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Capitolo III.

Ostia viva di pace e d’amor.

La vita religiosa del campo non si consumava nella sola assistenza passiva al sacrificio celebrato dal cappellano sull’altare.

I militari s’accostavano pure alla mensa eucaristica. La banalità e la sacrilega irriverenza che pareva connaturata con chiunque facesse la professione del soldato, in quella moltitudine di popolo rivestito di grigio-verde per l’occorrenza della guerra, o si ridusse assai, o non rimase che come una forma tradizionale, non alimentata da intime degenerazioni. L’anima del soldato di guerra ci parve buona e docile come l’anima del fanciullo, e, come questa, facilmente inclinabile alla pietà. Lo zelo modesto d’un cappellano valeva a suscitare attorno all’altare castrense delle primavere di fede, ad attirarvi fiorenti corone di militari, prostrati a ricevere la santa Comunione.

La Pasqua è il tempo della grazia. La Chiesa prescrive ai fedeli di ricevere, almeno una volta all’anno, e in questa occorrenza, il corpo eucaristico del Signore. /22/ Non mai il precetto parve più conveniente che in tempo di guerra: formava l’occasione più bella d’incarnare seriamente nelle anime i grandi ideali cristiani.

Il cappellano militare attendeva questi giorni come una benedizione celeste. Se il reggimento stava a riposo nelle retrovie, gli venivano concesse per turno ogni mattina le diverse compagnie o i plotoni per la Confessione e Comunione. Se invece i suoi uomini presidiavano la trincea, poteva compire più agevolmente il suo giro e certamente con frutto maggiore, perchè in trincea i soldati erano sempre più buoni e religiosi. E poi, essere cercati sul luogo stesso del proprio supplizio, venire osservati da presso e toccati dolcemente sulle piaghe aperte dei cuori, poter effondere le confidenze e le lacrime sul petto di chi le comprende, appressarsi alla mensa eucaristica preparata nelle proprie catacombe, condividendo il pane candido d’una consolazione divina, aveva qualcosa di mistico, cui pochi potevano resistere. Quante anime, che forse non si sarebbero mai assise al banchetto di spirituale ristoro, vi furono invitate in trincea e là ritrovarono il germe dell’eterna salute! Quanto più dolorosa, quanto più stretta era la trincea, tanto più intima e più abbondante scendeva la Grazia.

Il mio antico reggimento (il 55.° Fanteria) stette per più d’un anno nelle difficili e interminabili trincee del Tonale, in fondo alla Val Camonica. Tutta l’alta e dirupata cresta della montagna, dal passo che apre una delle principali vie del Trentino, sino al Corno dei Tre Signori, veniva presidiata dai miei fanti. Il furore bellico era accentuato assai meno che sul Carso, per le difficoltà del terreno, che in alcuni punti si eleva al /23/ disopra dei tremila metri, ma il martirio che non era inflitto dal nemico veniva tristemente compensato dalle sofferenze e dalle vittime cagionate dalle valanghe, dalla tormenta e dalle asprezze del suolo.

La difesa si componeva di piccoli posti di vedetta, sparsi lungo i pendii, sulle creste e sulle guglie dai fianchi tagliati a precipizio: lassù vigilavano piccole squadre di venti, di trenta uomini.

L’accesso ad alcuni di questi nidi d’aquila, gettati a catena sulla capricciosa giogaia, presentava difficoltà non lievi, e non effettuabile che nelle migliori condizioni atmosferiche. Inoltre, s’impiegava del gran tempo a percorrere una linea tanto saltuaria; per passare da un piccolo posto di guardia a un altro immediatamente successivo bisognava scendere per un’oretta e poi fare ancora una ripidissima salita d’un paio d’ore.

In quell’anno incominciai a distribuire la Comunione pasquale nella prima settimana di quaresima, e poichè il cattivo tempo mi aveva rubato parecchie giornate, non riuscii a terminare che alla fine di giugno.

