/99/

12.
Arrestato
e costretto a retrocedere.

In due giorni di viaggio per paesi tutti bellissimi e fertilissimi siamo finalmente arrivati alla frontiera, e siamo entrati in una specie di fortezza naturale custodita da una piccola stazione di soldati; là ci fecero venire dai paesani più vicini tutto il necessario per mangiare, e vi passammo la notte molto bene. siamo entrati nei co[n]fini del regno di Scioha. L’indomani in un quarto d’ora dovevamo passare il fiume che segnava il confine, ma prima di partite abbiamo fatto un poco di collazione, [p. 166] quale finita siamo discesi [dal]la fortezza, ed in pochi minuti abbiamo passato il fiume che ci metteva sui confini di Scioha; era però terreno tutto deserto, e dovevamo fate una gran salita per trovate delle case. colla forza i soldati di Berù Lubò ci fanno ritornare. Erano appena cinque minuti dacché stavamo montando, al di là del fiume ancor lontani cinque o sei persone gridavano[:] aspettate, e correvano verso di noi: pensando che fossero ladri per [de]rubarci, invece di aspettare noi affrettavamo il passo; intanto di là del fiume si è dato il grido e si radunava gente, cosa è cosa non è, era un mistero: avevamo bel correre ma ci raggiunsero; i pochi nostri giovani vollero battersi, ma a misura che si faceva resistenza si moltiplicava la gente, e non potevamo più [farcela]. Ho domandato cosa era, mi risposero che non sapevano, ma che era venuto l’ordine da Berù Lubò di arrestarci. Mi sono seduto un momento, ed ho cercato di ragionare, adducendo che si violava il diritto del Re di Scioha, essendo noi già nel suo paese, tutto fu inutile, ed incomminciavano a legare i nostri giovani, fù dunque forza cedere e ritornare ben guardati da due guardie ciascuno.

Per nostra tranquillità almeno si fosse saputo qualche cosa, ma niente affatto, una staffetta venuta nella notte da Berù Lubò ordinava di arrestarci e farci ritornare, ecco tutto quello che sapevano essi medesimi. Non vi fu rimedio bisognò ritornare: altro è camminare di propria volontà, altro poi camminare come prigioniere ben guardato, perché allora siate stanco, o [p. 167] siate anche ammallato non c’è a dire[:] biso- /100/ gna andare; gli stessi domestici nostri non erano più liberi, e non erano più al nostro comando. Ci portarono al custode della fortezza, il quale ci ricevette ben diversamente dal giorno precedente, perché l’abissino quanto è vile quando è dominato, altrettanto è orgoglioso quando gli riesce di dominare, fosse ben anche per un’ora solamente. Si fece consiglio coi capi dei villagi radunati, e poi ci consegnò ad alcuni con ordine dì farci passare da un villaggio all’altro sotto la risponsabilità dei rispettivi capi, ordinando ai medesimi di darci il necessario per vivere.

prigionieri, spogliati di tutto, custoditi come malfattori, obligati a camminare Così dell’istesso giorno siamo partiti per un villagio lontano due ore circa, sempre gelosamente guardati, anche quando occorrevano certi bisogni, per i quali non occorrono testimonii. Gli stessi nostri bagagli furono consegnati ai nostri custodi e non furono più nelle nostre mani. Non si poté aprire neanche un piccolo involto per prendere il breviario, dal quale eravamo dispensati dalla forza brutale. Lascio pensare quanti pensieri, quanti discorsi [tenevo] col P. Stella, ma più pensavamo, più parlavamo, ancor più poco ne sapevamo, e non facevamo altro che moltiplicare le cabale; la corona del fiat voluntas tua meglio recitare il rosario degli afflitti che io era solito recitare in simili casi, cioè un Pater con 50. fiat voluntas tua; era questa la più bella medicina per noi. Abbiamo impiegato quattro giorni per arrivare ad ainamba, e furono quattro giorni di vero purgatorio, perché le guardie [non] ci lasciavano mai ne giorno ne notte; di giorno sempre [p. 168] accanto nei momenti di bisogno il più secreto, e di notte dormivano con noi; erano per lo più giovinastri impertinenti ed immorali quasi sempre mussulmani; i dieci leopardi di s. Ignazio. quante volte pensai ai dieci leopardi di S. Ignazio...! [con] il sole o la pioggia in viaggio, le polci o cimici di notte, lascio considerare che delizia; almeno avessi avuto la lingua sufficiente per ragionargli un poco, ma venuto di recente dalla costa, non poteva far altro che barbottare qualche parola senza potere ne ragionare ne istruire; il P. Stella era un poco più fortunato, perché egli conosceva un poco meglio la lingua, ma non ci lasciavano vicini, per impedire la combricola; quando le guardie o dicevano o facevano certe cose che non doveva sopportare, non potendo parlare, non vi era altro rimedio che fare un’atto di collera, ma questo invece gli irritava di più, e se ne ridevano.

