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Capo X.
Di nuovo nell’Abissinia.

1. Notizie di ribellione in Abissinia. — 2. Arrivo di soldati egiziani. — 3. Cura africana per le febbri; richiesta di un servo a Kartùm. — 4 Conferenze con un mussulmano. — 5. Arrivo del servo e partenza per Gudabiè. — 6. Partenza per Armaciò. — 7. Tempesta di acqua e di fichi. — 8. Disgrazia all’asino. — 9. Ai primi villaggi. — 10. Conversazione con un monaco abissino. — 11. Notizie del P. Hajlù su i martiri cappuccini Agatangelo da Vendôme e Cassiano da Nantes. — 12. Da Degiace Tàscio. — 13. Alla provincia di Celga. — 14. La razza Camànt. — 15. A Gondar; biglietto alla Missione. — 16. Accoglienze, notizie e partenza. — 17. Ad Amba-Mariàm. — 18. Arrestati, siamo condotti ad Enferàs. — 19. Una pace a caro prezzo.

Ho sempre tenuto che nella vita del Missionario le tribolazioni e le difficoltà non debbano mancar mai, e che superate le prime, fa d’uopo star apparecchiati a soffrirne e vincerne altre; e l’esperienza di tanti anni mi ha reso ormai più che persuaso e convinto di una tal verità. Di fatto, liberatomi, la Dio mercè, da tutte quelle vessazioni, e partito da Luka, lungo la strada intesi da viaggiatori, venuti dall’Abissinia, che Degiace Kassà si era ribellato a Râs Aly, e che, accampato sulle rive del lago Tsana, minacciava discendere a Matàmma. Queste notizie non potevano non mettermi in pensiero; poichè l’Abissinia era l’unica strada che mi restava a tentare, e precisamente il Dembèa, paese di Kassà. Giunti pertanto a Matàmma, domandai se i due Europei De Marzac e Vissier si trovassero ancora ivi, sperando sentir da loro notizie più certe; ma erano già partiti per Kartùm. Mi recai perciò dallo Scièk Hibraim, pregandolo di procurarmi un’altra casa, stanteché quella che prima aveva abitato, era già stata occupata da altri. /112/ Gli domandai poscia notizie dell’Abissinia, e mi confermò la ribellione di Kassà: ma che però il paese era ancora tranquillo, e Râs Aly non aveva lasciato il Goggiàm. In quanto poi ad una prossima discesa di Kassà a Matàmma, mi assicurò non esservi punto timore, poichè nessuno scopo poteva avere una tale spedizione.

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2. Giunse invece dopo pochi giorni una compagnia di soldati egiziani, per prendere il solito annuale tributo; ed entrati a suon di pifferi e di tamburo, fecero alto nella piazza, ed ivi alzarono le loro tende. Il Comandante, chiamato Mèlek Sahat, prese alloggio vicino alla mia capanna, e non tardammo a far conoscenza, e stringere amicizia. Egli era un vecchietto assai ardito, con lunga barba, bianca come la neve, e di maniere assai cortesi e piacevoli. Quando Mohammed-Aly conquistò il Sudan, Mèlek Sahat teneva un piccolo principato vicino a Scendy: ma fatta o per amore o per forza la sua sottomissione, fu ammesso dal Vicerè nell’esercito egiziano col grado di Capitano: tutti però continuarono a chiamarlo Mèlek Sahat (Re Sahat). Questo buon vecchio passava le intiere giornate con me, raccontandomi tutte le guerre di Mohammed-Aly fatte nel Sudan, nel Kordofàn e nel Fazògl; si usciva a spasso insieme ed insieme voleva che si pranzasse e cenasse.

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3. Le febbri intanto non mi avevano mai lasciato, e sebbene si affacciassero con intervalli di sei od otto giorni, pure mi tenevano in continua languidezza e fiacchezza di forze. Quel Comandante mi assicurò che con una cura di pochi giorni a uso del Sudan me ne sarei liberato. Per tre giorni interi adunque mi tenne quasi in dieta, abbeverandomi solo con decotto di tamarindo e con caffè; talmentechè mi si sciolse il corpo in modo straordinario; poscia mi somministrò una forte dose di chinino, e mi raccomandò di mangiar bene. In verità, dopo quella cura, le febbri non tornarono più, e mi rimisi in forze.

