Gen. Edoardo Dezzani

Montafia

Cenni Storici

Asti
La Tipografica di Chiuminatti Pietro

Collocazione: Biblioteca del Seminario Vescovile di Asti, MISC 945.15 (19)
Il volumetto non è datato; poiché nel testo si cita il censimento del 1936, è stato redatto probabilmente nel corso degli anni ’40 o nell’immediato dopoguerra.

/[3]/

« Non coronabitur nisi qui legitime certaverit ».

(Motto dei Montafia)

/[5]/

Prefazione

In queste poche pagine ho voluto raccogliere e riunire le sparse notizie riguardanti il paese di Montafia, fornite dal Decanis, dal Casalis, dal barone Claretta, dal Codice Astese, dalle antiche carte dell’archivio capitolare di Asti e, per quel che riguarda la parrocchia e le altre chiese, dagli archivi della Curia Vescovile e della parrocchia del paese.

Questo lavoro di raccolta è sorto per un invito fattomi dagli amici fratelli Giovanni e Luigi Goria, di Montafia, i quali, sapendo di ricerche che stavo facendo in biblioteca sui paesi di Valle Versa, mi hanno suggerito di estendere il mio studio anche al loro paese, ed io ben volentieri ho acconsentito, nella fiducia che possa interessare anche gli abitanti di questa antica terra, che ha così illustri e belle tradizioni e di potere forse, col provento della pubblicazione, giovare a qualche opera benefica del paese stesso.

Torna su ↑ Vai all’indice ↓

/7/

Montafia

Generalità

Montafia sorge in collina (q. 248 m.) a nord-ovest di Asti e distante da questa città circa 24 Km. ; ha una vasta piazza ed i ruderi di un già maestoso castello, la cui primitiva costruzione risaliva assai indietro nel tempo e cioè al secolo X o XI; conta 2125 abitanti (cens. 1936) ed ha una superfìcie territoriale di 1964 ettari.

Questo paese ha avuto nei tempi antichi un’importanza considerevole se da semplice contea fu elevato prima a marchesato e poi a principato.

Nell’ampia e fertile valle sottostante e precisamente nella regione detta di San Marzano, a distanza di circa un Km. dal concentrico, si trova una sorgente denominata la fontana dello zolfo ed anche di S. Dionisio, che fluisce perennemente da un terreno argilloso in quantità di oltre 500 litri all’ora in un prato presso il rio detto Bealera, nel quale si getta l’acqua solforosa.

Nell’abitato di Montafia, per ovviare alla deficiente e cattiva qualità dell’acqua dei pozzi, il farmacista del luogo, certo Rossetti, nel 1861 fece derivare da un colle soprastante acqua buona ed abbondante che dava in media 25 ettolitri di acqua al giorno.

Ma essendo poi in parte inaridita la sorgente, dopo una trentina di anni venne a mancare l’acqua per gli abitanti, bastando solo più per la casa del farmacista; di fronte alla casa di questi si trova tuttora sulla pubblica via il cippo della fontana che vi era stato costruito.

Questo impianto venne nel 1929 sostituito da un regolare acquedotto, fatto costruire dalla munificenza del Comm. Oreste Riccio, allora Podestà del Comune; la sorgente che fornisce l’acqua ottima ed abbondante si /8/ trova in regione Val Trippa e per mezzo di un impianto di sollevamento l’acqua viene portata in una ampia cisterna costruita nell’area del distrutto castello, di dove viene distribuita alle varie abitazioni del paese sottostante.

Possiede un ospedale intitolato alla Regina Elena ed un asilo infantile fondato dall’Avv. Cortese e dalle Signore Cassineili Tirone, retto dalle Suore del Cottolengo.

Ebbe la prima illuminazione con l’impianto di lampioni a petrolio nel 1894, sostituita verso la fine del secolo scorso da quella elettrica.

L’ufficio postale data dal 1836 e quello telegrafico dal 1896.

Fa parte di Montafia la frazione di Bagnasco.

È collegato con una autocorriera alla stazione di Villanova, distante 9 Km.

Torna su ↑ Vai all'indice ↓

Le lontane origini del Paese

L’origine di Montafia che, come scrive il Decanis, in antico si chiamava Meletum, risale ai tempi di mezzo. Il nome Meletum, aggiunge Gian Secondo Decanis, equivale a Maretum, Mari, Maresca, cioè luogo palustre ed umido e difatti i tre paesi anzidetti conservano tuttora il loro stato primitivo di umidità, un po’ mitigato dall’opera dell’agricoltore; e si diceva « Meletum illorum de Montafia » per distinguerlo dagli altri due Meletum che si chiamavano dei Troia e dei Roati.

Per spiegare l’etimologia del nome attuale del Paese l’autore sopracitato scrive:

« Qualche antiquario astigiano pretende che un certo Alfia dei Variselli abbia dato il nome a questa terra collocata su un colle e che perciò Mons Aifiae sia stato detto. Non ho memorie che giustifichino questa etimologia, sebbene però sia molto probabile che questo Alfia sia esistito e che il nome di una tale famiglia vi fosse in Monferrato giacché abbiamo Alfiano cioè terra di Alfia. Le cronache di Asti e vari documenti giustificano assai chiaro avere avuto esistenza la famiglia dei Variselli, della quale conservasi ancora il nome nella regione tuttora posta a mezzogiorno del paese, leggendosi talvolta che Variselli sono nominati « illi de Varisellis seu de Montafia ».

Torna su ↑ Vai all'indice ↓

/9/

Il primo antico castello ed i suoi vassalli

Secondo un’antica tradizione questo paese in origine stava sul colle della Varisella e l’anzidetto Alfia, per togliersi da una località poco salutare, ma più ancora per aver modo di meglio difendersi dalle continue molestie dei marchesi di Monferrato e dei conti di Biandrate, che continuavano ad arrecare danni agli abitanti di Varisella e di Cacciarie, altra regione vicina abitata ed il cui nome esiste tuttora, abbia deciso di trasportare, sul principio del secolo XI, la sua sede sul colle ove ora sta l’attuale terra e per proteggere sé ed i suoi abbia ivi fabbricato una forte rocca guarnita di torri e di altre fortificazioni giusta l’uso di quel tempo.

