/114/

11.
Rimozione di Masciascà da Antotto.
Ordine imperiale di partenza e congedo.

falsa tregua della nostra missione Sciolta così l’accusa del Re Menilik, e di Antinori, facio ritorno al corso della mia storia precedente il mio esilio dal paese di Scioa, avvenuto poi in Giugno 1879. In detto anno non acaddero più altri fatti notabili. [fine mag. 1878] Il Re Menilik, dopo il famoso congresso religioso, nel quale fu publicata la legge famosa che obligava tutti, anche i musulmani, e pagani a professare l’eutichianismo, come già si disse avanti, si occupò del suo regno, mentre l’imperatore Giovanni si rivolse tutto alla famosa conversione [p. 62] dei galla musulmani di Wollo. Si battezzarono allora tutti i grandi musulmani delle razze principali incomminciando da Magdala sino al Nord del regno di Scioa. Per tutto quell’anno non si parlò più, ne della missione cattolica, lasciata in perfetta pace, ne della fede di Devra Libanos, e neanche degli stessi musulmani dei paesi bassi dell’Est di Ankober, lasciando in perfetta pace il gran capo musulmano, l’Abegaz con tutta la casta mercante di Tagiurra e Zeïla, residenti in Scioa, per non contristare il Re Menilik, il quale, dopo la questione del furto stato commesso contro la missione, si occupò pacificamente di alcuni cangiamenti di grandi impiegati dietro consiglio dell’imperatore Giovanni.

il principe Masciascià Masciascià cugino del Re Menilik, e suo erede del regno presuntivo, il quale governava quasi tutte le provincie galla del sud, dette di Roghiè e di Antotto, e che aveva piantato il suo campo centrale vicino a Finfinnì per la grande amicizia che egli aveva con Monsignor Taurino mio Coadjutore, persona tutta della missione cattolica, e quello che aveva accompagnato i due viaggiatori Cecchi e Chiarini sino al di là dell’Awasce, quando [7.7.1878] partirono per il sud. Questo principe alla testa dei galla di Antotto e dell’Awasce, vicino ad un gran centro di missione cattolica, e consorte [p. 63] di Ras Derghè suo zio, altro capo Galla protettore del gran partito Devra Libanos, certamente non poteva piacere, ne convenire coi calcoli dell’imperatore Giovanni, il quale lavorava alla distruzione del cattolicismo molto forte da quella parte. Il Re Menilik quindi, con- /115/ sigliato dall’imperatore, sua rimossione da Antotto
[27.9.1878]
decise di levare Masciascià dal governo di Antotto. A questi fu data la provincia di Effrata, dove dominava l’eutichianismo, e dove questo principe dalla parte del nord poteva essere sorvegliato dall’imperatore Giovanni, ed al sud-est dallo stesso Re Menilik. Il governo di Antotto fu dato invece a Ras Govana, il quale come di razza galla non era tanto sospetto di cattolicismo, benché fosse anche egli nostro patrono per la missione da lui stabilita in Haman, suo paese nativo nel luogo di Gilogov, della quale molto si è parlato a suo luogo. In ciò si sbagliò l’imperatore Giovanni, perché Govana era amicissimo di Ras Derghè suddetto, ed esercitava un gran prestigio sopra i Galla del sud (1a) per ogni caso di rivolta o resistenza alla politica eretica dell’imperatore.

Questi movimenti di impiegati, fatti dal Re Menilik dietro suggerimento di Giovanni, tendevano, come è chiaro, a preparare la strada al gran colpo del mio esilio, e dell’esilio dei miei compagni più attivi, e più influenti, come era in primo luogo Monsignore Coadjutore suddetto, ed il Padre Luigi Gonzaga, già stabilito a Gilogov da alcuni anni, [p. 64] dove esercitava con molto frutto il ministero apostolico. Era questo un sospetto che molti avevano, e noi medesimi conoscevamo abbastanza chiaro. buona o mala fede di Menilik La gran questione allora era solamente, se il Re Menilik fosse o non fosse d’accordo, o almeno consapevoli dei piani dell’imperatore Giovanni. Molti opinavano per l’affermativa, ma la maggior parte credeva il Re affatto ignaro del piano imperiale, e lo credeva in perfetta buona fede, solamente guidato dall’imperatore contro ogni sua previsione. Il solo parlarne era una questione delicatissima, la quale, non solo poteva irritare il Re ma cagionare dei disturbi publici a danno delle missione stessa. Noi missionarii perciò osservavamo la più delicata riserva, per non esporci a creare una realtà senza motivo, tanto più che il Re proseguiva sempre in tutto a largire il suo favore primitivo.