Lo star solo, e senza neppure un servo per i necessari servizj era una brutta vita, e non essendomi stato possibile trovarne uno a Matàmma, scrissi alla Missione di Kartùm di cercarmelo colà, però non troppo giovane, ma di buoni costumi, fedele, e conveniente alla mia condizione, vale a dire, se non cattolico, almeno cristiano, e mandarmelo. Il Comandante, scelto un bravo soldato con un dromedario, lo spedì per portare la lettera, e dopo alquanti giorni ritornò con la risposta di quei buoni Padri, i quali mi promettevano di mandare tra poco un giovane abissino, giunto allora da Gerusalemme, per nome Giuseppe. Per lo meno ci volevano tre settimane prima che arrivasse, ed in questo tempo, dovendo i soldati ritornare /113/ a Doka, il Comandante mi pregò di accompagnarlo. Annojandomi di restar solo in quel paese per tanti giorni, accettai l’invito e partii con esso.

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4. A Doka fui ospitato in casa sua, e trattato con tutta gentilezza ed affezione. Egli teneva una casa mobigliata sfarzosamente, e con molta servitù, in gran parte schiavi. I più giovani ed i più belli, graziosamente vestiti, erano tenuti come paggi, ed addetti al servizio interno della famiglia, come aveva veduto in casa dei Comandanti di Kiri e di Gassàn. Allora, in quei pochi giorni di dimora presso questi due ultimi mussulmani, non aveva giudicato conveniente di parlare della corruzione pentapolitana, da loro sì sfacciatamente favorita: ma con Mèlek Sahat, vedendolo alieno di simili sconcezze, e trattando meco con maggior confidenza, volli moverne discorso, mostrandogli il gran male che un tal vizio portava all’individuo, alla famiglia ed alla società. — Avete ragione, mi rispondeva, questi danni io li veggo, li ho sempre biasimati, e per quanto mi è stato possibile ho cercato di tenermene lontano. Anticamente in questi paesi non era così; simili vizj non si conoscevano, e furono gli Egiziani che ce li portarono col loro dominio: sicchè ormai è divenuto un uso necessario il tenerli, principalmente per l’arrivo dei forestieri di religione maomettana. La sorgente di questa corruzione è la Mecca: essa ha inondato il mondo, ed a noi ce la portarono i turchi dell’Egitto. — Parlando dei preti, diceva: — Quando vado a Kartùm, la mia conversazione è sempre con i preti di Roma, perchè li trovo buoni, educati ed alieni da queste cose: invece i preti copti sono peggiori di noi. Io son mussulmano, ma all’antica, non alla moda turca o della Mecca. Mohammed-Aly, che accompagnai sempre nelle guerre del Sudan, del Kordofàn e del Fazògl, era un grand’uomo; e perchè non era egiziano, abborriva simili vizj. Egli portava sempre seco una moglie, e per questo Iddio gli diede molti figli. In quanto a me, già lo vedete che ne ho tanti, da rendermi il padre più felice di questo mondo. — Ho voluto riportare le parole di quest’altro oracolo mussulmano per far conoscere che la corruzione, di cui si parla, non era poi tanto antica, nè universale in quei paesi; e che la voce della legge naturale si faceva ancor sentire, anche fra i mussulmani: il che basta per renderli inescusabili.