Un’altra tradizione, tuttora corrente nel paese, dà una versione diversa, secondo la quale Montafia e Varisella sarebbero stati due centri abitati coesistenti, ciascuno dei quali aveva il suo signore; ma essendo questi venuti a guerra fra di loro, il signore di Montafia, che ebbe il sopravvento, avrebbe distrutte le case di Varisella, i cui abitanti furono obbligati a trasferirsi nel suo paese. In questa tradizione, anch’essa avvolta nelle tenebre di un remoto passato, si può trovare un certo fondamento di verosimiglianza, poiché non riescono molto convincenti i motivi che, secondo il Decanis, avrebbero consigliato Alfia a trasferirsi da Varisella al colle vicino di Montafia giacché, trovandosi anche quella località sull’alto e press’a poco allo stresso livello, non sussisterebbero i motivi di sicurezza e di salubrità del trasferimento volontario. Ma, qualunque sia la vera origine dell’abitato di Montafia, è certo che verso il mille già esisteva il suo castelllo.

Quesito costituiva una delle più imponenti roccaforti delle colline dell’astigiano, circondato da un ampio ed elevato bastione rotondo che circondava con le sue massiccie mura il vertice della collina; attorno alla base del torrione girava un largo e profondo fosso e avanti all’entrata si trovava il ponte levatoio da cui si accedeva per mezzo di una scala a spirale al pianoro interno, sul quale si erigeva l’edificio per l’abitazione del castellano e delle sue genti.

Il terrapieno internamente era traforato da grotte, con dei sotterranei e pozzi. Questa ciclopica costruzione nella sua semplicità di forme, era difficilmente espugnabile; e di fatti era impresa ardua il prenderlo /10/ d’assalto perchè nessuna scala era abbastanza lunga da toccarne le sommità, né alcuna macchina poteva avvicinarsi alle mura per la ripidità del terreno all’intorno; d’altra parte i difensori muniti di mangani e di petriere potevano lanciar massi lungo il pendìo ed i balestrieri, protetti dai merli, saettare chiunque tentasse di avvicinarsi.

Era poi anche difficile impadronirsene con un assedio o costringere i difensori alla resa per fame, poiché vi erano provviste di viveri per più mesi ed una lunga galleria scavata nella collina e che faceva capo nella valle, porgeva il mezzo di far entrare rifornimenti ed anche di evadere dal castello in ogni evenienza.

Questa prima costruzione, secondo un articolo apparso nel 1890 su un’appendice del giornale « Arco di Chieri » – tip. G. Gravera – sarebbe stata nel 1154 diroccata dall’imperatore Federico I Barbarossa.

Ma il castello risorse a non molta distanza di tempo, giacché in un istromento del 1345 ed in altra carta del 1378 si legge che esso era guarnito di varie torri, delle quali una speciale si trovava dalla parte della cappella di San Giovanni (« a parte cappellae Sancti Johannis ») e che oltre alla rocca eravi un « Palatium » e che finalmente la fortezza era provvista di diverse bicocche, specie di nicchie o garitte, poste nella parte più alta delle mura, e nelle quali stavano gli uomini di sentinella per sorvegliare il castello e avvisare in tempo la guarnigione di ogni eventuale pericolo che lo minacciasse.

Torna su ↑ Vai all'indice ↓

Prima donazione di parte del feudo alla città di Asti

La prima sicura e più antica notizia della esistenza di questo castello risale al 1108 e la troviamo in un documento del Codice Astese, col quale il 6 settembre di detto anno Roggero di Montafia, fu Ottone, faceva donazione al Comune di Asti della terza parte del castello (Castrum Montis Fialis), donazionee che con altro documento dell’8 settembre successivo fu confermata da Imilia, moglie del detto Roggero. È quindi verosimile la supposizione che la costruzione del castello sia avvenuta al più tardi nel secolo precedente (tra il mille e mille e cento).

Torna su ↑ Vai all'indice ↓

/11/

L’antica discendenza dei Signori di Montafia

Il barone Gaudenzio Claretta, nella sua pubblicazione sui signori di Montafia, Tigliole, Roatto e Maretto, fa risalire l’origine dei Montafia molto indietro nel tempo: essi scenderebbero da due fratelli Ruggero ed Arduino venuti di Francia e questi fratelli a loro volta discenderebbero da altro Ardoino, conte in quella parte della Neustria che era dei Normanni ed al quale alcuni anni prima, nell’878, era stato dai figli tolto con la violenza delle armi il paese; questo Ardoino scendeva da un Ottone o Oddone già morto nel testo l’anno è preceduto da un apostrofo: ’678 nel 678.

Nicola Gabiani scrive che la famiglia dei Montafia appartiene a quello stesso ramo dei Manfredingi (discendenti da Manfredo conte del sacro palazzo in Francia nel secolo VIII) da cui provengono i Cocconato, i Montiglio ed i Visconti di Milano.

Ebbe feudi importanti e contò valorosi e preclari personaggi. Un ramo di essa fu detto dei Variselli ed erano signori di Varisella, Montafia, Tigliole, Roatto, Maretto, Piovà, Castelvecchio e Solbrito. Si divisero poi in altri rami, di cui uno restò in Asti ed in Montafia, e l’altro, trasferitosi a Carignano, vi si estinse nel 1400.

Ancora sul principio del secolo scorso il loro stemma si vedeva riprodotto nei timpani delle finestre bifore del loro palazzo in Via Mazzini, dietro la chiesa di S. Agnese. I Montafia avevano la loro sepoltura nella chiesa di S. Domenico (ove sorge la casa del Dott. Garolla presso le mura, non lontano dal castello).

Torna su ↑ Vai all'indice ↓

Conferma della parziale donazione del feudo alla città di Asti

Nel 1191 il Comune Astese richiese a Oberto di Montafia, che, con riferimento alla donazione fatta dall’avo Ruggero nel 1108, tanto lui quanto i suoi fratelli giurassero fedeltà a detto comune per la terza parte del castello e villaggio di Montafia; poiché Oberto sollevava obiezioni, d’accordo fra le parti furono eletti tre arbitri nelle persone di Manfredo Avotario di Moncucco, Roggero de Curia e Scarampo, i quali, sentite le ragioni delle /12/ due parti, sentenziarono che Oberto doveva giurare fedeltà ai consoli di Asti per la terza parte del castello e villaggio di Montafia, come il vassallo fa al suo signore.

In base a tale lodo nella domenica del 7 giugno 1191, in pubblica assemblea, i consoli di Asti, « populo laudante et confirmante », investirono Oberto di Montafia ed il fratello Oddone per loro ed i loro fratelli, del feudo diretto della terza parte del castello e villaggio, con ogni giurisdizione quale il fu Roggero di Montafia aveva una volta dato ad Asti.

