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Capitolo XVI.

Croci sulle zolle.

Nella fornace ardente della battaglia, le vite venivano consunte e si scioglievano in una evanescenza crudele. Quale traccia di queste immolazioni infinite rimase sull’altare dell’olocausto? Le poche spanne di terreno conquistate da ogni soldato procombente contro il nemico, perdute e riconquistate e riperdute nell’ondeggiare della sorte della battaglia, sconvolte e scheggiate dal ferro, non ci dicono nulla di colui che le ricoprì della propria agonia, e che vi è scomparso poi come foglia secca rapita dal turbine, come spruzzo iridescente, ringhiottitto dall’oceano impassibile.

Unico segno dell’inestimabile sacrificio su quelle zolle consacrate è una piccola croce di legno che porta in fronte un nome, sciupato dal sole e dalle intemperie. L’immenso campo di battaglia è diventato un immenso cimitero inghirlandato dagli umili segni della redenzione cristiana, ai quali resta affidato il pio ufficio di tramandarne la memoria dei morti per la patria.

Ogni salma deposta in quella terra ha la sua piccola croce.

/158/ Non si poteva dare ai tumuli insanguinati un sigillo più glorioso e più sacro di questo. Se nella placida quiete dei nostri cimiteri, tra i fiori e i marmi degli avelli domina l’insegna della fede, a maggior ragione essa doveva diventare il segno del sangue eroicamente sparso, degli occhi che si chiusero nella speranza di un premio celeste, unico premio proporzionato al proprio sacrificio. Nulla può sostituire quelle piccole croci; monumento alcuno può emularne il significato prezioso e l’altissima eloquenza.

Le croci funerarie del campo divennero un argomento ed un incitamento continuo alla religione: agli occhi dei superstiti delle tragiche battaglie esse cambiavano i tumuli dei compagni in veri calvari di immolazioni religiose e di mistiche speranze.

La morte, dominata dal segno cristiano, non sembrava più una fatalità esecranda, incitante alla disperazione e alle bestemmie, ma diventava il dolce sonno della risurrezione e faceva pensare con santa nostalgia alla luce perpetua e beatifica, nella quale esultano le anime dei nostri morti. L’«oggi a me, domani a te» che ogni croce ripeteva ai superstiti, non era un grido di disperazione, ma l’ammonimento salutare e dolce del morto al morituro, del fratello al fratello; era un dolce «arrivederci in cielo.» E questa voce placida e verace veniva ascoltata. Tra le fosse dei cimiteri di guerra rifioriva il culto e la speranza cristiana.

Molti estranei del fronte, visitatori profani che non sono vissuti nel crogiolo purificatore delle battaglie, odono uscire da quelle tombe implorazioni e incitamenti di vendetta; ma noi che siamo vissuti al fianco di quegli eroi e abbiamo raccolto l’ultimo rantolo della /159/ loro agonia, non vi sentiamo vaporare che un’essenza aromatica di virtù cristiana. L’apostolato religioso esercitato dai nostri morti è conosciuto da chi, colle mani ancor profumate del sangue loro appena ricomposto nelle affrettate sepolture, accoglieva e rendeva lieve ai voli celesti l’anima dei compagni che avevano assistito al mesto ufficio.

La pietà dei morti è uno dei pochi sentimenti gentili, che meglio fiorirono fra le sanguinarie abitudini della guerra. Il seppellimento dei cadaveri, che la Chiesa annovera fra le opere di misericordia, come il dar da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, formava un dovere che s’imponeva a tutti i superstiti, ma specialmente al cappellano militare.

Il campo di combattimento prendeva quasi sempre l’aspetto di un carnaio, anche quando era già stato sgombrato da tutti i feriti. Il terreno rimaneva seminato di cadaveri e di membra affogate nelle pozze di sangue e fango. Gli uni giacevano proni, colla faccia contro la terra, colle braccia tese e le mani aperte; altri rattrappiti, accosciati, colle mani portate sulla ferita mortale o irrigidite in gesti curiosi; altri a metà sepolti, sotto i calcinacci e il terriccio smosso, coi panni lordi e infangati. Le facce, livide o carbonizzate dalla vampa degli scoppi, guardavano cogli occhi vitrei, sbarrati, o erano immobilizzate colle palpebre sigillate: quasi tutte portavano le spaventose contrazioni degli spasimi dell’agonia, sotto il cupo elmetto. Larghe chiazze, o ri- /160/ gagnoli di oscuro sangue raggrumato, coprivano le carni e i vestiti. Alcuni stringevano ancora nelle mani le armi e parevano una minaccia. Gruppi di corpi, ammucchiati casualmente o semplicemente avvicinati, formavano delle scene tragicamente suggestive, che sembravano scolpite da un grande artista.

