Massaja
Lettere

Vol. 1

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[Lettera di P. Leone des Avanchers]

Ai membri dei consigli centrali
della Propagazione della Fede – Lione-Parigi

P. 458Signori,

Massova, costa dell’Abissinia, li 12 marzo 1850.

Monsignor Massaja, Vicario Apostolico dei popoli Galla, è testé rientrato in questa città, situata sopra le rive del mar Rosso. Avendo, durante un cammino di dieci mesi, visitato le varie tribù cristiane che sono ne’ regni di Choa e di Gojam, è stato di nuovo costretto di abbandonare la sua Missione, per causa della persecuzione mossa dall’Abuna, vescovo scismatico dell’Abissinia. Vinto dalla fatica e dal dolore, m’incarica di scrivervi la narrazione del suo viaggio, sino a tanto [p. 459] che possa di viva voce comunicarvi i suoi disegni in favore dei popoli, che stanno tuttavia immersi nelle tenebre dell’idolatria.

Il mio Vescovo era arrivato a Massova verso la fine d’ottobre del 1846, con tre Missionari, i PP. Cesare, Giusto, Felicissimo. Questo porto dell’Abissinia non è altro che una pessima isoletta, situata a cinque minuti dal continente, e soggetta alla dominazione turca. Era un punto importante della costa ai tempi che l’impero abissinio fioriva; si veggono ancora cisterne e pozzi in gran numero, per contenervi l’acqua piovana: perché Massova non è che un arido scoglio, ove né un brano d’erba verdeggia, né fonte alcuno vi scaturisce. Se non che questi monumenti preziosi dell’antichità sono al tutto in ruina, dacché i Mussulmani se ne impossessarono. Rimane ancora un’antica /170/ chiesa, con finestre ad arco diagonale, fabbricata dai Portoghesi; la quale fu poi voltata in moschea. È l’unico vestigio della religione cristiana.

Per recarsi da Massova sullo spianato dell’Abissinia, ti sta dinanzi un pendio di tremila metri, formato da più catene di monti, situati a modo di scala. Il viaggiatore, giunto a quella smisurata altezza, cammina attraverso altre altre forse da leggersi alte MP. montagne, cui, il mattino, scorga talora coperte di brina. Colà respiri aere purissimo; ma, quantunque, sotto la zona torrida, si patisce del freddo. Tutte le cime, che si trapassano fino al piede della grande spianata, sono generate da vulcani, o piuttosto sono altrettanti crateri spenti. Secondo che ti discosti dal mare, la vegetazione si mostra più doviziosa e robusta; e, fra l’altre piante sconosciute in Europa, vi sono alberi che producono il balsamo e la gomma. Gl’indigeni non se ne curano, siccome quelli che, essendo tutti pastori, il principale loro sostegno [p. 460] sta ne’ bestiami. Altri menano vita errante, altri si stabiliscono in qualche pianura, ove possono agevolmente pascere le mandre. La religione loro è il maomettismo; ma un tempo furono cristiani, e, in memoria della antica fede, osservano ancora le feste di Pasqua, di Pentecoste, dell’Ascensione e dell’Assunzione. Se avviene, che loro dimandi, perché rispettino cotali feste, risponderanno: I padri nostri facevan cosi.

A meglio mostrarvi la persecuzione da tre anni patita, scorreremo con rapido sguardo il paese, che Monsignor Massaja ebbe a traversare. L’antico impero dell’Abissinia, che sin dell’invasione dei Galla più non esiste, è attualmente diviso in tre regni: Tigro-Amara, ossia regno Ubié; Choa, composto in gran parte di tribù Galla; e quello del Gojam. Si fanno sempre guerra; però i re loro abitano sotto tende, con intorno i loro soldati, sempre in procinto di movere assalto: che consiste in distruggere e fare scempio di quanto si para loro davanti. I nuovi dominatori hanno per altro serbato un’ombra dell’antico Janni, ovvero imperatore abissinio: monarca, di nome soltanto, la cui autorità si restringe a porre leggier gabella sopra il butirro. Il suo palazzo è quello degli antichi imperatori in Gondar.

Benché i cristiani dell’Abissinia professino l’errore di Dioscoro, condannato dal concilio di Calcedonia, moltissimi si vivono in completa ignoranza su ciò, e credono che il loro Vescovo, o l’Abuna, inviato ad essi dal patriarca scismatico del Cairo, sia in comunicazione col Papa.

