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Emporium Vol. XII, n. 71, p. 379 anno 1900

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Rodolfo Renier

Una leggenda carolingia
ed un affresco mortuario in Piemonte.

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In una piccola e riposta conca vinifera, che s’apre sotto il ridente paesello di Albugnano, dominante dall’alto le colline cretose dell’Astigiano e del Monferrato, siede la bella e vetusta chiesa di S. Maria di Vezzolano, tutta in sé raccolta sotto la patina secolare che la rende veneranda. Traversò quella chiesa, che vide gli splendori di più civiltà, tristissimi giorni, ed oggi sembra sorrida mesta e tranquilla, nell’età delle rivendicazioni storiche e dei centenari clamorosi, perchè anche ad essa si pensa, e anch’essa, dichiarata monumento nazionale, s’ebbe sanate le sue ferite, e fu ed è visitata, quantunque sia alquanto remota da ogni centro di vita moderna, da amatori di cose artistiche e di anticaglie. Anche in questo medesimo Emporium, tanto benemerito della nostra /377b/ coltura artistica, il sig. E. Bracco, anni sono (IV, 1896, 457 sgg.), le consacrò un articolo diligente, che mi dispensa di parlarne più a lungo.

Su due particolari invece mi è grato trattenermi, perchè non furono sufficientemente studiati.

La chiesa di Vezzolano, per la sua pregevolissima architettura, va riferita al sec. XI o ai primordi del XII, né si hanno memorie storiche di essa che ci consentano di assegnarne la fondazione ad età molto più antica. Questo mostrò il barone Giuseppe Manuel di S. Giovanni, che ebbe a consacrarle una memoria documentata nel vol. I della Miscellanea di storia italiana, Torino, 1862; questo confermò l’architetto conte Edoardo Arborio Mella, che dapprima nella memoria suddetta, quindi in un articolo a parte pubblicato nel periodico torinese L’arte in Italia (an. I, 1869, pp. 39 e 57), /378a/ illustrò la chiesa dal punto di vista architettonico e scultorio; questo finalmente dovette riconoscere, forse nolente e non senza industrie per regalare al monumento una maggiore antichità, il canonico Antonio Bosio, che parecchie volte ritornò su quella chiesa in articoli di giornale ed in opuscoli, finche non le dedicò addirittura un volumetto dal titolo: Storia dell’antica abbazia e del santuario di Nostra Signora di Vezzolano, Torino, 1872.

Se non che specialmente il Bosio era incline a prestar fede ad una tradizione del luogo, da lui e da altri riferita, secondo la quale Carlomagno, recandosi a caccia per quei colli, con ricco seguito, avrebbe avuto colà una terrifica visione di scheletri. A commentarla e a fargli cuore sarebbe uscito dal suo romitaggio un monaco, che gli avrebbe mostrato la vanità della potenza terrena, e avrebbe ottenuto dalla Vergine che il grande imperatore guarisse dall’epilessia a cui andava soggetto. A ricordo di questo fatto, a edificazione dei fedeli, a riconoscenza per la sanità ricuperata, Carlomagno avrebbe in quel luogo edificato la chiesa di S. Maria di Vezzolano, con un monastero di benedettini, largamente fornito di beni. – È chiaro che se questa storia avesse qualche fondamento di vero, l’origine della chiesa sarebbe di alcuni secoli più antica di quel che ci dicono l’architettura sua ed i documenti.

Ma in realtà chiunque abbia qualche pratica nelle cose medievali non tarda a riconoscervi una di quelle leggende, che sorte per una serie di equivoci e di superstizioni tra il volgo, trovarono favore presso le persone di chiesa, a cui non pareva vero di nobilitare i propri edifici e di legittimare i propri possessi ricollegandoli alla grande figura di Carlo. Una cronaca solamente ha serbato ricordo di ciò, il Memoriale astigiano del cosidetto Raimondo Turco, che narra nel cap. 17° della P. II:

«Cum autem Asta discessisset (Carolus Magnus), et versus Padum recta tendens ad Sylvam Vezzolanum dictam decem milliaribus ab Asta distantem pervenisset, et ibi venatui se dedisset, ante cellam heremitae, qui eam incolebat, vidit ex improviso corporis humani ossaturam omnino sine carne et pelle rectam stantem. Ex qua re cum tam ipse, quam eius comites, et ipsi equi et canes exterrefacti manerent, heremita ad eos exivit, et talia fuit loquuntus cum ipso Carolo, quod hic statuii ibi aedificare Ecclesiam B. V., cui deinde Castrum Albugnani et plura bona assignavit pro sustentatione monachorum, quos /378b/ dictus heremita ibi collegit»1.