Quindi il prefato Oberto, per sé e per gli altri suoi fratelli, giurò fedeltà ai predetti consoli per il comune di Asti, quale vassallo al proprio signore.

Torna su ↑ Vai all'indice ↓

Il feudo sono l’alto dominio della Chiesa

Quella sopra accennata è l’ultima investitura fatta dal comune di Asti; l’alto dominio di questa terra passa ora alla Chiesa e cioè al Vescovado di Torino, da cui d’ora innanzi dipenderanno i signori di Montafia. Ma se non dipendeva più dal comune di Asti era però alleato con questa Città come risulta dal trattato di pace e concordia concluso tra Asti ed il marchese di Monferrato l’11 aprile 1193, contenuto nel documento 918 del Codice astese: in esso i signori di Montafia figurano fra gli alleati di Asti assieme al marchese di Busca, ai signori di Cocconato e parecchi altri.

La successiva investitura del castello, villa e poderi con annessa giurisdizione in feudo nobile, retto, gentile, paterno ed antico, avviene il 24 Maggio del 1268 nel castello di Montafia da parte del Vescovo di Torino, Goffredo di Montanaro, il quale, col mezzo di un libro tenuto in mano, investe Ruffino ed Ottone di Montafia, figli di Guglielmo, (dal quale comincia con sicurezza la genealogia di questa famiglia) a nome loro e del nipote Guglielmo ed Obertino fu Goffredo della stessa sua famiglia. (1)

Nota in fondo alle pagine 12 e 13:

(1) Altre successive investiture sono:

16 agosto 1302 – fatta dal Vescovo Tedisio di Torino nella sede della diocesi a favore di Persono fu Ruffino, di Giacobino fu Ubertone, (figlio questo ultimo del fu Ruffino), tutti del casato dei Montafia, per la parte a ciascuno loro spettante su quel feudo;

/13/

3 maggio 1303 – fatta dallo stesso Vescovo a favore di Rodolfo e Tommaso fu Ottone a nome loro e di Gaspare fratello e del nipote Giovanni, figlio del fu Oberto, ciascuno per la parte ad essi spettante;

4 novembre 1367 – fatta dal Vescovo Giovanni dei signori di Rivalta, di Torino, a favore di Stefano di Montafia, in virtù anche di cessione avuta dai fratelli Bertolino e Tommaso;

1 ottobre 1376 – sempre dallo stesso Vescovo a favore di Obertino per la 2a parte di quel castello, da lui acquistata, a nome anche di Giovanni, Lorenzo e Guglielmo suoi fratelli, da Remondino della stessa famiglia;

10 maggio 1378 – fatta dallo stesso Vescovo a favore di Giovanni detto Berruccio, degli stessi signori, della metà della 2a parte di quel castello e feudo;

6 marzo 1389 – a favore di Obertino di Montafia della 2a parte del feudo, che aveva acquistata da Bonifazio della stessa famiglia;

3 giugno 1389 – a favore di Giovanni fu Raimondo a nome suo e anche di Tommaso, suo fratello assente, della parte di giurisdizione che gli competeva;

26 aprile 1403 – a favore di Bertolozzo o Bertone, fatta dal Vescovo di Torino.

/13/ Per avere un’idea dei costumi e metodi del tempo mi pare possa interessare quest’episodio successo nel 1343: nel mese di luglio di detto anno alcuni di Villafranca, Moncucco e Villanova avevano fatto scorrerie nel territorio di Montafia; tra le altre violenze commesse avevano anche catturato un garzone di uno di quei terrazzani, che, condotto in un bosco, fu depredato di una certa quantità di fiorini d’oro in suo possesso.

Poiché nessuno dei signori del luogo si era impegnato, come avrebbe dovuto, a istruire procedimento contro gli autori di quelle violenze, Pagaganino di Begosoto, podestà di Asti, e luogotenente del duca di Milano, Luchino Visconti, signore deltla città, chiamava in giudizio tutti i consignori di Montafia e, secondo l’uso, unitamente agli uomini del paese, a dover comparire entro tre giorni innanzi al giudice speciale dei malefizi a fine di eleggere un procuratore e scolparsi delle accuse scritte. Non si è trovato come sia finita la vertenza; pare però strano che siano stati tenuti responsabili i signori di Montafia con gli uomini del luogo, uno dei quali era stato danneggiato da uomini di altri paesi, anziché rivolgersi ai comuni da cui erano partiti gli autori dela scorreria.

Torna su ↑ Vai all'indice ↓

Alleanza dei Montafia con i signori di Asti

Nel 1388 Jacopo Spesso con altri consignori di Montafia, invitati, fecero alleanza con Lodovico d’Orleans e Valentina Visconti, signori di /14/ Asti. Essi convennero nei palazzo del governatore della città ove stipularono le condizioni loro dettate; erano obbligati a mantenersi fedeli e aderenti di quei duchi e loro discendenti, a concludere con loro ed a pro di loro pace e guerra contro chiunque, salvo i diritti del Vescovo di Torino.

La federazione comprendeva il castello, luogo, uomini, giurisdizione e pertinenze tutte di Montafia, eccettuata sempre la parte spettante al Vescovo di Torino. Altra simile alleanza fu rinnovata il 3 giugno del 1417 nella cittadella di Asti, con Filippo d’Orleans, conte di Virtù, figlio di Lodovico, da parte dei fratelli Antonio e Baldovino di Montafia fu Oberto.

Altra ancora avvenne nel settembre del 1574 fatta dal conte Lodovico di Montafia con Enrico III, re di Francia e Polonia.

L’ultima di queste alleanze fu rinnovata il 21 febbraio del 1596 fra Giovanna di Coesne, vedova del conte Lodovico, ed Enrico IV di Francia.

Un Enrichetto di Montafia figura come consigliere del comune di Asti nel 1527 in occasione della convocazione del consiglio sitesso per deliberare circa la concessione agli Agostiniani di Lombardia di stabilirsi in Asti.

La famiglia dei Variselli ossia dei Montafia possedè costantemente questo feudo senza interruzione fino al 1577, prendendo le investiture o direttamente dal Papa o dai Vescovi di Torino e, negli ultimi anni, dai duchi di Savoia che con Emanuele Filiberto avevano ottenuto il Vicariato pontificio da Pio IV con breve dell’8 dicembre 1560.