Giusta le leggi del paese, in Abissinia non può essere che un solo vescovo; e v’ha pena la testa contro chi ne usurpasse il titolo. E questo fu motivo della [p. 461] persecuzione a danno di Monsig. Massaja. L’Abuna presente era, prima che fosse creato vescovo, un povero giovane, il quale altro bene non possedeva, tranne un asino, che dava a nolito ai viaggiatori. Passati due anni di studio al Cairo, essendo tenuto ammaestrato quanto bastava ad adempiere le funzioni episcopali, fu ordinato, e poscia inviato nell’Abissinia con ministri anglicani; i quali vennero tempo dopo scacciati dal popolo. Da questo punto cercò occasione di opprimere i cattolici, perché di /171/ giorno in giorno crescevano in numero, ed erano da lui reputati promotori della sbandizione de’ missionari protestanti. Ora, un viaggiatore europeo (di cui taccio il nome), avendo avuto a dolersi del mio Vescovo, perché non volle in favor suo commettere un atto d’ingiustizia, deliberò vendicarsene. Caddegli in mano lettera diretta al Vicario apostolico: l’aperse, e recatala all’Abuna, gli disse: «Ve’, ha un altro vescovo in Abissinia. — Che di’ tu mai, interruppe colmo di sdegno l’Abuna! morrà. Ove si annida? — L’avrai. Ma che mi darai tu?» Convennero del prezzo: indi l’Abuna continuò: [«]M’occorrono soldati: Ubié me ne darà.» Recossi pertanto dal re, e gl’intimo di fornire soldati, che pigliassero ed ammazzassero il vescovo straniero, il quale stavasi in Abissinia a dispetto delle leggi del regno. Ubié, non ostante l’affetto, che secretamente nutre verso i cattolici, gli concesse gli uomini che richiedeva. Allora l’Abissinio disse al nuovo Giuda: «Va, e mena a me l’Abuna Massaja vivo o morto. – T’affida.» Così rispose l’europeo; e partì coi soldati. E questi gli domandarono. «Or, come il conosceremo noi? — Colui, il quale ha una gran barba rossa, al quale fanno saluti in chiesa, ed al quale io bacierò la mano, è l’Abuna Massaja: pigliatelo.»

P. 462 Ma Dio, che veglia sui servi suoi, non permise che il tradimento avesse effetto. Un fervente cattolico, che aveva spillato tutto, li precedette; e giunto a Gulla, ov’erano i Missionari, svelò la trama al Sig. de Jacobis, il quale, senza far motto di ciò a Monsignore, il fece immantinente partire per un’Amba. Chiamano Amba, in Abissinia, alte montagne coperte di verdura, ed al tutto inaccessibili. Vi si monta per mezzo di funi. E il giorno appresso, tutti i Missionari, seguiti da alcuni cristiani, che portavano la roba loro, si ritirarono sopra altre alte c.s. MP. montagne. Era il 13 maggio dell’anno 1847. L’Abuna, veduta rotta la trama, pose in opera tutta l’autorità sua in fare quanto più male si poteva ai cattolici. Pubblicò, in tutti i mercati dell’Abissinia, una sentenza di scomunica contro Monsignor Massaja ed i preti di lui; per la quale era proibito ad ogni abissinio di dar loro da bere e da mangiare, o di riceverli in casa; e promettevasi una somma di cento talleri a chiunque gli recherebbe la testa d’un Missionario. Cotale strepito non valse che a far vie meglio conoscere la fede cattolica. Il nome di Mons. Massaja fu da indi in poi nelle bocche di tutti; e dapertutto parlavasi del nuovo Abuna inviato dal Pontefice di Roma.

Ai 3 di giugno, furono di nuovo perseguiti, ed in necessità di abbandonare que’ luoghi, per cercarsi altrove un più sicuro asilo. Mentre erano tutti insieme adunati, la capanna, ove ebbero rifugio, venne improvvisamente circondata da soldati. Ciascuno di essi aspettavasi d’aver tagliata la testa, come quelli che non avevano scampo. In tale estremo punto, Monsignore volle, qual ottimo padre, dare la propria vita [p. 463] per salvare quella de’ figli. Stava per mettersi in mano de’ suoi nemici; ma i compagni di lui si opposero, dicendo: «Se si debbe morire, moriamo tutti.» E si confessarono sollecitissimamente l’un l’altro: indi si misero ad orare, aspettando con rassegnazione il martirio. Frattanto grida da barbari si udivano in- /172/ torno della capanna; ma nessuno soldato ardì entrare. Indi a poco s’intese più orrendo trambusto, quasi di un combattimento. La porta della capanna venne abbattuta; e ciascuno degli apostoli credette, la sua ultima fine essere giunta. Un guerriero stava sopra la soglia, brandendo la lancia, e minacciando chiunque ardisse avanzare. O protezione della Providenza! Costui era un capo, amico de’ cattolici, quivi accorso colla sua tribù per liberare i Missionari. La sua presenza intimorì gli assalitori, che disperando vincere colla forza, si sbarattarono e si dileguarono da ogni banda. Il Vicario apostolico colse il destro, per avvicinarsi al mar Rosso; e persuaso, che il suo carattere episcopale fosse la cagione precipua di quella persecuzione; ed avvisando, ch’essa verrebbe ad estinguersi quando egli fosse lontano, deliberò di lasciare per qualche tempo l’Abissinia, e movere alla volta di Aden.