la sua guerra coi galla
[fine apr.-giu. 1879]
Le cose erano in questo senso, regnava nella missione nostra la massima tranquillità, e si faceva tutto il bene desiderabile. Il Re Menilik aveva piantato il suo campo a due piccole giornate al Nord di Ankober sul /116/ versante Est dell’alto piano, e stava facendo la guerra ad una tribù di Galla, anticamente stati mai sottomessi, dei quali in questo momento non mi ricordo il nome. Coll’imperatore Giovanni era d’accordo di sottomettere quei galla, come paese di rifugio a tutti i rivoltosi del suo regno, oppure aventi macchie di sangue da non poter restare in Scioa; era quella una guerra stata sempre considerata molto difficile, perché una metà della popolazione [p. 65] era [composta] di rifugiati, i quali avevano parenti nel regno di una politica cointeressata. il suo cugino Masciascia Il paese nemico era all’ovest della provincia di Effrata, stata data di recente al suo cugino Masciascià, ed all’Est confinava cogli Adal o Denakil indipendenti, coi quali faceva causa comune, ed [d]ai quali soleva la popolazione fuggire, quando era attaccata dal Re. Il Re Menilik faceva quella guerra in compagnia del suo cugino suddetto, giovane molto ardito, il quale godeva nel regno [di] un gran prestigio secreto, superiore al Re Menilik, come già è stato detto parlando della [della] rivolta di Somma, e della questione di Bafana. Era Masciascià da un canto considerato come figlio del re erede naturale del regno, ma dall’altro canto era considerato come un pretendente e secreto nemico, stato già legato parecchie volte dietro i consigli della regina Bafana. (1b) Non mancavano di quelli che supponevano una certa invidia nel Re contro il suo cugino Masciascià, causa della sua rimossione dai Galla del sud per esporlo ad una certa morte nella lotta coi galla in questione.

conseguenze del zelo di Giovanni Mentre si passavano queste cose in Scioa l’imperatore Giovanni, accampato ora frà i Galla musulmani dei Wollo, ed ora in Devra Tabor lavorava indefessamente, da una parte a trasformare le razze musulmane in altrettante razze cristiane col suo sistema di battesimo forzato, mentre dall’altra [p. 66] parte in diplomazia si adoperava colla massima energia a stabilire dovunque il dominio del partito eutichiano in tutta l’Etiopia Cristiana, trattando anche coi copti d’Egitto per fare venire nuovi vescovi eretici. Mentre l’imperatore Giovanni lavorava a cristianizzare i musulmani dell’alta Etiopia, questi irritati all’eccesso incomminciavano pure a lavorare secretamente coi musulmani dei contorni per una futura rivolta che al giorno di oggi 1884. finirà forze per chiamare il Maddi dal Sennar, come già si sta vociferando. un’aproposito L’eresia di tutti i tempi e di tutti i paesi è sempre la medesima; essa, una volta scosso il giogo teo- /117/ cratico stabilito da Dio, finisce sempre per diventare un mercato puramente materiale per servire alla passione di un governo, o di un partito rovinando ogni cosa, e mettendo il disordine nel popolo, e nella società civile medesima. Così l’arianesimo, passato all’imperialismo bisantino, finì coll’impero della mezza luna; così il nostro protestantismo, dopo aver servito alla passione di alcuni governi tende oggi le mani all’orribile giogo massonico per fare una strage della società. L’Etiopia si trova in questa lotta; ha già corso il pericolo di essere musulmana in tempo di Gragne, se non era liberata dai portoghesi; oggi di nuovo corre per quella via, se la missione cattolica non la salva.

