizia di chi li ricordò, molto bene si attagliavano al monumento e al tempo in cui fu costruito. È una fresca invocazione alla Vergine, che dice: «Guarda o Maria, l’Italia tua, difendine i suoi confini.»

L’entrata è chiusa da un cancello finemente tratto dai paletti di reticolati. I gradini portano inciso: «L’esercito italiano a Maria.»

Nell’interno una iscrizione scolpita sotto la mensa dell’altare ricorda il cappellano, a cui il lavoro doveva riuscire gradita improvvisata: e sopra, la mano abilissima Pio Pullini (Ancona 1887 - Roma 1955), pittore, ritrattista ed illustratore, fissò in molti quadri e disegni l’immagine di Roma nelle sue trasformazioni della prima metà del secolo. del giovane artista Pio Pullini, che allora militava fra i nostri mitraglieri, vi dipinse a fresco una bellissima Vergine, che sostiene ritto sulle ginocchia il piccolo Salvatore, innanzi a cui il pittore ritrasse pure le truppe scendenti dai monti colle bandiere spiegate, inneggianti alla vittoria e alla pace ottenuta.

L’affresco non era ancora terminato, che già muoveva i soldati a pii sentimenti, e noi ne trovammo parecchi ginocchioni davanti alla dolce Madonna appena abbozzata.

Inaugurammo il prezioso lavoro con messa e comunione generale, in una magnifica notte, di quelle che concede solo l’alta montagna, dove si sente più vicino l’azzurro e le stelle. Venne poi consacrata solennemente dalla benedizione di → Monsignor Angelo Bartolomasi Monsignor Angelo Bartolomasi, l’amatissimo vescovo dei soldati, che arrivò appositamente sino a quelle estreme trincee.

Il fuoco nemico che aveva battezzato i muri della cappelletta appena alzati a fior di terra, non potè più /63/ colpirla di poi, per le solide blinde di pietra che le furono poste da tergo.

Ogni sera tutta la truppa destinata agli avamposti, alle pattuglie e alle corvée, passava dinanzi alla Madonna perpetuamente illuminata, e ne invocava quella protezione di cui Ella suole circondare i suoi divoti.

Lassù resterà la sua dolce effigie, in quel monumento della religione e della patria, come in un secondo ma improfanato tabernacolo del Grappa, per rendere testimonianza della fede del soldato italiano, e della predilezione del cuore della Vergine sul nostro popolo. Le balze circostanti che si levano al cielo in pinnacoli altissimi, fra candide cortine pioventi per le forre dal ghiacciaio dell’Adamello, sembrano un coro di angioli posti a guardia del monumento. Il quale umile e bello sul margine della strada, come un bianco fiore delle alpi, s’affaccia alla valle e insegna ai pellegrini la preghiera del grande papa alla Vergine nostra: Guarda l’Italia... vedi → Per Cristo e per la Patria Note biografiche di P. Ceslao Pera «Guarda l’Italia e difendine i suoi confini.»

/Nota a p. 57/

(1) Si dicono doline quegli svasamenti naturali, interrati a modo di cono capovolto, che s’incontrano spesso sul suolo carsico. Torna al testo ↑

Nota del Curatore

Lorenzo Angelo Bartolomasi (Pianezza 1869 - 1959) fu dal 1910 al 1919 Vescovo titolare di Derbe e Vescovo Ausiliare di Torino; dal 1915 al 1922 Vescovo di Campo; dal 1919 al 1922 Vescovo di Trieste e Capodistria, e in quest’incarico tentò di difendere la minoranza slava dalle pressioni nazionaliste dei fascisti giuliani e degli irredentisti; Vescovo di Pinerolo dal 1922 al 1929; Arcivescovo titolare di Petra dal 1929 al 1959; nuovamente Vescovo castrense d’Italia dal 1929 al 1944.
Vedi Wikipedia:
→ Ordinariato Militare per l’Italia
→ Angelo Bartolomasi Torna al testo ↑