nostro arrivo ad Ainamba:
ordine di Ras Aly, e non si sa altro
Dopo quattro giorni di vero purgatorio siamo arrivati finalmente ad ainamba, alla casa di Berù Lubò, dove speravamo di avere qualche schiarimento, ma poco fù quello che si ottenne; non si seppe altro se non che l’ordine venne da Ras Aly a Tokò Brillè, e questi temendo che noi fossimo per entrare nello Scioha, senza tanto spiegarsi neppure egli fece subito partire un corriere a cavallo per avvertire Berù Lubò di farci ri- /101/ tornare, ecco tutto quello che si seppe. Dimodoché la nostra situazione cangiò di poco. Ci ha conceduto due giorni di riposo, e poi sempre custoditi poco presso come prima, da un paese all’altro ci mandò ad Aly Babola in Orrò‑Hajmanò, altri quattro giorni di viaggio, sempre custoditi come prima, benché nel vitto [fossimo] meglio trattati, ma sempre custoditi da mussulmani per lo più poveri e malvestiti, epperciò pieni di pedocchj; in ainamba abbiamo ottenuto di cangiare la camicia per impedire che i pedochj non [p. 169] si moltiplicassero troppo, ma tutto inutile, perché eravamo già nel mese di Ottobre e sopra quelle altezze di notte faceva freddo; i poveri non abbastanza vestiti usano di notte di aggrupparsi fra loro e poi mettere le due o tre tele una sopra l’altra per stare un poco più [al] caldo. Io la sera seduto faceva un poco di orazione e poi corricandomi guardava d’invilupparmi nella mia tela tanto lontano che poteva da loro, ma appena io incomminciava [ad] addormentarmi, essi furbi poco per volta me la strappavano di sotto e se la mettevano addosso, e svegliandomi me li trovava sempre vicino: per un’europeo un poco grave questo è un gran tormento il non essere libero, ma schiavo di quei mascalzoni; io allora faceva il noviziato, perché senza lingua; dopo poi essendomi trovato in simili circostanze sapeva prendere le mie precauzioni.

arrivo ad Aly‑Babola:
nostra situazione un poco mutata.
Arrivati da Aly‑Babola il nostro purgatorio si mitigò un poco; da quanto pareva non era stato che una male intelligenza, o che le persone incaricate non hanno fatto bene la loro commissione: Alì babola non aveva ricevuto nessun ordine o istruzione da Ras‑Aly ne pro ne contro, ma una persona venuta dal Ras, la quale aveva sentito qualche cosa glie lo raccontò; epperciò ci ricevette molto bene, a fronte che la sua casa fosse casa di un fanatico mussulmano, forze più ancora di Beru‑Lubò. Fatto sta ed è che ci diede tutti i segnali di onore di uso nel paese: ci diede una casa con dei letti da dormire, e là cena con tutti i riguardi che potevamo aspettarci. Le guardie però sempre continuarono [a sorvergliarci], non più però con tutta quella padronanza, come facevano gli altri. Ci siamo riposati presso di lui tre giorni, ed i nostri servi hanno avuto tempo e libertà sufficiente per lavarci le vesti e purgarle dai pedocchj. [p. 170] L’ordine del Ras era di mandarci per la via di Betliem al campo di Degiace Bellò altro zio del Ras, che comandava un’altra Provincia; tale pareva l’ordine.