[Menelik da Joannes: feb.-mar. 1879],
la pasqua dell’anno 1879.
[13.4.1879]
Ma facendo ritorno al corso della mia storia, nel mese di Aprile 1879. il Re Menilik aveva lasciato il campo sul confine est della provincia di Effrata, per celebrare la sua Pasqua in Liccee, ed in Ankober, secondo l’uso degli altri anni, ed io per far visita al re aveva lasciato la mia [p. 67] Escia, ed il P. Luigi Gonzaga era venuto da Gilogov per lo stesso motivo, ed anche per confessarci a vicenda. nostra visita al re Menilik
[8.5.1879]
Insieme fummo a visitare il Re, il quale ci ricevette colla solita cortesia. Terminate tutte le nostre questioni, che egli sbrigò colla solita sua generosità e prontezza, il re Menilik una lettera dell’imperatore
[lettera di Menelik con ordine di Joannes: 25.4.1879;
ricevuta: iniz. mag. 1879]
tirò fuori una lettera dell’imperatore, nella quale l’astuto parlava al Re Menilik di un progetto, come già conchiuso di spedire in Europa alcuni di noi per alcuni trattati di pace coi nostri governi, come sapete, diceva l’imperatore al Re, noi non abbiamo altri europei che conoscano ed amino il nostro paese fuori di questi preti; voi non mancate di disporli a venire [d]a me quando gli chiamerò, avendo gran piacere di conferire con loro prima di conchiudere la spedizione. La lettera dell’imperatore, aggiungeva ancora altri detagli, dei quali non mi ricordo [che] in parte, ed in parte anche lasciò di leggerci.

brutto cimento Al sentire il complesso della lettera, io, ed il Padre Luigi Gonzaga ci siamo guardati in facia a vicenda con uno di quei certi gesti che indicano un non so che di sorpresa certamente poco favorevole, al che il re corrispose con certi segni di sorpresa vedendoci alquanto esitanti e timidi, e prese come a difendere la sincerità del progetto indicato nella lettera suddetta. Noi in quel momento abbiamo finto di esserne persuasi; solamente io mi ricordo di aver risposto al Re queste parole: Se io sarò mandato in Europa, attesa la mia età, io certamente non potrò più ritornare; a ciò rispose il Re: a questo riguardo posso assicurarla [p. 68] sulla mia parola, che Ella, dopo la conferenza coll’imperatore Giovanni, attesa la sua età dovrà ritornare a riprendere i suoi lavori; a questa sola condizione aderisco alla domanda dell’imperatore. Così finì la conferenza col Re, e noi siamo ritornati al nostro alloggio, ma con qual cuore? il /118/ quid agendum mio lettore può immaginarselo, come potrà imaginarsi le tante e poi tante cose, e le quasi infinite supposizioni che ebbero luogo frà [di] noi: comunque sia per essere la cosa, o favorevole oppure contraria, dissi io, dovremo noi resistere? ecco la questione pratica, a cui devono ridursi le nostre conferenze. Secondo me, o che le parole dell’imperatore sono sincere, e noi col resistere perderemo il bel momento di trattare la causa cattolica, ripudiando l’avvicinamento dei nemici. Oppure che il nuovo piano è una finzione, anche per parte del nostro Re, allora la forza non mancherà di ottenere il suo scopo, e noi correremo [a] pericolo di precipitare tutta la missione ad un’aperta persecuzione; siamo noi certi che resistendo saremo noi diffesi a costo anche di una rivoluzione? certamente che no, non essendo ancora noi arrivati a quel punto, quale, anche supposto certo, non sarebbe certamente evangelico, poiché l’agnello tipo del nostro apostolato, esso è sempre domestico, anche quando si vede il coltello [puntato] alla gola dalle mani del suo padrone anche ladro.

