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Atti della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti
Vol. XI, Fasc. 3.

Eugenio Olivero

La chiesa romanica di Santa Fede in Cavagnolo (Torino)

Torino
Depositari: Fratelli Bocca, Librai di S. M.
1929 - VII.

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Sopra un lieve rialzo di terreno, entro una solinga e boschiva valletta, s’innalza la chiesa dell’antico priorato benedettino, dedicata a Santa Fede; consimile ubicazione è frequentemente scelta per le abbazie benedettine, tipica quella della Novalesa. L’edifizio pervenne a noi quasi completamente conservato, malgrado la vicinanza della contrastata fortezza di Verrua; benché di proporzioni modeste, esso ci offre uno splendido e suggestivo saggio di architettura romanica, nello sviluppo più ricco e completo dello stile, avvenuto nella seconda metà del secolo XII.

Il fascino che emana da questa graziosa architettura è veramente singolare; la ingenua fantasia dell’artista che si sbizzarrisce nella ricca, se pure rozza, scultura del portale, si manifesta e si impone subito e chiaramente all’osservatore che ne rimane conquiso; egli poi entro di sé si compiace analizzando le varie sculture umane ed animalesche ed i curiosi motivi decorativi di foglie ed intrecci, che producono variati e gradevoli giuochidi luci ed ombre, che pure essendo numerosi e minuti, s’inquadrano mirabilmente nell’effetto generale della composizione. Certo la novità, e direi quasi la stranezza della maniera decorativa scultoria, contribuisce a svegliare la curiosità della nostra mente, trasportata così in un mondo tutto diverso e quasi nella irrealtà del sogno; nobile effetto della creazione artistica, che ci libera dalle fastidiose realtà contingenti e ci isola nel tempo.

/334/ Il portale rappresenta il forte motivo principale che campeggia nella facciata; la restante decorazione e le altre membrature architettoniche che si sviluppano intorno, gli sono sottomesse, contribuendo a intensificarne il significato e valore estetico. Piace ancora la naturalezza del materiale, arenaria, tufo e laterizio, non occultato da intonaco; piacciono le varie gradazioni di colore, che si fondono l’una nell’altra; il giallo azzurrognolo della pietra ed il rosso del mattone; il tutto armonizzato e soffuso dalla patina livellatrice dei secoli.

La chiesa di Santa Fede è una basilichetta orientata, già terminata da absidi semicircolari; l’abside centrale coperta da volta a semicatino è rimasta inalterata; le absidiole vennero manomesse (tav. I).

La chiesa è lunga internamente m. 22,47; larga in media m. 9,96; la navata centrale, più larga delle altre due, misura in media m. 4,35, computati tra gli assi dei pilastri composti. Il tracciato è abbastanza regolare, quantunque non manchino certe asimmetrie. L’altezza interna è proporzionata in modo che l’ambiente figura piuttosto alto, relativamente alla larghezza; in contrasto cioè alle proporzioni abituali delle chiese romaniche nostrane; ciò che depone in favore di epoca piuttosto avanzata. Le tre navate sono divise in cinque campi da cinque pilastri composti da un nucleo quadrato al quale sono addossate quattro mezze colonne di arenaria non rastremate, coronate da capitelli riccamente e variamente scolpiti, pure in arenaria, disgraziatamente coperte da intonaco; arenaria che nelle chiese romaniche e gotiche del Monferrato e dell’Astigiano fu largamente usata, come quella che si incontra frequentemente nelle colline di tali regioni (tav. II, III, XI, XII, XIII, XIV). La sezione crociforme del pilastro polistilo, tipico delle chiese romaniche, è identica, per es., a quella di S. Michele di Pavia. Le semicolonne più alte, che prospettano la nave centrale, sono ornate da un toro /335/ od anello sporgente, all’altezza dell’astragalo dei capitelli poggianti sulle semicolonne laterali più basse; motivo d’importazione francese; alcune sono doppiamente anulate; esse salgono fino ad una cornice lapidea orizzontale che corona i muri della navata principale. Sui capitelli di queste semicolonne più alte, si impostano archi trasversali che rinforzano la volta a botte, a pieno centro, coprente la navata maggiore, e la dividono in cinque campi; però nel campo precedente il presbiterio destinato ai monaci e rialzato di due gradini, la volta è a crociera; ma essa probabilmente fu costruita in epoca posteriore. Queste alte semicolonne sono fiancheggiate da strette lesene che, all’imposta degli archi longitudinali, subiscono bruscamente una riduzione nella sezione e, così ridotte, salgono anch’esse fino alla volta, dando origine ad archi trasversali concentrici a quelli principali della volta, già ricordati. I muri longitudinali che dividono la nave centrale dalle laterali, poggiano su archi a pieno centro, a doppia ghiera, secondo l’uso romanico (conservatosi ancora nelle arcate del duomo torinese) perchè formati da un arco che poggia sulle lesene e da un altro caricante le mezze colonne, lateralmente addossate al pilastro. Le semicolonne poi rivolte verso le navate laterali, portano un arco trasversale che si imposta su altre mezze colonne incrostate nei muri laterali della chiesa e fiancheggiate pure da angoli di lesene; tra questi archi trasversali, sopra le navate laterali, sono voltate crociere piuttosto rialzate, prive di costoloni.

In tutto l’edifizio non si osservano armille di arco a pieno centro, falcate ossia limitate da archi non concentrici, disposizione caratteristica del romanico lombardo; solamente uno spazio verticale limitato dalla volta centrale e dal semicatino dell’abside, presenta tale particolarità in modo attenuato.

Le basi delle colonne sono del tipo attico; naturalmente /336/ non presentano la purezza delle basi greche; anzi sovente il toro è poco sviluppato e non ha la sezione tonda, ma bensì quadra. Gli angoli delle basi talvolta sono ornati da unghie (griffes) in due forme, ossia la solita linguiforme ed un’altra a pallottola; questi ornamenti che legano gli angoli dello zoccolo quadrato al toro inferiore sono di origine lombarda; cominciano a comparire verso la fine del secolo X e continuano poi anche nel periodo gotico. Esse, oltre l’ufficio decorativo, servono a rafforzare gli angoli delle basi, specialmente nel caso di materiale tenero, come l’arenaria.

Le proporzioni dell’ordine (tav. III, XI, XII, XIII, XIV) formate dai pilastri composti e dall’arco longitudinale inquadrato dalla cornice orizzontale superiore, sono assai corrette e di gusto classico; prova della diligenza e perizia del monaco benedettino o laico, autore del progetto, e prova del massimo perfezionamento dello stile, ciò che concorre a farmi datare la chiesa nella seconda metà del secolo XII. Aggiungo che, per le proporzioni, l’ambiente si presenta, fatta astrazione dalle modanature e sculture dei capitelli ed in genere dalla ornamentazione, come preannunzio non tanto del periodo gotico, quanto del rinascimento.

