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Capitolo IV.

Vigilie d’assalto.

La guerra non presentava un pericolo uguale e continuo: vi erano ore più calme, zone meno agitate, tregue apparenti, e, al contrario, l’annuncio di future azioni e l’invio in certe zone di fronte facevano rizzare i capelli. Sulle trincee del Sabotino, del S. Michele, di Castagnevizza, come su quelle del Pasubio e del Grappa pareva che i rincalzi richiamativi in certe vigilie angosciose, vi leggessero i versi che Dante scolpì sulla porta dell’inferno:

Testo e punteggiatura come nell’originale
Lasciate ogni speranza, voi, ch’entrate. (1)

Anche il meno accorto dei fanti sapeva annusare nell’aria il temporale di fuoco, che si sarebbe voluto preparare in secreto dai nostri comandi. Si moltiplicavano i segni d’allarme; i cannoni, ogni notte, giungevano e affittivano dietro le nostre trincee, come selve di bocche spalancate in aria, quasi per mordere il cielo; gli ordini passavano sommessi e misteriosi; i reggimenti e il fiore delle nostre truppe si scaglionavano /33/ in profondità alle nostre spalle. Il fante sgranava melanconicamente gli occhi su tutto quel tramestìo, e comprendeva che bisognava prepararsi all’estremo sacrifizio. Per molti era quella l’ora della Grazia. Pochi esaltati o suggestionati da un ideale puramente terreno, pochi esasperati da un pessimismo maledicente a Dio e agli uomini, pochi incoscienti, portati al supremo agone cogli occhi bendati, non fanno certo un numero maggiore delle belle schiere che si preparavano cristianamente al cimento supremo. Non importa se le spingesse il desiderio di riconsegnare al Creatore con tutte le grazie d’una riconquistata innocenza l’anima uscita bella dalle sue mani, oppure il timore dei supplizi eterni preparati al peccato, oppure la speranza d’una speciale protezione divina, d’una incolumità: chi accolse certe confidenze accorate, e appressò l’orecchio alle pulsazioni preagoniche del pavore o della generosità, sa che esse terminavano quasi sempre al segno divino di redenzione, a cui, per natura sua, trascina quella forza misteriosa che è il dolore.

Nei primi mesi di guerra molte truppe fresche, ma pressoché inermi e impreparate, che dovevano venire scagliate all’assalto dei munitissimi baluardi austriaci si facevano ammirare per una pietà collettiva, che traeva le lacrime dei vecchi curati dei paeselli alpini e della Precarsica. Allora si videro dei plotoni interi, che durante una marcia forzata sotto lo zaino affardellato e nel digiuno volontario, approfittavano d’un breve alt di riposo per precipitarsi nella chiesetta del villaggio a chiedere perdono a Dio e ricevere il Pane dei forti.

Purtroppo che i fervori collettivi si smorzarono presto! Ma la fede non fu mai del tutto spenta nei cuori. /34/ Quasi sempre fu possibile, prima di salire il calvario dell’azione, celebrare funzioncine religiose che predisponevano non pochi alla gioia dei Sacramenti. Negli indugi di trincea si compiva poi l’opera cogliendo gli ultimi frutti. Il cappellano doveva frequentar sempre la trincea di primissima linea: sempre, ma specialmente quando si cominciava a sentir caldo, come si esprimevano i trinceristi. Quei calori di pericolo sempre più prossimo, di fuoco sempre più intenso, portavano la messe all’ultima maturità e perciò il mietitore evangelico vigilava di giorno e di notte, sotto il sole e la pioggia nei tratti più battuti dalle granate, tra i rovi di ferro spinato, come nei sicuri ridottini dove si stipavano i rincalzi. Egli passava, buon pastore in traccia della pecorella smarrita, dando a questo una caramella, a quello una carezza, a quell’altro una sigaretta o un libriccino o una medaglia, secondo il gusto di ciascuno e le provviste sempre troppo scarse del suo tascapane: per tutti poi aveva un sorriso e una buona parola d’augurio, di speranza, di benedizione.

Quando l’azione non era imminente, l’avviso della visita del cappellano correva per la trincea avanti a lui, e l’animava tutta; i piccoli fanti, inzaccherati, bisbigliavano gli uni agli altri la notizia, e facevano i piccoli crocchi in attesa di quella persona resa cara come un fratello, come un padre che venga a visitare il figlio sul letto della malattia mortale; tanto poco basta a cattivarsi il cuore schietto e buono del nostro popolo!