La ragione della concessione di questo vicariato va ricercata nelle difficoltà in cui spesso l’autorità pontificia veniva a trovarsi per le continue vessazioni da parte di ladri ed assassini che si rifugiavano nella terra di Montafia dai vicini Stati di Savoia, da cui erano banditi e la impossibilità di provvedere da Roma sia per la grande distanza sia per la mancanza di forze armate nei feudi ecclesiastici.

Per ammonimento e punizione di questi numerosi malfattori che, scacciati dai vicini Stati di Savoia, continuavano ad affluire in quel territorio con gran danno degli abitanti, Papa Clemente VII aveva fatto erigere un patibolo su un colle a mezzanotte del paese, che stava ancora in piedi verso la fine del secolo XVIII e che fu atterrato sulla fine dell’anno 1798 e ancora adesso questa località è ricordata come quella del patibolo o della forca.

Torna su ↑ Vai all'indice ↓

/15/

Morte del conte Lodovico di Montafia ultimo della linea maschile di questa prosapia

Ultimo della linea maschile di questa nobile famiglia fu il conte Lodovico, che visse quasi sempre alla corte di Francia durante il regno di Carlo IX ed Enrico III ed in Francia nel 1574 si era sposato con Giovanna di Coesne, Luce e Bonnestable, contraendo con questo matrimonio parentado col miglior sangue di Francia.

Tre anni dopo, nel 1577, il conte Lodovico era ad Aix alla testa di una compagnia di cavalli; ai titoli e signorie del Piemonte aveva aggiunti quello di barone di Luce e Bonnestable e di altre terre ed era luogotenente della compagnia del gran Priore di Francia; traeva seco un numeroso seguito principesco: l’accompagnavano un segretario, un maestro di casa, un palafreniere, un maresciaillo, cuoco, valletti di camera, paggi, ragazzi di stalla, oltre ai suoi uomini d’arme.

Il 6 ottobre di quell’anno, 1577, era sceso all’albergo della Campana di Aix e, dato sesto alla sua gente, era salito a mensa con parecchi cavalieri della sua compagnia, ma giunti alla frutta ecco sopravvenire il capitano di San Martino, della stessa compagnia del gran Priore, il quale entrato con alcuni uomini armati nella sala, senza dir motto, assalì il conte Lodovico a colpi di spada e di pistola. Egli non ebbe il tempo di levarsi da tavola, ma intanto fra gli altri cavalieri non tardò ad ingaggiarsi una gran mischia.

In quella camera, che era stata sbarrata perchè i servitori di Lodovico non potessero accorrere in aiuto, si fece presto un lago di sangue; all’assalitore, di San Martino, fu spaccata subito in due la testa, né proferì più verbo; altri cavalieri vennero mortalmente feriti. Quando fu aperto, il conte di Montafia giaceva per terra intriso di sangue, coperto di ferite e con una pallottola nel fianco; la sua morte, ordinata dallo stesso gran Priore, Enrico di Angouleme, fratello naturale del re, di cui guidava la compagnia, era inevitabile.

Pochi momenti dopo fu attorniato dai suoi con il notaio per ricevere in consegna le sue ultime volontà; il povero Lodovico era in uno stato pietoso; un cavaliere Grimaldi, suo parente e che militava con lui, lo /16/ assisteva amorosamente, ma egli non potè neppure più firmare il testamento.

La sua salma, dopo molte traversie, fu trasportata in Asti e seppellita nella chiesa della Maddalena,

I drammatici particolari della morte dell’ultimo dei Montafia, i travagli sofferti ed i pericoli corsi dai familiari che con affettuosa devozione adempirono le volontà del padrone di essere sepolto coi suoi maggiori, furono raccontate da un suo fedele servitore in una rozza ma, per la sua semplicità, toccante relazione.

Il Vayra, concludendo le memorie storiche della nobile famiglia dei Montafia e del suo stemma così finisce: « un barone che muore compiacendosi dell’orgoglio di mandare attraverso i secoli il suo blasone unito al suo nome, un cavaliere che lascia la patria e va a cercar ventura neflle fazioni e nei torbidi di Francia e quando ha raggiunto alto grado cade ucciso assassinato, la fedeltà del servo che non abbandona il suo signore finché non ne ha adagiate le ossa nella sepoltura dei suoi avi, tutto ciò è un ultimo anelito del Medio Evo cavalleresco che si dilegua ».

Torna su ↑ Vai all'indice ↓

La Santa Sede prende possesso dai Feudo

Morto il conte Lodovico di Montafia senza prole maschile, Emanuele Filiberto colse l’occasione per avocare a sé il feudo di Montafia e mandò ordini agli eredi che glielo consegnassero. Ma intervenne Papa Gregorio XIII, che con suo breve particolare diede ordine al Vescovo di Cervia, Nunzio presso la corte di Torino, di prendere possesso a nome della Santa Sede del castello di Montafia.

Di fronte all’autorità pontifìcia Emanuele Filiberto non volle insistere sulle sue pretese e rinunciò al proposito di ottenere quel feudo.

Ma si opposero invece le due figlie di Lodovico, Anna ed Enrichetta, che si ritenevano in diritto di succedere nelle ragioni feudali del padre loro.

Questa opposizione diede luogo ad una contestazione giuridica, che terminò nell’anno stesso con la mediazione di un famoso giureconsulto, Guido Panciroli, il quale col suo parere, che fece poi testo di massima legale nei tribunali del Piemonte, separando l’allodiale dal feudo, dichiarò /17/ competere alla corte di Roma il solo castello, ed il resto dei beni e persino i giardini siti nel castello, essere di spettanza delle figlie di esso Lodovico, una delle quali, Anna, sposò Carlo di Borbone, principe di Soissons, padre di quella principessa Maria che fu poi la moglie del principe Tommaso Francesco di Savoia, quartogenito di Carlo Emanuele I, stipite del ramo dei principi Savoia Carignano.

Dopo la decisione del Panciroli la Santa Sede mandò, sempre nel 1577, a prendere possesso del castello di Montafia il signor Carlo Vettuzio, che vi giunse l’8 dicembre.

Il signor Francesco degli Avvocati, governatore di detto castello in cui abitava con la vedova e le figlie del conte Lodovico, all’avvicinarsi del commissario pontificio fece tosto abbassare il ponte levatoio e, consegnatogli le chiavi del castello, se ne uscì con la sua truppa, mentre l’altro ne prendeva formale possesso a nome della Santa Sede, facendo apporre sia sulla porta del castello, che era ancora chiuso da solide mura, sia sulla torre lo stemma del regnante Gregorio XIII e per qualche anno il castello fu governato da incaricati della Santa Sede.