A proposito di tali proporzioni, Edoardo Mella ha pubblicato una interessante osservazione in una memoria intitolata: Proporzioni della chiesa di Santa Fede presso Cavagnolo al Po. Egli scrive che Plutarco dimostrava la proprietà di un triangolo isoscele avente la base di 4 parti e l’altezza di 2½, ossia la base di 8 parti e l’altezza di 5, ed aggiungeva che tale era la proporzione della piramide di Cheope. Architetti francesi constatarono l’applicazione di tale triangolo a monumenti della Siria e dell’Egitto, per cui esso venne chiamato egiziano. Anche Viollet Le Duc, nel suo Dictionnaire, all’articolo: Proporzioni, tratta di un certo triangolo egizio che presiede al disegno di /337/ varie chiese romaniche; secondo il Mella, ciò corrisponderebbe a verità, e detto triangolo comparirebbe nello schema di chiese dal secolo VIII al secolo XIII; lo stesso autore lo ha verificato per la cattedrale di Ventimiglia. Il Mella fece pazienti ricerche sulle proporzioni degli edilizi medioevali; per esempio, credette di riscontrare nel S. Andrea di Vercelli, l’ottagono applicato nella pianta ed il triangolo equilatero nella sezione (1). Questa preoccupazione di riscontrare fissi canoni geometrici nella costruzione degli edilizi medioevali, era molto diffusa nel secolo scorso; né è provato che ciò sia sempre erroneo, benché talvolta appaia artificioso. Ad ogni modo presento qui il disegno del Mella colla applicazione del misterioso triangolo egizio, (tav. V) lasciando che il lettore ne tragga deduzioni più o meno convincenti.

La base del triangolo isoscele maggiore è collocata all’altezza della base dei pilastri e limitata dalle mezzerie dei muri laterali delle navatelle; costruendo sopra tale base il triangolo egizio colle proporzioni sopra date, si ottiene il vertice che determina l’intradosso della volta a botte; i lati uguali del triangolo battono sul punto più alto degli archi longitudinali e sull’imposta degli archi trasversali posanti sopra le colonne della navata centrale.

Il triangolo minore, simile al primo, ha la base limitata dalla mezzeria dei pilastri o muri longitudinali della navata centrale. Il vertice di esso determina la posizione del parapetto delle finestrelle arcate dell’abside; il prolungamento dei lati uguali batte sull’imposta degli archi trasversali della volta centrale a botte; mentre l’incontro dei prolungamenti di tali lati /338/ coi lati uguali del triangolo maggiore, determina la base del semicatino dell’abside.

Ritorno allo studio architettonico e decorativo della chiesa. Gli archi longitudinali a doppia ghiera appaiono arricchiti da una cornice scolpita in arenaria, di quel tipo chiamato dai francesi billettes e dagli inglesi billets; è una triplice fila di brevi e rotti bastoncini a sezione tonda, alternatamente in rilievo, sia rispetto a quelli laterali che a quelli sottostanti, per cui ne risulta un variato giuoco di luci ed ombre, analogo a quello di una scacchiera. Il vocabolo billets indica quei corti e tondi bastoncini di legno che si buttano sul fuoco per ravvivarne la fiamma. Questo motivo, forse di origine orientale, troviamo pure largamente applicato nel S. Lorenzo di Montiglio del secolo XII; ma non è comune in Piemonte: esso ci viene dalla Francia, incontrandosi frequentemente in specie nelle chiese romaniche della Linguadoca (1); in forma analoga continua anche nello stile gotico, dove i bastoncini a sezione tonda sono sostituiti da piccoli cubi o prismi.

La chiesa era illuminata da tre finestrelle arcate a doppia strombatura, dal tipo feritoia, praticate nel muro in curva dell’abside, ora otturate da un edilizio addossatovi; da quattro finestrelle dello stesso tipo aperte nel muro della navatella a sud, in corrispondenza delle sue campate, disposizione comune nelle chiese romaniche, che è ancora conservata nel duomo di Torino.

Queste finestrelle sono pure acciecate da costruzioni esterne; mentre nel muro della navatella a nord, per ragioni ovvie, /339/ esiste solamente una finestrella e traccia di un’altra; altre aperture vi furono praticate posteriormente. La luce si diffondeva ancora dalla finestra centrale della facciata, rifatta da Mella, la quale poteva essere una bifora come a Vezzolano, e da due strette feritoie forate lateralmente nella facciata stessa. Inoltre una curiosa disposizione ci mostra quattro piccole finestre arcate praticate nello spessore della volta centrale a botte, dal lato sud, le quali sono ora otturate. L’ambiente era quindi sufficientemente se non vivamente illuminato; la luce moderata e diffusa, come generalmente si riscontra nelle chiese romaniche, induceva impressione di mistero e di religioso raccoglimento.

Il suggestivo edifizio presenta alcune singolarità che giova rilevare. All’esterno appaiono i bracci di un transetto fortemente espressi nella elevazione, ma non sporgenti dalle navatelle; terminanti a frontone decorato con archi pensili; nell’interno detto transetto non si rivela; le tre navate corrono ininterrotte, né alterate in altezza, sino alle loro antiche absidi; la maggior altezza interna del transetto è mascherata da volte a crociera, sopra cui, in corrispondenza delle navatelle, trovano posto due camerette o coretti. Così pure sopra l’incrocio della navata principale col transetto, si innalza un tiburio campanario rettangolare rimaneggiato posteriormente; ma dall’interno non lo si vede, mascherato come è, da una volta a crociera. Il tiburio (tav. II, III) è diviso in due piani; di cui il più basso è coperto da volta a crociera con costoloni che si impostano su mensole angolari degradanti, in mattoni, ed illuminato da bifore con colonnetta di arenaria e capitello scolpito a foglie; il piano superiore è pure illuminato da bifore con colonnette; la cornice superiore fu rifatta nell’epoca barocca. Altra singolarità si è che il tetto non aveva alcuna travatura; le tegole piane alla romana o curve erano originariamente posate sopra uno /340/ strato di malta distesa sull’estradosso delle volte, ridotto a piano inclinato; la malta si induriva colle tegole soprastanti. Inoltre la volta a botte della nave centrale è eccezionale nelle chiese romaniche voltate dell’Italia superiore, coperte generalmente da volte a crociera; in esse la volta a botte compare solamente sopra il presbiterio o coro. Invece detto genere di volta s’incontra frequentemente nelle chiese romaniche del centro e del mezzogiorno della Francia; in questo specialmente, spesso le volte portano direttamente le tegole senza armatura (Lionese, Linguadoca) (1).

Assai rare poi sono da noi le già descritte finestrelle arcate che forano la volta poco al di sopra della sua imposta; tali finestrelle invece si incontrano di frequente in Francia, come a Benevent (Creuse) ed in Provenza (2).

L’attenzione del visitatore è attirata intensamente sopratutto dalla variata fantastica ed originale decorazione dei capitelli in numero di quarantotto. Essi si possono raggruppare in varii tipi; però non ve ne sono due identici. Ciò prova la fervida fantasia di quegli artefici frati o laici che fossero e ci svela la loro individualità personale, come si richiede sopratutto nelle opere d’arte. Le figurazioni e gli ornati sono generalmente trattati in modo rozzo e talvolta direi quasi infantile; pure, malgrado ciò, l’effetto decorativo è raggiunto; la distribuzione del chiaro e oscuro è felice; le rientranze e le sporgenze si inquadrano bellamente nel generale motivo, le cui superficie e linee esteriori si accordano convenientemente nella composizione generale architettonica.