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5. Dopo tre settimane giunse finalmente il servo Giuseppe, portandomi una lettera del P. Pedemonte, nella quale mi dava tante particolareggiate notizie, e mi diceva che già col P. Zara erano sulle mosse di partire, essendo vicino l’arrivo del Provicario Knoblecher con i Missionarj tedeschi. Continuavano intanto le notizie di prossima guerra tra Râs Aly e Degiace Kassà, e si diceva che il Dembèa e le rive del Tsana ne dovevano essere /114/ il campo: e perciò Mèlek Sahat mi consigliava di lasciare la via di Matàmma e di Uaini, che conducevano al Dembèa; e volgere invece più al Nord, prendendo quella di Gudabiè; la quale, toccando la provincia di Armaciò, portava direttamente a Gondar. Mi arresi a questo consiglio, e disposta ogni cosa, provveduto di raccomandazioni, lasciai Doka sulla fine di Maggio del 1852; ed il quinto giorno giunsi a Gudabiè. Era questo un paese indipendente dall’Egitto e dall’Abissinia, come tutti gli altri di frontiera, pagando al solito ad entrambi un tributo. Vi si teneva anche mercato: ma non vi si portavano, come a Matàmma ed altrove, i grandi prodotti dell’interno; solo vi andavano le popolazioni del Wolkaìt per comprare cotone ed altre merci venute dall’Europa.

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6. Presa una guida a Gudabiè, la quale aveva ordine dallo Scièk di accompagnarci sino ai primi villaggi di Armaciò, ci mettemmo in cammino. Dopo un tratto di strada si entrò in una pianura si vasta, che avrebbe potuto contenere un mezzo milione di persone: quantunque deserta, vi si vedeva una bella vegetazione; onde elefanti, leoni, grossi serpenti ed altri animali vi godevano ampia libertà. Si camminò tutto il giorno, per arrivare la sera ad un fiume che discende dalle frontiere Nord del Dembèa; e raggiuntolo ed attraversatolo, ci fermammo ad un chilometro di distanza sotto un grosso sicomoro. Dovendovi passare la notte, ed avendo bisogno di mantenere acceso un gran fuoco per ispaventare e tener lontane le bestie feroci, pria di tutto radunammo gran quantità di legna, e poi cavata dalla guida la scintilla col solito fregamentò di due legni secchi, ci mettemmo a mangiare la nostra scarsa cena. Indi avendo qualche debito da pagare a Dio, dissi ai due servi di porsi a dormire, che avrei pensato io a custodire il fuoco sino ad una cert’ora, in cui poi avrei svegliato un di loro.

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7. Dopo le nove di fatto, destata la guida, mi adagiai per terra, cercando di prender sonno: ma vedendo il cielo molto rabbujato, e spessi lampi guizzare in lontananza, mi ricordai di una notte simile passata alcuni anni dietro sotto un altro sicomoro: e Dio non voglia, dissi, di vedere la seconda! E di fatto il temporale non tardò ad avvicinarsi, e ci sorprese con un diluvio di acqua tale da fare spavento. All’acqua si aggiunse un vento si impetuoso, che, agitando quel grand’albero, minacciava di schiantarlo, e gettarcelo addosso: l’albero poi essendo in quella stagione carico di frutti, ci cominciò a cadere sopra una fitta tempesta di fichi, che sembravano pietre. Fortunatamente non durò molto, la corrente fece il suo passaggio, ed a poco a poco si dileguò. Ma il terreno era tutto inondato, la legna bagnata, il fuoco quasi spento, le vesti, le /115/ coperte fradicie; sicchè fummo costretti spogliarci e restar mezzo ignudi. Non faceva gran freddo, altrimenti l’avremmo passata bella. Rattizzato il fuoco, asciugammo alla meglio le vesti: ma chi potè dormire! appena verso il mattino ci fu dato prendere un po’ di riposo. Alzatici al levar del sole, visitammo gli oggetti, e poichè stavano conservati dentro gli otri (1), si trovarono asciutti; solo la farina era alquanto inumidita: il sole poi rasciugò ogni cosa. Prima di partire si fece un po’ di colazione, e trovammo che di quei fichi caduti, alcuni erano abbastanza maturi e buoni a mangiarsi; non dico che fossero eccellenti, ma a noi poveri viaggiatori, che camminavamo sprovvisti di ogni cosa, sembrarono squisiti.