Workitu sorella e moglie di Aly‑Babola Prima però di lasciare Aly Babola debbo far conoscere due cose. La moglie sua chiamata Workitu dalla parte del Padre era sorella del suo marito, come Figlia di Babola, cosa molto straordinaria, e che non si trova neanche fra i pagani i più barbari, presso i quali queste leggi di /102/ parentela, massime [di] consanguinità sono molto rispettate dovunque; questa Workitu aveva avuto un figlio da Aly Babola [un figlio], il quale in quel momento contava 13. anni di età, ed era considerato come il suo erede. Questo figlio chiama[to] Amedì passava la giornata col P. Stella, il quale gli diede una camiciola di regalo. La madre sua poi ci mandava mattina e sera i piatti più squisiti che si possano desiderare in paese; ma anche in quella casa si trovavano molti Preti abissini apostati, i quali erano nemici nostri e vedevano malissimo le nostre corrispondenze colla principessa e col figlio. (1a)

Dopo tre giorni siamo partiti da Aly Babola in molti migliori condizioni. Come nella casa di Aly Babola avevamo un letto per ciascheduno di noi, così fù ordinato che ci fosse dato per la strada in tutti i luoghi di dimora, cosa che ci emancipò dalle guardie, dalle pulci, e dai pedocchj; quindi al nostro arrivo in qualunque luogo era ordinato il ricevimento di uso alle persone onorate. arrivo a Daunt paese cristiano Della stessa giornata siamo arrivati a Daund paese cristiano, ma dominato da Aly Babola, il quale faceva molti proseliti mussulmani; là molte chiese erano senza preti, perché molti di essi si erano fatti mussulmani con tutta la loro famiglia, motivo per cui molti vecchi del paese si lagnavano del governo dei mussulmani.

passaggio a Bietliem.
chiesa fatta dai portoghesi
[p. 171] Siamo rimasti un giorno in Daund, perché un’impiegato che ci accompagnò volle tenerci un giorno con lui; dopo un giorno di riposo siamo partiti per Betliem, dove, se non erro, siamo arrivati in tre giorni, [per] tutte strade montuose. A Betliem avvi una bella chiesa, opera dei Portughesi ancora ben conservata. Betliem è una città di immunità e di rifugio, la quale appartiene all’Eccieche ossia capo dei monaci con tutto il suo circondano. arrivo a Degiace Belloh:
ordini di Ras Aly conosciuti
Qui abbiamo passata la notte, e l’indomani mattina partiti prima delle dieci siamo arrivati al campo di Degiace Belloh. Questo Principe, anche zio del Ras Aly portava il matev, ossia il cordone bleu distintivo dei Cristiani, ma nel tempo stesso stava facendo le preghiere coi mussulmani; il suo campo è quasi tutto mussulmano. Abbiamo passato il giorno con Degiace Belloh, il quale ci trattò molto bene e l’indomani siamo andati vicino al campo di Degiace Bescïr, di cui già abbiamo parlato. Il Ras aveva scritto a Degiace Bescïr di tenerci presso di se sino a tanto che si avvicinasse la partenza di Ghebrù Wandie, il quale aveva le istruzìoni di condurci in Gogiam. Qui terminò la nostra schiavitù [e] perfettamente liberi ce ne restammo. Ghebrù Wan- /103/ diè avendo inteso che noi eravamo arrivati ordinò ai suoi soldati di radunarsi, e dopo qualche giorno ci mandò a prendere, e così siamo partiti alla volta del suo campo lontano [p. 172] [lontano] circa due giornate dal campo di Degiace Bescïr.