L’abaco di questi capitelli è una pietra quadrata piuttosto spessa, tagliata a listello ed a tronco di piramide rovesciato, /341/ originato dalla riduzione del pulvino bizantino. In alcuni capitelli (tav. XIX, fig. 2a) sono rappresentate due bestiaccie, talvolta a testa equina, che si mordono la coda, mentre colle loro teste sostituiscono, negli angoli, le volute dei caulicoli; le loro zampacce equine sono contrapposte. Tale ispirazione è attribuita ai mostri addossati o affrontati, raffigurati nei disegni di stoffe, legni ed avorii scolpiti, bronzi e vetri, portati nei nostri mercati dall’Oriente. Però anche nella ornamentazione etrusca e romana figurano analoghi animali fantastici, forse anche questi ispirati dall’Oriente, culla del genere umano, là dove ancora poteva conservarsi la tradizione di animali della fauna primitiva. Del resto è noto che la tendenza odierna, non però da esagerarsi, attribuisce la provenienza della maggior parte delle creazioni artistiche ornamentali e figurate, dall’Asia Centrale, donde pervenne all’Europa Occidentale ed all’Estremo Oriente. Tali rappresentazioni bestiarie nei capitelli, compaiono nelle nostre chiese ed in quelle d’oltr’alpe non prima del mille circa (1); talvolta possono avere significato simbolico; generalmente però hanno solo scopo decorativo.

Altri capitelli sono improntati al tipo corinzio (tav. XV, XVI fig. 2a); magri i caulicoli tra cui talvolta è scolpita una crocetta od un intreccio, mentre le foglie d’acanto spinose non hanno certo la grazia di quelle greco-romane; l’astragalo o tondino sovente è intagliato a spirale come una fune, motivo che il prof. Porter (2) ritiene, in questa chiesa, per la prima volta, da noi comparso; motivo che ebbe molta diffusione nella seconda metà del secolo XII e poi nel periodo gotico.

/342/ Altro tipo di capitello (tav. XVI, fig. 1a) è quello costituito da due magri caulicoli, oppure intrecci sotto cui si sviluppano grandi foglie, piatte, rigide, colla punta poco o nulla ripiegata, col lembo non seghettato e colla sola costola centrale segnata; esso è probabilmente di origine nordica, anzi normanna (1).

Poi sonvi capitelli più semplici; uno di essi (tav. XVII, fig. 1a) mostra un tronco di cono rovesciato; alla sua sommità festonato da due lobi; pare quasi un doppio capitello cubico e come un primo abbozzo del capitello polilobato (godronné, scalloped) così diffuso nelle chiese dei Cisterciensi; di questo tipo di capitello tratta T. Rivoira (2).

Altro capitello (tav. XVII, fig. 1a) mostra tre grandi foglie appena segnate, su cui sono applicate grosse pallottole sporgenti; questo caratteristico ornato s’incontra frequentemente in Francia, nel sud-ovest e nella Linguadoca, alla fine del periodo romanico (3). Tali pallottole o sferule in alcuni capitelli rappresentano la punta ripiegata della foglia.

Un altro (tav. XVIII, fig. 1a) è tutto avviluppato, come un canestro, da un intreccio di nastri, su cui sono sparse losanghette e pallottoline: capitello che trova il suo somigliantissimo riscontro nel S. Lorenzo di Montiglio; altra prova degli stretti rapporti stilistici tra le due chiese.

I capitelli delle colonne che salgono fino alle volte (tav. XI, XII, XIII, XIV) sono pure assai variati; per la maggior parte adornati di caulicoli e grandi foglie acquatiche; però compaiono anche capitelli colle due bestiaccie addossate e capitelli a foglie corinzie. Nel quinto pilastro a destra si ammira /343/ un bel capitello dal tipo corinzio, con foglie spinose d’acanto però già ripiegate piuttosto al modo gotico (tav. XV, fig. 2a). Nel capitello (tav. XV, fig. 1a) a tipo corinzio, le punte delle foglie sono foggiate a rozze teste umane bamboleggianti, con espressione di incubo. Il capitello (tav. XIX, fig. 1a) mostra uccelli affrontati; quello della tav. XX mostra, in felice contrasto, grandi foglie liscie con foglie spinose d’acanto.

Il fianco esterno della chiesa, verso mezzanotte (tav. X) libero da edifizi addossati, mostra la semplice e bella decorazione lombarda, costituita da sette lesene poco sporgenti, con basi bene sagomate, poggianti su alto zoccolo adorno superiormente da eleganti sagome; compare in alto la solita cornice di archetti pensili in cotto; il materiale è costituito da conci di arenaria e da grossi mattoni striati, le cui dimensioni medie sono: cent. 29 × 13 × 8.

Come già si è detto, il transetto appare colla sua facciata a frontone tagliato orizzontalmente da una cornice ad archetti. Sotto il tetto e nell’edifizio addossato all’abside, si può riconoscere la decorazione di questa; il muro in curva è diviso in tre campi, da semicolonnette tonde che portano l’archeggiatura pensile scolpita in arenaria.

La facciata (tav. II, VI) mostra in evidenza la struttura interna dell’edilizio; così la parte centrale, corrispondente alla navata mediana, è più alta e forma un corpo leggermente avanzato relativamente alle due ali laterali. L’angolo al vertice dei pioventi del tetto è di gradi nonagesimali 135°; cioè l’angolo dell’ottagono regolare, come in altre chiese romaniche piemontesi, per es. S. Pietro di Pianezza e S. Maria di Brione. Le due pendenze del tetto sono ornate dalla solita serie di archetti pensili, a pieno centro, in cotto, il cui asse è verticale, e che risaltano sopra una banda chiara di calce; tale archeggiatura fu fortemente riattata dal Mella. Al di sotto, nel timpano, /344/ si apre una finestrella crociforme, tipica del romanico lombardo. La parte superiore della facciata è costituita di mattoni, all’ingrosso disposti alternatamente in lunghezza e larghezza, nel modo cioè che troverà più rigorosa applicazione nel periodo gotico.

La parte inferiore è tutta di conci giallognoli di arenaria, bene lavorati; il passaggio dal materiale lapideo al laterizio non è regolare; bande di arenaria intercalate a bande di mattoni, con effetto policromo, segnano irregolarmente la zona di passaggio, con effetto di pittoresca e variata eleganza.