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8. Si riparti un po’ tardi, e buon per noi che avevamo passato il fiume la sera innanzi; perché le acque, scese dalle montagne, l’avevano talmente ingrossato, che non sarebbe stato possibile guadarlo in quel giorno. Trovammo da per tutto un gran fango, e ad ogni passo serpenti ed altre bestie, che si godevano di sole: onde la sera non si potè giungere alla montagna, e fummo costretti passare la notte in quella vasta pianura sotto un altro albero di sicomoro. La dimane verso le nove si giunse ai piedi della montagna, lambiti da un grosso torrente, ed attraversatolo, ci avviammo per una viottola, che, serpeggiando, conduceva su. L’acqua, corrodendo la terra, avea reso quello stretto sentiero assai malagevole al cammino, principalmente delle bestie cariche. Eravamo già un pezzo avanti, quando il povero asinello, messo un piede in fallo, scivolò, perdette l’equilibrio e precipitò con tutto il carico nel torrente. Dai capitomboli che aveva fatto, e dall’altezza ond’era caduto, giudicammo che si avesse dovuto slogare qualche gamba; e con una gamba di meno non poteva andare che all’ospitale delle jene! Discesi giù, lo scaricammo, ma fu impossibile farlo rialzare: sicchè, diviso il carico in tre parti, ce lo mettemmo sulle spalle, e ci avviammo per quell’erta salita. Fatti alquanti passi, il povero asinello, scorgendosi abbandonato, e forse prevedendo la sua futura sorte, fece uno sforzo e si alzò, e zoppicando, cominciò a seguirci.

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9. L’asino ci veniva appresso quasi chiedendo pietà di non abbandonarlo; onde giunti ad un ripiano della montagna, e trovata un po’ di erba, ci fermammo all’ombra di un albero; e fatto il caffè, mangiammo un pezzo di pane. La guida volle osservare l’asino, che già ci avea raggiunti, e montatagli sopra, vide che camminava senza tanto soffrire: postogli allora un carico minore, ci rimettemmo in viaggio. Avvicinandoci alla cima, si /116/ cominciarono a vedere campi seminati, e non tardò molto che giungemmo ai primi villaggi. La guida ci condusse alla casa del Mesleniè (1): e fattagli la consegna di noi e del bagaglio, prese commiato, e ritornossene a Gudabiè. Il Mesleniè ci accolse gentilmente, e ci diede subito quei ristori, di cui avevamo bisogno, dopo la fatica di quell’erta salita: indi ci assegnò una capanna, dove trasportammo l’asino ed i nostri pochi oggetti.

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10. In quel villaggio trovai un monaco abissino, avanzato in età e di maniere molto semplici. Prima che si facesse notte volli fare una passeggiata con lui, per prendere informazioni su quei luoghi, ed anche per conoscere meglio la loro vita e costumi. Mi raccontò tante cose, spesso Ill. Disgrazia dell’asino. || false ed esagerate, e mi mostrò in lontananza un monastero, di cui non ricordo il nome, ma assai celebre in Abissinia, e forse l’unico in cui si mantenga qualche forma di vita comune. Narrava tante storie intorno a questo monastero, il quale secondo lui, aveva avuto origine da alcuni sacerdoti franchi, che poscia erano stati martirizzati in Gondar. Egli, ignorante come tutti gli altri monaci eretici, non raccontava che le tradizioni popolari, miste sempre a falsità ed esagerazioni; ed io non conoscendo ancor bene la storia abissina, faceva vista di creder tutto. Rispetto a quei /117/ sacerdoti, pensava che fossero stati il P. Agatangelo da Vendôme ed il P. Cassiano da Nantes: ma mi sbagliava; poichè questi non erano penetrati in Abissinia che per la parte del Mar Rosso, e non vi avevano dimorato che pochi mesi. Altri adunque doveano essere stati i fondatori di un tal monastero, andati là posteriormente, e martirizzati anch’essi. Il martirio dei Padri Agatangelo e Cassiano avvenne sotto il regno di Fasilada, o meglio sotto la reggenza di sua madre, fiera eutichiana; la quale promosse in Etiopia la persecuzione della Religione cattolica, l’esilio di tanti buoni cristiani, e l’espulsione dei Padri Gesuiti. Restando tuttavia in Corte molte persone, che conservavano sempre nel loro cuore la fede romana, un successore di Fasilada alquanti anni dopo fece venire dal Cairo due Religiosi francescani, e non potendo trattenerli in Gondar per timore dei Defteri eretici, potenti in quel tempo in tutto il regno, li collocò sulle frontiere occidentali più vicine alla città, dove quei della Corte nascostamente si recavano per ricevere i Sacramenti. Vi stettero pacificamente alcuni anni: ma poi, scoperti dai partigiani dell’eresia e condotti a Gondar, coronarono la loro vita con glorioso martirio. E difficile precisare l’anno in cui tal fatto avvenne; poichè la storia abissina, non parlando nè di epoche nè di date, è un vero caos.