Aden è città di 15.000 anime sulla costa dell’Arabia, a venti miglia, a sirocco, da Babelmandel. È come una penisola, con porto magnifico, atto a ricevere più di cento vascelli. La penisola è circondata da una catena di monti volcanici, e la città è come assisa in mezzo del cratere. Prima del 1835, era la capitale d’un principato indipendente e la residenza d’un sultano. Allorché la Compagnia delle Indie stabilì la sua linea delle patascie sp. patache piccola imbarcazione veloce patascie a vapore, chiese permesso di farvi, provvisoriamente, un deposito di carbone; ma non tardò poi ad impadronirsi del terreno imprestatole, ed a confinare il sultano nell’interno del paese, mercé di un dono annovale. Oggi Aden è divenuta rocca formidabile, che con ragione si chiama il Gibraltar dell’Oriente, e che non sarà mai presa per forza.

Ha d’ordinario in Aden 2.000 soldati, de’ quali, 600 Inglesi od Irlandesi; gli altri, Indiani. Di questi, il terzo, o poco meno, è cattolico: il rimanente, idolatra; e fra questi si fanno pur molte conversioni. Il numero de’ fanciulli cattolici nella città è di cento, al più; ed è doloroso il vederli costretti di frequentare la scuola protestante, perché è l’unica nel luogo. A toglierli da tale pericolo, gioverebbe chiamarvi Fratelli della Dottrina Cristiana, e Religiose; ma lo stabilirvisi sarebbe cosa piena di ostacoli.

Il clima, è poco salubre: il terreno, non produce vegetazione di sorta: e lo spazio vi manca per fare un po’ d’esercizio: però i Missionari, appena rimasti colà due o tre anni, ci perdono la salute o la vita. E non pertanto la Missione di Aden è, per ora, il solo punto della costiera, ove si goda di una qualche tranquillità, ed ove si possano gittare alquanto solidi fondamenti.

P. 464 Mentre scostavasi con rammarico della sua Missione, nuova tempesta assolse a Guolla i confratelli di lui. Era la sera dell’Immacolata Concezione; ed avevano finito il rosario, quando udirono improvviso alte grida di fuori. S’apre la porta, ed alquanti cattolici entrano precipitosi nella capanna, e gridano: «Fuggite, fuggite: i soldati sono qui: hanno ordine di trucidarvi.» Ciascuno pigliò ciò che aveva di più prezioso, e si affrettò di correre alla montagna, per trovarvi rifugio. I soldati giunsero poco apresso: tolsero quanto rimaneva nella casa, e se ne impossessarono in nome del re Ubié.

/173/ Essendo notte, ed il cielo coperto di nuvoli, i nostri fuggitivi si smarrirono in mezzo ai boschi. A guidarsi gli uni dietro agli altri fra quelle tenebre, non avevano altro indizio che lo stormire de’ cespugli che rompevano nel camminare, ed il rombolare de’ sassi, [p. 465] che si staccavano sotto il piede di quelli che aprivano la via; e passavano sopra le teste de’ loro compagni, posti più basso. E finalmente una dirottissima pioggia venne a togliere loro la poca lena che ancora serbavano. Cosi giunsero l’uno appresso dell’altro sull’opposta pendice della montagna, ove un vento freddissimo era sottentrato alla pioggia. Gelati, infranti dalla fatica, stimolati dalla fame, dalla sete, dal sonno, si risolvettero, ad onta del timore d’essere ancora perseguiti, di fermarsi e di riposarsi un istante. Uno di essi, avendo scorto da lungi alcune capanne, andò a chiedere fuoco, mentre gli altri raccoglievano rami da accendere al ritorno di quello. Ma non venne lor fatto, le legna essendo troppo pregne di acqua. Allora, a ristorare alquanto le forze smarrite, intrisero un po’ di farina, e fattane una specie di pasta, se la spartirono: indi ciascuno si coricò sull’umido suolo. Un’ora appresso, spuntava l’alba: e tosto deliberarono di separarsi, per giungere più facilmente nell’Altiena, ove il Sig. de Jacobis erasi già recato. È una contrada indipendente, nella quale sta numerosa e povera tribù di pastori, divenuti cattolici: il fiore della cristianità abissiniana. Il paese è misero, tutto di aride rupi, o di pianure infeconde; ma i Missonarj vi gustano vere consolazioni. Quivi in fatti si compie appunto quella parola del nostro divino Maestro: Pauperibus evangelizare misit me (Dominus). Il Signore m’inviò ad evangelizzare i poveri. I fuggitivi potettero finalmente riposarvisi in pace.

