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Capo II.
Al monastero di S. Antonio.

1. Avvertenza ai lettori. — 2. Primi giorni di navigazione sul Nilo. — 3. Un primo abboccamento favorevole. — 4. Al villaggio del Monastero. — 5. Partenza; un monaco poco edificante. — 6. Fermata e conversazione. — 7. Schiavitù del clero orientale. — 8. Osservazioni a proposito. — 9. La prima notte nel deserto. — 10. Vegetazione senza pioggia. — 11. La montagna di S. Antonio, culla del monachismo. — 12. Veduta del Monastero in lontananza. — 13. Entrata curiosa del Monastero. — 14. L’interno della cinta, e ricevimento. — 15. Quello che io desiderava. — 16. La stanza di Salâma; uso della torre. — 17. Refettorio, chiesa e sepolcro di S. Antonio. — 18. Sala di conversazione e biblioteca. — 19. La cena. — 20. Veglia e confessione. — 21. Baldoria e colazione. — 22. Una gita alla montagna. — 23. La fontana di S. Antonio; pregiudizj sulle sue acque. — 24. La portentosa medicina. — 25. Il vero miracolo di quelle acque.

Se fossi stato un semplice viaggiatore secolare, con l’unico e solo scopo di studiare quei luoghi, il viaggio del Nilo, fatto con tanta libertà esicurezza, mi avrebbe dato argomento a molte e variate osservazioni; ed ai miei lettori avrei potuto offrire descrizioni e fatti assai curiosi ed importanti rispetto a quei luoghi, che forse non si trovano in altre narrazioni già pubblicate. Ma, essendo io un Missionario cattolico, gli studj puramente scientifici e naturali non potevano essere il mio principale scopo: avea a pensare a tutt’altro che alla natura. Tuttavia era impossibile non occuparmene punto: ma se tutto ora volessi dire, questa storia andrebbe troppo a lungo; dappoichè, pel solo viaggio del Nilo sino a Kartùm, non basterebbe un volume. Inoltre, scrivendo ventinove anni dopo che feci quel viaggio, e sperdute, per la persecuzione sofferta in /19/ Kaffa nel 1861, tutte le note prese intorno ad esso, ben poco posso ricordarmi delle cose particolari ivi osservate. Son costretto adunque restringere notevolmente la mia narrazione, e lasciare molte cose che vidi e mi accaddero lungo quel viaggio, non prive forse d’importanza; poichè nè anco ricordo i nomi di alcuni paesi e case di Missione poste sul Nilo, e dove ci fermavamo a passare la notte. Dei luoghi e delle fermate principali, conservandone ancora una qualche reminiscenza, posso dirne con precisione le particolarità e gli aneddoti più notevoli.

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2. Si era convenuto col Reis di continuare il viaggio anche di notte, se il vento ci fosse spirato favorevole, e l’acqua del fiume non si fosse trovata divisa in diverse correnti, come spesso suole accadere nel Basso Egitto: ed i primi quattro giorni, quantunque si navigasse contro acqua, il viaggio, sia di giorno che di notte, fu felice ed anche celere. Ma di mano in mano che si andava più in alto, cominciavamo ad incontrare difficoltà abbastanza gravi, principalmente di notte. In certi luoghi l’acqua era sì bassa, e la corrente del fiume sì forte, che bisognava dalla spiaggia tirare la barca a mani, per farla montare; e questo lavoro non poteva farsi che di giorno. Più, un altro pericolo rendeva impossibile il viaggiar di notte. Lasciato il Cairo, per cinque o sei giorni di corso non si trovano nel Nilo coccodrilli; ma salendo più alto, il fiume ne è così infestato, che i barcajuoli, appena si fa bujo, son costretti a prender terra, e passare la notte al sicuro. Io inoltre non aveva fucili, almeno per ispaventarli, come là si usa fare; e di uno che trovavasi nella barca, non potevamo servirci per mancanza di polvere. Per questi motivi adunque mi dovetti contentare di viaggiare solamente il giorno, e passare la notte in qualche villaggio delle sponde. Il che recava molto piacere ai miei barcajuoli, che in mezzo a quelle popolazioni trovavano a divertirsi lecitamente ed anche illecitamente, senza che io potessi dir parola; poichè, essendo solo, ed in balìa di loro, inutilmente e forse con pericolo avrei fatto rimostranze.