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11. Il P. Hajlù Michele, nativo di Gondar e mio allievo, quello stesso che abbiamo conosciuto sotto il nome di Deftera nel testo: Abebàjù Abebajù, e che poi fatto Terziario francescano ed ordinato sacerdote, era riuscito uno zelantissimo Missionario, mi raccontava molte tradizioni su questi martiri, e principalmente il miracolo del fuoco uscito dal loro sepolcro: tradizioni ancor vive nel monastero suddetto, ed anche tra il popolo di Gondar e nella famiglia imperiale. Ed io gli aveva dato il permesso di recarsi in Gondar per raccogliere notizie precise su questi Martiri, tanto nella Corte quanto nelle tradizioni popolari, e visitare inoltre il sepolcro per estrarne qualche reliquia: ma uscito nel 1861 il decreto del mio esilio da Kaffa, dovette egli restare in questa città pel servizio spirituale della Missione, e quindi depose il pensiero di recarsi a Gondar. Dopo la mia partenza da Kaffa, so che egli raccolse molte notizie sui due Martiri suddetti, ed anche sugli altri due supposti fondatori del monastero, e ne compose una particolareggiata relazione: ma non mi fu possibile avere questo manoscritto. Sperava ultimamente trovarlo tra gli scritti del P. Leone des Avanchéres, ma ne restai deluso. Avendo egli scritto in lingua amarica, probabilmente il suo lavoro venne rubato o distrutto dagl’indigeni (1).

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12. Il giorno seguente partimmo da quel villaggio con una guida dataci dal Mesleniè per accompagnarci sino alla città di Degiace Tàscio, il quale governava in quel tempo tutta la provincia di Armaciò. Vi arrivammo verso sera, e fummo ricevuti da quel Principe con tutta cortesia. Riposammo un giorno presso di lui, e mostrando molto interesse per la mia persona, lo pregai di volermi in qualche maniera agevolare: ed egli gentilmente mi promise che avrebbe mandata una guida per accompagnarmi sino alle frontiere della sua provincia, la quale poscia, cercandomi un’altra guida di confidenza, le avrebbe ordinato di condurmi sempre presso persone particolari ed amiche, finché non avessi attraversato tutti i paesi Camànt, soggetti a Degiace Kassà. Questo io desiderava, poichè così avrei evitato l’incontro delle Autorità locali di quei paesi e villaggi, le quali certamente non avrebbero lasciato di riferire al potente loro signore il mio passaggio per quella provincia, e suscitarmi quindi nuove e maggiori molestie.

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13. Il buon Tàscio di fatto mantenne la parola, e partiti di buon mattino, verso sera toccammo i confini Est di Armaciò. Si passò la notte in casa di un suo Mesleniè, da cui ricevemmo ogni sorta di gentilezze. Il giorno seguente poi fece partire per tempissimo gli asini carichi col servo Giuseppe e con un uomo di carovana, come se fossero mercanti indigeni, e diede loro ordine di fermarsi ad un dato punto in casa di un suo amico particolare, ed ivi attendere il mio arrivo. Io poi con una sola guida partii più tardi, tenendo la stessa strada: e dopo alquante ore li raggiunsi al luogo stabilito, dove passammo il resto della giornata e la notte. Quella casa non era molto distante dalla montagna o fortezza di Celga, in cui Degiace Kassà teneva tutti i suoi tesori, e relegava i prigionieri di Stato. La provincia di Celga, detta anche dei Camànt, è una delle più floride di tutta l’Abissinia: la sua altezza media non supera i duemila metri sul livello del mare; sicchè si ha in essa una temperatura moderata, un clima dolce, ed una bella vegetazione.