Verso la fine di ottobre dell’anno 1848, il mio Vescovo ed il Padre Felicissimo approdarono di nuovo [p. 466] a Massova. Quest’isola, che fino allora era stata in perfetta quiete, fu ad un tratto colmata di terrore: e la cagione fu questa. Si tratta dell’egiziano Ismaʾil Haqqi. Su questi confusi eventi vedi → Miran p. 65 L’antico governatore era, a dispetto del diritto delle genti, disceso improvvisamente sul territorio abissinio, ed erasi impadronito della città d’Arkico, dopo averla manomessa. Vi piantò un fortino, vi lasciò un presido, presso il quale vennero a fondarsi nuove capanne, e nominò un capo, posciaché ebbe posto in ferri quello, che era tributario del re Ubié. Tenne da prima questo principe celato il suo risentimento, la stagione essendo troppo avanzata per discendere sulla costa ne’ dintorni di Massova, che tutto il mese di giugno, di luglio e di agosto non sono altro che sabbione ardente. Ma nel novembre del 1848, raccolti improvviso i suoi cavalieri, in numero di tremila, irruppe a guisa di fulmine sopra le rive del mar Rosso, incendiando tutto ciò che incontrava, tagliando a pezzi gli uomini, menando schiave le donne ed i fanciulli, e pigliandosi tutto il bestiame in cui s’abbatteva. Così fu incendiato il villaggio di Umkùllu / Monkullo Montecullo, e con esso la cappella della Missione. Il console francese, il quale aveva una casa sul continente, inalberò indarno la sua bandiera, che fu abbattuta, trascinata nel fango, ed ignominiosamente bruciata. Anzi non trovò egli stesso scampo che nella fuga, e nella devozione de’ suoi servitori.

/174/ Gli Abissinj giunsero dirimpetto Massova, facendo caracollare i loro focosi destrieri, mandando gridi selvaggi, e brandendo le loro lande e le loro sciabole contro della città; ma perché non avevano barche, né conoscevano i bassi fondi, non potettero arrivare all’isola, che frattanto stavasene piena di ambascia. Se la presenza dei nemici fosse durata ancora un poco sopra le coste, gl’isolani correvano pericolo di morire di [p. 467] sete e di fame, stanteché l’acqua ed il grano vi traggono dal continente. Un altro pericolo mostravasi nell’interno. Il secretano del divano, turco fanatico assai, macchinò di far massacro, per diritto di rappresaglia, di tutti i cristiani che trovavansi in Massova. Se non che il governatore Cally Bey, amico sincero de’ Bianchi, significò ai congiurati, che mettrebbe il fuoco alla città, ove torcessero pure un capello ad un europeo. Ciò non ostante fece, a maggior sicurezza, avvisare Mons. Massaja e gli altri forestieri, che buon consiglio sarebbe, si ritirassero alcuni dì a Dalac, isola non discosto da Massova.

Il Sig. de Jacobis aveva colà sua stanza da qualche tempo: e la Providenza aveva pur le sue viste in fare, che i due Missionari si abboccassero di nuovo. Era più di un anno trascorso, da che il Sig. de Jacobis ricevette le bolle del Sovrano Pontefice, che nominavalo vescovo; ma egli, la cui modestia ingrandivane il carico, sfuggiva una tal dignità. Mons. Massaja gliene fece rimostranze nuove; ma egli persistendo pur tuttavia sul niego, il Prelato gl’ingiunse, in virtù della santa obbedienza che doveva alla Chiesa, di ricevere la consecrazione episcopale. La cerimonia cominciò alle nove della sera, senz’altro spettatore che il frate Pasquale. Un’ora dopo la mezza notte, tutto era compito. Mons. de Jacobis, nominato Vescovo di Nilopolis, diveniva Vicario apostolico dell’Abissinia, e, eccezione forse unica in tal genere, dal rito latino passava al rito etiope. Mons. Massaja ha innoltre ordinato venticinque sacerdoti del paese. Dopo essersi dato l’abbracciamento fraterno, i due vescovi proscritti si separarono; [p. 468] l’uno prese il cammino del suo rifugio nelle montagne dell’Altiena; l’altro andò a chiedere qualche giorno di riposo alle rupi di Dalac. Quest’isola è dal suo antico splendore scaduta assai. Secondo la tradizione, conteneva altra volta una fiorente cristianità col suo vescovo; tempo dopo, i Veneziani vi fabbricarono una fortezza, con che proteggervi la pescagione delle perle, la quale vi è pur sempre abbondante. Ha acque minerali o di oltre 50 gradi (Reamur) di calore; e, cosa maravigliosa, nella sorgente più calda, in sì alta temperatura, ci vivono pesciolini.

I cavalieri Abissinj, impotenti contro Massova, marciarono alla volta d’Arkico, deliberati di sbramare la loro vendetta su questa città; ma alquanti meschini pezzi d’artiglieria, che erano nella fortezza, bastarono a volgerli in fuga. Poco avvezzi al sibilo delle palle e della mitraglia, corsero via ai primi colpi di cannone. Indi a quattro dì, disparvero dalla costiera, lasciando dietro di se ruine e stragi.