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3. Dopo dieci giorni di viaggio, cioè il 4 Luglio, si arrivò ad una città posta sul Nilo, di cui non ricordo il nome. Vi era un Comandante civile ed un Vescovo copto, ed una casa di Missionari cattolici. Mi recai pertanto a visitare prima le due Autorità; i quali, vedendo le lettere di raccomandazione, di cui era provveduto, mi accolsero ambidue con ogni riguardo; anzi il Vescovo impresse un rispettoso bacio sulla lettera del Patriarca, che gli mostrai. Manifestando loro il desiderio di voler visitare il Monastero di S. Antonio, li pregai di darmi qualche raccomandazione /20/ particolare per quel luogo, ed essi mi promisero ogni agevolezza. Il Prefetto del piccolo convento del Cairo mi avea dato una lettera per quei Missionari, nella quale io era raccomandato come prete cattolico, che mi recava con finto nome a Kartùm. Mi portai pertanto alla loro casa, ma essendo assente il Missionario europeo, trovai un prete copto indigeno, il quale mi ricevette bene, e m’invitò a desinare con lui. Sentendo la mia intenzione di voler visitare S. Antonio, disse di non esser così facile il penetrarvi, tranne che non mi fosse riuscito di ottenere dal Vescovo copto una particolare raccomandazione. — Volentieri, soggiunse, le presterei io questo servizio, ma non posso, perchè con questo sedicente Vescovo non ci troviamo in buone attinenze. — E riferitagli la promessa che il Vescovo mi avea fatta, replicò: — Allora non vi ha dubbio, che tutto anderà bene. Però, con quella raccomandazione fa d’uopo ch’Ella si porti prima ad un villaggio appartenente ai due Monasteri, e lontano di qui un giorno di barca, o due, se il vento non sarà favorevole; lascerà in quell’ospizio il bagaglio, e lo riprenderà poscia al ritorno. — Mi fermai pertanto un giorno in quella città, ed andando ora dall’uno ora dall’altro, ottenni quanto desiderava. Il Vescovo mi diede una lettera pel Superiore dell’ospizio, ed il Comandante mi assegnò una persona per accompagnarmi nel viaggio, e poscia presentarmi allo Scièk (1) del villaggio; al quale ordinava di aver cura del bagaglio, che avrei lasciato in quel luogo, e di trattarmi come persona raccomandata particolarmente dal Vicerè.

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4. Era una di quelle sere così limpide e belle, che v’invitano a viaggiare, la luna illuminava quasi a giorno quel deserto e quel fiume, e un’aura fresca e soave ci diceva di partire; e partimmo subito. Si viaggiò tutta la notte ed il giorno appresso felicemente, e verso l’imbrunire già eravamo ancorati a Benesuèt, villaggio del Monastero. Mi recai tosto all’ospizio, dove fui ben accolto e ben trattato da quei pochi monaci. Il villaggio, tutto copto eretico, non contava che un centinajo di famiglie, in gran parte appartenenti alla classe dei contadini, e circa un quinto erano ufficiali governativi, servi dei monaci e cammellieri, che ogni settimana andavano e venivano dai due Monasteri di S. Antonio e di S. Paolo. Anche questo Monastero aveva un ospizio in quel villaggio; poichè l’uno e l’altro formano un Ordine distinto, e vivono sotto diversa regola. Il dì seguente alla presenza dello Sciék dichiarai ai miei barcajuoli ch’erano liberi per tre settimane di andare con la barca ovunque avessero voluto, purché si fossero trovati pronti ai miei ordini alla fine di esse. Mi era preso tutto /21/ questo tempo, perchè aveva intenzione di visitare tutti e due i Monasteri; quantunque poi, per mancanza di cavalcature e di compagnia, non potei andare a S. Paolo.

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5. In due giorni la carovana fu pronta alla partenza per S. Antonio; e con un giovane monaco, che faceva da capo, ci mettemmo in viaggio. Eravamo cinque persone con sei cammelli; uno serviva per me, uno pel monaco, e gli altri per portare le provviste del Monastero. Lasciato il villaggio, dopo circa un quarto d’ora di cammino, entrammo in una pianura di finissima sabbia, di cui non si vedeva la fine. Il monaco parlava un poco la lingua franca (l’italiano corrotto del Cairo), e sarebbe stato meglio per me se non avesse saputo parlare altra lingua che la sua; poichè lungo la strada non fece altri discorsi che di cose di mondo, e spesso così liberi e scostumati, che io mi trovava impicciato a rispondergli un po’ pulitamente. Egli mi teneva per un secolare, nè poteva mai credere che fossi prete, non avendolo io manifestato a nessuno; e perciò permettevasi simili discorsi. I cammellieri erano in verità più modesti e più buoni di lui; ma, non parlando essi che la loro lingua, non poteva io trattenermi con loro, come avrei voluto. Per ischivare pertanto in qualche modo quella spiacevole conversazione, camminava sempre con la corona in mano; tuttavia quel caro figlio di S. Antonio non mi lasciava quieto: /22/ sicchè finalmente, istigato a parlare, gli dissi che, essendo un pellegrino diretto al sepolcro di S. Antonio, non conveniva occuparmi di altro che di preghiere. E così fui lasciato un po’ tranquillo.