Grave testimonianza senza alcun dubbio, anche se isolata, quando la cronaca di Raimondo Turco fosse sincrona ai fatti che narra, come volle far credere il suo compilatore. Ma di quella storia, che già da molto tempo era riguardata con la massima diffidenza, additò persino il probabile falsario Carlo Vassallo, nella persona del padre Filippo Malabaila, vissuto nel sec. XVIII.2

In ogni persona sensata deve quindi farsi strada la convinzione che quella di Vezzolano sia una delle tante leggende carolingie di cui abbiamo ricordo in Italia, e che sia da aggiungere alle molte già messe insieme dal D’Ancona e da altri.3 Io non rammento, né in Italia, né fuori, una leggenda che faccia Carlomagno epilettico; ma parecchie ve ne sono che lo fanno visionario, e molte più che gli attribuiscono fondazioni di monasteri e di chiese.4 Non foss’altro, in Italia si fanno rimontare a lui le due chiese fiorentine dei SS. Apostoli e di S. Stefano. È noto poi che non pochi testi antichi designarono Carlomagno come passionatissimo per la caccia.5

Ciò stabilito, quale sarà stata l’origine della leggenda? In quanta parte sarà essa dovuta ad ignoranza, in quanta parte a mala fede ?

Non è facile il dirlo; ma a me sta fitta in capo l’idea che, se non la nascita, essa debba il suo più vital nutrimento ad un affresco che si può ancora vedere nel chiostro annesso alla chiesa di Vezzolano. Quell’affresco fu dal Bosio e dagli altri storici invocato ad appoggio della leggenda; tutti ci videro cosa assai diversa da quella che esso rappresenta, tutti furono fuorviati da una interpretazione affatto aliena dalle intenzioni di chi lo dipinse.

Osservi il lettore la riproduzione, ch’io per la prima volta qui gli presento in grande, dell’affresco del chiostro, valendomi della fotografia gentilmente favoritami dal cav. avv. S. Pia.6

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Il contrasto dei tre vivi e del tre morti
Il contrasto dei tre vivi e dei tre morti
(Affresco della chiesa di S. Maria di Vezolano)

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Dei tre campi in che orizzontalmente si divide l’affresco, i due più alti non ci interessano se non perchè servono a precisare la cronologia del dipinto. Il mediano, infatti, rappresentante l’Adorazione dei Magi, è di tal fattura, che qualunque conoscitore dell’arte piemontese non esiterà a riporlo nella seconda metà del sec XV.1 Il campo più basso, che a noi interessa, ha bensì qualche maggiore durezza; ma essa forse proviene dal fatto che vi è dipinto un motivo pittorico tradizionale, appartenente al medioevo.

In questo campo inferiore dell’affresco, danneggiato purtroppo più degli altri dal dente logoratore del tempo e dalla mano irriverente degli uomini, s’è voluto vedere da tutti la scena dell’apparizione degli scheletri a Carlomagno, a cui la chiesa di Vezzolano dovrebbe la sua origine. Invece è questo un bellissimo esemplare d’un motivo pittorico nell’età di mezzo assai diffuso, il cosidetto contrasto dei tre vivi e dei tre morti.