Ma anche dopo che la signora di Coesne, vedova del conte Lodovico, ebbe abbandonato il castello insieme alle figlie, non ebbero termine le liti ed i contrasti coi nuovi feudatari di Montafia, gli Sfondrati. E alfine di sentirsi meglio appoggiata per ottenere quello che riteneva avere diritto essa nel 1582 passò a seconde nozze con Carlo Francesco di Borbone, principe di Condé e conte di Soissons; più tardi, nel 1600, alienava Montafia per 70 mila scudi d’oro al duca Carlo Emanuele, che acquistava l’alta sovranità su questo paese ed anche su Tigliole, Roano, Maretto.

La signora di Coesne moriva il 26 dicembre 1601.

Torna su ↑ Vai all'indice ↓

Gli Asinari già consignori di Montafia

Si è sopra accennato che Montafia fu continuamente della stessa famiglia fino al 1577; veramente ne furono consignori anche gli Asinari che ebbero parte di quel feudo ma per un breve periodo di tempo, per concessione del marchese di Monferrato. Questi, nonostante i diritti di Roma e della Chiesa di Torino, ne aveva ottenuta la investitura nel 1355 da Carlo IV imperatore, venuto in Italia per raccogliere denaro mediante /18/ la concessione di titoli ed investiture, sulle quali, sebbene come imperatore avesse ancora l’antico dominio, non poteva a tenore delle circostanze dei tempi disporre, senza manifesta violazione dei diritti che altri avevano acquistato; in base a questo principio gli Asinari giudicarono miglior partito di far cessione della loro parte mediante il pagamento di una somma di denaro, ad Oberto di Montafia con istromento dell 1375.

Torna su ↑ Vai all'indice ↓

Il feudo di Montafia eretto in marchesato e poi in principato

Nel 1591 Gregorio XIII investiva del feudo di Montafia, con titolo marchionale, un suo nipote, Francesco Sfondrati, governatore di Castel S. Angelo in Roma. Morto costui e lasciati suoi eredi i figli Francesco ed Ercole, questi, col consenso della chiesa, nel 1657 cedettero il feudo al conte Carlo Emanuele di Simiana, marchese di Pianezza per il prezzo di 4.000 doppie italiane; l’acquirente ottenne poi che l’anzidetta terra venisse eretta a principato da Clemente VII con breve delli 27 aprile 1672 a favore di suo figlio a cui ne aveva fatto cessione.

Con lo stesso breve pontifìcio si accordava ai feudatari di Montafia il privilegio di coniar monete d’oro, d’argento o di altro metallo, però non risulta che quei signori abbiano battuto monete. Così si esprimeva il breve pontifìcio: « tam aureas quam argenteas et cuiusvis solitae materiae cudendas monefas suo nomine principia, alias tamen sub immaginis insignis et auspiciis dictae apositolicae sedis servataque constitutionum et ordinationum apostolicarum desuper editarum et pro tempore edendarum forma et dispositione cudi facere libere pariter et licite possint et valeant..... ».

Estintasi col figlio del conte Carlo Emanuele la linea maschile l’eredità allodiale venne suddivisa fra le tre figlie di detto Carlo Emanuele e cioè Irene Delfina, primogenita, che sposò il principe Michele Imperiali di Francavilla, Amabile la seconda, che andò sposa al marchese di Caraglio e Maria Delfina, l’ultima, sposatasi al marchese dal Borgo. E per quel che riguardava la parte feudale la Santa Sede nel 1707 per mezzo dell’Arcivescovo di Torino ne diede investitura al principe Andrea Imperiali, figlio del predetto principe Michele.

/19/ È appunto a quest’epoca che Montafia vide sorgere il nuovo castello, anch’esso ora scomparso, al posto di quello primitivo che era andato distrutto, come si vedrà, in eventi guerreschi.

Torna su ↑ Vai all'indice ↓

Cenni sommari sugli avvenimenti bellici

Montafia ebbe a subire durante i secoli non pochi danni che, come ovunque, anche in questo settore si succedevano a brevi intervalli.

Anzitutto, come già si è accennato, ebbe a subire la prima distruzione del suo castello per opera dell’imperatore Federico I Barbarossa; mentre egli con le sue soldatesche da Chieri, che aveva distrutta, si recava in Asti per punirla della sua ribellione all’impero, da Dusino si diresse su Montafia, per liberare il marchese di Monferrato, che vi era prigioniero del conte Lodovico, allora signore di quella terra. Impadronitosi del castello e liberato il marchese, lo fece completamente rovinare e il conte Lodovico venne ucciso. Non si ha alcun documento che comprovi questo avvenimento e l’autore dell’articolo sul giornale di Chieri non accenna alle fonti da cui egli attinse le notizie; nelle varie storie e cronache astigiane non abbiamo trovato cenno di questa distruzione né della prigionia nel castello di Montafia del Marchese di Monferrato.

Verso la fine dello stesso secolo la tranquillità di questa terra fu di nuovo assai disturbata dai marchesi di Biandrate e dagli astigiani che in quei dintorni si guerreggiavano.

I conti di Montafia combatterono con le schiere della regina Giovanna di Napoli e quelle del partito guelfo, condotte dal Siniscalco Reforza di Agoult, contro Asti nel 1345 e da quel tempo legarono le loro sorti a quelle della dominazione e del partito francese in Piemonte.

Fu un Obertone di Montafia che unì le sue truppe a quelle della regina di Napoli, Giovanna, e con esse prese parte alla battaglia di Gamenario, tra Alba e Chieri, avvenuta nel 1345 e nella quale morì il Siniscalco le cui truppe furono sconfìtte.

Obertone di Montafia coi suoi soldati diede tali prove di valore che in una Benvenuto da San Giorgio, Cronica del Monferrato canzone provenzale abbastanza nota è fatto di lui lodevole cenno subito dopo a Martino di Castellinaldo:

/20/

« Et Martin de chatel Haynault

Et Oberton de Montafie

Ou Reuforza formen se fie

Quo voulez vous che ye vous die

Le fust mulct grande compagnie

De preuds e de hardie gens ».

In quest’epoca il paese di Montafia ebbe anche forti contrasti con ì conti di Cocconato per il possesso di alcuni paesi interposti fra i due contadi.

Ma il maggior danno che Montafia ebbe a subire fu tra il 1550 e 1559 durante la guerra di successione di Spagna.