Tale fu il complesso dei nostri ragionamenti, convenendo con me perfettamente in tutto anche il P. Luigi Gonzaga. nostra risoluzione Si conchiuse perciò in principio e come base di condotta una completa rassegnazione, ed in pratica il sistema di tenere un compiuto secreto dei discorsi passati col Re. Dissi al P. Luigi Gonzaga di riferire [p. 69] ogni cosa a Monsignore Coadjutore che non era venuto da Finfinnì, al quale io stesso non avrei mancato di scrivere. parte p. Luigi Dopo ciò, congedatosi il Padre Luigi, egli se ne partì per Gilogov, ed io sono rimasto ancora due giorni a Liccèe. Il Re che non aveva lasciato di scorgere in noi una certa sorpresa nel fatto narrato, preso motivo da alcuni suoi consulti consueti, sono chiamato di nuovo inutilmente
[9.5.1879]
mi chiamò una seconda volta, ed ebbe luogo una seconda conferenza molto lunga, nella quale egli per parte sua cercò di provare sempre indirettamente la sincerità del fatto sopra narrato, mentre io per parte mia non ho lasciato di sorprenderlo con tutta la maestria di [cui] era capace, ma confesso di [non] aver nulla ottenuto nello scopo di scoprire il vero nodo della questione nostra; ho dovuto dire fra me stesso, o che il Re Menilik è ingannato, ed in buonissima fede, oppure essere cento volte più briccone, e più furbo di me. mio ritorno a Escia Così in pace ci siamo divisi, ed io mi sono congedato da lui in piena pace, e me ne sono partito alla volta della mia cara casa, dove mi aspettavano grandi turbe di concorrenti per l’inoculazione del vaïvuolo, e molti lavoranti nella nuova grotta che io stava scavando per il mio sepolcro, e per quello del P. Alessio, il corpo del quale sarebbe venuto col ritorno di Martini dall’Italia, come fummo d’accordo.

/119/ lettera con ordine di partenza
[14.6.1879]
Passata la Pasqua, ed appena due settimane dopo il mio ritorno in Escia, sul principio di Maggio, il Re Menilik dal suo campo di Effrata mi scrive una lettera poco presso in questi termini: L’imperatore Giovanni vi aspetta in Devra Tabor sul principio di Luglio; non mancate [p. 70] di avvertire i vostri due compagni, affinché stiano pronti alla partenza dopo la metà di Giugno. Quella lettera era concisa e perentoria e non dava più campo ad esitazioni; io ne scrissi subito ai miei compagni P. Luigi in Gilogov, e Monsignore Coadjutore in Finfinnì, annunziando loro la mia partenza per la via di Effrata, e dando loro gli ultimi avvisi; ma il Re per assicurarsi ne scrisse anche egli ai medesimi, dicendo loro che gli avrebbe aspettati egli stesso in Liccèe per congedargli. critico momento Benché io non dubitassi più nel cuore mio della sorte che mi aspettava del mio esilio pure in tutti i miei movimenti, ed operazioni doveva guardarmi molto gelosamente dal far conoscere ciò che si trattava. Il Re era sempre fermo nel suo mistero, o credendo, oppure fingendo, [trattarsi di] un semplice viaggio amicale, epperciò anche noi dovevamo tenersi sopra questo terreno per non cagionare una vera crisi in casa, e nella missione, per non dire una mezza rivoluzione nel paese.

difficile per il secreto La circostanza era così critica per me, e per i miei compagni, che nei preparativi della nostra partenza, dovevamo prendere tutte le precauzioni per non lasciare trapelare ai nostri di casa ed ai vicini i tetri timori che non lasciavano di straziare i nostri cuori. Persino nelle cose indispensabili da prendere con noi, e negli ordini da lasciare a quei di casa bisognava servirsi di certi giri per non dare a conoscere [p. 71] la menoma idea di una separazione perpetua. I miei compagni avevano un poco più di latitudine, perché il progetto della partenza di uno di loro per l’Europa in senso anzi favorevole era stato rivelato, ed in Finfinnì rimaneva il Padre Ferdinando alla testa di tutto sino al nostro arrivo; ed a lui Monsignore Coadjutore poteva versare tutti i misteri del suo cuore, ma non così [riguardo] a me, e posso dire anche al Padre Luigi Gonzaga. per i preparativi Basti dire che io nel partire dovetti fingere un’assenza di poco tempo, e lasciare ogni cosa nello statu quo, sia in Chiesa che nella mia piccola casa di lavoro. Il mio pastorale vestito rimase secondo il solito in piedi accanto alla cattedra, la mia croce, ed il mio anello rimase[ro] a suo luogo dove soleva vestirmi per la S. Messa in Chiesa: così il mio scrittojo col calamajo, la penna e la carta, nella mia stanza di lavoro e di udienza. Appena ho potuto prendere alcune note secrete, ed una quantità di denari, dopo aver dato al prete custode il necessario per le spese di qualche mese.

