Massaja
Lettere

Vol. 1

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A don Luigi Sturla
missionario apostolico – Aden

P. 385Amico amatissimo,

Goudar [Gondar], li 25 Luglio 1849.

Pochi giorni dopo la partenza da Massova del bastimento di Bisson, che avrà portato costà le mie lettere per lei e per l’Egitto, io sono partito da Massova a questa volta; non senza forti ostacoli per parte di [t]utti gli amici, i quali fecero ogni sforzo per trattenermi, come quelli, che erano spaventati dai pericoli [p. 386] della persecuzione non per anche finita. Monsignor de Jacobis poi credeva sicura la morte mia; e volendo far da profeta, disse, ch’io andrei al Martirio: cosa per altro impossibile, stante certe circostanze, ch’io solo coram Deo posso conoscere.

Gravi pericoli nondimeno per la Missione, obbligandomi di usare molte cautele in tener nascosta la mia partenza da Massova, ed il mio viaggio, fecero ch’io, tagliatami la barba e deposto ogni distintivo di persona ecclesiastica, partii a piedi, colla sola compagnia di due servi fidi, e di un prete indigeno, a cui potessi confessarmi in ogni occorrenza.

Siccome diciotto mesi prima io fui esiliato dal re Ubié, sarebbe stata per me cosa troppo rischiosa di porre più di venti giorni in traversare i suoi stati contro la volontà sua, e con tutte le insidie tesemi dall’Abuna (il vescovo eretico) per cogliermi: però io m’appigliai ad un partito al tutto straordinario, e fu di presentarmi improvviso, in qualità di semplice viaggiatore, al re stesso, e chiedergli la sua assistenza nel viaggio. Penetrai dunque, in abito di meschino europeo, accompagnato da’ miei due servitori, nel campo di Ubié; e vi fui accolto come usano colle persone ordinarie. Quello fu un cattivo momento per me! Pensando, che mi trovava nelle mani di un principe barbaro, e mio nemico, il cuore mi batteva più che mai, non per paura de’ mali che potessi incontrar io, ma di quelli /166/ che potevano incogliere alla nostra santa causa, di cui io era come in signum contradictionis.

Si trattava di chiedere udienza; e, ad ottenerla, conveniva subire molti interrogatorii dalla gente di corte, che non suole introdur forestieri al principe, se prima non li conosca benissimo. Io era stato raccomandato ad un parente di Ubié medesimo; ma costui non [p. 387] rifiniva mai d’interrogarmi, e voleva sapere il mio nome, la patria, l’impiego, le circostanze del viaggio, e del mio arrivo in Massova; e come s’accorse, ch’io intendeva la lingua del paese, mi domandò, s’io non era già tempo avanti entrato in Abissinia. Rispondere, che sì, avrei generato sospetto; dire di no, avrei mentito coram Deo et hominibus. Cercai dunque di tacere una parte del vero che più mi premeva, rispondendo, ch’io era giunto in Massova soltanto da un mese in poi (quando venni di Aden), e che aveva imparato un poco la lingua coll’uso de’ libri; poi vedendo io, che queste risposte non bastavano ad appagare la curiosità dell’amico, deliberai di dare una risposta che mettesse fine alla catena di tante interrogazioni molto pericolose per me, dicendo, che se in me era qualche cosa di misterioso, l’avrei a voce, o per iscritto, svelato al solo Ubié. Le quali parole furono incontanente rapportate al Principe, che, da quell’uomo sagace, ch’egli è, comprese subito tutto il mistero.

Ogni qualunque male potevo allora aspettarmi; ma Iddio, che tiene in mano i cuori dei Principi come strumenti o di castigo o di misericordie, cangiò in quel punto stesso l’aspetto di tutte le cose mie. Ubié che, spinto da politiche circostanze, m’aveva scacciato dal suo paese, e che sentiva, nel fondo del cuore, amore e stima pel nostro apostolico ministero, fu vivamente tocco dal modo ch’io tenni per salvare lui e me. Come fra i cortigiani di lui ne aveva molti, che erano nostri giurati nemici, Ubié capì incontanente, che avendogli io chiesto di visitarlo da solo a solo, era per meglio assicurare la secretezza del fatto. E però disse all’uomo, che più frequentavano, e che gli aveva recata la mia ultima risposta: «Bada di non fiatare... Il meschino viaggiatore, che chiede udienza, è il celebre abuna Massaja, ch’ [p. 388] io credeva già ritornato a Roma... Prima che vengano alla corte i grandi impiegati (Era di mattino, poco dopo la levata del sole; ed io era giunto al campo la sera prima), corri a chiamarlo all’udienza.» E l’amico mio corse subito tutto affannato alla mia tenda; e fatti mille inchini, e dato uno sguardo all’intorno, disse: «Oh come l’abbiamo sbagliata!» Al sentire queste parole mi spaventai, credendo che il principe avesse preso in mala parte la mia accorta temerità; ma poco stante avendo egli soggiunto: Presto, Ubié l’aspetta, cessarono i miei timori, vedendo massimamente, che costui, il quale da prima usava meco una certa sostenutezza, ora quasi servo, anzi quasi rispettoso figlio mi riguardava. Volle egli stesso aggiustarmi il turbante e lo sciamma; e, fatto ch’io ebbi prendere da un servo il picciol regalo destinato al Principe, c’incamminammo alla tenda reale. Benché sapessi, ogni cosa avere, per misericordia di Dio, cambiato aspetto, pure le mie gambe, che ciò non capivano per anche abbastanza, non volevano reggermi.