Mi ero prestabilito questo programma approssimativo: se m’era possibile, giungevo al piccolo posto nel pomeriggio precedente il giorno della Comunione, per esporre ai soldati, in una familiare conversazione, i benefici dell’adempimento del precetto pasquale, nutrendo i miei argomenti col ricordo di lontani affetti e di feste non mai obliate. Parlavo della vigliaccheria di chi tralasciasse il compimento d’un tale dovere per il vano timore della canzonatura di qualche sconsigliato e perverso camerata. Il fervorino portava quasi tutte quelle anime nelle mani mie, o, piuttosto, in /24/ quelle del buon Dio, che si degnava di carezzarle e di farsi loro cibo.

Ascoltavo poscia le confidenze di quei poveri cuori, per comunicare loro il perdono sacramentale. Il confessionale improvvisato, era: ora una piccola cassa di esplosivi, sulla soglia d’una caverna; ora una marmitta da campo, su cui mi assidevo appoggiando la schiena alla parete di ghiaccio: ora, un angolo del ricovero della truppa: e tutti vi passavano, anche quelli che non avevano ancora fatto la prima Comunione, anche quelli che da più anni non si erano confessati, anche quelli che erano parsi i più ritrosi.

Una sera mentre stavo attendendo alle confessioni, dentro uno sgabuzzino che serviva da cucina per la truppa, colsi a volo questo dialogo, fatto a voce alta fra alcuni militari, al di fuori:

— «Vai tu a confessarti?»

— «Io, no; e tu?»

— «Io? io, che non mi confessavo da quattordici anni, mi sono confessato stasera».

— «Ma e che bisogna dire? Io non ci vo»

— «Via, ci vanno tutti; non temere, che il cappellano t’insegnerà lui cosa devi dire!»

L’improvvisato apostolo non aveva terminato l’ammonimento, che già il ritroso s’era gettato ai miei piedi colle migliori disposizioni.

— «Cappellano, non vada lassù. Fra trenta giorni quel piccolo presidio avrà il cambio, e potrà, allora, /25/ fargli quante comunioni vorrà. Ora il tempo minaccia, e là non vi è che un piccolo ricovero, pieno di miserie... Rimanga con noi». Così disse il maggiore comandante il presidio di Montozzo; ma tutte codeste e altre ragioni non erano tali da fermare un cappellano nelle sue corse apostoliche.

Ripresi il cammino sotto i primi fiocchi di neve, scortato da due guide. Il sentiero, tagliato nella roccia viva, era pattinato di ghiaccio, e correva su profondi burroni, a sinistra, e una intermittente parete di pietra, a destra. Dopo un’oretta incominciarono le prime raffiche della tormenta. La neve turbinava, togliendo la vista e il respiro; il vento sibilava e mugolava nelle forre, e pareva volerci rapire e farci piombare nell’abisso. Ci accosciammo in un punto dove il sentiero s’allargava, aspettando. Il soccorso non si fece attendere molto. I sei bravi alpini, che ci erano stati inviati dal non lontano presidio, ci aiutarono col loro consiglio e con le loro braccia tozze ad arrivare a salvamento.

Ma ci toccò pernottare alla gran guardia degli alpini, da cui dipendeva tatticamente l’estrema ala del mio reggimento.

I bravi figli della montagna, pei quali l’ospitalità è una tradizione gentile e superba, m’accolsero con trasporto, mi rifocillarono, e poi mi offrirono uno dei migliori giacigli. In quello sgabuzzino, sopra il tavolo, trovai un libretto che sulla legatura portava lo stemma del mio Ordine religioso. L’aprii e vi lessi il titolo: Breviarium Ordinis Praedicatorum.

— «È forse Ella religioso domenicano?» domandai all’ufficiale che mi aveva ceduto la sua cuccetta.

/26/ — «No, non ancora: uso però dire l’ufficio...» E mi raccontò dei suoi rapporti con quel cuore d’apostolo che fu il Padre Clerissac, o. p. Il giovane ufficiale era un figlio intelligente della nostra più attiva aristocrazia.