In questa, si sparse voce, che Teclafa, superiore di più di mille monaci, in grande fama di santità, e in autorità uguale a quella dell’Abuna, aveva abbandonato il cattolicismo, cui da qualche tempo /175/ studiava, e s’era fuggito sotto lo stendardo dell’eresìa. Novella più funesta di questa non si poteva spargere; perciocché il gran capo dei monaci è personaggio che esercita somma influenza sul popolo abissiniano, da cui è avuto quasi esemplare di mortificazione e di pietà. Il suo abbandono stava dunque per trascinar seco di molte apostasie. Ma, per buona sorte, non era vero. Anzi Teclafa, seguito da alquanti suoi monaci, comparve inaspettatamente a Massova, per ismentire da se medesimo la calunnia, che l’Abuna Salama aveva sparso sopra di lui. Mai, diceva egli, non avere avuto pure [p. 469] il pensiero di abbandonare la religione cattolica. Sdegnato della perfidia del Vescovo scismatico, da un canto; e dall’altro convinto delle verità della Chiesa romana, si affrettò di mettersi in comunicazione col Vescovo Massaja, e di abbjurare nelle sue mani.

Dopo una tanto solenne professione di fede, partitosi, andò a proclamare nelle corti dei re dell’Abissinia, e nel forte della persecuzione, ch’egli era sacerdote cattolico. Dichiarazione così ardimentosa in bocca a un tale neofito, fece piegare la testa a’ nostri nemici, e ridestò il coraggio ai cristiani. Nessuno osò di toccare Teclafa: avrebbero temuto ribellamento de’ popoli. Tornato al suo monastero, tutti i suoi monaci si dichiararono essi pure cattolici. Ma qui non si rimase il suo zelo: nuovo S. Paolo, si consacrò alla conversione de’ suoi fratelli: e già tre cristianità sonosi, per opera sua, riunite alla Chiesa di Gesù Cristo.

Quanto a Monsignor Massaja, impaziente di raggiungere i suoi Missionari, tutti già pervenuti sulle frontiere delle prime tribù dei Galla, si determinò di rientrare nel!’Abissinia, malgrado l’editto di morte, che stavagli contro. Suo divisamento era di presentarsi da prima al re Ubié, che gli aveva avanti ordinato di levarsi da’ suoi Stati, e scoprire le disposizioni di questo principe, che dicono convinto della verità della nostra religione, ma rattenuto sotto le inse gne dell’eresìa non per altro che per ragioni politiche.

Ai 5 di giugno, l’anno 1849, uscì di Massova, e trasse alla volta dell’Abissinia. Tagliatasi la lunga barba, e indossatosi un logoro vestimento, entrò in una carovana, che tornava a Gondar, in forma di povero mercatantuzzo; e facevasi chiamare Antonio. Giunse ai 18 di detto mese al campo di Ubié, e gli fece chiedere udienza. Poco stante, colui che aveva fatta l’ [p. 470] imbasciata al principe, tornò dal Vescovo, e gli fece di molte e incalcianti interrogazioni, a cui egli non rispose mai, ristringendosi a dire soltanto, che desiderava parlare al re. Il quale, udito il racconto di quella misteriosa circospezione del forestiere, meditò così un poco, poi disse al confidente: «Cotest’uomo debb’essere l’Abuna Massaja, od un suo prete. Non ne far motto a persona, e domani, per tempissimo, menalo qui.»

L’indomani in fatti, poco dopo la levata del sole, Monsignore venne introdotto nella tenda del re. Ubié stava seduto sotto una specie di baldacchinaccio di tela bianca e rozza; ed alquante persone, vestite da corte, vale a dire nudo il busto, gli stavano intorno. L’umile mercante Antonio, salutato il re, che l’accolse garbatissimamente, e l’invitò a sedersi, fe’ presentare al principe una pezza di /176/ raso celeste, con entro un foglio, ove dichiarava, essere l’Abuna Massaia, di recente mandato in bando per ordine suo. «Ma, aggiungeva, mi è noto il tuo cuore: so che ami i cattolici, e che la sola politica ti mosse a trattarmi così. Rientrato sotto questo travestimento nell’Abissinia, io poteva traversare i tuoi stati senza che tu il risapessi; ma io aveva fiducia nella generosità tua, e volli vederti.» Vbié, commosso dalla schiettezza e dal coraggio del mio Vescovo, aveva gli occhi pieni di lacrime. Nulladimeno temendo che, in presenza di tutta la corte, lo scuoprire la sua tenerezza nuocesse a Monsignore, il licenziò, dicendogli, che il rivedrebbe. E nel medesimo tempo comandò, che fosse condotto in una delle capanne più belle nel campo, ove gli spedi il presente che è uso di fare ai gran personaggi: una vacca, birra e idromele.