Riusciti i tedeschi, che unitamente alle truppe piemontesi combattevano contro francesi e spagnoli, ad impadronirsi del castello di Montafia, vi accorsero i francesi per scacciarveli; ne seguirono combattimenti sanguinosi nell’abitato, por cui molte case furono incendiate o saccheggiate e parecchi abitanti uccisi. Riusciti al fine i francesi ad essere padroni del luogo, onde evitare che potessero ancora tornarvi i tedeschi e valersi di quelle fortificazioni, dopo avere minato il castello lo distrussero dalle fondamenta insieme alle torri ed alle mura che lo cingevano; unitamente al castello furono dallo scoppio delle mine atterrate tutte le case vicine, nonché l’antichissima chiesa parrocchiale dedicata a San Giovanni ed alla Vergine, che si trovava presso la gran porta del castello ove stava il giardino, chiesa che era già citata nell’istrumento del 1345, più indietro mentovato.

Trascorsero parecchi anni prima che gli abitani si potessero rimettere dai gravi danni sofferti. Anzitutto si ebbe cura di rifare la chiesa parrocchiale e poi furono ricostruite parecchie delle case distrutte e più tardi venne anche rifatto il castello.

Non si sa di altri fatti d’armi attorno a Montafia, ma si deve presumere che nelle lotte che ancora susseguirono non sia andato esente da occupazioni, saccheggi e requisizioni da parte delle truppe straniere che qui si combattevano.

Nel 1703 il paese dovette dare alloggio a numerose truppe francesi che vi presero quartiere per l’inverno.

/21/ Durante la guerra di successione d’Austria in Montafia e neil suo castello furono dislocate, nel febbraio del 1746, parecchie truppe Piemontesi ed Austriache che combattevano contro i franco-ispani: prima vi si acquartierarono un reggimento piemontese Tarantasia ed uno autriaco Kalbermatt e più tardi di altri sette battaglioni.

Torna su ↑ Vai all'indice ↓

Il principe Imperiali e la riedificazione del castello

Fu il principe Michele Imperiali che, essendogli assai piaciuta la posizione, decise di abbattere tutti i ruderi rimasti in piedi del vecchio castello dopo l’avvenuta distruzione con le mine da parte dei francesi, e sulle antiche rovine costruirvi una bella e comoda villa di campagna.

Ma aveva appena iniziata quest’opera quando egli fu scelto quale ambasciatore di Savoia presso la corte di Spagna, dove egli dovette recarsi, portando con sé anche il figlio Andrea. Così la principessa Irene rimase sola in Piemonte; si dice che essa godesse i favori di Vittorio Amedeo II, il quale di proposito avrebbe inviato in Spagna il marito di lei per essere più libero nelle sue relazioni con la principessa.

Pare che per accondiscendere ai desideri di lei egli abbia fatto erigere a sue spese il nuovo castello, fornendolo di ricchi mobili e di ogni cosa che abbisognasse.

Certo che la principessa non si trovava nella necessità di essere aiutata per l’erezione di questo fabbricato, giacché disponeva di entrate abbondanti tanto da poter da sola supplire alle spese senza il concorso di Vittorio Amedeo. Ad ogni modo il castello risorse magnifico e guernito tutt’attorno da spaziosi terrazzi, da giardini protetti da ben alte e solide mura, ed annesse vi furono le scuderie, cantine, cucine e serre e tutti gli altri locali occorrenti ad una ricca e potente famiglia quale era quella della principessa.

E l’edificio fu in condizioni di essere abitato nel 1720; secondo le memorie lasciate dal notaro Giovanni Secondo Gay di Tigliole, che fu podestà di Montafia e segretario della principessa, la spesa complessiva oltrepassò il mezzo milione pur avendo in buona parte usufruito del materiale dell’antico castello. Questo notaio fu uno degli ascendenti di Gian /22/ Secondo Decanis, da cui sono in gran parte tratte queste notizie su Montafia.

La mole del castello era un edifìcio di moderna costruzione; verso mezzogiorno il fabbricato sporgeva alle due estremità e da questo sporto si formavano due padiglioni. Le porte e le finestre erano riquadrate di pietra lavorata secondo le proporzioni dell’ordine composito, sebbene però questi lavori fossero assai massicci. Nell’interno dell’edificio era notevole uno spazioso atrio sostenuto da quattro colonne a scannellature fasciate; da una magnifica scala si saliva ad un salone che si trovava sopra l’atrio; i vari appartamenti erano assai comodi e le camere tutte a volta.

Il fabbricato aveva tre piani, l’ultimo dei quali era adibito a granaio; sopra il tetto si alzava una specie di specola o belvedere da cui si godeva un ampio panorama.

Si accedeva al castello per una larga e stupenda rampa che aveva inizio presso la grande porta fiancheggiata da altre due fornite di cancelli in ferro che davano sul giardino; questo si prolungava da mezzogiorno verso levante andando a finire ad un altro terrazzo verso nord dal quale si entrava nell’atrio suindicato.

Questo terrazzo molto vasto era costruito tutto in mattoni e sostenuto da solidissime volte ad arco veramente ammirevoli e che dava ricetto a numerosi sotterranei nel suo piano inferiore dove si trovavano le cantine, scuderie, cucine e serre. Corrispondente a questo ve ne era un altro verso mezzogiorno a cui si giungeva dalle camere del castello per tre porte; esso era circolare come il precedente e questo pure dava luogo a numerosi sotterranei, in uno dei quali eravi un profondissimo pozzo singolare anche per la sua antichità, essendo coevo alla fondazione del primitivo castello costruito da Alfia dei Variselli.

I dintorni del castello erano circondati da superbi giardini a disegni di mirto e ripieni di piante di fiori e frutta, protetti tutt’intorno da alte mura. Ma quel che è strano, essendo stati i giardini dichiarati beni allodiali e quindi esclusi dalla giurisdizione del castello, i proprietari di questo non potevano goderne che guardandolo dalle finestre senza potervi penetrare e ciò in dipendenza di quella decisione del Panciroli. Per rimediare a tale inconveniente era necessario che il proprietario del castello fosse nello stesso tempo anche proprietario del giardino.

/23/ Il feudo di Montafia rimase alla famiglia degli Imperiali di Francavillla fino al 1782, quando per la morte dell’ultimo di questi principi, venne devoluto al re di Sardegna Vittorio Amedeo III.

Il Decanis, che scriveva circa un secolo e mezzo fa, lamentava che questo grandioso edificio fosse lasciato andare in rovina per mancanza di riparazioni; già cinquant’anni prima era stato spogliato dei mobili venduti a villissimo prezzo ad ebrei di Chieri, che su quel contratto guadagnarono parecchio.