Di buon mattino io aveva raggiunto i miei fanti, sulla vetta del Corno dei Tre Signori, a tremilaquattrocento metri. In quell’altezza la tormenta infieriva con tale violenza che riusciva impossibile stare fuori della miserabile baracchetta, rifugio dei venti soldati. Ascoltai le confessioni, e quindi preparai l’altarino su una mezza balla di paglia, riposta in fondo alla strettissima corsìa, ai lati della quale erano disposti tre ordini di cuccette. E poichè in quella specie di corridoio non potevano rimanere in piedi che quattro persone, dovetti lasciare i soldati distesi sui loro giacigli, e distribuire loro la santa Comunione in quella positura. Mi sovvenni dei martiri cristiani o distesi sugli aculei, o che ricevevano furtivamente l’estremo conforto nei supplizi raffinati di perfetta immobilità, dove erano costretti a languire fino alla morte. E il glorioso termine di paragone non mi parve molto lontano dai miei cari soldati, sia per le inenarrabili sofferenze serenamente sostenute, sia per il semplice candore dei loro cuori.

Sopra un’ardua cima che si spinge nella linea nemica tanto da sembrarne quasi completamente assediata, sta un piccolo presidio d’una dozzina dì miei fanti. Sono isolati lassù, fra la terra e il cielo, quasi dimenticati da /27/ tutti, tranne dai nemici, che spiano e colpiscono con assiduità più che singolare.

Si accede a quel nido d’aquila per una falda sola del baluardo: il sentiero è tanto ripido che per qualche tratto bisogna aiutarsi e anche tirarsi su con una corda appesa. Per di più, essendo quel punto esposto completamente al nemico, si deve fare la salita di notte o fra la nebbia, per non lasciarvi la vita sotto la mitraglia, puntata con una costanza e precisione tedesca.

Io vi giunsi nelle ultime ore della notte, sfinito dalla faticosissima ascensione; ma vi passai un’intera giornata in una festa di famiglia, densa d’attrattive soprannaturali.

Qualche giorno dopo mi giungeva, da quella cima remota, una lettera, che riporto integralmente, per confermare con un argomento di grande valore quanto ho asserito intorno ai benefici arrecati dalla Santa Comunione nell’anima del soldato.

Martedì, 3 aprile 1917
Dal Piccolo Posto N. 10

Stimatissimo Reverendo,

«Scuserà se mai si è ritardato a darle nostre notizie; comprenderà che non è stato per trascuraggine, siamo continuamente in desolazione per il cattivo tempo, e perciò non si è potuto inviarle prima nostre notizie. Dunque noi con questi pochi righi tutti contenti e col cuore riboccante la si ringrazia del gentil pensiero che ha avuto verso di noi, ammirando la sua condotta da vero nostro superiore e da affettuoso padre, siamo /28/ tutti unanimi col rendergli grazie compiendo il nostro dovere da soldati verso la patria e da cristiani verso il nostro sovrano Gesù. La sua venuta ha recato nei nostri cuori la più gran consolazione che esiste, si è cambiato subito vita ed il SS. Sacramento l’è stato per noi un conforto indiscrivibile, perciò la si attende quando il tempo ci offrirà delle belle giornate per ricevere un’altra volta i SS. Sacramenti.

Dunque termino e credo che scuserà il disturbo ed augurandole felicissime feste della S. Pasqua ed in nome di tutti del Piccolo Posto e del mio collega serbando sempre la sua stima ci crederà per sempre

I suoi fedelissimi sergenti
Domenico Lombardi.
Campeotto Giovanni.

Era sempre una festa, il giorno in cui si abbandonava la linea per il sospirato riposo; ma quella volta la festa pareva maggiore. Si dava l’addio all’Albiolo, l’altissima vetta che torreggia su tutto il Tonale, dopo un presidio durato sette mesi: sette mesi dell’inverno più rigido e catastrofico di tutta la guerra. Eppure, mentre quasi tutti gli altri avamposti avevano lasciato dei morti o sotto le valanghe o nel fondo dei burroni o colpiti dal fuoco nemico, la gran guardia dell’Albiolo non doveva lamentare che qualche ferito.

Alla vigilia della partenza constatammo concordemente la grazia singolare, che non fu attribuita ad altri /29/ che all’Autore di ogni bene. Ma bisogna soggiungere che non vi era forse compagnia più degna dei favori divini, per la. virtù degli ufficiali e dei soldati. Essi stessi vollero che al mattino della partenza, (26 maggio 1917) si celebrasse l’addio all’Albiolo con la messa e con la Comunione generale.

