Massaja
Lettere

Vol. 5

/286/

1125

A monsignore Paolo Scapaticci
direttore de « La palestra del Clero » – Roma

P. 48 Caro Monsignore

* Roma, 5 Gennaio 1885

Ella mi domanda qualche cosa da pubblicare nel primo fascicolo di quest’anno della Palestra del Clero; e ben vorrei contentarla, se le molte occupazioni, cui il Santo Padre mi ha voluto assoggettare con la nuova e per me immeritata dignità, mi lasciassero un po’ di tempo libero. Ella sa inoltre che la stampa delle memorie sulla mia Missione in Etiopia, già sotto i torchi, mi ha ormai legato col pubblico, ed un’opera così voluminosa richiede tempo e lavoro. Aggiunga l’età che si avvicina al tramonto, gli incomodi che alla vecchiaia tengono compagnia, la debolezza fisica ed intellettuale, e /287/ veda se non meriti scusa e compatimento la mia stessa buona volontà.

Tuttavia l’amicizia che mi lega alla Signoria Vostra, non mi permette di lasciar delusa l’aspettazione sua, e di tanti lettori, com’Ella mi dice, dell’ottima Palestr.

Son venuto leggendo in questi giorni un prezioso opuscolo del mio dotto confratello R.mo P. Giacinto da Belmonte – Lettere alla Contessa... intorno alla gente di campagna – ed oggi stesso trovo che a pag. 59, parlando del matrimonio, cita la seguente mia sentenza – In una conferenza familiare il vecchio ed eroico Missionario disse un giorno con voce grandemente animata: nell’interno dell’Africa io ho trovato orde, ora sono famiglie, e fra poco saranno nazioni. Non ricordo di aver dette queste parole: ma pure, fattavi una notevole riduzione sul risultato delle mie fatiche ottenuto, e sulle speranze dell’avvenire di quei popoli, dappoiché questi felici frutti non possono essere l’opera di un uomo e di un corso di vita, tuttavia esse contengono una grande verità.

Ho tenuto sempre che la società ha la sua base nella famiglia, [p. 49] e disordinata questa, necessariamente la società deve perire. Convinto pertanto di questa verità, giunto in Africa e veduto lo stato in cui si trovavano quei popoli, compresi tosto che nulla avrei ottenuto di bene, sia per la salute spirituale, sia pel benessere materiale e socievole di quei popoli, senza prima averli stretti nell’unione santa ed indissolubile della famiglia. E poiché il matrimonio del cristiano è il vincolo più forte, più onorato e più efficace di questa unione, posso assicurare, che a questo scopo spesi più della metà delle mie fatiche e sollecitudini apostoliche di trenta e più anni. Ho lavorato fra i Galla pagani; e fra le popolazioni cristiane eretiche dell’Abissinia; ebbene sembra incredibile, ma pure è vero, che trovai maggior guasto e disordine nella famiglia di questi ultimi, che in quella dei Galla pagani; e quindi maggiori ostacoli all’opera benefica, cui io aveva dato mano. Fra le razze Galla pagane il concetto della società domestica è ancora conservato, il santuario della famiglia rispettato, i vincoli indissolubili, e da questa unione nasce fra essi quella società castale, che è come il secondo elemento della società in grande di quei popoli. All’opposto nella razza cristiana Abissina si è quasi perduto il concetto di famiglia, l’unione domestica è in completo disordine, l’amore coniugale è passione brutale, quindi incostante e passeggiera, la prole appena giunge ad un’età, che non ha più bisogno della madre, lascia la casa e si dà al vagabondaggio, i vecchi impotenti si abbandonano; e quindi non famiglia, non casta, non società, non governo. Fra i Galla la parentela è sacra, ed i vincoli di essa bastano alla sicurezza ed alla difesa della vita individuale, della proprietà privata, e della morale pubblica; onde la donna è inviolabile, la moglie altrui rispettata, e la figlia giunge sempre intatta al matrimonio. Tutto il contrario accade nell’eretica Abissinia; ivi la corruzione ed il libertinaggio dominano e distruggono. Donde avveniva dunque fra popoli così vicini e sempre in continue relazioni, una sì grande differenza? Non esito a dirlo: dal rispetto o /288/ disprezzo in cui essi tenevano il vincolo coniugale. Quindi la causa unica e principale del benessere dei popoli Galla era l’indissolubilità del matrimonio, laddove il divorzio era la causa dello sfacelo dell’Abissinia. Là, celebrato un uomo il racco (matrimonio religioso) con una donna, si legava con un vincolo indissolubile, e che per nessun motivo era lecito rompere; e quindi la famiglia mantenevasi sempre in florido stato, prosperava, e stendeva come un vigoroso albero i suoi rami per dare abbondanti frutti. I figli poi unitisi in nuovi matrimoni, formavano nuove famiglie, che strette dai vincoli del sangue e da vicendevole amore costituivano le caste, le quali governate [p. 50] a modo patriarcale, presentavano una società, che nella sua stessa barbarie, poteva dirsi florida ed ordinata. Nell’Abissinia invece benché esistesse un’apparente monogamia, pure celebrandosi sempre il matrimonio puramente civile e con condizioni di divorzio a volontà d’entrambi i coniugi, ne seguiva che tanto l’uomo, quanto la donna a proprio capriccio e piacere si dividevano per contrarre nuove nozze; e ciò senza ombra di rossore e di riguardi, e senza che le leggi vi mettessero ostacolo.