nostro arrivo a Degiace Bescir.
ritorno a Guradit
Arrivati là ci ricevette con tutti gli onori. Siamo tornati a passare alcuni giorni a Guradit, dove abbiamo potuto celebrare la S. Messa alcune volte, e battezzare il ragazzo Morka nostro Galla, preso a Tedba Mariam con Berù, e questi ne fu suo padrino. Quindi avendo domandato se dovevamo fare provviste di viaggio ci rispose di no, e che egli si sarebbe incaricato di provvederci sino al campo del Ras. Difatti ci mandò subito un bel castrato di soprapiù, e poi all’ora di cena ci mandò tutto il necessario sia per mangiare sia per bere. Poi ci assegno una tenda per dormire in viaggio, ed assegnò anche degli asini per trasportare il nostro bagaglio. Restammo ancora un giorno fermi, perché tutti i soldati non erano ancora radunati. arrivo a Ghebru Wandiè, considerato come un santo. Subito che il campo fu compito, la mattina si batté la generala di partenza. Secondo il mio calcolo il campo di Gabrù Wandie contava circa 600. persone, dei quali circa 300. erano combattenti, gli altri erano donne per la più parte e poi ragazzi e servi. Il Ras ordinò questa piccola armata per accompagnarci, perché sulla strada del Gogiam vi erano dei rivoltosi.

Al sentire l’opinione publica Gabru Wandiè passava per una persona molto religiosa, e difatti a canto di lui il suo confessore era sempre là, uomo con gran turbante bianco, ben vestito, grave ed imponente, e molto considerato come uomo di gran potere presso il Padrone. Il Padre Giusto ci raggiunse, e camminava con [noi], e tutti [e] tre eravamo vestiti di bianco con turbante all’uso del paese. fermata e seguente formazione del campo;
ordine di procedere in essa.
Appena si arrivava al luogo di fermata si dava il segno e tutti si radunavano. La prima operazione era quella [p. 173] di stendere una pelle in terra per sedersi nel luogo scielto dal capo della spedizione, egli subito si sedeva, ed il piccolo ragazzino incaricato di portare il salterio de[l] signore glie lo metteva avanti, i nostri ragazzi facevano poco presso lo stesso in poca distanza di lui.

Mentre il signore stava rivoltando i fogli del suo salterio, la prima cosa che si faceva era di piantare le tre tende una per il signore Gabrù, l’altra per noi, ed una terza per le donne, la quale serviva anche per la cucina. Fatta questa operazione, la seconda era quella di amazzare un bue, quando non era giorno di digiuno, alla quale operazione si prestavano anche alcuni dei nostri giovani; è una cosa ammirabile vedere la destrezza con cui era preso il bue, scannato sul momento, levata la /104/ pelle, e messo in pezzi. Il signore mentre recitava il suo salterio con una grande gravità ed impostura, girava l’occhio, vedeva tutto, ed ordinava chiamando, ora l’uno, ora l’altro, quello che non diceva lui lo diceva il suo Padre confessore seduto accanto dalla parte opposta di noi. Mentre si staccavano i pezzi di carne un domestico ne diceva il nome, ed il signore faceva un segno o diceva cosa dovevano farne; di quando in quando egli [p. 174] vedendo il pezzo di carne ordinava che si portasse alla nostra tenda, oppure ne ordinava qualche pezzo a qualche signore di lui favorito; il resto era portato alla tenda delle donne.

Terminata questa operazione della carne, si distribuivano [gli uffici a]i g[i]ovani, chi a cercare legna per la cucina, chi a tagliare erba per le bestie, e chi ad aggiustare il letto per la notte, oppure per portare aqua in corni, oppure zucche, istromenti che [non] mancano mai, portati in viaggio o dalle schiave, o dai ragazzi. nuova città fatta nello spazio di un’ora Vedere poi la prontezza con cui il soldato abissino in questi viaggi di spedizione militare, in tutte le rispettive fermate della sera taglia legni, porta erba, e ciascheduno si costruisce una piccola capanna per una sola notte è una cosa sorprendente; in meno di due ore sorge una piccola città, la quale poi resta nella partenza, al più la mattina prima di partire [il soldato] prende l’erba che ha servito per coprire la capanna, oppure il letto per dormirvi, e la da alle bestie di carico. Di modo che sulle strade si trovano soventi di questi accampamenti.