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6. La sera poco prima della caduta del sole si arrivò ad una piccola oasi, e trovandovi dell’erba, ci fermammo per passarvi la notte. Fatta la cena con ciò che avevamo portato dall’ospizio, ci trattenemmo un poco in conversazione, studiandoci l’un l’altro di farci intendere alla meglio. Due dei nostri cammellieri toccavano quasi la quarantina, ed anziché imitare le sconce facezie del monaco, amavano piuttosto parlare di affari. Il terzo, giovane in su i venti anni, si adattava volentieri ai gusti del monachello, il quale pareva non avesse altra voglia che di tener discorsi e fare atti per nulla convenevoli alla sua condizione. Non potendone più, gli domandai:

— Avete voi voti? —

— No, rispose, noi non facciamo voti: ma solamente, divenuti monaci, non possiamo prender moglie. —

— E non pare a voi, soggiunsi, che sarebbe meglio prender moglie, anziché fare e dire certe cose, da cui i secolari stessi aborriscono? —

A queste parole si mise a ridere, fingendo di non aver capito, o meglio mostrando di aver capito assai bene. Allora, per non isvelare ch’io fossi, cangiai discorso, e gli domandai se pagassero tributi al Governo.

— Ne paghiamo pur troppo, rispose, ma al Patriarca. —

— E pagate molto? —

— Più della metà di quanto si raccoglie. —

— Ed il Patriarca che ne fa? —

— Paga per noi il Governo, ed il resto lo ritiene per sé. —

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7. In Oriente i Vescovi ed i Patriarchi eretici sono veri esattori ed ufficiali civili del Governo; e se i popoli, a loro soggetti, non corrispondono puntualmente alle loro esigenze, maneggiano il bastone con più severità dei secolari. Fra gli Orientali sentono più di tutti questa dura severità i poveri Copti; poichè i loro Superiori sono più ingordi e più venali. Il Potere civile, ammettendo il clero superiore a questa specie di governo, sembra a prima vista che lo abbia voluto onorare: ma invece non ebbe in mira che di aggiogarlo al suo carro, e renderselo schiavo. Questa schiavitù inoltre è antichissima, e nacque con l’Arianesimo, quando la parte eretica, per iscuotere il giogo della Chiesa Romana e sostenersi nella sua ribellione ed indipendenza, si attaccò al Potere, civile; il quale da parte sua lo accettò volentieri, e gli promise protezione; non per benevolenza, ma in verità per dominarlo, e servirsi furbescamente della /23/ sua autorità presso il popolo. Il Governo turco, succeduto all’impero bisantino, vide l’utilità di siffatto connubio, ed anziché rompere questa catena, la strinse maggiormente: e quindi, assoggettando a sé la gerarchia ecclesiastica, scissa da Roma, ne fece una sua dipendenza, la privò di quell’aureola divina, ch’esternamente la circondava, e la rendeva degna di stima e di rispetto dinanzi al pubblico, e rese in questa maniera schiavi il clero, ed il popolo, insomma tutta l’eresia.

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8. Ed è questo uno dei motivi, per cui la Chiesa latina ha lavorato e lavora in Oriente con pochissimo frutto. Finché la gerarchia ecclesiastica orientale rimarrà schiava del Potere civile, e non riacquisterà la sua indipendenza, sarà difficile che ritorni al seno della sua vera madre. Ed è, questo medesimo ostacolo che fa disperare della conversicene della Russia. Nè possiamo prometterci che spunti un migliore avvenire per queste sventurate nazioni; umanamente parlando vi è ben poco a sperare! Ci vorrebbe un nuovo Costantino, che si gettasse nelle braccia della Chiesa, od uno sconvolgimento sociale, che spezzasse questa diabolica catena, e mettesse tutto in iscompiglio: allora potrebbe ritornare ogni cosa all’ordine ed alla verità. Nè solo in Oriente, ma anche nell’Occidente i Governi civili hanno ambita questa supremazia, ed hanno tentato di ridurre, la Chiesa a questa abbietta schiavitù. I vincoli del Re sagrestano Giuseppe II e dei suoi predecessori, le leggi tanucciane, gli articoli organici, ed oggi gli sforzi di tutti i Governi d’Europa, retti a liberalismo, mirano a ciò. Si proclama a parole libera Chiesa in libero Stato: ma a fatti si vuole la schiavitù della Chiesa e la supremazia dello Stato, per distruggere, come in Oriente, il regno di Gesù Cristo.