Quindi tra quei popoli non poteva trovarsi amore di famiglia, e pace domestica; non educazione e cura dei figli; non vincoli di parentela e scambievole soccorso, insomma nulla di tutto ciò che serve a formare una società ordinata. E di fatto si vedono chiari i funesti effetti di questo deplorabile disordine nello spopolamento dell’Abissinia, regione ubertosa e sana di clima più che qualunque altra parte dell’Africa; nelle continue guerre con cui quei popoli si dilaniano come fossero di diversi paesi e di diverse razze; nei cambiamenti istantanei di governi, o meglio di capi, salendo oggi a dominare chi è riuscito ad essere più forte di quello di ieri; nell’abbandono in cui è lasciata l’agricoltura, e gli altri mestieri che danno le comodità della vita; ed in fine nella miseria ed abbrutimento in cui vivono, peggio dei popoli selvaggi della terra. Teodoro in poco tempo riuscì a formarsi un esercito formidabile per numero e per ardire. Che meraviglia! Ogni uomo, non essendo legato all’amore della moglie, dei figli, del tetto domestico e del proprio terreno, correva a lui per vivere senza fatica e di bottino: ma appena le scorrerie ed i saccheggi vennero a mancare, e la stella del vincitore cominciò ad impallidirsi, gli voltarono le spalle per cercare altrove di che oziosamente vivere. A fronte dello spopolamento, e della miseria dell’Abissinia, quanto non è eloquente a provare quello che io dico, l’agiatezza in cui vivono i Galla, e la sovrabbondante popolazione che riempie quelle vaste regioni? Si sa da tutti che ogni anno un gran numero di schiavi escono dai paesi Galla per attraversare il Nilo ed il Mar Rosso alla barba delle leggi e della vigilanza di chi vuole generosamente abolire la tratta: ebbene, non ostante questa continua e numerosa emigrazione, i paesi dei Galla sono popolatissimi. E ciò non ad altro deve attribuirsi che alla indissolubilità ed al rispetto del matrimonio.

Io adunque, come diceva, presi le mosse nel mio ministero da questo punto cardinale per la prosperità della famiglia e della società /289/ cioè dal matrimonio, rendendolo veramente cristiano. Tra i Galla poche difficoltà incontrai a vincere, primieramente perché avendo trovato famiglia e società stabilite e governate [p. 51] con leggi patriarcali, ben presto il mio apostolato guadagnò terreno nella conquista dei cuori e delle menti. Ritenendosi inoltre colà indissolubile il vincolo coniugale, mi fu facile persuadere e stabilire il matrimonio cristiano. Un solo ostacolo mi si parava dinanzi, cioè la poligamia da loro seguita: ma essendo essa praticata solamente dai ricchi, si limitava in poche persone; laddove la maggior parte del popolo era monogamo. Nell’Abissinia invece, deturpata dalla legge del divorzio, poco o nulla potei ottenere. Essa ascoltava volentieri la parola di Dio, e riceveva con amore di preferenza la dottrina cattolica; ma giunta al punto del matrimonio, ti scappava di mano per ritornare alle sue laidezze. Un lungo e paziente apostolato forse potrebbe ottenere qualche buon effetto: ma come sperarlo in un popolo senza famiglia, senza leggi, senza vincoli di società, e sempre in preda alla guerra civile?

Io ho lavorato trentacinque anni, e quando sperava finire la mia vita con la consolazione di lasciare un campo di ridente ed ubertosa messe nelle regioni del Sud, fui colpito da un vile e perfido esilio, inflittomi non dalla razza Galla, ma dall’Etiopia eretica del Nord, dalla gente che, per causa del divorzio, non conoscendo vincoli di famiglia, non conosce vincoli di società, di onore e di gratitudine. E quello che è accaduto a me, già naturalizzato africano, accadde altre volte ed accadrà ancora a chiunque, sia governo, sia privato, credette o crederà fidarsi di quella barbara gente. E ne è prova la stessa astuta Gran Brettagna con la infelice spedizione del Capitano Harris, la Francia di Luigi Filippo con quella di Rochet d’Hericourt, e per tacere tanti altri, la nostra Italia con le sue molte e disgraziate vittime. Quanti trattati di amicizia, di alleanza e di commercio non conosco io dai nostri governi conchiusi con quei popoli, e stracciati nello stesso giorno! quanti generosi massacrati! E ciò a mio avviso dipende sempre da una causa. Dove non esiste matrimonio cristiano, non può esservi famiglia; quindi non educazione, non fedeltà, non giustizia: ma egoismo, disordine, barbarie, ed il paese più bello diventa una foresta di ladri.

E chi l’avrebbe mai pensato che dopo una lotta di trentacinque anni con questo mostro distruttore della famiglia e della società, ritornando nella civile Europa, doveva trovare molti figli della mia cara patria arrabattarsi per regalarlo alla bella Italia? E che? Si sono forse stancati della vita civile? Ambiscono le brutali voluttà dei popoli barbari? Ne vorrebbero fare del giardino dell’Europa una deserta e spopolata Abissinia? Ed è questo dunque l’amor di patria di cui menano sì gran vanto? È questa la civiltà, che con cento voci gridano di aver [p. 52] ridonato alle nostre pacifiche e buone popolazioni? Lasciate, caro Monsignore, che io conchiuda, e mi tolga dal pensare a questo triste argomento. Ormai son vecchio, e le forze fisiche già venute meno, mi tengono relegato sopra una sedia, che altrimenti con tutto il decreto di esilio fuggirei quest’atmosfera di /290/ stupida incredulità, per cercare ancora tra i barbari pagani, se non altro, la buona fede ed il buon senso.

† Guglielmo Cardinal Massaia