Di solito questo contrasto è rappresentato così. Tre re, o tre principi, montati su bellissimi destrieri, coi falconi in pugno e coi cani si dirigono alla caccia. In un luogo solitario incontrano un eremita, S. Macario, che li conduce a vedere tre tombe scoperchiate: in una di esse sta un cadavere appena sepolto ma già gonfio, nella seconda un cadavere in dissoluzione, nella terza uno scheletro. L’eremita ammonisce i principi, commentando loro quello spettacolo poco giocondo, intorno alla caducità della grandezza terrena, e li invita a far penitenza. – È una delle tante, né certo la meno efficace, fra le cupe rappresentazioni mortuarie, di cui il medioevo soleva gratificare i mortali, dipingendole specialmente nei cimiteri, per tener sempre presente ai fedeli il loro inevitabile destino e per eccitarli alle pratiche devote. Rappresentazioni che hanno la loro più lugubre, fantastica e grottesca espressione in quelle pitture che si continuano a designare dal fr. danse macabre o danse de Macabré, dove il nome, probabilmente derivato dai Maccabei, indica in francese gergale “morto”. col nome di danze macabre, mentre sarebbe ormai tempo di dirle più correttamente danze macabree.2 Le quali danze macabree, a differenza dei puri contrasti, ebbero la fortuna di trovare in Holbein il giovine un artista che seppe ravvivarle e rammodernarle, sostituendo al- /380b/ l’antica rappresentazione della morte che invita alla sua danza uomini e donne di ogni condizione, il più fecondo e vario concetto della morte che sorprende in ogni momento, quando è meno attesa, persone di ceto e di occupazioni diversissime. A questa essenziale trasformazione debbono le danze la loro straordinaria fortuna, che si continua persino ai giorni nostri, ispirando quadri come il contadino e la morte del Lhermitte, e come la morte fra gli amori del Courtois.

È cosa risaputa che le danze macabree non trovarono accoglienza troppo buona nel paese nostro. Pietro Vigo, che la fece oggetto di particolare studio, mostrò che nella letteratura italiana v’è forse un solo poemetto che le rappresenta: nella pittura, gli affreschi di Como e quelli dei Bergamasco e del Trentino possono aver subito un influsso potente straniero,1 di paesi limitrofi ove le danze furono assai in voga.2 Restano le danze abruzzesi della cattedrale di Atri e della chiesa di S. Maria in Piano, ma per quanto abbia cercato di illustrarle O. Pansa,3 non si vede ancora troppo chiara la loro origine.

Checché sia di ciò, il contrasto dei tre vivi e dei tre morti, diffuso esso pure all’estero,4 ebbe fra noi rappresentanti più compiuti e decisi delle danze macabree. Il più noto e solenne esemplare se ne ha nell’angolo inferiore sinistro del grande affresco generalmente designato col nome di Trionfo della Morte nel Camposanto di Pisa. Quivi un pittore trecentista (un tempo si riteneva fosse Andrea Orcagna, oggi si propende pel Traini suo discepolo5) ritrasse con molta vivacità il concetto dell’opposizione tra la vita penitente e contemplativa e la vita mondana e sensuale.6 E allo scopo suo trasse anche il motivo tradizionale del noto contrasto, arricchendolo in modo da fargli perdere alquanto della sua primitiva ed ingenua aridità.7 I tre vivi /381a/ si perdono nella ricca cavalcata, alla quale S. Macario presenta le tre tombe scoperchiate e verminose. Ma vi sono in Italia altre rappresentazioni pittoriche in cui il motivo ci si palesa nella sua schiettezza, come la miniatura di un laudario del secolo XIV, che oggi costituisce il ms. II, I, 122 della Magliabechiana,1 ed il dipinto del monastero di S. Benedetto in Subiaco, nonché lo schizzo di Jacopo Bellini che è nel Museo Britannico.2 Il dipinto di Subiaco parmi rappresenti quasi il consertarsi del motivo del contrasto con quello della danza: soggetti intimamente diversi senza dubbio, ma spesso accostati,3 come accadde anche nel celebre affresco mortuario di Clusone.4 Ed a riprova dell’antichità del motivo può essere anche addotto quella specie di dialogo fra i tre vivi ed i tre morti, che da un codice ottoboniano della Vaticana pubblicò il Monaci,5 e che certo era destinato a rendere parlante una pittura. Né è vietato di risalire molto più in su nella cronologia, per mezzo di un ritmo latino del XII secolo, che oggi si legge in un codice di Ferrara e che comincia:

Cum apertam sepulturam
Viri tres aspicerent,
Ac orribilem figuram
Intus esse cernerent,

Quendam scilicet jacentem
Nec recenter positum.
Imo totum putrescentem
Squalidum et fetidum;