L’ultimo marchese di Montafia, che fu fratello del Cardinale Costa dei Conti di Arignano e della Trinità, non si curò mai di questo castello, e lo lasciò in abbandono. La stesso succedeva un secolo fa da parte della contessa di Cossombrato, figlia del detto marchese, che ne era divenuta proprietaria. Era adibito ad abitazione di povere persone parte alloggiate gratuitamente e parte pagando un tenuissimo affìtto.

Completamente trascurato andò a poco a poco in rovina e di questa magnifica costruzione non esiste più nulla, se non le muraglie periferiche, costituite tutt’ora dall’enorme elevato bastione che circonda le parti elevate della collina e dà idea della imponenza e maestosità che doveva presentare la sua primitiva costruzione quando sopra questo bastione si innalzava il castello di abitazione con le sue rocche e le sue torri.

Torna su ↑ Vai all'indice ↓

/25/

Montafia

Le chiese

La Chiesa Parrocchiale

La prima parrocchia del paese fu l’antica chiesa di San Martino, ma, dopo che gli abitanti di Varisella e Cacciarie si raccolsero attorno al colle della attuale Montafia, la chiesa di San Martino fu abbandonata perchè lontana ed incomoda e le funzioni parrocchiali furono trasferite nella chiesa dedicata a San Giovanni ed alla Vergine, situata nel paese presso il castello.

La chiesa di San Martino, posta presso il colle della Varisella, conserva ancora il coro antichissimo, lavorato sulla foggia di quello della chiesa di San Secondo di Cortazzone; fu diverse volte restaurata e rimodernata e si scorgono ancora alcuni affreschi che risalgono alla metà del secolo XIV e sui quali si legge in calce il nome di Jacopo Miglino che fece oppure ordinò i dipinti. Essa è dichiarata monumento regionale.

Accanto si trova l’antico cimitero; si seppelliva anche nella chiesa, ma poiché ne derivava gran danno al pavimento, Mons. Felissano, nella sua visita del 1743, ne fece divieto.

Essendo scomparsa la chiesa di San Giovanni, poiché coinvolta nella distruzione del castello avvenuta nel 1559, le funzioni della parrocchia si trasportarono nella nuova chiesa di Santa Maria che alcuni anni dopo, e precisamente nel 1578, il Nunzio del Papa Gregorio XIII, Ottavio di Santa Croce, fece costruire al posto di quella distrutta e sulla porta del nuovo tempio fece apporre lo stemma pontificio, scolpito in pietra, che esiste ancora in una vecchia sacrestia dell’attuale parrocchia con la seguente iscrizione:

/26/ « Deiparae Virgini – Templum Hoc – Bellorum incuria dirutum – Octavius de Santa Onice Nuntius – Gregorii XIII Pont. decreto – A fundamentis erexit ac dicavit – MDLXXVIII ».

Ottavio di Santa Croce risiedeva a Torino come ambasciatore del Papa presso la corte Sabauda ed era incaricato della amministrazione del feudo, giacché appunto nel 1577 questo era devoluto alla Santa Sede per l’avvenuta morte del Conte Lodovico.

Nel 1658 per la prima volta questa chiesa di Santa Maria è indicata come parrocchia, pur continuando il beneficio ad essere intitolato a San Martino.

Nel 1695 essa fu dal Vescovo Mons. Milliavacca trovata molto malandata e pericolante, ma il prelato non prese alcuna decisione in merito alla restaurazione, essendo stato assicurato che si voleva ricostruirla dalle fondamenta in altra località del paese.

E ciò avvenne qualche anno dopo, sul principio del 1700, e, a quanto scrive il Decanis, per opera della principessa Irene Delfina, mentre nella relazione dellla visita pastolare del 1737, è scritto che era stata eretta a spese della comunità. In questa chiesa di Montafia fu eretto dal sig Giov. Antonio Rossi il 21-XI-1719 un beneficio semplice sotto il titolo di S. Antonio da Padova.

Per rendere più piacevole il sito attorno alla villeggiatura costruita sulle rovine del vecchio castello la principessa fece spianare un colle ad occidente del palazzo stesso e su questo piano fece innalzare l’attuale chiesa parrocchiale in surrogazione della vecchia già fatta costruire dal Nunzio di Santa Croce, la quale, poiché era pericolante e si trovava nel mezzo dei giardini, fu abbattuta onde aver maggior spazio nel recinto ed accanto alla nuova chiesa che fu intitolata a San Martino e San Dionisio, fece piantare due file di olmi che formavano un lungo viale adducente all’oratorio di San Dionigi.

L’oratorio sorgeva dove si trova ora il monumento ai caduti; e poiché la principessa Irene aveva particolare devozione per questo Santo, oltre a far aggiungere questo nome al titolo della chiesa parrocchiale, volle che le annuali processioni religiose raggiungessero la cappella di San Dionigi attraverso il lungo viale e tuttora, benché la cappella sia scomparsa /27/ e sostituita da un semplice pilastro, le quattro processioni annuali continuano ad avere per mèta questa località, ciò che dimostra la forza e l’attaccamento alle tradizioni, pur dopo che sono passati tanti anni.

Nella visita pastorale di Mons. Icardi nel 1737, mentre era parroco l’arciprete Don Carlo Giuseppe Marchisio di Villa San Secondo, la nuova chiesa fu trovata ben costruita ed in elegantissima forma unitamente al campanile con due campane, che mentre prima era staccato dalla chiesa ora vi era unito.

Contemporaneamente era stata eretta una nuova casa canonica per metà a spese del principe Andrea Imperiali e per l’altra metà a carico della comunità e del parroco.

Nella visita di Mons. Lobetti nel 1839 questa chiesa fu trovata sempre in buone condizioni ed il campanile con tre campane; a questa data sono nominate due reliquie, conservate nella chiesa e costituite da particole di ossa di San Vincenzo martire l’una, e di San Verecondo martire l’altra, con sigilli ed autentica.

Nel 1845 fu provvista di un ottimo organo.

Il parroco di Montafia è insignito dell titolo di Vicario foraneo, in quantochè questa parrocchia dal 1817 fu eretta a sede di Vicariato. Anticamente, come appare dal registro delle chiese della diocesi di Asti, nel 1345 dipendeva dalla Pieve di Bagnasco, nel 1500 dalla Vicaria di Monale e dal 1805 al 1817 di nuovo dalla Vicaria di Bagnasco.