Una finestra bifora soprastante al portale fu curata dal Mella, in sostituzione di una possibile bifora antica. Ma, come già si è detto, ciò che sopratutto seduce ed attrae, è lo splendido portale in arenaria, ricco della più svariata scultura decorativa (tav. IV, VII, VIII, IX). È il tipico inquadrato portale romanico lombardo, a forte sguancio ed a molteplici ghiere ed archi concentrici a tutto sesto, coi loro sopporti. La porta è fiancheggiata da due colonne grandi e tozze e da quattro interne più esili; cioè tre colonne per parte, divise tra di loro da angoli di lesene; sopra questi sostegni si sviluppano i relativi archi concentrici, tutti coperti da sculture le più fantastiche e variate. Tangente alla ghiera estrema, corre una orizzontale cornice scolpita a foglie inflesse. Al di sotto, e lateralmente, entro riquadri, sono effigiati due mostri affrontati, cioè grifoni alati con becco e coda di leone, sotto due busti umani in cui il Mella ha creduto ravvisare Adamo ed Eva, specialmente pel seno rigonfio ed i capelli sparsi di quest’ultima; ma tale interpretazione mi pare assai dubbia. La più esterna ghiera in arcata è lavorata a triplice fila di billettes o scacchiera, come attorno agli archi longitudinali dell’interno; poi un’ampia fascia decorata da intrecci di nastri che determinano dodici campi. Questi /345/ intrecci (interlacs) così caratteristici del periodo preromanico e romanico, compaiono nell’ornamentazione barbarica ed in quella bizantina ravennate, che entrambi desunsero dall’oriente; esisteva già però anche nella tradizione romana, che l’aveva ricavata dalla stessa origine; infatti si trovano già di questi intrecci nel palazzo di Diocleziano a Spalato (1). Nel centro della fascia è scolpita una croce patente che, secondo Diego di Sant’Ambrogio, rappresenta l’emblema dei Cluniacensi (2); negli altri campi, cominciando da sinistra, vediamo una rosetta, due cani sovrapposti, un cammello o dromedario, un leone, un grifone, un mascherone che ingoia un putto, un gallo, un serpente, una capra, un uccello. Queste rappresentazioni animalesche, originarie dell’oriente, comparenti anche nella scultura etrusca e romana, furono riprese nei Bestiarii medioevali; talvolta assumono significazione simbolica; il più sovente non rappresentano che motivi ornamentali. Sotto la fascia s’inarca una stretta ghiera ad intrecci; poi un’altra più larga a foglie, frutti e uccelli; seguono altre quattro: ad intrecci, riccioli o caulicoli, a cordone scolpito a spirale; infine l’ultima a foglie inflesse. La semilunetta tutta scolpita ci mostra il Salvatore raggiato, in atto di benedire, entro un tondo sostenuto da due angeli assai deficienti; al di sotto, la parte della semilunetta che funge da architrave è decorata da ampi girari con foglie e pigne o grappoli; l’orlo inferiore presenta una fila di fuserole e perline, ricordo di ornato classico, usato nella chiesa nostra e molto in quelle provenzali. I capitelli delle colonnette sono scolpiti a foglie di acanto, bestiaccie ed aquile bene espresse (tav. VII, /346/ VIII, IX). Il bel capitello della colonna grande di destra è corinzio e presenta, entro uno scudo a punta, la croce patente come quella ricordata; il suo astragalo è un doppio cordone inciso a spirale (tav. VIII). Il capitello della colonna grande di sinistra (tav. IX) è scolpito a figure umane non bene decifrabili. Antonio Bosio (1) crede di ravvisare in questo capitello una danza macabra, oppure il combattimento dell’arcangelo S. Michele cogli angeli ribelli. Sopra l’alto abaco istoriato di questi due capitelli sono accovacciati in riposo due rozzi animali: un toro ed un leone, emblemi degli Evangelisti, oppure due leoni o chimere che si fronteggiano. Ai fianchi del portale sono forate due lunghe e strette feritoie, senza sguancio esterno.

Una particolarità della facciata ci è presentata da due alte colonne a cilindri di arenaria, a quella appoggiate, non però corrispondenti ai muri longitudinali interni, come rinforzo; ma collocate verso la metà delle navatelle, come semplice decorazione; quella di destra mostra anche dischi di cotto alternati a dischi lapidei, con tentativo di effetto policromo irregolare; esse sono coperte da capitelli del tipo corinzio, con astragali a doppio cordone torto e portano nulla. Tali colonne potrebbero anche pensarsi come appoggio a travi di un tetto coprente un portico ligneo eretto o da erigersi in speciali circostanze, avanti l’ingresso della chiesa.

Sulla facciata sono incise, in lettere romane, iscrizioni imbarazzanti che sembrano state scritte prima della applicazione delle colonne; il prof. Porter (2) ne decifra una parte in questo modo:

/347/

XI ⁛ KL NOVEBRIS OB[ iit ]
ROLANDVS PR[ ior ]
† DOMINVS ROLANDVS PRIO[ r ] HIC MERIT[ i ]S VEN....
TEMPLI P.... S.... TRO.... T

Di questo priore Rolando nulla si sa.

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Il chiostro e gli edifizi principali del priorato si sviluppavano, come abitualmente, a mezzogiorno della chiesa; ma le successive ricostruzioni e rimaneggiamenti della fabbrica rendono impossibile, allo stato attuale, inferire la distribuzione dei locali e le forme e destinazione primitiva di essi.

Il bello edifizio fu studiato da parecchi autorevoli scrittori d’arte; qui brevemente espongo cronologicamente il risultato dei loro studi.

Primo Edoardo Mella, sagace scopritore, restauratore ed illustratore di chiese medioevali piemontesi (1), descrive il monumento, aggiungendo le seguenti notizie storiche. Egli giustamente non ammette che il monastero sia stato fondato da S. Mauro, discepolo di S. Benedetto, quando quello, per un incidente di viaggio, dovette sostare in Vercelli, il 13 marzo del 543, come vuole una leggenda. Il teol. G. B. Moriondo, nella prefazione dei suoi Monumenta Acquensia, scrisse di aver veduto in Cavagnolo un frammento di cronaca ove si narrava la fondazione di Santa Fede; ma nulla più aggiunge e tale frammento non è stato ritrovato. Il Mella ricorda un atto rogato /348/ in Torino addì 13 luglio 1210, in cui Giacomo I vescovo di Torino, unisce sotto certe riserve, l’abazia di S. Solutore e quella di S. Michele della Chiusa; tra i testi figura Petrus iudex de Sancta Fide (1). Lo stesso Petrus è pure nominato in altro documento del 29 settembre 1211 (2) col seguente regesto: « Bonifacio già vescovo di Asti e Ponzio priore di Cervere stabiliscono il deposito di tutte le carte riguardanti il monastero di S. Pietro di Savigliano, tenute dall’abate di S. Michele della Chiusa, presso il vescovo e capitolo di Vercelli ». Tra i testi è segnato dominus Petrus de Sancta Fide iudex Taurinensis. Questi ricorre pure in altro atto stipulato in Vercelli il 13 giugno 1206, e ricompare una altra volta, inviato dal Capitolo Eusebiano di Vercelli al vescovo di Torino per attestare che il cardinale Guala Bicchieri aveva fatto parte del Capitolo torinese, ed in pari tempo era sindaco e cittadino torinese. Da tutto ciò il Mella inferisce che questo Petrus de Sancta Fide, comparente in atti che riguardano S. Michele della Chiusa e S. Solutore, fosse monaco di Santa Fede e forse abate, e che questo monastero fosse alle dipendenze di quei cenobii. Inoltre nel Necrologio di S. Solutore di Torino (3) è notato l’anniversario di Oddo abbas S. Fidei; il Mella riconferma quindi che il convento benedettino di Santa Fede verosimilmente dipendesse da S. Solutore e da S. Michele della Chiusa, e che fosse stato fondato nella seconda metà del secolo XII, perchè era già in esercizio agli inizi del secolo XIII. L’attribuzione del monumento a tale epoca è pure, dice il Mella, ammessa dal Dartein e dall’ing. prof. Clericetti di Milano.