La partenza di tre [missionari] e dei [quali] due vescovi, lasciava la /120/ missione sprovvista di sacerdoti, epperciò nasceva il bisogno di ordinazione di due diaconi ordinare in fretta alcuni diaconi in Finfinnì ed in Gilogov. Scrissi a Monsignore Coadjutore di ordinare il suo diacono Ghebra Mascal, un’antico allievo del collegio di Marsilia, chiamato allora Francesco, e poi detto Ghebra Mascal quando [18-21.12.1878]
[29.6.1879]
si fece [p. 72] monaco. Quindi nel suo passaggio per Gilogov ordinasse anche l’altro diacono Abba Joannes, conosciuto in Marsilia col nome di Alberto; io, avendo bisogno di abboccarmi col re, passo per Iffrata, soggiunsi nella mia lettera ai medesimi, e ci aspetteremo a Warra Ilù (1c). ultima lettera del re
[19.6.1879]
Intanto, come io aveva scritto al Re che non sarei partito senza vederlo, e senza parlargli di molti affari importanti della missione, questi mi rispose di[c]endomi che mi aspettava in un paese situato nel paese basso il giorno 26. giugno. Ella venendo per il cuolla (2a) avrà meno pioggia ed un poco più caldo, mi soggiungeva in fine della sua lettera, la quale mi arrivò in Escia la sera del giorno 22.

ordini dati per la partenza L’arrivo di quella lettera mi tolse ogni latitudine d’interpretazione sopra la partenza, e mi concedeva appena una mezza giornata per i preparativi indispensabili. Da Escia per arrivare al luogo indicatomi dal Re, mi erano necessarii almeno due giorni di viaggio; non mi rimaneva perciò altro che un giorno di dimora, parte nella casa di Escia, e parte in quella [di] Fekeriè ghemb. Per fortuna la lettera del Re era concepita in modo di benigna interpretazione, perché parlando solo di un’intravista, mi permetteva di farla vedere, anzi di leggerla a quei di casa, per rimovere ogni sospetto. Come vedete, dissi a quei di casa, il Re, secondo il solito, mi chiama per un bisogno di parlarmi; [p. 73] esso fissandomi il giorno ed il luogo dove egli mi aspetta, non mi resta, come avete veduto dalla lettera, che il giorno di domani per terminare le inoculazioni che rimangono, e per passare qualche ora colla famiglia di Escia, e con quella di Fekeriè ghemb. ultimo giorno in Escia Domani mattina adunque il tale vada alla porta della fortezza per avvertire le guardie, affinché non lascino più entrare nuovi inoculandi per il vaïvolo, sino al mio ritorno dal Re. Questa notte ho bisogno di essere libero per aggiustare le mie provviste di viaggio; preso quindi un poco di riposo, farò alzare la famiglia per le nostre preghiere, e per la celebrazione della S. Messa. Dopo la /121/ ultime operazioni Messa ed il solito catechismo io finirò le poche inoculazioni del vaïvolo che vi sono prima del pranzo. Dopo passerò qualche ora colla famiglia per dare gli ordini occorrenti. Domani sera vado a Fekerie ghemb, dove passerò la notte con quella nostra famigli[a], e dopo domani, celebrata la Santa Messa, partirò.