Malgrado questo onorevole accoglimento del prin- [p. 471] cipe, Mons. Massaja bramava assai di continuar presto il suo viaggio, per tema, non le spie dell’Abuna scoprissero la sua venuta, e gli tendessero nuovi aguati. Il confidente essendo venuto a vederlo, per domandargli, se avesse bisogno di nulla, «Di’ al tuo signore, rispose, ch’io voglio partire stasera o dimani.» Il re, a tale annunzio, il fece tosto chiamare, e lo ricevette da solo a solo. Libero allora il principe di aprirgli il suo cuore, manifestò al Vescovo la gioja, che aveva avuto di rivederlo; e gli disse: «Tu hai operato saviamente, e come mi pensava che tu faresti. Ora che nessuno si pensa che tu sii qua, rimanti nel mio campo: alcun pericolo non ti stimola di partire. — Debbo anzi, ad utile tuo e mio, allontanarmi di qui quanto più presto per me si potrà; perciocché se l’Abuna intendesse novella del mio ritorno, noi cadremo in compromesso ambedue. Innoltre, sta nel tuo campo un europeo, che mi conosce (era il segretario del console inglese); s’egli ha odore del mio arrivo, tutto sarà scoperto. — Or bene; e io il farò partire immediate. — No; se tu il manderai via, si crederà tosto ch’io ne fui cagione. Savio partito soltanto sarà il mio sollecito partire.» Vbié, stette brevi istanti sopra se stesso, poi aggiunse: «Tu di’ il vero; parti. Ma rammentati, ch’io sono l’amico tuo.»

Dopo altre ambasciate, la sera di quel medesimo dì, Mons. Massaja lasciò il campo d’Ubié, seguito da una persona della casa del re, che aveva ordine di fargli rendere dappertutto i medesimi onori che ai grandi impiegati del regno. A’ sei di luglio, giunse sulle rive del fiume Tacazzé, sul quale si veggono ancora le ruine di un ponte fatto dai Portoghesi. L’arco di mezzo n’è interamente distrutto; e però è d’uopo traversare il fiume in batello. Quinci il Vescovo si recò a Gondar, [p. 472] ove nuove persecuzioni aspettavanlo. Il giorno dopo il suo arrivo, fu chiamato davanti il tribunale della città imperiale; e vi trovò, per giudici, un dodici vecchi di aspetto ipocrito, pronti a condannarlo, anche prima di averlo ascoltato. «Perché mi faceste chiamare, domandò egli, e che avete da dirmi? — Tu sei entrato, gli fu risposto, di notte tempo nella città, con animo di sottrarti al pagamento del dazio; e quando vennero a reclamarlo da te, e tu ci minacciasti colle tue armi.» Due accuse evidentemente /177/ falsissime: quindi fu agevole a Monsignore di provare, ch’egli era pure entrato di giorno, e che né esso, né quelli che erano seco portavano armi di sorte alcuna. Ma con tutto questo egli fu costretto di pagare 100 talleri, sotto pena d’essere legato e gittato in prigione.

La città di Gondar, che tanto splende nella storia dell’impero abissinio, non è oggi che l’ombra dell’antica capitale del gran Janni. È situata in bella pianura alle radici di verdeggianti colline, tutte coperte di ricca vegetazione. Dalle ruine, che si veggono prima di entrare nel suo attuale circuito, pare, che la sua lunghezza sia stata di più leghe. Di tutti i suoi monumenti nulla rimane, fuorché il castello imperiale, fabbricato dai Portoghesi circa l’anno 1680, quando vennero in soccorso dell’imperatore, minacciato da un generale musulmano. Le camere interne sono sconcie la maggior parte, e danno ricovero il meglio che possono alla scaduta grandezza del sovrano, che vi risede. Tutta l’autorità sua si limita al diritto di vita e di morte sugli abitanti della sola città di Gondar. Quantunque i re, che l’hanno soppiantato, siano tenuti, in sua presenza, di starsi nella postura umiliante di sudditi e di schiavi (così porta l’uso abissinio); ciò non pertanto, allorché questo fantasma d’imperatore gli [p. 473] aombra, non si fanno scrupolo di deporlo, e di nominarne un altro in sua vece. Perché questi vassalli ribelli mantengono in piedi quella fastosa dignità, a cui tolsero ogni possanza? Perché quella memoria è cara alla nazione, e nutre il suo orgoglio e la sua speranza: poi i principi emuli si lusingano ciascuno di potere im giorno ricostituire l’impero per se. E questo è il sogno più vagheggiato di Ubié; e se avesse effetto, sarebbe il maggior bene che potesse toccare all’Abissinia. Fra le altre particolarità, che nel palazzo imperiale si scorgono, è l’antica sala, ove l’imperatore e l’Abuna venivano a trattare delle loro differenze. Siccome ciascuno di essi voleva avere il diritto di precedenza, sempre avevano luogo altercazioni, per sapere, chi si leverebbe, allorché uno dei due potentati giungeva ultimo. A togliere questa quistione di cerimoniale, s’immaginò di costruire due, dirò cappelle laterali, ove ciascuno di essi aveva il suo trono. Erano chiuse con gran cortina davanti. L’imperatore entrava nella sua, per un cammino coperto, la cui porta era al norte; ed un medesimo corridoio, colla porta al levante, conduceva in quella dell’Abuna. Così essi non potevano vedersi, né incontrarsi per via: e quando ambedue erano seduti, si tirava la cortina: il che esimevali di salutarsi.