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14. Abita questa provincia una razza particolare, che ha conservato sempre e conserva ancora la sua originalità. Robusta, ardita, e di carattere calmo e serio, si dà volentieri alla coltivazione dei campi, ed a tempo sa mostrarsi anche valorosa e guerriera. La sua religione è un mistero: dagli Abissini i Camànt son chiamati pagani; ed in certo qual modo conviene loro questo nome, in quanto che non sono nè cristiani, nè ebrei, nè mussulmani; quantunque conservino qualche pratica degli uni e degli altri. Credono costantemente in Dio, e quindi in genere non sono nè idolatri, nè feticisti. Sono inoltre molto cortesi ed ospitali, e di costumi non /119/ tanto depravati. Se il clero abissino fosse animato da spinto apostolico, per la vicinanza in cui si trovano, in poco tempo li avrebbe potuto rendere cristiani: ma di apostolato non è da parlarne fra quei poveri eretici. Tenaci nel non permettere che altri insegni una religione diversa della loro, poco importa ad essi di far proseliti: ed è questa la malattia di tutto l’Oriente cristiano.

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15. Si camminò una seconda giornata sempre fra i Camànt di Celga, schivando sempre le strade frequentate, e la sera si giunse in casa di un altro amico di Degiace Tàscio. Era questi un vecchio ottuagenario, di costumi semplici e di maniere assai cortesi. Da giovane, essendo stato paggio in una famiglia cristiana, aveva ricevuto il Battesimo: ma poi, presa moglie, non si era curato di far battezzare i suoi discendenti; onde quella famiglia era riguardata come tutte le altre dei Camànt. Debbo però confessare ch’essa, benchè numerosissima, era delle più bene ordinate, che in Abissinia mi fu dato vedere. Partiti al mattino, giungemmo in vicinanza di Gondar dopo mezzogiorno, e ci fermammo in un villaggio non molto distante dalla città. Mandai subito un biglietto alla Missione, annunziando il mio arrivo, e raccomandando di venirmi a prendere segretamente a notte inoltrata. Non tardò molto di fatto che mi vidi comparire dinanzi Tekla Haimanòt, un prete indigeno da me ordinato in Gualà. Non occorre dire quanto godessi nel rivedere, dopo tanti strapazzi e viaggi disastrosi, questo mio primo figlio! Accomiatai tosto la guida, regalandola di qualche cosa, e poscia, lasciato Giuseppe con un altro nel villaggio, per custodire il bagaglio, e seguirmi il giorno appresso come persone estranee, mi avviai con Tekla Haimanòt per la casa della Missione, dove giungemmo ad un’ora di notte.

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16. Appena arrivato, mi si gettarono al collo il buon Fra Filippini, e tutti i giovani della casa, che io già aveva conosciuti nel Tigrè e nel precedente mio viaggio di Gondar; e fu una festa per loro e per me. Non volendo intanto trattenermi lungo tempo in Gondar, per non correr pericolo di essere riconosciuto, raccomandai loro di apparecchiarmi presto le provviste necessarie, e cercarmi un solo portatore fedele ed esperto. Si cenò la sera allegramente, e quantunque io fossi molto stanco, tuttavia non si sentiva il bisogno di andare a dormire, tanto grande era la voglia che tutti avevamo di raccontare le nostre vicende. La mattina mi alzai di buon’ora per celebrare la santa Messa, di cui sentiva tanto il desiderio ed il bisogno: indi passai alquante ore a soddisfare gli altri miei doveri sacerdotali. Fatta poi colazione, volli essere informato minutamente dello /120/ stato della Missione, della condizione dei miei Missionari, della politica e delle disposizioni del paese, e di tante altre cose, a fin di regolare le mie mosse e le mie future operazioni. Seppi che il P. Giusto da Urbino, dopo l’espulsione da Tedba-Mariàm, erasi stabilito a Betlihèm, e che il P. Cesare da Castelfranco mi aspettava in Goggiàm. Scrissi immediatamente a tutti e due, dicendo loro che sarei partito subito per Ifagh, e che cercassero il modo di venirmi a trovare segretamente là, per conferire sulle nostre ulteriori operazioni. Finalmente dopo due giorni di dimora in Gondar, partii di notte con Giuseppe e con un solo portatore.