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9. Ritornando alla mia storia; troncata la conversazione, ci mettemmo a dormire al chiarore delle stelle, e con un’auretta così fresca, che vi faceva dimenticare di trovarvi in mezzo ai deserti africani. Mi ci volle però del tempo per chiudere gli occhi, a causa del monachello, che, non ostante i miei buoni consigli, e talvolta le mie brusche ammonizioni, non ismetteva punto le sue oscene facezie. Coricato tra i cammellieri, faceva un baccano indiavolato con tutti, e principalmente col più giovane. Io non poteva capir tutto quello che diceva, perché poca conoscenza aveva allora dell’arabo: ma tra le altre cose lo intesi lamentarsi che nel Monastero non vi erano uomini ma donne. Ciò mi fece una grande impressione; e non sapeva comprendere come in un Monastero, così venerato, vi fossero donne: tuttavia mi guardai dal chiedergliene la spiegazione. Ma poco tempo dopo me la diede il giovine propagandista che andava a liberare, /24/ ed in verità fu così brutta, che neppure ardisco riferirla. Oh quali guasti orribili e mostruosi portarono l’eresia e l’islamismo in mezzo a quelle cristiane popolazioni!

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10. Il dì appresso, svegliatici di buon’ora, ci rimettemmo in viaggio, e verso mezzogiorno si arrivò ad un’altra piccola oasi, in cui riposammo alquanto, e mangiammo il nostro modesto pranzetto. Ripreso il cammino, verso sera scorgemmo in lontananza Amba Antun (1); e trovata un’altra oasi, ci fermammo per passarvi la notte. Un fenomeno singolare osservai in questo luogo: non vi era affatto acqua, nè lungo l’anno vi cadeva pioggia; tuttavia quell’arida sabbia era sparsa di graziosa erbetta e di folti sterpi, che indicavano una bella vegetazione. Cercando tra me stesso la spiegazione di questo fenomeno, pensai che quei mari di sabbia abbiano in certi punti una forza assorbente i vapori dell’atmosfera, da cui viene agevolata la vegetazione. Più, scavando in certi luoghi, trovai a poca profondità la sabbia assai umida; il che giovò a confermare la mia ipotesi: dappoichè quell’umidità superficiale in luoghi dove non piove giammai, non può altrimenti spiegarsi che con l’assorbimento di vapori atmosferici.

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11. Mi è difficile descrivere la grata impressione che fece sull’animo mio la vista di quella montagna. Essa sorge come uno scoglio in mezzo ad un mare di sabbia, ed all’immaginazione si presenta come un’oasi, in cui germogliò e crebbe la pianta del monachismo. Tutto d’intorno è sterile e senza vita; là solamente pare che la Provvidenza abbia mutato aspetto alla natura, rendendola fertile e facendovi scaturire una sorgente, per nutrire e dissetare non uomini, ma angeli in carne. E tali erano in sul principio della loro istituzione quei cenobiti. Ma oggi? Oggi quel gran Monastero (e lo stesso dicasi dell’altro di S. Paolo) è piuttosto un ergastolo di vizj, che un asilo di santità. Quei degeneri figli del grande eremita, fuorviati dall’eresia ed abbrutiti dalle più abbiette passioni, non servono che a ricordare l’antica santità e purità dello spirito evangelico, che vi fioriva, come le Piramidi ricordano la prisca grandezza dell’Egitto. Quei due Monasteri io oggi li rassomiglio a due scheletri umani, non ancora totalmente spolpati, e gettati in mezzo al deserto; i quali par che dicano: Noi prima eravamo uomini, oggi non siamo che ossa e putridume.

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/25/ 12. Rimessici di buon mattino in viaggio, seguitavamo la strada sempre in direzione della montagna, ed a mano a mano che ci avvicinavamo, essa, che prima sembrava una piccola collina, gradatamente s’ingrandiva. Avanzandoci più innanzi, si cominciò a scorgere il Monastero, e ad ogni passo si rendeva più visibile ed ammirabile nelle sue maestose forme e speciose particolarità. Esso è piantato alle falde della montagna, e presenta un gran quadrato, aperto dalla parte di essa montagna, la quale sembra sorgere dal Monastero. Accostandosi di più, si scorge non esser quel quadrato che la cinta esterna, dentro cui s’inalza un altro quadrato, ch’è propriamente il Monastero, con in mezzo una gran torre. Nella parte interna, che sta a’ piedi della montagna, si vede un po’ di verde, che comincia a ricreare la vista, stanca di sempre guardare quelle aride sabbie; ed un bel contrasto fa esso con quell’immensa pianura, priva assolutamente di vegetazione. Sono principalmente alberi di datteri, che vi nascono e crescono assai bene.