/167/ Entrato da Ubié, e vedendolo seduto sopra una specie di trono con baldacchino di tela bianca, rozza e sucida, circondato da un quindici persone, la più parte ragazzi, dissi fra me: Questi è dunque quel famoso Ubié così terribile, di cui tanto scrissero i nostri viaggiatori?

Appena mi vide, s’inchinò rispettosamente, e volle ch’io sedessi in terra sur un pochetto di paglia, come sogliono fare le persone più distinte davanti lui: indi mi fece varie interrogazioni graziose, schivando destramente ciò che avrebbe potuto scoprire alla sua corte il carattere mio. Pareva commosso, e mi dava certi sguardi, e facevami certi segni misteriosi, che mi andavano al cuore. Accennai al servo di esporre il regalo, [p. 389] che avevo portato; ed era una pezza di raso celeste. Mentre si misurava, che così porta l’usanza del paese, egli ne faceva elogi sperticati, e diceva, non aver mai ricevuto un simile regalo: lodi insolite nella sua bocca, e per se non vere, perché aveva già da Incaricati inglesi ricevuto presenti di molto superiori a quello; ma diceva così, perché erane intenerito.

Mentre si stava spiegando la pezza, vide fra le pieghe una lettera, ch’io aveva preparata, ed ove gli diceva cose, che non avrei potuto esprimere in presenza d’altri. La raccolse, la lesse con prestezza incredibile, volgendomi ad ogni poco guardature parlanti; e terminò con un sospiro pieno d’affetto, in corrispondenza de’ sentimenti ch’io esprimevagli con libertà veramente apostolica.

Spiegò aperto desiderio, ch’io mi fermassi alquanti dì; ed io risposi, che non potrei appagarlo, perché le acque, per la stagione che sempre più peggiorava, ingrosserebbero, e perché nel campo erano Europei, a cui, essendo conosciuto da essi, avrei difficilmente potuto nascondermi. Allora egli disse, che il fiume Zacazé [Tacazé], il più grosso che avrei trovato in via, era senz’acqua; e che gli Europei, s’io mi fermassi, sarebbero di là partiti quel medesimo giorno. Giudicai di non dover in quel punto più oltre contraddire, riservandomi di esporgli altri motivi, per mezzo del soprallegato amico. Preso pertanto commiato, e tornato a casa, gli feci spiegare la mia assoluta volontà di partire; e dopo molte ambasciate, in una delle quali Ubié mi fece dire, che aveva dato ordine per un’altra casa ed un altro genere di trattamento per me, mi lasciò finalmente in libertà, pregandomi di compartire a lui ed al suo regno la mia benedizione, ed assicurandomi, che avrebbe prese tutte le precauzioni in fare, che il mio viaggio fosse fe- [p. 390] lice. Colla benedizione gli mandai i miei dovuti ringraziamenti, accertandolo nel tempo stesso, che circa alcuni lumi, ch’egli bramava avere da me, poteva far capitale di certa persona a lui molto cara, la quale aveva avuto meco lunghe conferenze su ciò. E valendomi dell’ottenuta licenza, partii.

Mi fu data per iscorta del viaggio una persona della casa di Ubié, a cui vennero fatte le più vive e gelose raccomandazioni, e dati gli ordini più pressanti. L’amico volle accompagnarmi un’ora di strada; nel qual tempo mi disse di molte cose intese da Ubié a mio riguardo, e riguardo a Monsignor de Jacobis, a cui portava un’affezione incredibile.

/168/ Oh quanto differente dalla mia entrata nel campo del Principe ne fu la uscita! Eravamo addì venti di Giugno, giorno dedicato alla Vergine Santissima della Consolata di Torino, e il giorno in cui Ella volle porgermi l’ineffabile contentezza di fare il tanto sospirato viaggio alla mia missione, e raggiungere i miei amati compagni.

Riservandomi di narrarvi il seguito del viaggio in altra mia, non vi dirò altro per questa, se non che essendo stato accompagnato dalla persona datami da Ubié, fui, in tutti i paesi per dove passai, ricevuto e trattato come sogliono essere i grandi impiegati del regno.

Ecco, caro amico, come terminò il mio esiglio dall’Abissinia. Avrebbe durato ancora, chi sa quanto! se non avessi preso ardimento di fare il passo, che feci oltre ogni previdenza. L’opera di Dio, eminentemente sublime, cammina per vie a prima vista impraticabili, ma piane, perché opera di Dio, il quale suole, nel tempo stesso, agir forte e disporre soavemente delle cose di quaggiù. Così andrà a terminare, spero, la guerra potente, che l’inferno sta facendo alla causa [p. 391] cattolica in questo sgraziato paese. Già veggo alcuni segni della misericordia di Dio; e la grazia ora concessa a me non è che un preludio di quella infinitamente maggiore, che il Signore sta preparando a Monsignor de Jacobis, a fine di sollevarlo dalla grave afflizione, che l’opprime nel suo esilio di Massova, ove l’ho lasciato col più amaro cordoglio, appunto perché prevedeva, che, dopo la mia partenza, più doloroso sarebbe divenuto il suo esilio...

Affezionatissimo Padre,
F. Guglielmo Massaja, Vescovo.