Dati questi ordini con tutta tranquillità, affinché ognuno sapesse prendere le sue misure di famiglia, come era solito [di] fare ogni qual volta si trattava di qualche partenza, nessuno dubitò più che si trattasse della gran questione della mia [p. 74] ultima [mia] separazione. Verso sera ho lasciato Escia col cuore che minaciava di scoppiare, ma che ho trattenuto per non sollevare una crisi fatale. notte a Fek[er]ie ghemb. In meno di mezz’ora sono arrivato alla casa di Fekerie Ghemb a tempo per fare la preghiera e la conferenza della sera. Che brutta crisi per una persona che piange nel suo cuore, e deve fingere un’allegria affettata! Anche in Fekerie gehmb ho passato una parte della notte a confessare molti della famiglia ed a preparare alcune cosarelle per il viaggio contentandomi di due ore per un riposo pieno di agitazioni. ultima Messa celebrata L’indomani mattina ho celebrato la mia ultima Messa in quella cappella di Fekeriè ghemb avanti il gran crocifisso, campo delle mie meditazioni, il quale ebbe sempre tanta virtù di cangiare le mie più dure prove di spirito in un mare di consolazione: Buon Gesù! sarà dunque vero che io non vedrò più questo calvario, che tante volte [avete] cangiato in Taborre! ma, diletto mio, chi coltiverà questo vostro piccolo gregge?

Celebrata la Santa Messa fra tanti simili pensieri ed affetti che gravitavano sopra il mio cuore senza poter dire una parola di congedo a tutti quei figli, [continuai a pregare:] lascio tutto e tutti nelle vostre mani, o buon Gesù: voi gli avete generati, voi custoditeli. caffè di congedo
[24.6.1879]
Sono sortito dalla cappella che non viddi più: rientrai in casa, dove il mio buon vecchio [p. 75] (1d) Abba Michele custode mi presentò una tazza di caffè che fù la mia ultima presa dalle sue mani: Figli miei, dissi, dovrei fare la preghiera prima di partire, ma si fa tardi, perché... (la ragione non poteva dirla... il mio cuore minaciava di scoppio inopportuno...) perché debbo /122/ ancora fare una stazione a Wanenamba, e si farà tardi per arrivare al Re il giorno fisso. Con questo mezzo termine, ho tagliato curto, e sono partito ancor di notte. Per una piccola porta di soccorso tutta vicina, senza più moltiplicare parole, ho lasciato la fortezza, accompagnato nel precipizio da alcuni fidi custodi, lasciando dietro di me i giovani che dovevano seguirmi. La discesa a Wanenamba e lunga e penosa, si può fare in meno di un’ora, ma io di notte, e non più giovane l’ho fatta in un’ora e mezza.

arrivo a Wanenamba Sono arrivato nella Signoria del monastero di Escia prima del sole; i miei di casa con molti vicini mi aspettavano, avrebbero voluto farmi delle feste, ma il giorno non era a proposito: sarà al mio ritorno, dissi loro. Io da alcuni mesi aveva domandato al Re la grazia per due famiglie vittime di confisca per alcune mancanze nel servizio militare. Il Re fece la grazia a quelle due famiglie in quella stessa circostanza, forze per calmare quella popolazione, oppure per ingannarla. Io, chiamatele, ho significato loro la liberalità del Re, consegnando [p. 76] loro il biglietto reale in presenza delle autorità medesime. Questo ultimo atto di beneficenza mi sollevò un grido di simpatia tutta nuova in un momento in cui doveva lasciare quella popolazione tanto cara per mai più vederla: guai se avesse conosciuto il mistero! Essi mi parlarono di alcune questioni, tutto al mio ritorno, risposi loro, allora mi fermerò fra voi qualche giorno, e sentirò tutte le vostre querele; in questo momento debbo partire, perché il Re mi aspetta. partenza da Wanenamba Arrivato intanto il mio seguito da Fekerie ghemb, e bevuto un vaso di birra, mi sono posto in viaggio, seguito dal mio Messeleniè o procuratore, e da molti del paese.