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13. Finalmente si giunse al fabbricato, e ci arrestammo al muro di cinta, alto circa sei metri, e fatto di fango battuto. Rimasi meravigliato nel non trovarvi porta d’ingresso: ma solo uno spaccato, a guisa di portico, in parte nel grosso del muro della cinta. — E per dove si entra? domandai. —

— Ecco, — e mi si additò una finestra quasi circolare aperta nel centro della volta dello spaccato, e dalla quale scendeva una grossa corda di palma, raccomandata ad un cilindro orizzontale, simile a quelli dei nostri pozzi, i quali servono per attingere l’acqua. All’estremità della corda era attaccato un piccolo legno, sul quale la persona mettendosi a cavallo, veniva tirata su da due monaci, per mezzo di manubrj sporgenti dal grosso cilindro. Veramente in sulle prime ebbi timore di affidarmi ad essi; ma poi, fatto coraggio, mi aggrappai fortemente alla corda, e feci la mia curiosa ascensione.

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14. Introdotti per quella finestra sul muro di cinta, si resta meravigliati nel trovarlo sì largo da potervi passeggiare comodamente sei persone di fila, avendo circa quattro metri di grossezza. Una stretta scala vi porta nel cortile e nel giardino, o meglio nel quadrato interno, che serve per l’abitazione dei monaci. Ivi trovai il Superiore con molti altri, i quali mi condussero avanti la cappella, dove in un piccolo atrio con varie sedie si ricevevano i forestieri. La faccia interna della cinta era in gran parte coperta d’iscrizioni in tutte le lingue, lasciatevi dai viaggiatori, che avevano visitato il Monastero. Mostrate le lettere di raccomandazione, divenni presto loro amico, e mi si misero attorno, assediandomi con continue e /26/ varie interrogazioni. È difficile che vi lascino un momento solo; hanno tanta smania di parlare, che non solamente il giorno, ma anche la notte vi terrebbero in conversazione.

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15. Il mio principale scopo era di liberare il giovane Michelangelo, allievo di Propaganda; e perciò ad esso era diretto ogni mio studio e premura. Fingendo d’intender poco la lingua araba e franca, ch’essi parlavano, domandai se per caso non vi fosse qualcuno tra i monaci che parlasse un po’ meglio l’italiano. Ed il Superiore, che nulla poteva sospettare dei miei disegni (poichè feci una tale richiesta con la massima indifferenza), mi presentò Michelangelo. Era quello che io desiderava, e ringraziai Iddio che le mie operazioni cominciassero così bene. Anche Michelangelo da parte sua ne fu contento, molto più quando da alcuni segni e parole, direttegli furtivamente, travide i miei intendimenti. Il poveretto desiderava più di me di essere liberato, e gli parve un’apparizione celeste il mio arrivo: tuttavia per non suscitar sospetti, ci guardammo bene dal mostrare questo contento.

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16. Mi condussero poscia nell’interno del Monastero, facendomi minutamente osservare ogni cosa: e tra le altre, mi mostrarono una stanza, che dissero di essere stata abitata da un certo Andrea, già monaco, ed allora Vescovo dell’Abissinia. Compresi subito chi fosse quel bravo soggetto, principalmente quando nella parete lessi il suo nome scritto in lingua italiana ed inglese: ma finsi di non conoscerlo. Dopo fui introdotto nella torre; essa sorge in mezzo al cortile del secondo fabbricato, è di forma quadrata, alta circa quattro metri più del Monastero, e comunica con esso per mezzo di quattro ponti levatoi, che si tirano dai quattro lati della torre, o del Monastero, secondo il bisogno. Anticamente, ed anche in tempi a noi non molto lontani, era il loro rifugio, quando i Beduini, a guisa di orde scorrazzando per quel deserto, finivano con dar l’assalto al Monastero. Allora i monaci si difendevano, prima combattendo di sopra le mura: ma poi, superate queste, per ultimo scampo si ritiravano nella torre, e tirati i ponti, combattevano con pietre gl’invasori. Sottomessi poscia i Beduini dal Governo egiziano, principalmente per opera di Mohammed-Aly, il Monastero non ebbe più a temere quei terribili nemici; ed anche oggi è lasciato tranquillo. Sono ammirabili queste costruzioni, sia per la loro antichità e grandezza, sia per la loro indestruttibile solidità; e quantunque di fango battuto, pure vi stanno da molti secoli, e pare che sfidino la successione dei tempi.