Descrivo minutamente queste cose per dare un’idea al lettore una volta per sempre del campo abissinese. Il più terribile poi si è vedere il soldato senza nessuna riserva guastare legnami, sciuppare seminati, rubare grani, massime nei paesi che non sono nemici. Il soldato abissinese è una vera locuste fatta per distruggere. In paesi nemici poi il soldato [p. 175] abissino non perdona più ne a uomini, ne a donne, ne a case, ne a chiese, ne a grani, tutto distrugge. Il soldato di Choa, come è abitualmente coltivatore di campagna in paesi amici ha più riguardo e commiserazione, ma il soldato del nord abissino non è coltivatore ma ozioso, abituato a vivere sempre di rapina, è più ladro e più crudele; e senza compassione distrugge, motivo per cui il nord dell’Abissinia è un paese spopolato; il paesano non potendo più resistere, o cerca di fare anche egli il soldato per vivere a spese altrui, oppure emigra; nel nord qualunque capo è sempre circondato dai suoi soldati come servi, e sono sempre a spese del publico: mentre nello Scioha qualunque capo in tempo di pace non ha con se che pochi servi, ed in tempo di guerra quelli che hanno terreni col tributo della milizia, si mantengono da se coltivando i terreni, e partono solamente quando sono chiamati e sono obligati a /105/ partire con proviste proprie, e non possono rubare, se non in paesi nemici, quando il principe permette le rappresaglie o in tutto o in parse, motivo per cui le proprietà sono più rispettate.

Ciò detto una volta per sempre, ritorno alla storia del viaggio. nostro arrivo a Quarata La sera del terzo giorno dalla partenza dal campo di Gabru Wandiè abbiamo [ac]campato vicino alla città di Quarata situata sul bordo Est del lago di Tsana. Quarata è la città, dove Antoine d’Abbadie aveva scritto la famosa lettera alla S. C. di Propaganda, la quale diede movimento alla fundazione della Missione Galla.

strano raccoglimento nella recita del Salterio...! [p. 176] Quì arrivò un piccolo fatto che credo bene riferirlo, perché fa conoscere il termometro della vera pietà di certi gran personagi chiamati santi nel paese. Mentre il signore con tutta gravità stava recitando il salterio tutto vicino a noi, sospeso un momento il suo salterio chiamò un suo servo, il quale venuto senza nessun riguardo gli disse: in Quarata ci deve essere la tale, donna molto bella, va e l’inviterai a venire stassera con me; ciò detto proseguì con molto fervore i recitare il suo salterio; uno dei miei compagni che aveva sentito mi disse all’orecchio[:] ha sentito? risposi di sì aggiungendo queste parole[:] sarà arrivato al Gloria Patri, e così con un fatto di riso si terminò...! Si noti poi che questo signore cammina con una quantità di donne tutte giovani a sua disposizione... Si noti poi ancora che tutto il sopra esposto si passò sotto gli occhj del confessore. Probabilmente lo stesso confessore cammina[va] per la stessa via... Così vanno le cose in Abissinia, dove tutta la perfezione consiste nella recita del salterio e nel digiuno.

bel panorama di Quarata. Ritornando alla storia, bisogna confessare che Quarata è il più bel panoramma di tutta l’Abissinia, dove vi farebbe bellissima figura un Napoli, un Marsilia, e lo stesso Parigi: all’ovest il lago che si direbbe un mare, il quale termina coll’orizzonte per la sua grande lunghezza; al Sud all’Est, ed al Nord bellezze e ricchezze naturali del lago e del litorale un’anfiteatro di montagne abbastanza lontane da inchiudere [un] pianure leggerissimamente undeggiate di colline deliziose per la loro vegetazione, e per il loro clima moderato, quindi di una vaghezza sui generis che incanta; peccato non [p. 177] esservi colà una società più attiva e più industriosa, la quale con vaporetti unisse le diverse popolazioni dei littorali che non si conoscono fra loro, e che farebbero una sola città, la quale darebbe vita a tutto quell’immenso alto piano etiopico, di cui è naturalmente il centro; (1b) cosa manchereb- /106/ be colà? Senza industria si vedono i limoni, gli aranci selvatici, i persici, il caffè, la vite [,] nuvole di ucelli di ogni specie, pesca senza fine; non vi mancherebbe anche un piccolo arcipelago di isolette, quali arrichite di qualche monumento si potrebbero chiamare con maggior ragione Le isole belle della nostra Italia; il solo lago ben attivato sarebbe un bel principato da invidiarsi. Un santuario venerato che le leggi del paese hanno onorato coi privilegio d’immunità ha salvato dal comune naufragio delle guerre la piccola città di Quanta, la quale non conta mille abitanti; del resto tutto quel littorale sarebbe un’orrido deserto.