/349/ Il monastero benedettino di S. Solutore si ergeva fuori delle mura di Torino, in vicinanza della cittadella; fu distrutto dai Francesi nel 1536 e, sempre secondo il nostro autore, intorno a quest’epoca la badia di Santa Fede fu costituita in priorato. Nel 1728, alla morte dell’ultimo priore commendatario Paolo Coardi, ad istanza di mons. Roero vescovo di Acqui, il priorato fu unito a quella mensa vescovile, e quindi nel 1797 fu aggregato a quella di Casale Monferrato. Nella chiesa è murata una marmorea lapide settecentesca, con blasone, così composta: « D. Paulo Coardi – Cubiculario Honorario – SS. PP. Innocentii XI et Clementis XI – Abbati Sanctae Mariae Caburri – Priori Commendatario Sanctae Fidei Cavagnoli – Equiti Religionis SS. Mauritii et Lazari – Muneribus suis Romae diù sic diù digneque functo – Singulari facundia praedito – Suae tandem restituto patriae – Plurimis summisque expensis – Abbatiae et Prioratus instauratis aedibus – Auctisque proventibus – Maximo amicis et cognatis desiderio sui relicto – Anno aetatis suae sexagesimo – In sua abbatia mortuo. ibique quiescenti – Nicolaus Coardi Comes Quarti – Optime de se merito fratri – Hoc monumentum posuit – Anno MDCCXXVIII ».

Edoardo Mella poi, in altro scritto, ha fatto curiose osservazioni sulle proporzioni della sezione trasversale della chiesa, come già si disse in precedenza.

Lo stesso Edoardo, in unione con Federico, ha ristampato lo studio già pubblicato nell’Arte in Italia, corredandolo di un buon rilievo del monumento in nitide tavole, che qui, grazie alla cortesia della Società Editrice Libraria (Milano, Via Ausonio 22), ho potuto riprodurre (1).

/350/ Ma chi fece conoscere le vere origini della nostra Santa Fede fu Gustave Desjardins che stabilì la figliazione di quella dall’Abbaye de Sainte Foi de Conques en Rouergue (1). Questa abbazia francese fondata dai benedettini possedeva una magnifica chiesa romanica ancora esistente, sita in una conca rupestre, sui confini dell’Alvernia; mentre il monastero andò distrutto. La chiesa è dedicata a Santa Fede giovinetta vergine e martire di Agen. Il Mabillon (2) tratta a lungo dell’Abbazia di Conques; i Bollandisti (3) fissano il giorno probabile del martirio di S. Fede al 6 ottobre 287, sotto Massimiano Erculeo, ed accennano anche al suo culto in Piacenza (Italia); anche in Gallia Christiana si tratta di S. Foi.

Ma il Desjardins pubblicò in seguito il Cartario dell’abbazia con ulteriori informazioni su Conques (4). La fondazione risale ai tempi di Carlomagno, e nel secolo XIV l’abbazia fu trasformata in capitolo secolare; esiste ancora a Conques, tra gli altri preziosi cimeli d’arte, una statua di S. Fede che si dice risalga al secolo IX; secondo l’immaginazione popolare, che se la immaginava come una vergine adolescente ammirabilmente bella, di aspetto angelico, la testa coronata di perle; il culto di essa, assai diffuso specialmente nel mezzogiorno ed anche fuori di Francia, ha portato lo stile nato a Conques, in tutti i luoghi dove si è propagato. Cosi dice il Desjardins, che trascrive la serie degli abati fino al 1183.

/351/ Il monastero conobbe splendori nel medioevo; le sue dipendenze si estesero ampiamente in molte diocesi di Francia, in Inghilterra, Italia e Spagna; decadde nel secolo XIII ed i priorati lontani si staccarono poco a poco dalla chiesa madre, assorbiti dalle potenze ecclesiastiche e feudali vicine; però fino al 1790 l’abate conservò la sua importante posizione. La chiesa attuale di Conques fu eretta probabilmente a cominciare dal 1035, sotto l’abate Odolrico II, che occupò il seggio abbaziale per oltre 30 anni, ed era ancora abate nel 1062 (1); nel secolo XII l’abbazia di Cluny vi ebbe ingerenza.

Il Desjardins trascrive i documenti del cartario; sono 546 carte comprese tra l’anno 801 ed il 1189 e altri 21 documenti, in tutto 567; non vi si riscontra alcun documento posteriore al 1100 eccetto quello del 1189. La scrittura dei documenti fa risalire il cartario per la maggior parte al secolo XII; ma in nessuno di essi figura il nome di S. Fede di Cavagnolo. Dal cartario stesso risulta che monaci costruttori erigevano chiese, monasteri ed anche borghi franchi in tutti i luoghi dove andavano a stabilirsi; tre nomi di monaci architetti ci sono conservati: Deusdet, Pietro ed Oldorico (documento verso il 1076).

L’autore ebbe anche agio di leggere una pancarte del secolo XVI, che però non pubblicò. In essa sono enumerati i possessi dell’abbazia in Francia, in Inghilterra al principio del secolo XII, in Spagna alla fine del secolo XI e nel secolo XII, in Alsazia (Schelestadt, 1095). In Italia nella diocesi di Forlì è notato come appartenente a Conques un priorato di S. Vittore o S. Simone de Currelis o Turretis, senza altra informazione. Nella diocesi di Vercelli, poi di Casal Monferrato, Conques

/352/ possedeva un priorato così nominato: Prioratus Sanctae Fidei de Visterno seu Cavancholio o Cavanholio. Visterno era un castello antichissimo nel comune di Cavagnolo, sulla riva destra del Po. Si tratta evidentemente del nostro priorato; ma la data della fondazione non è espressa. Informazioni pervenute al Desjardins dall’arcivescovo e dal canonico Pietro Canetti di Vercelli, aggiungono solamente che la fondazione era avvenuta nel secolo XII per opera di un diocesano vercellese. Nella stessa pancarte tra le cariche monastiche è citato l’ouvrier ossia l’architetto ed una bolla del 1243 specifica l’ouvrerie ou fabrique che prova l’attività architettonica di quel cenobio benedettino.

La chiesa di S. Foi de Conques è un tipo del romanico di Linguadoca che trova il suo riscontro nel S. Sernin di Tolosa di poco posteriore e già più perfezionato.

Copiosa è la letteratura relativa all’abbazia di Conques sia dal lato religioso che da quello storico artistico (1).

Continuo la rassegna degli scrittori che si occuparono del nostro monumento. Il Biscarra accenna a Santa Fede negli Atti della Società piemontese di archeologia e belle arti del 1878. de Dartein nel testo: de Daretin F. de Dartein (2) nota come il romanico piemontese sia generalmente d’ispirazione lombarda; pure alcune chiese dello stile /353/ avanzato mostrano ad evidenza l’influsso francese, come la Santa Fede, per la volta a botte, per gli anelli delle colonne e per la decorazione a billettes.