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17. In Abissinia, ed anche altrove, io era solito viaggiare molto semplicemente, e quasi sempre a piedi, per non isvegliare la cupidigia e la curiosità del pubblico, e per non aver che fare coi Grandi dei varj paesi; la cui amicizia o inimicizia è sempre pericolosa, o per lo meno causa di non pochi fastidj. Partiti da Gondar, la sera si giunse ad Amba-Mariàm, piccola città, o meglio uno dei soliti santuarj, di cui è piena l’Abissinia. Non avrei voluto andarvi, perchè in questo viaggio mi era proposto di schivare i luoghi popolati e centrali, principalmente se vi fossi passato altra volta, per timore di essere condotto dai servi dove io non volessi, ed anche di essere da qualcuno ravvisato e scoperto. Ma i servi non la pensavano come me; essi presceglievano piuttosto quei luoghi, dove potevasi trovare abbondantemente birra ed altro.... Quindi s’indugiarono e dilungarono tanto per la strada, che la sera fummo costretti di fermarci ad Amba-Mariàm. Trovata una capanna, si passò la notte tranquilla e sufficientemente bene, e la mattina partimmo per Ifagh.

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18. Non si era fatto un miglio di strada, che ci vedemmo correr dietro un soldato, gridando e minacciando come un ossesso. Lascio pensare ai miei lettori qual animo ebbi a fare in quel momento! Finalmente raggiuntici, ci fe’ tornare indietro, e senz’altro dire ci costrinse a seguirlo sino ad Enferàs, paese non molto lontano da quella strada, e residenza del Nagadarâs (1). Giunti là, i due servi furono legati, ed io custodito a parte gelosamente. Dopo qualche ora fummo condotti alla presenza del Nagadarâs, un ricco e scaltro mussulmano, il quale con fiera burbanza, mi domandò donde venissi.

/121/ — Da Gondar, risposi. —

— E dove volete andare? —

— In Goggiàm. —

— E perchè avete preso la via traversa, forse per iscansare le dogane? —

— Si è presa la via traversa, risposi, perchè a me sono ignote le strade del vostro paese, e non sapeva che qui vi fosse dogana. —

— Dunque siete forestiero, e forse un negoziante che portate contrabbando. —

Allora ordinò di andare a prendere gli otri del carico; ed apertili, non si trovarono che le provviste da viaggio, alcune camicie, un po’ di danaro Ill. Dinanzi al Nagadarâs. || e gli oggetti sacri per celebrare la Messa. Da questa perquisizione avrebbe potuto restar persuaso che io non era un negoziante, e molto meno un contrabbandiere, e quindi senz’altro doveva lasciarmi andare per i fatti miei. Ma il mussulmano non è così facile ad usar giustizia quando non ha timore di chi ve lo costringa; e quel furbo, non avendo trovato contrabbando, voleva mangiare almeno qualche altra cosa, molto più che quei pochi talleri gli aveano stuzzicato probabilmente l’appetito. Sicchè, fatti legare nuovamente gli otri, ci fe’ tenere in custodia come prima.