Fu una commovente cerimonia. L’altissima vetta era immersa nell’aria diafana e fresca; scintillavano in basso le groppe dei monti, coperte delle candide gualdrappe gemmanti delle recenti nevi. Tutto l’Albiolo, toccato dal primo raggio del sole, pareva un altare prezioso di marmi e d’oro, sospeso nei cieli.

Il comandante lesse egli stesso ad alta voce le preghiere del preparamento alla santa Comunione, e quindi vi si accostarono tutti i più che sessanta uomini del presidio, compresi i tre ufficiali.

I militari del 56° fanteria, che erano sopraggiunti nella notte per darci il cambio, assistettero a quella scena celestiale con meraviglia e con manifesta ammirazione.

Non tutta la fede godeva tale robustezza: molti Nicodemi venivano, sì, a Gesù: ma temevano di farsi cogliere sul suo seno dagli sguardi altrui.

Bisogna comprendere ed anche compatire queste debolezze: in alcune di esse sta il germe d’una futura virilità cristiana. Quante scene commoventi ed edificanti videro le assi della mia celletta di guerra! Alcuni di quei giovani, che temevano di non mostrarsi abba- /30/ stanza liberali e libertini nelle licenziose veglie coi camerati, ridiventavano fanciulli, nella riconquistata innocenza, con una buona Comunione, intima e proficua.

Altri, uomini fatti, capi e gregari, abituati da lunga data a paventare ridicolmente i motteggi degli empi, chiedevano in segreto il pane dei forti che è fatto apposta per confortare gli animi deboli. Altri si arrendevano ai paterni allettamenti del sacerdote, ma avevano bisogno d’un trattamento di favore, d’una più sentita intimità.

La grazia del Sacramento era dolce medicina a queste infermità: e l’apostolo apriva agevolmente le braccia alle anime che cercavano timidamente Gesù, purché venissero a lui in sincerità di spirito.

— «Tra gli arditi,» dirà qualche lettore, con sorriso maliziosetto — «tra gli arditi il cappellano non avrà certo avuto la docilità spirituale che distingueva qualche reggimento privilegiato!» — Eccomi pronto a rispondere a questa, che i fatti in contrario mi autorizzerebbero a qualificare col nome d’una benigna insinuazione.

Premetto che i battaglioni d’assalto della Terza Armata, presso i quali ho esercitato il mio ministero per tutto l’ultimo anno di guerra, non hanno mai spalancato le porte ai volgari delinquenti, ai sanguinari: formavano una bella massa di gioventù vivace, ardente, ma dalla fedina penale immacolata!

/31/ Ecco poi un’altra osservazione che potrebbe rendere superflua la precedente. Nel cuore umano v’è sempre un fondo religioso, che, in ambienti favorevoli, e sotto stimoli adatti, viene a galla aprendosi la via retta anche attraverso alle anormalità psicologiche.

Inoltre vi è poca diversità fra il cuore del fante e quello dell’ardito, anche se il primo batte sotto una giubba abbottonata, ed il secondo sotto il bavero rovesciato: vi sono in ambedue, or con diverse, or con impercettibili gradazioni, gli stessi vizi e le stesse virtù.

Posso accertare che molta parte e spesso quasi la totalità delle compagnie ardite affidate alle mie cure spirituali adempì al precetto pasquale della Confessione e Comunione. Con questa gioventù il cappellano deve forse usare maggior oculatezza e metodi più spicci: dopo averli istruiti e spronati qualche volta, prima alla sfuggita e poi apertamente, il mattino preannunziato, avanti la sveglia, egli già era arrivato nella camerata, e, preparato l’altare, cominciava a confessare. E gli arditi venivano, uno dopo l’altro senza lacune: qualche volta venivano tutti, dal primo all’ultimo.

Ottima occasione per la grazia di Dio era la preparazione d’un’azione bellica, o il funerale di qualche compagno, per suffragare il quale, gli arditi, che tanto si amavano, facevano volentieri l’omaggio d’una Comunione.

Vi è chi possa resistere alle attrattive possenti spiegate dalla religione, quando questa può parlare e agire e mostrarsi? Io credo che siano assai rare le anime che respingono le carezze materne della sposa di Gesù: almeno io fui così fortunato, da incontrarne assai poche nel mio non facile e non breve mandato.