Ossa inter et aliorum
Jam nudata totaliter ecc. ecc.6

Ritornando all’affresco di S. Maria di Vezzolano, è, dunque, evidente ch’esso ci offre uno dei più puri e significanti esemplari del contrasto. L’unica diversità notevole rispetto alle altre figurazioni sta in ciò: che i tre morti di Vezzolano non stanno supini /381b/ nelle tombe, in istato di decomposizione più o meno avanzata; ma dalle arche si sollevano, mostrando ai cavalcatori la loro deformità di scheletri rivestiti di pelle ingiallita. Come negli altri esemplari italiani, anche qui è grande il terrore dei tre cavalcatori, terrore che si comunica anche agli animali, sicché i cavalli s’impennano e ricalcitrano, i cani abbaiano, i falconi volano dal pugno dei cacciatori. Il terzo di questi, quello che volge il dorso, guarda appunto in alto al falcone che gli è sfuggito; mentre colui che sta in mezzo si nasconde inorridito il volto tra le palme e l’altro fa l’atto di turarsi il naso col pollice e coll’indice, atto di somma naturalezza che troviamo forse anche accennato nella miniatura del laudario fiorentino e che è chiarissimamente espresso nell’affresco pisano. San Macario poi, il solito monaco dalla lunga barba, mostra gli scheletrì ai tre fastosi e gaudiosi gentiluomini, e tiene in mano una scritta con cui li ammonisce.

Di questa scritta oggi non si legge più nulla, ma ci possiamo aiutare con quelle che ancora rimangono su altra parete del chiostro, ove è chiaro che doveva trovarsi dipinto un altro contrasto simile, di cui ora sopravvivono solo le figure di due cavalieii esterrefatti di contro agli avanzi d’uno scheletro. Alle pessime condizioni attuali di quelle iscrizioni ha potuto supplire il Bosio ricorrendo a trascrizioni più antiche. Ad uno dei cavalieri era messa in bocca l’esclamazione: O res orida, res orida et est stupenda; e i morti, per mezzo di S. Macario, dicevano ai vivi: Quid superbitis, miseri? Pensate quod sumus; pensate quod estis. Hic eritis quod minime vitate potestis.1 La quale scritta, se ce ne fosse bisogno, confermerebbe la mia spiegazione del dipinto, perché si tratta di un concetto che è analogamente espresso negli altri esemplari dei contrasto nostro. Così l’antico ritmo ferrarese summenzionato dice in un luogo: Quod nos sumus hi fuere | Nosque tales erimus, e altrove: Quid presumis superbire | Mihi dic, omuncio. Così nel contrasto di Subiaco S. Macario parla in questo modo: Vide quid eris, quomodo gaudio quaeris | Per nullam sortem poteris evadere mortem. Così, nel contrasto francese Li trois mors et li trois vis, i morti ammoniscono: Tels comme vous un temps nous fumes | Tels serez vous comme nous sommes, il che equivale alla strofe vivacissima del Carro della morte di Antonio Alamanni:

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Fummo già come voi siete
Voi sarete come noi;
Morti siam, come vedete.
Così morti vedrem voi:
E di là non giova poi
Dopo il mal far penitenza.1

Riassumendo, possiamo affermare che l’unico appoggio alla leggenda per cui si richiamava a Carlomagno la fondazione della chiesa di S. Maria di Vezzolano è un antico affresco del chiostro, rappresentante il motivo mortuario tradizionale del contrasto fra i tre vivi e i tre morti. La ragione per cui quel motivo era stato ritratto non una, ma almeno due volte nel chiostro, è che sotto quelle arcate v’erano tombe di famiglia, ed è noto che i dipinti macabrei avevano spessissimo loro sede /382b/ naturale nei cimiteri. Come avvertimmo, la leggenda carolingia, se addirittura non nacque da quel contrasto, si abbarbicò ad esso e ne ebbe vita novella, tanto è vero che non molto tempo dopo eseguite quelle pitture si sentì il bisogno di dare ad essa leggenda una conferma solenne, raffigurando in pietra colorata sull’altar maggiore della chiesa di Vezzolano Carlomagno vestito regalmente, in ginocchio d’innanzi alla Vergine, presentato da un monaco barbuto (S. Macario?).1 Né è inverosimile che anche la tradizione dell’epilessia di Carlomagno trovasse nell’affresco un qualche appiglio, giacché la prima delle tre figure (nessuno mai precisò quale delle tre fosse il grande imperatore) fu considerata generalmente come in atto di cadere dal cavallo, il che poteva essere interpretato come un insulto epilettico.

Rodolfo Renier.