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17. Visitai poscia il refettorio, assai lungo e stretto, e con una sola /27/ tavola di alabastro in mezzo. I monaci di S. Antonio mangiavano in comune, al contrario, mi si diceva, di quelli di S. Paolo; i quali, conservando ancora un po’ di vita eremitica, in comune non mangiano che nelle grandi solennità. Mi condussero poi nella chiesa; una piccola cappella, che non corrisponde alla grandezza del Monastero, ed è l’unico luogo in cui si vede qualche costruzione a calce. Accanto ad essa vi era una specie di casotto, in cui i monaci e gl’inservienti prima di dir Messa si lavavano da capo a piedi. Esso veniva chiamato il luogo della purificazione, ed in verità non vi si faceva che la vera purificazione secondo il rito mussulmano. Dalla chiesa per alcuni gradini si discende nel sepolcro, che chiudeva le ossa di S. Antonio, oggi vuoto e senz’alcun ornamento. Una semplice stanzetta chiusa con porta, e senza un emblema od un ricordo della sua antica destinazione, formava la cripta del Santo Anacoreta; ond’io trovatala più pulita della camera che mi avevano assegnata per dormire, dissi loro che presceglieva di passar la notte lì dentro, a fin di soddisfare meglio la mia devozione. A dire il vero, feci questa scelta, non solo per evitare le cimici, di cui il Monastero era straordinariamente infestato; ma per avere agio di conferire più liberamente con Michelangelo, ed anche per potermi chiudere la notte di dentro, e così liberarmi da visite poco convenienti e poco cristiane!

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/28/ 18. Poscia fui condotto nella sala di conversazione; era questa un grande stanzone, dove i monaci passavano la giornata e quasi metà della notte a fumare, a chiacchierare e a divertirsi. Un basso divano occupava la lunghezza delle due pareti laterali, su cui sedevano i monaci, ed un seggiolone con altre sedie a lato, posti nella parete di prospetto alla porta, erano riservati all’Abbate ed agli altri Superiori. Nell’angolo a destra della porta vi era una gran cesta piena di tabacco da fumo, ed alla parte opposta un’altra con pipe di diversa forma e lunghezza; in mezzo poi un gran vaso di terra cotta con fuoco sempre acceso. Questa sala serviva anche per la scuola e per lo studio: ma in dodici giorni che mi fermai là, non vidi mai nessuno, nè a studiare, nè a fare scuola. Avendo domandato quanti maestri vi fossero? — Due soli, mi risposero, uno per la lingua araba ed uno per la lingua copta. — Mi venne allora il desiderio d’imparare con quest’occasione almeno l’alfabeto copto, e domandai chi ne fosse il maestro: ma saputo ch’era assente da due mesi, e che la sua scienza si limitava a saperla appena leggere, ne dimisi il pensiero. Non deve far meraviglia tanta ignoranza; poichè, come essi stessi mi dicevano, non solo l’ignorava l’Abbate, ma anche il Patriarca ed i Vescovi copti medesimi. Li pregai inoltre di farmi vedere la biblioteca, e mi condussero in una stanza, dove quattro o cinque cestoni contenevano disordinatamente mucchi di libri tutti impolverati. Erano pergamene in lingua araba e copta, e varj libri liturgici in lingua araba. Certamente dovevano trovarsi libri preziosi tra quei vecchiumi; quantunque, secondo che essi mi dicevano, ne fossero stati comprati alquanti da un Francese, capitato là qualche tempo prima (1).

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19. Per cattivarmi maggiormente la loro benevolenza e rendermeli obbligati, domandai se in Monastero si fosse trovata qualche cosa a comprare, come acquavite, carne ed altro, a fin di offrir loro un segno della mia gratitudine e riconoscenza per le accoglienze e cortesie ricevute: ed avendomi tutti risposto con grande gioja, che presso il Procuratore avrei potuto comprare l’acquavite: — Ebbene, dissi, dimani mattina accetterete questo primo segno di mia affezione. — Giunta l’ora di cena, mi portarono pane, datteri, uva fresca ed un piatto di maccheroni. Il pane era molto buono, perciò mi contentai di mangiar solo quello con uva e datteri, e rimandai i maccheroni, che certamente non venivano da Napoli, dicendo che un pellegrino è obbligato sempre a fare qualche astinenza. Michelangelo, cui già aveva potuto manifestare segretamente i miei /29/ disegni, mentre si cenava, tra un discorso e l’altro, mi fece intendere che desiderava confessarsi; giacché da due anni non aveva più ricevuto Sacramenti. Ma essendo difficile che i monaci ci avessero lasciati soli, ed io non volendolo ammettere nella mia stanza, per non suscitare gelosie e sospetti; si convenne che quella notte, adducendo il pretesto del gran caldo, avrei prescelto di passarla in giardino; e così ad una data ora, mentre gli altri dormivano, noi avremmo potuto comodamente far tutto.