Anche Adolfo Venturi nella sua classica Storia dell’arte italiana (1) discorre della nostra chiesa, notando che per le vie del Monferrato, regione cavalleresca dove i trovatori provenzali trovarono liete accoglienze, ed in genere per le vie del Piemonte, scendeva in Italia l’influsso dell’arte francese.

Molto interessante è lo studio di Diego di Sant’Ambrogio sulle Vetuste chiese benedettine rivelanti influssi cluniacensi (2).

L’ordine di Cluny, che ebbe ingerenze nell’abbazia di Conques, è la riforma dell’ordine di S. Benedetto avvenuta nel 930 per opera di S. Odone abate di Cluny. I monaci cluniacensi eressero magnifiche chiese e monasteri romanici, sfoggiando eleganza e lusso di decorazione; in reazione all’eccesso, S. Roberto di Molesme fondò nel 1098 l’ordine dei Cisterciensi, i quali dalla Borgogna portarono anche in Italia la loro nobile ed austera architettura, già improntata allo stile gotico. San Bernardo di Chiaravalle (1091-1153) che inveiva contro l’eccesso della decorazione, specialmente figurata, talvolta indecente, accentuò ancora l’austerità degli edilizi. Ora il Sant’Ambrogio scorge influssi cluniacensi nella nostra Santa Fede. La croce patente palmata, scolpita nel capitello di destra della facciata, presentante gli orli delle quattro braccia intagliati a tre punte, sarebbe l’emblema di Cluny. Anche il nome stesso della Santa prova l’origine cluniacense della chiesa, poiché Santa Fede vergine e martire di Agen non ha speciale posto nell’agiografia italiana e la speciale cappella in S. Simpliciano di Milano, intitolata a S. Fede, prova che quei monaci avevano adottato la /354/ regola cluniacense. Secondo il Sant’Ambrogio, il nostro monastero era dipendente da S. Michele della Chiusa e da S. Solutore di Torino, monasteri in stretti rapporti con l’abazia di Fruttuaria. Ora in questa erano vive le tradizioni cluniacensi; infatti fu fondata da S. Guglielmo di Volpiano che fu condotto da Lucedio a Roma da S. Maiolo; nel suo ritorno in Francia, da Roma, entrò monaco a Cluny, convertendo alla nuova regola benedettina S. Odilone, e divenne poi abate di Digione in Borgogna. Il Sant’Ambrogio ignorava la dipendenza da Conques, non conoscendo gli studi del Desjardins.

Arthur Kingsley Porter (1) non accenna alla figliazione di Santa Fede da Conques. Narra come il castello di Cavagnolo dipendesse dal marchese di Monferrato (Guglielmo IV morto nel 1183) come appare da un diploma di Federico Barbarossa (1164) (2) confermato dall’imperatore Carlo (1355). Nel 1214 detto castello era impegnato, con altre possessioni del marchese Guglielmo, nella controversia sorta tra di esso ed i Vercellesi. L’autore, basandosi sulle sculture del S. Giorgio di Milano (1129) e del S. Pietro in Cielo d’oro di Pavia (1132), attribuisce la nostra chiesa a circa il 1140. Nota però che gli astragali dei capitelli, scolpiti a spirale, mostrano un motivo che ebbe il suo maggior sviluppo nella seconda metà del secolo XII. Osservo a tal proposito, che il voler fissare, con precisione di anni, la data di un monumento, traendo illazioni dallo stato delle murature e dalla maggiore o minore finitezza delle sculture di monumenti anche non vicini, parmi possa talvolta indurre in errore; poiché in quei tempi potevano erigersi ed /355/ adornarsi contemporaneamente edifizi con maggiore o minore maestria e finitezza, avuto riguardo ai mezzi ed all’abilità diverse dei singoli esecutori. Il Porter riconosce la influenza provenzale nella volta a botte della navata centrale; la influenza piuttosto nordica, anzi normanna, nelle larghe foglie acquatiche di alcuni capitelli, e quella del centro della Francia, nella decorazione a billettcs degli archivolti; nota pure l’affinità di stile col S. Lorenzo di Montiglio da lui attribuito a circa il 1150 (1). Presenta una veduta dell’interno della chiesa di Charly (Cher, Languedoc) che veramente mostra impressionante rassomiglianza con la nostra.

Camille Enlart ne tratta, sia nel Manuel d’archeologie francaise, sia nell’Histoire de l’art di André Michel, come già si è detto. Si diffonde nell’illustrazione della scuola di Cluny, che ha innalzato S. Foi de Conques e che in Italia ha influito sul S. Antimo presso Siena ed in minor grado su Santa Fede di Cavagnolo, S. Lorenzo di Montiglio, la Trinità di Venosa in Puglia e la cattedrale di Acerenza. Nota che le grandi arcate delle chiese romaniche non sono decorate a sculture che nella seconda metà del secolo XII, e che la decorazione a billettes si incontra in Francia dappertutto, ma specialmente in Linguadoca. Infine, in conformità degli studi del Desjardins, ricorda che la Santa Fede di Cavagnolo fu un priorato di Conques ed una imitazione di quel modello, con alcune delle sue caratteristiche. Ma in fatto osservo che la chiesa francese molto più grandiosa e ricca di sculture della nostra, ha con questa limitati punti di contatto; quella è provvista di matroneo coperto da volte a semibotte che contrastano alla volta a botte /356/ della nave centrale; di un ricco triforium e di un grande transetto a triplice navata (1). Interessante è notare che le volte a semibotte compaiono invece sulle navatelle del S. Lorenzo di Montiglio.

Corrado Ricci (2) ricorda la nostra chiesa, notando gli influssi dell’arte cluniacense e cisterciense sull’architettura italiana.

Pietro Toesca (3) scrive che la chiesa di Santa Fede deve ascriversi al secolo XII inoltrato; il gran portale ricco di intagli è opera di maestri locali; ma nell’interno la volta a botte sulla navata centrale e le colonne anulate ricordano l’arte romanica borgognona e provenzale. Il Toesca dà poi la pianta della grandiosa chiesa di S. Foi de Conques, che dovrebbe essere il prototipo della nostra; in fatto però come la nostra, è solamente ricca di sculture, divise in cinque campi fino al transetto, e la nave mediana è coperta da volta a botte.

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Ai risultati sopra espressi degli studi che eminenti autori fecero intorno alla S. Fede di Cavagnolo, aggiungo alcune altre notizie storiche.