Talvolta, il nemico notava tutto quel brusìo che s’accendeva sulla nostra linea attorno al cappellano; e, temendo forse qualche agguato, vi scatenava immedia- /35/ tamente un fuoco che faceva squagliare immantinenti le piccole adunate. Altre volte la persona stessa del cappellano veniva fatta segno alle scariche di fucileria del solito freddo cecchino, che attendeva la preda innocente ai varchi difficili, ai passi obbligati. Ma non s’arrestava lo zelo sacerdotale: per amore dei nostri fratelli ogni ora votati al sacrifizio, si poteva esporre la propria vita qualche volta!

Durante questi giri per le trincee, alla vigilia degli attacchi, qualche sguardo fissava più a lungo il cappellano, o gli mormorava una parolina all’ orecchio: a quel segno si allontanavano ambedue, in qualche angolo nascosto al nemico e agli amici, e accosciati nel fango, o tra i sassi, soli dinanzi al cielo e all’eternità, attraverso alla pia confidenza e alle lacrime operavano il perdono divino. Allora il sacerdote estraeva una candida ostia dalla custodia dorata, che sempre portava appesa sul cuore, e la deponeva su quell’anima santificata.

I doloranti figli delle trincee venivano ad abbeverarsi alla stessa sorgente a cui attingevano la forza soprannaturale i primi cristiani, negli oscuri ambulacri delle catacombe.

31 ottobre 1916.

Finalmente è cessata la uggiosa pioggia che ci ha inzuppati per più d’una settimana: nell’aria fresca è diffusa una luce che ricorda il sole di luglio. Il bel tempo sospirato dagli alti comandi è giunto finalmente, ed anche noi, destinati al primo urto, ne siamo con- /36/ tenti. È meglio affrontare una buona volta qualunque sorte, che continuare a marcire nella trepidazione e nel fango.

Un battaglione completo è stivato nel fondo melmoso della dolina e nella trincea sovrastante. Persistenti tiri fanno passare sul nostro capo le granate, che, sibilando, volano a scoppiare sul nemico: il quale risponde degnamente. Durante questi giorni vi fu uno stillicidio continuo di feriti e di morti.

Si apprende che il giorno X, del quale parlano misteriosamente gli ordini di operazione letti e commentati sommessamente dal comandante a tutti gli ufficiali, sarà la dimani.

Io prendo la cassettina dell’altare da campo e preparo la messa. I fanti mi si stringono attorno e mi aiutano: si bada a non sciorinar tutta la piccola tovaglia bianca, affine di non offerire un obbiettivo di morte alle bombe degli aeroplani austriaci che vagano nell’alto. Appena incomincio la celebrazione, i soldati piegano le ginocchia in quel guazzo di fango rossastro e viscido, che non ci fa più schifo, dopo che è stato il nostro letto per tutta la lunga permanenza: i soldati si scoprono, leggono e bisbigliano preghiere: molti si preparano alla santa Comunione.

I proiettili continuano a lacerar l’aria. Una granata nemica, scoppiando sull’orlo della dolina, spande una pioggia di schegge e di sassi, che fanno parecchie ferite.

Il sacrificio dell’altare non può avere più prossima l’effusione del sangue umano. Uno dei colpiti s’accosta, frammischiato ai compagni, a ricevere la sacra particola, col capo stillante sangue, attraverso alle candide bende recenti.

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Dopo il disastro di Caporetto e la prima resistenza al Piave e sul Grappa, lo spirito aggressivo rinacque nell’esercito, specialmente per opera dei battaglioni di assalto.

In quel tempo (gennaio 1918), io prestavo servizio presso il ventinovesimo reparto, reclutato di fresco fra gli alpini della Val Lagarina: ed ho potuto assistere ad una delle più belle prove del suo valore.

Alcuni camions ci portarono dal nostro accantonamento al paese di Il punto interrogativo (?) è nell’originale Castiglione (?), sulla riva destra dell’Adige, dove si rimase alcuni giorni, attendendo agli ultimi preparativi. Quel paese, benché gli abitanti ne fossero stati allontanati, conservava ancora buona parte delle sue abitazioni intatte e arredate, e il comandante del presidio ci alloggiò (eravamo una sessantina) in una casa abbandonata. Ci si stava bene, ma avevamo la proibizione formale di uscire e divagare pel paese. Una vera agonia s’imponeva agli arditi, usi a godersi tutta la libertà consentita a un militare in tempo di guerra.

I miei ufficiali mi dissero: «Gli arditi sono a tua disposizione dal mattino alla sera e dalla sera al mattino», e si eclissarono per attendere ai preparativi dell’azione.