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20. Finita la lunga conversazione, alcuni monaci si ritirarono alle loro stanze; laddove altri vollero restare con me in giardino. Il che mi mise alquanto in impiccio, non solo per ciò che avevamo stabilito di fare con Michelangelo, ma anche perché non piacevami di notte la loro monacale compagnia. Quanto aveva inteso e veduto fare dal monachello lungo il viaggio per S. Antonio, mi aveva dato sufficiente conoscenza della loro moralità! Tuttavia, fatti al Propagandista alcuni segni convenzionali, ci mettemmo a riposare. Il buon giovane passò la notte ad apparecchiarsi, per fare bene la sua Confessione: e ad una cert’ora, accertatosi che i compagni, stanchi della baldoria fatta sino a tarda sera, se ne stavano immersi nel sonno, venne a chiamarmi; e condottomi un po’ lontano, come per accompagnarmi ad un atto necessario, fece la sua Confessione. Poveretto! Alzatosi dai miei piedi, disse che provava una gioja indicibile, e tutto quello che era accaduto sembravagli un sogno: poichè, condotto e chiuso forzatamente là dentro, aveva perduto ogni speranza di ricevere dal Signore una simile grazia. Parlato poscia dei nostri affari, e messici d’accordo sul modo di regolarci e sui mezzi per conseguire l’intento, ritornammo al nostro posto, e ci mettemmo a dormire. Prima che uscisse il sole mi alzai, e ritiratomi nella cripta di S. Antonio, quieto e tranquillo potei recitare il Breviario e le altre mie solite preghiere.

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21. Mentre mi tratteneva nella cripta in devote meditazioni, sentiva fuori un baccano indescrivibile: erano i monaci che cominciavano a fare baldoria, perché si avvicinava l’ora della colazione, e già sentivano l’odore dell’acquavite. Essendo pronta ogni cosa, vennero alcuni a bussare fortemente alla porta, invitandomi con premura di andare nella sala, dove tutti mi attendevano. Giuntovi, venne apprestato loro abbondantemente; a mie spese, caffè, zucchero e tre bottiglie di acquavite: a me portarono uva, datteri e due eccellenti pagnottelle, che mangiai con grande appetito. Queste pagnottelle, che sono di una finezza e cottura particolare, mi si regalavano da un vecchio monaco, chiamato Maestro Gerente, il quale faceva le veci dell’Abbate Daùd, mandato in Abissinia a predicare la /30/ crociata contro Abùna Messias. Oh se avessero conosciuto che Abùna Messias stava nelle loro mani! E poichè si sapeva che, oltre la colazione, avrei dato loro un pranzo, i monaci non capivano in loro stessi per l’allegrezza, ed era un continuo gridare: — Evviva il signor Bartorelli, evviva il signor Giorgio. — Io però pensava che a quegli osanna avrebbe potuto facilmente seguire il crucifige!

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22. Dopo la colazione si convenne di fare quella mattina una gita alla montagna, e dieci monaci mi vollero accompagnare. Ci volle una buona mezz’ora per essere calati giù ad uno ad uno dalla finestra della cinta. Finalmente ci mettemmo in cammino, ed in meno di un quarto d’ora si arrivò alla cima, donde l’occhio poteva spaziare su di un vasto orizzonte, ma tutto sterile e deserto. Restai meravigliato nello scorgere a Levante tracce abbastanza chiare del Mar Rosso; ed i monaci mi dicevano che in giorni più limpidi si vedeva in confuso, un po’ più verso il Nord, anche la sommità del Sinai. Da ciò argomentai che la montagna di S. Antonio doveva trovarsi più vicina al Mar Rosso che al Nilo; molto più che da quel punto non appariva traccia di sorta di questo grande fiume. La forma di questa montagna è bislunga, da sembrare una catena, di circa un giorno di viaggio, che si stende verso il Sud, con un po’ d’inclinazione all’Ovest. Alla punta Nord sorge il Monastero di S. Antonio, ed alla punta opposta quello di S. Paolo. Camminando circa un quarto d’ora sulla sua cresta, si giunse ad una piccola valle, in cui trovai della vegetazione. I Monaci mi dicevano che da principio S. Antonio avea fissato in quel luogo il suo ritiro, ed ogni giorno andava alla fontana per attinger l’acqua. Moltiplicatisi poscia i monaci, e stabilita la vita comune, andò a piantare l’eremitorio vicino alla fontana, dove poi fu inalzato il presente Monastero. Ritornati indietro, prima di scendere la montagna volli delineare alla meglio la pianta del Monastero e del giardino, che da quel punto si vedevano in tutta la loro maestà e grandezza.

