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Capitolo XVII.

Gesù e il soldato.

A mezzo della pendice che dalle creste del Tonale scende nella Valle Camonica, sulla terra che nel maggio del 1917 seppellì venti vittime di una improvvisa frana, i compagni d’arme eressero una cappella commemorativa e vi fecero dipingere da un artista militare, un mirabile affresco.

Il Cristo, vestito di una rozza tonaca oscura, cinta di corda, domina tutto il quadro colle braccia e le palme tese in un gesto dominatore di protezione e di pace. Tutta la sua persona, effigiata nella grandezza naturale, è leggermente inclinata in avanti, e non è ancora stabilita sulla groppa della montagnola che le serve di piedestallo: il piede sinistro sta sollevato all’indietro, colla punta poggiata a terra, nell’atto di chi è nell’ultimo movimento del sopraggiungere. Egli è appena comparso sul campo di battaglia: il cielo è rannuvolato come il vespro di lungo combattimento: l’orizzonte di montagne e di mari è confuso: la terra è sconvolta, e fra negre pire e scoppi rossastri e salme, mostra dei feriti che tendono le braccia all’apparizione divina. Intanto, nella parte inferiore del quadro, attorno ai piedi /177/ del Cristo, alcuni soldati raccolti e incitati dal cappellano, che è distinto dalla croce rossa che gli fregia il petto, piegano le ginocchia e giungono le mani colla faccia sollevata verso il Redentore.

I particolari del dipinto sono spogli di quella perfezione convenzionale di esecuzione in cui suole torturarsi l’arte nelle scuole: ma all’incontro, le poche linee sono così semplicemente vive e vigorose, che non a torto si può annoverare questa, fra le migliori fatture dell’arte militarizzata. Come la nostra vita in trincea aveva perso tutte le forme convenzionali, e si era semplificata alla stregua della vita dell’uomo primitivo, così l’arte di guerra ridivenne semplice e «al ver fu pari» (1) come l’arte genuina dei maestri toscani del trecento e quattrocento.

Quanta verità in questo Cristo, le cui braccia tese non si sa se più somiglino ad ali materne od al gesto imperioso che Egli fece quando, levandosi sulla barca minacciata dalla tempesta del mare di Genezaret, «comandò al vento ed al mare.»

Così in verità, Gesù passò sopra i dolori della guerra, fra le anime dei nostri soldati. Ogni piccola fiammella di fede, alimentata nel cuore dei nostri giovani, al soffio della guerra ebbe un guizzo e si avvivò per illuminare la soave figura del grande Consolatore. Le anime più fedeli lo videro sempre al proprio fianco, anche in mezzo al furore della mischia, e a qualcuna, prediletta, pareva quasi di sentirne in viso l’alito caldo della bocca divina.

Parecchie pagine del mio libro hanno raccontato il fervore dei cuori ardenti ed ingenui che i cappellani mi- /178/ litari sollecitavano a portarsi sotto l’ala delle carezze di Dio: e il racconto, semplice, privo di ogni arte, non ebbe altro scopo che di ritrarre e far conoscere alcune di quelle scene spirituali che l’odierno materialismo utilitarista e anticristiano vorrebbe cancellare dalla storia della guerra.

I torrenti d’amore, di luce, di conforto che il Sacro Cuore di Gesù ha fatto scaturire sui nostri combattenti, furono infiniti, come una pioggia universale che lavò, rinfrescò, fecondò nel bene tutte le anime: gli alti fusti e gli umili fili d’erba poterono ugualmente dissetarsi.

Io mi sentii mille volte impotente a raccontare i prodigi della carità divina. Nello scrivere, lacrime silenziose mi scesero spesso dagli occhi, più abbondanti dell’inchiostro steso dalla mia penna, tanto viva è ancora nel mio cuore la memoria dei fatti narrati.

È necessario che ogni benigno lettore si riconfermi nella assoluta veridicità del mio scritto. Con questa convinzione potrà meglio apprezzare la bontà inesauribile di Dio, ed aiutarmi a ringraziarla pei suoi abbondanti favori.

Vi è chi dubita del rifiorimento di fede da me narrato, per aver osservato che le masse tornate dalla guerra, sono ripiombate nell’apatia religiosa, o nell’anticlericalismo acceso.