Nel Cartario dell’abbazia di S. Solutore di F. Cognasso (4) troviamo alcuni documenti, che hanno relazione con Santa Fede; ne ricordo i più importanti. Nel doc. n. 96, Operto Caccia cede al signor Pietro abate di S. Solutore ogni sua /357/ ragione contro Durandetto di Borgo San Donato per casa ivi, 25 marzo 1223; fra i testi è nominato dominus Petrus de Sancta Fide, cioè quello stesso Petrus incontrato in documenti già ricordati. Nel doc. 97, Ottone Gibuino, Dolce Gibuino, Giovanni Guala e Guglielmo Grillo cedono al monastero di S. Solutore ogni loro eventuale ragione sui beni tenuti dal fu Clemente di Calpice in tale luogo, 4 luglio 1225; tra i testi figura ancora dominus Petrus Sancte Fidei. Nel doc. 187, il signor castellano Borghesio priore e frate Ottone di Santa Fede sindaco, a nome del monastero di S. Solutore, investono Giacomo Aramenco di beni in Calpice pervenutigli per eredità di Sandrona ecc., 10 marzo 1299; è qui cioè nominato un frater Otto de Sancta Fide sindacus et procurator ipsius monasterii (S. Solutore). Era dunque un frate di Santa Fede che aveva una carica importante nel cenobio di S. Solutore. Ed ancora nel cloc. 189, del 17 maggio 1299, compare lo stesso frater Otto de Sancta Fide monacus monasterii supradicti et procurator et sindacus ut patet per cartam ecc. Questo Ottone potrebbe essere lo stesso che compare nel Necrologio di San Solutore, come abbate di S. Fede.

Per tutto ciò è innegabile che tra il S. Solutore di Torino e la S. Fede di Cavagnolo esistevano strette relazioni già fino dalle prime decadi del secolo XIII.

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Il priorato benedettino cluniacense di Santa Fede risulta adunque certamente fondato, per la pietà di un diocesano vercellese, dall’abbazia di Sainte Foy de Conques, in Cavagnolo allora diocesi di Vercelli, località dipendente dal vescovo, sulla quale però l’autorità del marchese di Monferrato ebbe anche /358/ giurisdizione, specialmente per il castello, come appare dai documenti ricordati (1). Tale località doveva già essere popolata nell’epoca romana perchè, secondo Antonio Bosio (2), vi fu disotterrato un cippo di marmo roseo pallido con iscrizione il quale era collocato nella chiesa a cornu evangelii. L’abate Eugenio De Levis da Crescentino pubblicò questo monumento che fu poi trasportato all’Università Del resto il luogo di Cavagnolo doveva essere collegato per mezzo della strada romana che correva ai piedi della collina, sulla destra del Po, passante per S. Mauro di Pulcherada e Industria (Monteu da Po); quasi in faccia e non lungi da Cavagnolo, alla sinistra del Po, giaceva la Mansio Quadrata sulla via romana che da Torino si dirigeva verso Pavia (3).

La derivazione dall’abbazia di Conques è anche confermata da una notizia cortesemente fornitami dall’amico avv. Vincenzo Druetti, infatti nella Storia del Monferrato di Benvenuto di S. Giorgio (4) si legge il testamento del marchese Giovanni II, in data 1372, dal castello di Volpiano. In questo documento è nominato in villa Cavagnolio Dioecesis Vercel. Prioralus S. Fidei subiectus abbatie monasterii Conch. Bathem Dioecesis ordinis S. Benedici qui Prioratus est solitus gubernari per unum Priorem cum duobus monacis. Il marchese Giovanni II dispone per dotare il nostro Priorato di tre monaci in perpetuo, oltre il numero consueto detto di sopra. In più luoghi della stessa storia ed in varie epoche risulta la dipendenza di Cavagnolo e dei suoi /359/ signori dal marchese di Monferrato. La figliazione da Conques spiega le innegabili influenze dell’arte francese che ho rilevato nelle sue varie manifestazioni; le scuole di Linguadoca, Provenza e Normandia si manifestano in alcune disposizioni architettoniche ed in alcuni elementi decorativi; l’influsso cluniacense si fa sentire dappertutto per la ricchezza delle sculture; notando però che secondo il De Lasteyrie (1) i Cluniacensi non imponevano strette regole per l’erezione delle chiese di loro fondazione; ciò che invece avveniva in certo modo per i Cisterciensi.

Intanto giova notare che la pianta della nostra chiesa è prettamente lombarda; come pure sono ispirati all’arte lombarda lo schema architettonico e la decorazione della facciata e dei fianchi.

Invero la storia delle trasmissioni e dei ricambii artistici tra paese e paese è assai difficile a stabilirsi; le azioni e reazioni di confine e di contatto sono frequenti, presentando un fenomeno analogo a quello che nella fisica è conosciuto sotto il nome di osmosi attraverso un diaframma. La influenza reciproca decorativa è più frequente e nel periodo medioevale la diffusione avviene specialmente per opera degli ordini monastici. È innegabile, per es., che S. Guglielmo di Volpiano e S. Lanfranco di Pavia insieme ai magistri comacini, ossia maestranze nostrane, portarono forme romaniche lombarde oltr’alpe ed è pure innegabile l’influsso esercitato in Italia dai Cluniacensi e dai Cisterciensi. Ed è assai difficile stabilire il grado di tale influenza; come pure se furono architetti e lapicidi stranieri che operarono la diffusione, oppure connazionali che s’ispirarono a scuole straniere.

/360/ In quanto all’epoca della nostra Santa Fede, in mancanza di documenti, parmi si possa ritenere la seconda metà del secolo XII; essa è generalmente ammessa dagli autori sopra ricordati eccetto il Porter; coincide coi documenti storici che non compaiono se non al principio del secolo XIII. Tale data coincide pure col carattere dello stile nel suo più completo e rigoglioso sviluppo, del quale sono rappresentati tutti i caratteristici motivi. Concordano anche con tale epoca, la regolarità dei tracciamenti, la diligenza della costruzione e le sue proporzioni relativamente snelle, le arcate longitudinali decorate da billettes e gli astragali dei capitelli, scolpiti a spirale; motivi e disposizioni ornamentali che si sviluppano assai nella seconda metà del secolo XII; si aggiunga che l’arte romanica piemontese segue la lombarda in arretrato.

Anche il S. Lorenzo di Montiglio, uno dei più esuberantemente ornati monumenti romanici del Piemonte, che pare di qualche anno posteriore a Santa Fede, risulterebbe rifatto nella seconda metà inoltrata del secolo XII, secondo informazioni che però non ho potuto appurare.

A me sembra che effettivamente dall’ouvrerie dell’abbazia di Conques, debba essere pervenuto a Cavagnolo qualche esperto e qualche lapicida che, insieme ad architetto e lapicidi nostrani, abbiano innalzato e decorato la nostra Santa Fede. Probabilmente, in gran parte, erano monaci o conversi che lavoravano là dove l’opera loro era necessaria, nelle varie chiese e monasteri del loro ordine; per cui la conservazione degli stili monastici. Non è però da escludere dalla categoria degli architetti ed artefici i laici, ai quali anzi ora alcuni e specialmente il De Lasteyrie, nella sua classica opera citata, attribuiscono la maggior importanza, in contrasto a quanto pensava la scuola di Viollet Le Duc. Certamente in quell’epoca, anche nell’Italia superiore, operavano insigni architetti e scultori /361/ laici che fecero scuola. Ad ogni modo sono noti i fasti architettonici di S. Guglielmo di Volpiano e di S. Lanfranco e dei loro adepti, e nello stesso Cartulaire de S. Foi sono ricordati i nomi di frati architetti; durante il secolo XIII i laici prendono decisamente il sopravvento. Questi fraticelli architetti e costruttori, formatisi nelle scuole dei monasteri, operavano nelle migliori condizioni per produrre l’opera d’arte; l’entusiasmo eccitato dalla fede intensamente sentita, la tranquillità dell’ambiente conventuale; la perfetta tranquillità dello spirito loro consentita dal pane assicurato, scevri degli assilli dell’ambizione, potevano liberamente abbandonarsi alle loro interiori visioni fantastiche, che cercavano di estrinsecare nella materia e rendere visibili ai loro simili; liberi dalla preoccupazione di carriera, da invidia e gelosia, di nulla occupati che della loro nobilissima missione, non si curavano della critica e del giudizio dei posteri a cui neanche vollero tramandare il loro nome.