Dipendono da Montafia le parrocchie di Bagnasco, Capriglio, Maretto, Roatto e Viale.

Torna su ↑ Vai all'indice ↓

Le altre Chiese minori

Si hanno le prime notizie delle altre chiese minori solamente nella relazione della vista pastorale, fatta da Mons. Broglia nel 1627; nelle visite precedenti si accenna a questi oratori campestri ma senza farne il nome, mentre si ordinava che fossero tenuti chiusi o, se in cattive condizioni, demoliti.

Cappella di Santa Maria di Vignale o Vignolle, che sorge nella regione omonima; nel 1627 era in ottime condizioni e perfettamente adatta /28/ alle celebrazioni; era di proprietà della comunità.

Di questa antichissima cappella si trova già menzione in varie carte del 1200 ma ora non conserva più alcuna traccia dell’antica costruzione essendo stata riedificata nel 1803 dal notaio Pessina, che ottenne su di essa il patronato; fu sempre ben conservata e ancora nel 1845 risultava in buono stato.

Oratorio campestre di San Dionisio, che è anche sotto il titolo della B. V. dell’Assunta: nel 1668 risultava di proprietà dei signori Giacomo e Antonio de Rubeis; ma trascurata era nel 1695 in pessime condizioni; nel 1839 passò in proprietà della famiglia Pollone ma era sempre pericolante e da molti anni più non vi si celebrava; nel 1845 fu ancora trovata in pessimo stato e poi cadde in rovina e nelle adiacenze fu eretto un piloncino tuttora esistente.

Cappella campestre della B. V. della Neve; nel 1695 era in buona parte rovinata, segno che esisteva già da tempo; dopo qualche anno fu restaurata, e nel 1743 era in buone condizioni. Nel 1839 era nuovamente bisognosa di riparazioni, che furono eseguite qualche anno dopo e col 1845 risultava nuovamente in ordine ma poi trascurata, rovinò ed ora non esiste più nulla.

Cappella campestre di San Rocco; nel 1695 era in buone condizioni di struttura, ma mancava delle necessarie supellettili per le funzioni; nel 1743 era stata da poco restaurata e doveva ancora essere ribenedetta. Nel 1839 era ridotta in tristi condizioni, tanto che da oltre quindici anni non vi si celebrava. Il Vescovo ordinò di riparare questa cappella a preferenza delle altre, perchè essendo lontana da ogni altra chiesa serviva agli abitanti delle case dei dintorni. Nel 1845 era di nuovo in buono stato; un secolo dopo, verso il 1940 aveva nuovamente bisogno di riparazione e fu rimessa in ottime condizioni con l’obolo degli abitani della borgata che dalla chiesa prende il nome.

Cappella campestre di San Sebastiano; nel 1668 risulta da poco restaurata, ma dopo il 1695 non vi è più nominata e probabilmente andò distrutta.

/29/ Cappella di San Michele Arcangelo. Fu costruita nel 1722 dalla principessa Irene Delfina nel recinto del castello sotto il grande terrazzo verso mezzogiorno e ad essa si accedeva dalla scala che portava alla grande porta del castello. Una iscrizione sulla porta d’ingresso ne indica la data della fondazione:

« D.O.M. Divo Michaeli Arcangelo – Francisco Icardi Vic. Cap. permittente – Petro Secundo de Coconato – Episcopo casalense approbante – Benedicente – Delfina Simiana Imperialis Andreae Imperialis Principis Montafiae mater – Sacellum hoc – sibi suis et exteris erigebat devovebat – MDCCXXII die. IX mensis octobris ».

Essa fu sempre mantenuta in buono stato ma scomparve poi insieme al castello degli Imperiali.

Cappella campestre della SS. Trinità. È nominata per la prima volta nel 1737 e cento anni dopo nel 1839, era ridotta in pessime condizioni e non vi si celebreva più da molto tempo; nel 1845 era di nuovo in buono stato; si trovava nella regione che dalla chiesa aveva preso il nome ed ora, forse perchè trascurata, cadde in rovina e non ve n’è più traccia.

Torna su ↑ Vai all'indice ↓

Elenco dei parroci con il numero delle anime e il reddito del beneficio nei vari anni:

N. ord. Nome e casato dei parroci Data nomina Anime Reddito
Nel 1345 lire 15
1 D. Giovanni Giacomo de Rubeis 4 – 4 – 1585 360 scudi 60
2 D. Giovanni Francesco Casasco 3 – 12 – 1653 464
3 D. Giovanni Gamba 1647 390 lire 200
4 D. Antonio Gamba 3 – 12 – 1672 500  » 300
5 D. Giov. Battista Torchio 10 – 3 – 1697 700 lire 300
6 D. Giov. Antonio Galvagno 8 – 4 – 1712
7 D. Carlo Giuseppe Marchisio 15 – 3 – 1719 700  » 300
8 data la differenza di data, il secondo è chiaramente un omonimo D. Carlo Giuseppe Marchisio 7 – 7 – 1757
9 D. Gius. Maria Pessio da Canale 18 – 4 – 1760
10 D. Melchiorre Bolla da Ferrere 12 – 11 – 1798 915 lire 1200
11 D. Giovanni Cavallero da Asti 24 – 6 – 1854
12 D. Filippo Berruti da Cunico 19 – 3 – 1876
13 D. Giuseppe Raschio da Frinco 12 – 5 – 1891
14 D. Secondo Gallina 11 – 6 – 1934

Torna su ↑ Vai all'indice ↓

/30/

Elenco dei sacerdoti che fruirono del beneficio semplice sotto il titolo di Sant’Antonio da Padova, eretto nella Chiesa di Montafia dal Sig. Antonio Rossi il 21 Novembre 1719:

N. ord. Nome e casato dei sacerdoti Data di nomina
1 D. Giov. Pietro Bricarelli da Meleto 16 – 6 – 1725
2 D. Carlo Francesco de Rubeis da Montafia 16 – 10 – 1725
3 D. Giov. Ant. de Rubeis o de Rossi da Montafia 21 – 11 – 1739
4 D. Giov. Lodovico de Rossi da Cortazzone 27 – 7 – 1749
5 D. Giov. Tommaso Vairo da Cortanze 13 – 5 – 1754
6 D. Antonio Ternavasio da Canale 29 – 5 – 1762
7 D. Domenico Pessina da Montafia 3 – 1 – 1764

Torna su ↑ Vai all'indice ↓

/31/

INDICE