Mons. Massaja, temendo nuove angherie, si decise di allontanarsi tosto da Gondar; e s’incamminò il giorno appresso al campo del Ras Ali, con intendimento di guadagnar questo principe alla causa de’ cattolici. Il Nilo, ch’egli doveva passare, era allora traboccato: l’antico ponte dei Portoghesi, coperto dall’acque; ed ogni passo divenuto insuperabile con quelle barche di giunco, che l’impetuosità della corrente avrebbe spezzate. Ed ecco in tal caso il mezzo adoperato dagli [p. 474] Abissini. Tendono, da una ripa all’altra, un canapo in cert’altezza al di sopra de’ flutti: indi mettono una corda, a modo di sedile, sotto le gambe di colui che vuole andare dall’altra sponda, e lo fanno scorrere su quel ponte sospeso. Cotale tragitto è /178/ pericoloso assai, per causa de’ cocodrilli, di che il fiume è pieno; e ti conviene cacciarli a colpi di pietra, per tema, non si avventino all’umana preda, che veggono passarsi da presso. Colà perì, alcuni anni sono, un viaggiatore francese, il Sig. Petit, tenente di nave: fu divorato dai caimani.

Salito fino alla sua sorgente il Nilo azzurro, e traversate, in compagnia d’una carovana di duemila persone, tribù in guerra, e selve coperte di tigri, che si tolsero due uomini sotto gli occhi di tutti, il Vescovo e due Missionari giunsero finalmente al campo del Ras, piantato sopra una collinetta, e prolungatesi fino alla pianura. Si sarebbe detto, nel vedere da lungi quello spazio coperto di tende, un prato coperto di cataste di fieno, congiunte, a mille a mille, le une insieme coll’altre. Eranvi in fatti colà trentamila uomini sotto le armi, senza contare gli schiavi, le femmine, i fanciulli. Ciascun capitano è attendato in mezzo alla sua squadra, le capanne de’ soldati facendogli cerchio d’intorno. Nel centro di tutti que’ groppi, si distinguono alcune tele bianche e nere: è il quartiere reale. Quinci all’entrata del campo, corre un cammino d’un’ora; e tutto quello spazio è coperto di battaglioni in sentinella. I Missionari, giunti che furono alla tenda reale, si fecero annunziare: ed il Ras diede subito ordine, che fossero introdotti. Li ricevette in una pessima capanna di paglia, ove stava allora co’ suoi uficiali, tutti seduti a terra sopra bei tappeti nel luogo più riguardevole. Il Ras, per lo contrario, [p. 475] stava presso la porta sopra un tappeto sdrucito, in veste di canavaccio, ed appoggiato ad un fascetto di fieno, che teneva le veci di guanciale. Tale era il palazzo del Ras Ali, potentissimo fra i principi dell’Abissinia, come quello che conta sotto di se un qualche centomila uomini in arme. Sebbene sia battezzato, ebbe educazione affatto turchesca: però impossibile fu a Mons. Massaja di favellar seco a proposito della religione cristiana, ch’egli risguarda con somma indifferenza. La conversazione durò più di un’ora: indi furono messe le tavole. Colà non si conoscono tondini, né cucchiai, né forchette: ciascuno intinge colle dita nel piatto comune; ma in casa de’ principi e de’ grandi, non ti dai pensiero di ciò: sono gli schiavi stessi, che colle loro mani, nitide o no, pigliano la pietanza dal piatto, e, fattene pallottoline, te le vengono delicatissimamente a mettere in bocca. Talvolta la regina e le dame di corte, fanno esse medesime quest’ufficio, quando hanno convitati che molto desiderano di onorare. Io vi so dire, o Signori, che ad assuefarsi a cotal uso, è necessario sentirsi forte appetito. Levate le tavole, il Sig. Bel, inglese stabilito nell’Abissinia, e capitano nell’esercito del Ras, fattosi incontro ai Missionari, loro profferse una tenda nel suo quartiere; e dimostrossi poi sempre, comeché protestante, il protettore e l’amico de’ miei confratelli.