Eugenio Olivero

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[Note a pag. 337]

(1) E. Mella, Studio sulle proporzioni dell’antica chiesa di S. Andrea in Vercelli, in Atti Soc. piem. arch. e belle arti, Torino, 1883. Torna al testo ↑

[Note a pag. 338]

(1) Cfr. C. Enlart, Manuel d’archeologie française, I, Arch. relig., Paris, 1919, pag. 380, 388. A. Michel, Histoire de l’art, tom. Ifff: Des débuts de l’art chrétien à la fin de la période romane, 2a parte, pag. 551. Torna al testo ↑

[Note a pag. 340]

(1) C. Enlart, op. cit., pag. 299. Torna al testo ↑

(2) A. Michel, op. e vol. cit., pag. 551. Torna al testo ↑

[Note a pag. 341]

(1) T. Rivoira, Le origini dell’architettura lombarda, Milano, 1908, pag. 265. Torna al testo ↑

(2) Arthur Kingsley Porter, Lombard architecture, New Haven, 1916, vol. II, pag. 278. Torna al testo ↑

[Note a pag. 342]

(1) A. K. Porter, ibidem; cfr. pure T. Rivoira, op. cit., pag. 407. Torna al testo ↑

(2) T. Rivoira, op. cit., pag. 436. Torna al testo ↑

(3) C. Enlart, op. cit., pag. 388. Torna al testo ↑

[Note a pag. 345]

(1) C. Enlart, op. cit., pag. 379. Torna al testo ↑

(2) Diego di Sant’Ambrogio, Vetuste chiese benedettine rivelanti influssi cluniacensi, in Il Politecnico, anno LV, Milano, 1907. Torna al testo ↑

[Note a pag. 346]

(1) A. Bosio, Storia dell’antica abbazia del santuario di N. S. di Vezzolano, Torino, 1872, pag. 26. Torna al testo ↑

(2) A. K. Porter, op. cit., vol. II, pag. 277. Torna al testo ↑

[Note a pag. 347]

(1) Mella E., Della badia e chiesa di Santa Fede presso Cavagnolo al Po, in L’arte in Italia, 1870. Torna al testo ↑

[Note a pag. 348]

(1) Documento esistente tra le carte dell’Archivio arcivescovile di Torino, riportato da F. Gabotto e G. B. Barberis, BSSS, volume XXXVI, doc. 147. Torna al testo ↑

(2) Contenuto nello stesso volume, doc. 153. Torna al testo ↑

(3) Mon. Hist. Patr. Torna al testo ↑

[Note a pag. 349]

(1) Cenno storico artistico sulla abbazia e chiesa di Santa Fede in Cavagnolo, in Il Politecnico, 1870. Torna al testo ↑

[Note a pag. 350]

(1) Essai sur le Cartulaire de l’Abbaye de Sante Foi de Conques en Rouergue, IX et XII siècles, in Bibliothèque de l’Ecole des Chartes, vol. 33, Paris, 1872. Torna al testo ↑

(2) Mabillon, Annales Ordinis S. Benedicti, Paris, 1704, tomo II. Torna al testo ↑

(3) Bollandisti, Acta Sanctorum, tomo III, pag. 263, 284. Torna al testo ↑

(4) Cartulaire de l’Abbaye de Conques en Rouergue, in Documents historiques publiés par la Société de l’École des Chartes, n. II, Paris, Picard, 1879. Torna al testo ↑

[Note a pag. 351]

(1) C. Enlart, op. cit., pag. 436, attribuisce l’architettura di S. Foi de Conques dal 1035 al 1065 e al secolo XII. Torna al testo ↑

[Note a pag. 352]

(1) Cfr. anche F. Cabrol, Dictionnaire d’archéologie chretienne et de liturgie, tomo III, Paris, 1914, pag. 2563, « Conques ».

Viollet Le Duc, Dictionnaire..., vol. V, pag. 171.

R. De Lasteyrie, L’architecture religieuse en France à l’epoque romane, Paris, 1912, passim.

A. Bouillet, Liber miraculorum Sancte Fidis publié d’aprés les manuscripts de la Bibliothèque de Schlestadt, Paris, 1897.

A. Bouillet et L. Servières, Sainte Foy vierge et martire, Rodez, 1900.

A. Bouillet, Essai sur l’iconographie de Sainte Foy, Paris, 1902.

Dr. Karl Künstle, Iconographie der Christlichen Kunst, Freiburg, 1926. Torna al testo ↑

(2) Etude sur l’architecture lombarde, Paris, 1865-1882. Torna al testo ↑

[Note a pag. 353]

(1) Vol. III, 1904. Torna al testo ↑

(2) In Il Politecnico, Milano, 1907. Torna al testo ↑

[Note a pag. 354]

(1) Lombard architecture, New Haven, 1917, vol. II, pag. 276 e seg. Torna al testo ↑

(2) Cfr. Benvenuto di S. Giorgio, Storia del Monferrato, in Muratori, Rer. It. Script., tomo XXIII, col. 344. Torna al testo ↑

[Note a pag. 355]

(1) A. K. Porter, op. cit., vol. III, pag. 70; E. Mella, La chiesa di S. Lorenzo in Montiglio, in Il Politecnico, 1874. Torna al testo ↑

[Note a pag. 356]

(1) Per la descrizione della chiesa di S. Foi de Conques e della sua similare Saint Sernin di Tolosa, cfr. R. de Lasteyrie, op. cit. Torna al testo ↑

(2) L’architettura romanica in Italia. Torna al testo ↑

(3) Storia dell’arte italiana, Il Medioevo, Torino, 1927. Torna al testo ↑

(4) BSSS., vol. 44. Torna al testo ↑

[Note a pag. 358]

(1) Per la storia di Cavagnolo si può anche consultare il Dizionario del Casalis ed il manoscritto di Clemente Rovere, conservato presso la R. Deputazione di Storia Patria. Torna al testo ↑

(2) Op. cit. Torna al testo ↑

(3) V. Druetti, Il sito della Mansio Quadrata, in Atti Soc. piem. arch. e belle arti, vo. X, fasc. 3º, 1916. Torna al testo ↑

(4) Muratori, Rer. It. Scrip., tomo XXIII, col. 566 e seg. Torna al testo ↑

[Note a pag. 359]

(1) Op. cit. Torna al testo ↑