bella serata;
l’indomani partenza da Quarata.
La città di Quarata ha mandato una cena quasi sufficiente per tutto il campo in pane e carne; i soldati perciò passarono la sera di bonissimo umore cantando e suonando i loro pifferi ed il loro decacordo, cosa che sarebbe stata molto bella se tutta la sera poi non avessero girato per tutto il campo certe donnacie della città ad acalappiare quei poveri gonzi. (2a)

L’indomani abbiamo lasciato Quarata e tenendo la direzione sud ovest si costeggiò per qualche tempo il lago, e poi lasciatolo a mano diritta direttamente al sud [p. 178] viaggiando siamo arrivati a certa distanza dalla riva del Nilo, dove si è posto il campo.

calcolo dell’altezza del paese senza i dovuti strumenti per misurare. Mentre si lavorava a mettere in sesto il campo, come già altre volte si è notato, io col P. Giusto stando seduti sopra alcune pietre, abbiamo sollevata la questione dell’altezza dei luogo ove eravamo, sopra il nostro mediterraneo, io dissi così per dire una cosa che vi erano qualche milliaja di mettri, ed egli avendomi risposto che era una questione inutile ad agitarsi senza gli stromenti, io gli ho risposto che anche senza gli stromenti si poteva calcolare. Nel caso, egli disse, si potrebbe calcolare la distanza geografica; benissimo ho risposto io, ma nel caso che vi troviate senza il calcolo geografico fatto, oppure con una persona che /107/ non mangia di questa materia non vi sarebbe ancora altro calcolo più popolare? Io nol saprei Ella lo saprà me lo dica allora, per me è una cosa nuova. [Gli feci notare:] Ebbene meditate queste cinque proposizioni. [1] L’aqua corre al basso ed è una cosa evidente. 2. Ogni lega determinate la minor discesa o inclinazione del suolo che potete, per esempio un solo mettro. 3. Di qui ad Alessandria fissate all’aqua due mesi, in questo abbiamo la voce publica che ci assiste, perché la piena qui incommincia sul fine di Giugno, ed arriva in Cairo dopo la metà di Agosto, e noi l’abbiamo, veduta là: Posti questi principii per i due ultimi per arrivare a cinque createli voi, e saprete poco presso l’altezza sopra il mediterraneo, calcolando la discesa di qui all’aqua, e tutte le catarratte che si trovano lungo il Nilo. Il P. Giusto confessò che il calcolo era matematico, (1c) benché molto difficile a determinarlo. Certamente che calcolando dovevano sortire almeno due mille e due cento mettri di altezza sopra il mare nostro.

il ponte fatto dai portoghesi ancora quasi intiero. [p. 179] La mattina seguente essendo partiti arrivammo quasi subito sul bordo de[l] fiume che vedevamo correre, e sentivamo anche il rumore delle sue aque azurre, benché almeno un centinajo di mettri di puro precipizio quasi verticale ci restasse a discendere per arrivare al piano del suo letto ordinario; ove arrivati si presentò ai nostri occhj il ponte di sette archi fabricato dai portughesi ancora quasi intiero; un solo arco è stato rotto in tempo di guerra per impedire il passaggio dei nemici, mentre il suo compagno fatto sul medesimo [fiume] più al sud nel passaggio di Motta di cinque soli archi, l’arco di mezzo molto grande è [stato] rotto per intiero nella medesima circostanza, e per la stessa ragione. Questi poveri popoli incapaci di fare, di riparare il fatto non sanno far altro che distruggere opere imperiture e di grande utilità al paese. L’abissino ha preso dagli arabi tutto il carattere di conservatore stazionario della sua barbarie, nemico di tutto ciò che ha aspetto di /108/ nuovo; nella sua povertà di ogni genere è di un orgoglio indicibile; come sono, chi più chi meno, tutte le popolazioni d’oriente una volta dominate dall’islamismo.