Io non posso tacere una scena orribile, che ebbe luogo nel campo del Ras, mentre colà rimase il mio Vescovo. Un vecchio di sessant’anni, uccise sua nuora, che aveva una figliuoletta di otto in dieci anni. L’orfanella, vinta dalla disperazione e dal dolore, chiese giustizia. Quindi l’uccisore fu preso, e, in virtù della legge del taglione, condannato al medesimo genere di morte che aveva dato. Indarno furono /179/ offerti [p. 476] cento talleri, in prezzo del sangue, vale a dire per riscattare la vita. (Cento talleri nell’Abissinia sono un tesoro immenso: i più ricchi ne possedono appena venti). L’offerta fu rigettata dalla giovinetta, cui nulla potè smovere dal suo proponimento. «No, gridava costei, non voglio riscatto: a lui è forza morire, ed a me vendicare mia madre.» Il vecchio fu dunque condotto al luogo del supplizio. Aveva ammazzata la nuora a colpi di pietra: però doveva essere lapidato, e per mano del più prossimo parente della sua vittima. Ora, questo prossimo parente era l’orfanella medesima, che, piena di sete della vendetta, trovò nel suo furore le forze, che la natura non le forniva. Lapidò colle proprie mani l’avolo suo; e, mentre l’infelice ebbe un filo di vita, mai non cessò di scaricargli sopra de’ sassi. Cotali esempj, che pure non sono rari nel paese, dimostrano, quanta sia ancora la ferocia in questi popoli mezzo selvaggi.

Più di un mese era trascorso in conferenze inutili col Ras, e tutte le speranze, che i Missionari avevano fondate in esso, eransi svanite. Fu dunque necessario disporsi alla partenza. Il 30 gennajo, Mons. Massaja abbandonò il campo abissinio, e trasse verso il mar Rosso. Aveva già oltrepassate le alture maggiori, ed erasi fermato colla sua scorta sulle rive del fiume Mareb, quando videro avvolgersi all’orizzonte nubi nerissime: era il fumo di vasto incendio. Il fuoco, appiccatosi in una parte del deserto, gittava fiamme alte come montagne, ed avventavansi terribili come onde di mare; perché il vento le spingeva con tanto impeto e tanto fragore, quanto quello del fulmine. I nostri viaggiatori si posero tutti in fuga verso il letto del fiume: e fu sommo provvedimento il non indugiare; perché il fuoco già cominciava a comunicarsi alle erbe [p. 477] testé calpestate, giunti che furono appena sulle sponde del torrente, in cui si gittarono tutti: e pervennero all’altra riva. Le fiamme, non potendo superare l’ampia superficie di quelle acque, ribadirono le loro punte, e portarono altrove l’incendio. Il quale a poco a poco si dileguò, lasciando da pertutto dietro di se carboni e tizzoni fumanti.

Finalmente addi 7 marzo, i Missionari, dall’alto delle ultime giogaje che corrono con soave pendìo sino alla spiaggia, scorsero il mar Rosso: e il giorno appresso ebbi la lieta sorte di stringere fra le braccia il mio Vescovo e padre.

Ora vi farò motto de’ luoghi, che Monsignor Vicario apostolico ci assegnò. Al P. Cesare toccò il Tibbu-Mariam, fra quelle ottime tribù, le quali dicevano al mio Vescovo: «Abuna, rimanti con noi: saremo tuoi figli: beverai il latte delle nostre greggie, ed avrai ricovero sotto la nostra tenda. O padre, insegnaci di amare Iddio!» Il P. Giusto percorre il Gojam, verso le sorgenti del Nilo azzurro. Il P. Felicissimo è come prigione nel regno del Choa. Il Frate della Missione sta a Massova, pel nostro commerzio di lettere: ed io sono serbato a correre le costiere. Un quinto Padre risede in Aden, ove adempie, provvisoriamente l’ufficio di Viceprefetto apostolico. Tale, o Signori, è la pittura della nostra povera Missione. Dopo tre anni di patimenti e di persecuzioni, appena fu egli dato al mio Vescovo di /180/ porre il piede sul proprio vicariato, che gli convenne fuggirsi. Da ogni banda vediamo surgere impedimenti: e Dio soltanto vede il giorno, in cui le porte dell’Abissinia ci saranno aperte: giorno da noi tutti aspettato con somma impazienza. Ma oimè, che i nostri peccati sono forse la causa della maledizione che gravita su questo paese! [p. 478] sopra questa terra, che beve i sudori de’ Missionari, e nessun frutto di salute tramanda!

Speriamo, che i vostri devoti Associati, da cui già riconosciamo il pane quotidiano, vorranno altresì aggiungere, a pro delle nostre misere tribù, quelle preghiere umili e ferventissime, che placano la severa giustizia del cielo, ed ottengono, ai peccatori, la grazia di convertirsi, ed ai Missionari la forza di ogni cosa affrontare, per guadagnare anime a Dio.

Piacciavi di gradire ec.

F. Leone des Avanchers, Relig. Cap.,
Miss. Apost. delle tribù Galla.