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23. Discesi e rimontati al solito per mezzo della corda, volli misurare la lunghezza di un lato del muro di cinta, e contai centosessanta passi ordinarj. Indi mi feci condurre alla fontana, e trovai una vasca grande ed irregolare, però abbastanza ben fatta, per quei luoghi, che poco si curano di arte. L’acqua usciva di sotto uno strato rossiccio di arena, simile alla pozzolana di Roma: non potei calcolarne il getto, perchè veniva fuori sparpagliata in varie vene; ma doveva essere un gran volume; poichè, non solamente bastava per gli usi del Monastero, ma anche per irrigare il giardino. Presane un poco col concavo della mano, la trovai freschis- /31/ sima, e riempitone poscia un bicchiere, era limpidissima come il cristallo. Voleva beveria: ma tutti i monaci si opposero, dicendo che mi avrebbe fatto male. — E voi dunque quale acqua bevete? domandai. —

— Questa, risposero: ma prima la mettiamo in alcuni grandi vasi, vi mescoliamo una certa medicina, e dopo tre giorni la cominciamo a bere. —

— E se la beveste naturale che cosa avverrebbe? — Allora uno di essi accostandomisi all’orecchio, mi disse confidenzialmente: — Dopo qualche tempo la persona che la bevesse diventerebbe donna! —

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24. Troncai subito il discorso, ed il primo momento ch’ebbi libero, domandai a Michelangelo la spiegazione di questo segreto, ed anche della parola donna, che pure il monachello, mio compagno di viaggio, aveva pronunziato la notte che ci eravamo fermati nel deserto, senza che io la potessi capire. Ed egli me la diede: ma, come ho detto innanzi, sì brutta, che è meglio non parlarne. Mi raccontò inoltre tante storie su questo proposito, ripetute tradizionalmente da quei monaci; e tra le altre, la credenza che S. Antonio abbia miracolosamente infusa una tal virtù a quell’acqua, affinchè i suoi monaci non cercassero donne. « Povero S. Antonio, qual figura, dissi io allora, ti fanno rappresentare questi, che meglio dovrebbero chiamarsi figli della Pentapoli! » Pregai Michelangelo di farmi vedere quella medicina, e portatamela, vidi non esser altro che una certa cenere, la quale si vendeva in Cairo da un famoso Fakiro, e serviva, secondo lui ed i suoi credenzoni, ad eccitare le passioni. Il diavolo, per abbassare e togliere l’idea della castità in mezzo a quei popoli, divenuti simili alle bestie, insinuò simili pregiudizj ed imposture: e per verità non può dirsi che non sia riuscito nel suo intento. Poiché in Abissinia giovani e vecchi, prendevano medicine per calmare le passioni e farsi monaci: in S. Antonio invece si faceva il contrario. Tra i Galla, popoli non guasti dall’eresia e dall’islamismo, questi stupidi pregiudizj non si conoscevano; e la virtù ed il vizio si chiamavano col loro vero nome, ed erano seguiti e detestati, per quanto suggeriva loro il sentimento della legge naturale. Ma non era così tra i figli dell’eresia e di Maometto: anzi capitando essi tra i Galla, e vedendo i nostri giovani mantenersi casti e di morigerati costumi, dicevano che ciò avveniva per la virtù di certe medicine, che loro davamo! Ed in certo qual modo non dicevano male; poichè la loro continenza dovevasi alla pura medicina del Vangelo ed alle carni immacolate di Gesù Cristo.

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25. Una sorgente simile scaturiva all’altra punta della montagna, dove /32/ era fabbricato il gran Monastero di S. Paolo. Ed io credo che, se non i due santi Anacoreti, la Provvidenza di certo miracolosamente ve le facesse scaturire, per rendere abitabili quegli immensi deserti e sterili pianure. E per verità hanno del prodigioso quelle acque, che sgorgano da una montagna secca, e giammai visitata da pioggia. Non possono essere che vene di acqua venute su da una profondità grandissima: nè si può supporre che abbiano origini da altre montagne vicine; poichè le montagne che regolarmente ricevono piogge, e danno sorgenti di acqua, distano da S. Antonio e. da S. Paolo parecchie centinaja di leghe (1).

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[Nota a pag. 20]

(1) Colui che fa da Sindaco nei piccoli paesi o villaggi. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 21]

(1) Montagna di S. Antonio. Amba in lingua abissina significa talvolta villaggio e talvolta montagna; in lingua araba vuol dire altezza, e si usa anche nel senso metaforico. Così, a chi è costituito in dignità ecclesiastica gli si dà dell’Amba, dicendo per esempio Amba Potros, Altezza Pietro. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 28]

(1) Questo Francese era appunto colui, che mi aveva ottenuto dal Patriarca copto la lettera di raccomandazione. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 32]

(1) Mi fu assicurato che verso Levante, non molto lontano dalla catena della montagna, si trovava una roccia nuda, la quale conteneva anche qualche pezzo di sale: e che li presso, scavando, sorgeva pure dell’acqua, ma salmastra, che i Beduini bevevano con pena e per necessità. Ciò proverebbe l’esistenza di un basso suolo marino, da cui il mare in tempi sconosciuti siasi ritirato, forse per avvenuti sollevamenti. [Torna al testo ]