sorgenti del Nilo circa 150. kilometri o 200. lontane Passato il ponte ci siamo riposati un’momento sulla riva opposta per aspettare alcune persone rimaste indietro. Noi eravamo colà probabilmente a 150. kilometri dalle sorgenti del Nilo azzurro, il quale nasce [d]agli Agau, (1d) ed entrato in un golfo del lago lo taglia e sorte, locché fa credere che il lago non sia altro che un deposito del Nilo per mancanza di sortita.

storia di un marito che ha ucciso la sua moglie incinta e con una figlia avuta da un altro marito. [p. 180] Mentre io stava la pensando alle sorgenti del Nilo azzurro mi portano un uomo legato con dure catene, e custodito gelosamente da due, i quali seguivano, e gridava[:] abêt (signor mio)[;] io sono un forestiero, dissi, cosa posso farvi? voi siete un grande, disse, voi siete amico di Ras Aly, voi potete parlare, ecco sono condotto per ammazzarmi. Sentendo questo ho domandato cosa aveva fatto quel povero disgraziato, eh, diceva uno, ha fatto niente meno che ammazzare la sua moglie; sentendo questo mi fece tremare; ecco la vera storia che ho potuto sapere esaminando bene quella gente: quel disgraziato trovandosi maritato con una moglie dalla quale aveva avuto figli, incomminciò a far amicizia con una donna di un’altro, la quale aveva [aveva] una figlia di dodeci anni; l’amicizia andò tanto avanti che questo uomo fece divorzio colla sua prima moglie per sposare questa sua amica, la quale lasciò anche il suo primo marito per unirsi con questo suo omicida, portando con se una figlia che aveva. Dopo questo infelice matrimonio si trovavano in casa di questo disgraziato [i] figli della prima moglie, e la figlia della seconda; in una casa simile non vi può essere la pace, come è naturale; un bel giorno vi fù questione trà i figli e la figlia, e la nuova moglie naturalmente ha preso le parti della sua figlia, ed animata nella disputa ha messa la sua testa sopra una pietra dicendo[:] tagliami la testa ma non cedo, questo povero uomo così provocato prese una pietra in mano e gli schiaccio la testa, epper- [p. 181] ciò quel povero disgra- /109/ ziato diventò nel tempo stesso homicida e parricida. leggi dell’Abissinia in simile caso. Ora secondò le leggi del paese l’omicida è condannato a morte, e rimesso per l’esecuzione nelle mani del più prossimo parente dell’ucciso, il quale sotto la protezione della forza publica ha diritto di far fare all’omicida condannato la stessa morte che egli aveva fatto fare alla sua vittima; legge al certo non cristiana, come tutti sappiamo, ma in vigore in Abissinia. Gli ammazzati erano due, madre e figlio, perché la donna uccisa era molto avvanzata nella sua gravidanza; fortunatamente per quel caso, ma diciamo pure sgraziatamente, l’Abissinia non calcola l’uomo prima della nascita, altrimenti il diritto del sangue ci sarebbe stato da due parti, ma l’avrebbe sempre vinto il diritto della figlia dell’uccisa, perché entrava nel diritto con doppio titolo, di figlia a sua madre, e di sorella al non nato, mentre gli altri non sarebbero entrati, che come fratelli del non nato, dalla parte del Padre. Si ritornerà a questa storia dolorosa e curiosa quando l’omicida sarà giudicato al campo di Ras Aly.