itinerario ed ultimi saluti a s. Giuseppe Passato il confine nord di Wanenamba, sopra una collinetta dirimpetto alla montagna di Escia, ho fermato la carovana, e rivolto alla nostra Chiesa di S. Giuseppe, ho recitato l’itinerario del breviario facendo coro con alcuni dei nostri preti e chierici che potevano seguirmi. Finito l’itinerario, ho fatto mentalmente e col cuore un’apostrofe a S. Giuseppe: voi, o gran Patriarca, patrono della Chiesa universale, e particolarmente Padre di questo nuovo convento a voi dedicato, voi custoditelo... Io non aveva ancora terminata la mia preghiera, che tutta la famiglia di Escia schierata sul bordo dell’alta montagna, ad una voce gridava, buon viaggio, [dateci] la vostra benedizione. Per tutta risposta feci rispondere[: dite] un Pater noster a S. Giuseppe[:] egli vi benedica. [pag. 76] Ciò fatto ho congedato la popolazione di Wanenamba, raccomandando di preparare della buona birra per il mio ritorno, onde togliere dalla medesima ogni dubbio sopra la gran questione del mio esilio. Ad ogni costo però vollero seguirmi molti giovani; queste frontiere sono perico- /123/ lose, [dissero,] e vogliamo scortarla; Ella non pensi a noi per il mantenimento, perché siamo provisti. acclamazioni in viaggio Io non conosceva ancora quei paesi di frontiera, e con tutta ragione doveva credermi affatto straniero ai medesimi, ma dovetti convincermi del contrario, quando mi viddi obligato a camminare frà le medesime [popolazioni] accorse ad aspettarmi, parte per ringraziarmi del vaïvuolo inoculato, e parte per domandarmi di essere inoculati. Oggi ho premura, lo farò al mio ritorno, io rispondeva loro, a fronte che sapessi come certo di non ritornarvi. Mi intenerì un ragazzo che mi mostrava il bracio guarito dalla piaghetta, recitando una parte del Pater noster che aveva imparato in Escia, presentatomi dal suo catechista che l’aveva istruito.


(1a) Anche quì il nostro Gustavo Bianchi col suo stile poco misurato non la perdonò a Ras Govana, accusandolo come di rapina di schiavi, e di avorio. Io non intendo smentire il fatto, ma solo spiegarlo a scarico di Govana. Ciò che faceva Ras Govana era un semplice sequestro dei schiavi scielti, e dell’avorio in favore del Re o governo. Era una legge normale per quei paesi; ma il Signor Bianchi doveva sapere, che si teneva nota degli articoli sequestrati per impedire la vendita secreta, ma poi si tiene conto di ciò che è sequestrato, ed è pagato il mercante. Non si nega che in ciò non possa farsi qualche furto, come suol farsi frà [di] noi da persone di poca conscienza, massime dopo la decadenza della morale publica. [Torna al testo ]

(1b) Si supponeva da alcuni tra il Re ed il suo cugino una questione secreta, per una giovane figlia di Ras Govana, da entrambi amata, e forze praticata, sino alla questione del frutto divenuto incerto. Io però [non] ho mai potuto credere simili dicerie, non potendo [esse] aver luogo senza ledere alla riputazione della moglie di Govana, matrona di gran riputazione anzi [di] venerazione in paese. [Torna al testo ]

(1c) Warra Ilù è la città fatta dal Re Menilik sulle frontiere tra il paese di Scioa, e quello dei Wollo galla, quando questo Re faceva la guerra coi Wollo, come già si disse a suo luogo. Questa città è stata abbruciata in tempo della rivolta di Tammo, e poi riparata dal Re. [Torna al testo ]

(2a) Si dice Cuolla il paese basso e più caldo. Il Cuolla in questione è quello della frontiera Est di Scioa. In tutta quella frontiera le pioggie della zona sono più miti, e cessano anche affatto a misura che si discende più verso il mare fra i Denakil. [Torna al testo ]

(1d) Questo buon vecchio, di cui ho già parlato altrove, è uno di quei tali, che, vittima delle bibbie protestanti, abusò di quella sentenza evangelica[:] et sunt eunuchi qui seipsos... il 6. Settembre 1825. [6.9.1826] nel giorno stesso in cui io vestiva l’abito di S. Francesco in Torino, egli in Tigrè credette [di] fare il gran sacrifizio privandosi di un membro non suo. Questo uomo passò alcuni anni in Gerusalemme, e dopo circa 10. anni in un monastero maronita. Dopo nel 1871. venne in Abissinia [e] si associò a me, e servì la missione come zelante catechista. Dopo la mia partenza visse ancora un’anno, e morì vittima di pianto... poveretto! Iddio avrà calcolato il suo sacrifizio fatto in buona fede. [Torna al testo ]