Nessuno certo può negare che molti reduci scaglino cupe maledizioni contro ogni forma ideale, e contro la patria e contro la religione: il fatto è troppo doloro- /179/ samente evidente. Io affermo però che questo fatto non distrugge la verità di quanto ho in tutto questo libro narrato, poichè l’astio presente, contro la santa Chiesa, venne suscitato da diverse altre cause.

Innanzi tutto bisogna sapere che la gioventù a lungo compressa nelle sofferenze e nell’attesa della trincea, appena potè deporre il pesante elmetto e l’odiata divisa e rivestire i panni borghesi, si è abbandonata all’orgia della libertà. Tutte le reazioni vanno agli estremi. Alcuni reduci hanno voluto banchettare e crapulare nella licenza compensandosi di tutte le lunghe soggezioni. E nell’ubriachezza della libertà sfrenata non han più conservato memoria dei buoni propositi fatti nel passato, nè ebbero discernimento fra il bene e il male. Han bestemmiato ogni ordine, ogni legge, ogni più santa idealità. Le bestemmie sinistre erano loro messe sul labbro dalle sette e dai partiti sovversivi, che vollero inasprire, invece di curare, le piaghe aperte nei cuori dei combattenti per spingerli alle sognate distruzioni. Anche questa volta i figli delle tenebre si mostrarono più solerti dei figli della luce.

Quindi si venne formando quell’atmosfera di miasmi velenosi che fu aspirata dalle moltitudini. Il popolo che in guerra fu abituato a vivere nella collettività, e a marciare a file serrate, venne facilmente aggruppato dai partiti antireligiosi, e si è fatto inconsciamente soldato di una causa empia.

Il sacerdote, che per missione predica la mitezza, e che sul campo non conobbe altro dovere che di alleviare i dolori universali, non è per nulla proclive a fare l’apologia della guerra; tuttavia, per debito di verità, deve asserire che se ogni reduce lasciasse fiorire /180/ tutta la grazia che il Signore ha deposto nel suo cuore di combattente, molto minore sarebbe il numero dei cattivi e molto più ferventi sarebbero i buoni.

L’apostasia odierna di tante anime che s’assisero ai nostri altari da campo, nè ci meraviglia, nè sopprime le speranze del nostro cuore.

Noi non siamo dei pessimisti. Sappiamo che l’umanità progredisce lentamente, e che benchè talvolta brancichi fra le tenebre e resti impigliata negli sterpi e nelle liane, essa ritroverà finalmente la buona strada. La religione cristiana attende ancora i suoi migliori trionfi.

Cesare Cantù, il grande storico universale, convinto della superiorità assoluta del cristianesimo, scrisse: «L’età dell’oro non è dietro, ma avanti di noi;» (1) e meglio assai, il Maestro Nazareno, ha predetto che un giorno l’umanità intera verrà raccolta «in un solo ovile, sotto un solo pastore.» (2)

Solo Gesù possiede la potenza del pastore vero che può radunare tutto il gregge; solo Gesù conosce l’arte ineffabile di attirare i cuori di tutti gli uomini; solo Gesù non abbandona mai l’umanità, a cui promise la sua perpetua assistenza.

Egli non poteva mancare nelle trincee, fra le anime doloranti. Infatti fu con noi sugli altari da campo, nelle vigilie della battaglia e nella febbre dell’assalto; corro- /181/ borò delle sue Carni e del suo Sangue i petti dei combattenti; ispirò le più dolci pratiche del culto mariano; infiammò di carità eroica l’anima dei suoi sacerdoti, e coprì della sua croce e delle sue speranze celesti le tombe dei nostri eroi.

Voglia il Salvatore concedere ad ogni calamità umana, e specialmente alla guerra sostenuta dalla verità contro l’errore, dal bene contro del male, una uguale assistenza!

Così la terra, questa atomo errante nel vuoto e perpetuamente immerso, con alterna vicenda, metà nelle tenebre e metà nella luce, affretterà il suo cammino verso i «lucidi porti» (1) e l’umanità intera avrà presto trovato il solo ovile e il solo pastore.

/Nota a p. 177/

(1) Dall’epitaffio, dettato da Annibal Caro pel sepolcro di Masaccio. Torna al testo ↑

/Note a p. 180/

(1) Cesare CantùDiscorso sul Medioevo. Torna al testo ↑

(2) Vangelo di S. Giovanni, X, 16. Torna al testo ↑

/Nota a p. 181/

(1) Zanella. La conchiglia fossile. Torna al testo ↑