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[Note a pag. 378 col. b]

1 Pasini, Mss. Torinesi, II. 198. Torna al testo ↑

2 Vedi l’articolo di C. Vassallo, Le falsificazioni della storia astigiana, nell’Arch. stor. italiano, Serie IV, vol. 18. Cfr. Manno, Bibliogr. storica degli stati della monarchia di Savoja, II. 377. Torna al testo ↑

3 Vedi indicazioni di questi lavori eruditi nel Gaspary, St. della lett. it., trad. Rossi. 2.a ediz., II. I, 385-86. Torna al testo ↑

4 Cfr. G. Paris, Hist, poétique de Charlemagne, Paris, 1865, p. 356. Torna al testo ↑

5 Vedine le prove in Paris, Op. cit, p. 367. Torna al testo ↑

6 Questa medesima fotografia fu riprodotta in piccolo formato, sicché può appena distinguersi la parte che ci interessa, 380a da G. Cena nel periodico Arte sacra, uscito in Torino nel 1898, a p. 372. Una riproduzione su disegno, completata un po’ di fantasia, è nella tavola annessa al libretto citato del Bosio. Torna al testo ↑

[Note a pag. 380 col. a]

1 Il conte A. Vesme, che interrogai in proposito, sarebbe persino tentato ad assegnarlo ai primi anni del cinquecento. Torna al testo ↑

2 Cfr. Paris nella Romania. XXIV. 129. Torna al testo ↑

[Note a pag. 380 col. b]

1 Lo suppone anche il Largaiolli, Una danza dei morti nell’alto Trentino, Trento, 1886, p. 29. Torna al testo ↑

2 Il miglior lavoro moderno sulle danze straniere è quello di W. Seelmann, Die Totentänze des Mittelalters, Leipzig, 1893. Dell’opuscolo del Vigo, Le danze macabre in Italia, la cui prima edizione è del 1878, potei utilizzare per gran cortesia del direttore dell’Emporium la seconda edizione, che sarà presto messa fuori dall’Istituto italiano d’arti grafiche. Torna al testo ↑

3 Rassegna abruzzese, II, 246 sgg. Torna al testo ↑

4 Il Vigo rimanda più volte per questo soggetto ad una memoria del Dobbert, nel Repertorium für Kunstwissenschaft, vol. IV. fasc. I, che a me non fu possibile di consultare. Torna al testo ↑

5 Supino, Il camposanto di Pisa, Firenze. 1896, pp. 61 sgg. Per la polemica seguitane cfr. Bullett. Soc. Dantesca, N. S., VII, 181-82 n. Torna al testo ↑

6 Pel valore morale del dipinto si rileggono pur sempre con piacere le pagine del Hettner, Italieniche Studien, Braunschweig, 1879, pp. 123 sgg. Torna al testo ↑

7 Una delle migliori riproduzioni moderne di questa parte dell’affresco è nel periodico L’arte, II, 58-59. Ivi pure sono le scritte che l’accompagnano. Torna al testo ↑

[Note a pag. 381 col. a]

1 Bartoli, Mss. magl. I, 139 sgg. Quivi è data la fotografia della miniatura. Torna al testo ↑

2 Vigo, Danze macabre, 2a ediz., pp. 51-55. Il quadretto del museo di Pisa, su cui richiamò l’attenzione il Hettner, e che il Vigo schiera fra i rappresentanti del contrasto, mi sembra da escludere per le ragioni addotte da pp. Beltrami, Le danze macabre, Brescia, 1894. p. 17. Torna al testo ↑

3 Il Seelmann, Op. cit., p. 4, dice giustamente: «Fast allgemein vermengt man mit den Totentänzen die im Mitttelalter sehr verbreiteten Darstellungen der Legende von den drei toten und drei lebenden Königen. Dieselben sind in vereinzelten Fällen ausserlich den Totentänzen angefügt worden, im übrigen sind diese ganz unabhängig von jenen entstanden und ausgebildet worden». Torna al testo ↑

4 Vigo, p. 29. Torna al testo ↑

5 Giornale di filol. romanza, I. 245. Torna al testo ↑

6 Vigo, p. S2. Torna al testo ↑

[Note a pag. 381 col. b]

1 Bosio, Op. cit., pp. 36-37. Torna al testo ↑

[Note a pag. 382 col. a]

1 Vigo, pp. 83, 86, 54, 118; Hettner. p. 131. Torna al testo ↑

[Note a pag. 382 col. b]

1 Per gli anacronismi di quel gruppo v. Bosio, pp. l9-20. Torna al testo ↑