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19. Erano già passati due giorni, e noi ce ne stavamo là guardati come prigionieri dentro una stanza mezzo diroccata di un antico castello, fab- /122/ bricato dai Portoghesi, e che prima aveva servito di villeggiatura agli Imperatori. Quando vi passai, tutto era in rovina, ed una sede imperiale era ormai divenuta l’abitazione di un esercito di scimmie. Quanto questa inaspettata molestia mi disturbasse, il lascio pensare ai miei lettori; poichè per essa già stavano per andare in fumo tutte le industrie e cautele usate sino allora. Quindi mi vedeva costretto di assoggettarmi a qualunque pretensione di quel farabutto, per togliermi da un imbroglio, che avrebbe potuto farmi cadere nelle mani dei Copti e di Râs Aly. Più, le piogge, già inoltrate, minacciavano di chiudere le strade; i rumori di guerra si accrescevano; i miei Missionari mi credevano giunto in Ifagh; sicchè il rimanere più oltre in Enferàs, sarebbe stato per me un guajo grandissimo. Oltre a ciò aveva un forte sospetto che qualche servo o soldato mi avesse riconosciuto; quindi a qualunque costo mi conveniva venire ad un accordo. Il Nagadarâs da parte sua non aveva meno desiderio di me di far la pace; poichè, avendo veduto che io era prete, certamente temeva che questa vessazione giungesse all’orecchio di Râs Aly, il quale, si sapeva da tutti, quanto amasse la Missione cattolica. Inoltre non gli doveva essere ignoto che il suo predecessore, per simili soperchierie fatte ad Abûna Messias, era stato destituito, e costretto a rimborsarlo della somma forzatamente carpitagli. Però non voleva restare a dente asciutto, quei talleri visti negli otri, gli facevano gola! La sera del secondo giorno adunque vennero a trovarmi segretamente alcuni, e mostrando di prendersi premura della mia sorte, mi proposero di far la pace. — Volentieri, risposi io, ma è meglio trattare con lo stesso Nagadarâs. — Venne egli di fatto, e dopo una filastrocca d’insulse ragioni, di minacce, di consigli ecc. mi domandò cento talleri. — E se dò cento talleri a voi, risposi, che mi resterà per continuare il viaggio, e mangiare io ed i miei servi? Voi avete veduto che non sono un negoziante, ma un forestiero che devo andare dal Râs prima che si chiudano le strade; quindi riflettete bene a ciò che fate. — Finalmente per togliere ogni questione, ci aggiustammo per quaranta talleri, col patto che io non avrei detto nulla al Râs, quando fossi arrivato alla sua residenza; ed egli, nel caso che mi risolvessi di passare l’inverno in Ifagh, avrebbe dovuto darmi una casa, e poi scortarmi con una guida sino a Baso, affinchè lungo la strada, che menava al Goggiàm, non venissi molestato dalle dogane. Così fu fatta la pace, e restammo amici.

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[Nota a pag. 115]

(1) La maggior parte degli oggetti da viaggio in Africa si sogliono mettere dentro otri, per esser meglio custoditi, e per potersi più comodamente trasportare a spalla d’uomo, o su cammelli, muli, asini, ed anche bovi. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 116]

(1) Si chiama Mesleniè il rappresentante di un’Autorità qualunque. È una specie di Procuratore che tratta gli affari di un Re, di un Râs, di uno Sciùm ed anche di un signore particolare. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 117]

(1) Per questi due Martiri si vegga il Bollario dei Cappuccini Provincia Turonensis tom. 5, pag. 83. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 120]

(1) Nagada significa mercante, râs capo; quindi capo dei mercanti. Ed è questo il titolo che si dà al capo delle dogane; il quale ne è piuttosto l’appaltatore, anzichè un ufficiale del Governo; poichè, dopo avere sborsato un tanto al Governo, esige poi i dazj per conto proprio. Da ciò quindi la facilità delle soperchierie che si commettono, principalmente contro i forestieri. Ordinariamente in Abissinia, le sole mercanzie che vengono e vanno al mare, sono soggette alle dogane, come tele, drappi, rame, comerie, schiavi, avorio, muschio e simili: i prodotti poi di cambio fra gl’indigeni, come grano, bestiame, butirro ecc. non pagano dazio, e quindi non sono di pertinenza del Nagadarâs. [Torna al testo ]