Non mi si poteva fare una più cara consegna. Incominciai in quello stesso pomeriggio a inventare dei giochi, a stabilire dei premi, a raccontar tante cose divertenti per ammazzare la noia e l’umiliazione di quella prigionia. Al mattino seguente celebrai la messa nel /38/ vasto solaio; ma quella cappella improvvisata non era del gusto nè mio, nè dei miei giovinotti.

Uscii in cerca d’una migliore, d’una vera chiesa: e non mi ci volle molto a scoprirla: torreggiava nel centro del borgo. Tornai dai miei arditi e promisi che, se nessuno abusasse dell’occasione per sbandarsi, io stesso mi sarei assunto la responsabilità e l’incarico di accompagnarli, ogni mattina, alla chiesa per assistere alla santa messa. Un urlo di gioia fu la loro promessa.

La reciproca obbligazione si mantenne fedelmente da ambe le parti.

Nessuno mancava al mio appello mattutino.

Percorrevo le vie del paese in capo all’ordinata squadra, e s’entrava in chiesa, fra lo stupore degli altri militari. Prima di celebrare la santa messa, facevo un po’ d’istruzione sui principali doveri del cristiano, permettendo che mi proponessero le loro difficoltà, e rispondendo alle loro interrogazioni. Il catechismo diventava un’amena conversazione di famiglia. Al quarto giorno di quella specie di esercizi spirituali, parlai della Confessione e della santa Eucarestia, e, dopo d’averli esortati con dolcezza, chiesi paternamente se v’era chi volesse confessarsi e comunicarsi. Risposero unanimi che avevano tutti piacere di ricevere i Sacramenti: solamente due obiettavano con dispiacere di non avere ancora fatta la prima Comunione; ma furono lieti quando io spiegai loro che non v’era occasione più necessaria e bella della vigilia dell’azione, per accostarsi la prima volta al santo altare.

Quindi la Comunione fu veramente generale, con grande soddisfazione di tutti.

/39/ All’indomani, nella stessa ora, si compiva la più brillante e la meno dolorosa delle molte azioni del glorioso reparto: si dava l’assalto al ridottino di Sano, protetto da ben tre ordini di reticolati in cui vibrava la corrente elettrica, e se ne asportava prigioniero l’intero presidio, lasciando morto uno solo dei nostri: perdita dolorosa, ma infinitamente inferiore a tutte le previsioni e al completo successo ottenuto.

— «Dio ci ha aiutato», mi disse il valoroso capitano Gambaro, raggiante di gioia.

— «Sì, perchè gli arditi hanno meritato la sua protezione», gli risposi.

I reparti d’assalto andavano in trincea coronati di fiori come i trecento Spartani alle Termopoli. Il viaggio, dagli accantonamenti alla linea, era una festa di canti, di bandiere svolazzanti, di gioia.

La paura non poteva dominare quelle masse, spinte dall’entusiasmo delirante alle azioni lungamente preparate e attese. Nel mio Vedi, in questa stessa Biblioteca, → Gli Arditi libro «Gli Arditi» vi sono le prove di questa asserzione, cui debbo ora accontentarmi d’accennare.

Nè vi sia chi creda che, ammettendo che il timore non penetrava in quelle anime, perciò stesso ne venisse anche escluso il sentimento religioso. Non fu la paura della morte l’unica guida che condusse combattenti a Dio. Si può congiungere, nella stessa anima, grande coraggio e purissima pietà: e tale connubio si /40/ faceva spesso nel petto dei nostri fieri assalitori dalle fiamme nere.

Mentre le schiere festose di arditi si snodavano verso le rive del Piave, io passavo dall’uno all’altro di quei cari giovani, ascoltandone le umili confessioni: e quello che mi apriva l’anima reggeva tra le mani la rozza asta di una bandiera, e il compagno seguente mi faceva cenno di passare da lui, mentre la sua bocca continuava a cantare la canzone dell’ardito... Era una religione singolare, una religione di guerra, che, quanto meno pareva favorita dalle circostanze esterne, tanto più sfolgorava nell’anima.

Nè mancarono, alla vigilia degli assalti, altre singolari manifestazioni della fede degli arditi. Ricorderò solamente l’ultima canzone che si levò spontanea e giuliva dall’ultimo battaglione d’assalto in marcia verso il Piave, nel vespero della vigilia della vittoria finale. Non fu una canzone d’amore profano, o di semplice gusto patriottico; furono invece le squillanti note del «Noi vogliam Dio:» argomento della grazia divina che agitava le fiamme nere, e delle speranze che sbocciavano.

/Nota a p. 32/

(1) Dante, Inferno, c. III, v. 3. Torna al testo ↑