(1a) Questo Amedy figlio di Alibabola e di Workiru, 19. anni dopo, essendo prigioniere di Teodoro a Magdala nella guerra cogli Inglesi; [† 13.4.1868] Teodoro, perduta la battaglia, prima di suicidarsi, avendo fatto gettare nel precipizio quasi tutti i prigionieri, Amedy fu gettato e vi morì cogli altri. [Torna al testo ]

(1b) Come si vedrà a suo tempo, l’imperatore Teodoro nel 1866. aveva domandato all’Inghilterra un piccolo vapore, come condizione di pace. Questo vapore tutto in pezzi separati è arrivato a Massawah con una quantità di artisti per ricomporlo e metterlo in azione. La strada intercettata da /106/ Govasiè padrone del Tigrè impedì il trasporto all’interno. Si vede però che il calcolo di un vaporetto sopra il lago di Tsana non mancò allo stesso Teodoro. Anche nel supposto che il Vapore fosse arrivato, non sarebbe riuscito per altre difficoltà sociali. L’orgoglio indigeno non avrebbe favorito lo sviluppo dell’idea da me sopra descritta, perché tutto sarebbe stato rovinato, come le opere antiche dei portoghesi. Senza la presenza di un’influenza europea nell’interno, l’impresa sarebbe stata un vano tentativo. [Torna al testo ]

(1) In Abissinia l’eresia avendo ridotto il cristianesimo ad un’osservanza puramente esteriore senza il corrispondente sviluppo spirituale di tutta necessità per mantenere in vita la moralità cristiana. Ne viene per conseguenza che le armate abissine, e simili città mantenute dal cristianesimo, sono di una corruzione indicibile, con gran scapito anche dell’igiene publica, e dell’economia generativa. In simili luoghi sono indicibili le malattie che si vedono. In ciò il solo cattolicismo sarebbe arrivato a rimediarvi. [Torna al testo ]

(1c) Dicendo calcolo matematico non deve intendersi in rigore di misure astronomiche, bensì con tutta la latitudine dei calcoli popolari. Questo sistema di calcolare è facile a tutti, ed anche utili ai viaggiatori, i quali non sempre si possono supporre forniti di istromenti. Frà i barbari poi, anche i viaggiatori partiti muniti di tutto; o non hanno il commodo di portarli, o ne sono stati spogliati, oppure per prudenza non possono servirsene, per causa di certe superstizioni, per le quali qualunque operazione non compresa dagli indigeni è sospetta. Come ben soventi si misurano le distanze dal tempo che si mette in viaggio, così si deve praticare in molte altre osservazioni. Il viaggiatore sopra un piano vede spuntare il sole sopra una montagna più o meno vicina, può misurarne l’altezza sopra il piano dal corso del sole misurando il tempo che ci Lette per gettare il suo raggio [p. 179] nel luogo dove egli si trova; così di simili altri calcoli. Certamente che non sono in misura matematica, ma somministrano un calcolo approssimativo. Di questa natura deve dirsi il calcolo in discorso. Il missionario cattolico per lo più sproveduto del necessario, [si] esprime come egli può i suoi concetti. [Torna al testo ]

(1d) Gli Agau, dei quali è questione qui non sono gli Agau di Sokota. La razza è la stessa, ed anche la lingua è quasi la medesima. Tuttavia i due paesi Agau si trovano alle due estremità dell’Abissinia centrale. Gli Agau, dei quali è questione qui, sono quelli detti comunemente Agau-meder situati all’ovest del Gogiam e del Damot; mentre gli Agau di Sokota si trovano sui confini del Tigrè al nord est di Gondar. Questi di Sokota sono probabilmente lo stipite di tutti gli Agau; laddove quelli delle sorgenti del Nilo azurro sono solamente una colonia staccata da essi, motivo per cui si dicono Agau-meder, cioè terra degli Agau. Questa medesima razza Agau da secoli ha mandato ancora un’altra colonia più al nord, quella cioè dei Bogos, la lingua dei quali anche conviene colla lingua agau. I Bogos attualmente si trovano sotto l’Egitto, perche occupano l’estremità nord dell’alto piano etiopico. [Torna al testo ]