Nell’anfratto di un camminamento carsico, vidi due portatori colla barella alle mani, in piedi, leggermente appoggiati alla parete di roccia, come se fossero fermi per riposare un istante; ma il ferito adagiato nella barella era morto e morti pure erano i due portaferiti, uccisi forse dallo spostamento d’aria d’un prossimo scoppio.

I soldati che mi aiutavano nella ricerca dei cadaveri, un giorno vennero ad invitarmi a vedere uno strano spettacolo. Il fondo di una dolina, da noi esplorata per la prima volta, era tutto tappezzato di uomini seminudi, che, seduti su panche disposte all’ingiro, parevano attendere un turno. Evidentemente quello era un posto di medicazione di un reggimento austriaco, ed era stato colto in pieno da qualche potente obice. Medici e feriti da più giorni stavano là immobilizzati ad attendere nella rigidezza cadaverica, che aveva loro enfiate mostruosamente e illividite le carni.

Negli angoli più remoti, nelle fenditure dei sassi, nelle buche coperte di ginestre, dappertutto dove qualche infelice s’era illuso di essere riparato, o dove l’aveva balzato la violenza dello scoppio, la morte aveva il suo màcabro trofeo umano. Colpi in pieno sopra truppe ammassate sfacevano e rimescolavano orrendamente tutte quelle carni e le lanciavano all’ingiro, per ogni dove.

/161/ Non v’era diligenza, nè audacia capace di riconoscere tutte quelle povere membra e a dar loro sepoltura onorata. Molti cadaveri dovevano rimanere insepolti anni interi. Quale dei nostri combattenti non ha visto, aggrappati ai reticolati austriaci, vecchi scheletri colle braccia allungate per recidere i fili spinosi, e che ad ogni soffio di vento facevano scricchiolare le ossa racchiuse nelle vesti consumate e scolorite come in un sacco?

Quando la violenza della pugna era cessata e gli avversari permettevano, il cappellano reggendo la bianca bandiera, usciva a raccogliere i piastrini di riconoscimento che ci davano la certezza del decesso, e a far asportare le care salme. Spesso la pia tregua non ci era concessa; onde si doveva attendere all’ufficio umanitario furtivamente, come se si eseguisse un tranello. A notte alta, con alcuni fidi compagni, strisciando a tentoni fra i lentischi e i sassi si andava a cercare più colle mani che cogli occhi, le salme preziose, per asportarle cautamente nelle nostre linee. Quando il nemico ci scopriva, nella luce dei suoi razzi o dei riflettori, intensificava sopra di noi il fuoco di fucileria e d’artiglieria: parecchi rimasero vittima della loro audace e spontanea pietà. Quanto era vivo il desiderio di ricuperare la salma di un amico, di un superiore, di un compaesano!

Una notte carsica, una di quelle notti di estrema tensione nelle quali il nemico irritato scatenava di tanto in tanto orribili raffiche di fuoco, per distruggere i preparativi dei nostri incalzanti assalti, incontrai un giovane tenentino che errava solo, fuori della linea, in luogo battutissimo delle pallottole; e mi commosse quan- /162/ do, riconosciutomi e accoccolatosi al mio fianco, mi disse con un singhiozzo represso: «Non l’ho ancora trovato.» Il suo povero amico era caduto appena il giorno innanzi, e già era irreperibile!

Sul Piave, un tenente degli arditi, per tutta una settimana tornò ogni sera a cercare la salma di un suo soldatino rimasto sugli isolotti del fiume, correndo pericolo di venir assorbito dalla corrente e di incappare nelle pattuglie austriache.

Vidi un ardito che, tornando da un’azione vittoriosa, piangeva dirottamente percotendosi la testa coi pugni, perchè gli era proibito di tornare nella trincea nemica a raccogliere l’unico commilitone caduto nell’impresa. Quando rimaneva in fondo ai nostri cuori la lontana speranza che un respiro animasse ancora il corpo amato, non v’era pericolo che non s’affrontasse per ricuperarlo.

Nelle valli alpine, dove le valanghe, specialmente durante l’inverno 1916-17, hanno fatto tante vittime, rifulsero esempi mirabili di carità, di prontezza eroica, in cui improvvisate squadre di soccorso si immolavano nella ricerca dei compagni, coi quali trovarono spesso comune sepoltura, sotto i nuovi colpi del feroce flagello della montagna.

Se le circostanze non permettevano di trasportare i cadaveri in una più tranquilla sepoltura, dovevamo interrarli sul luogo stesso in cui erano caduti. Come si sarebbero potute trasportare nel breve tempo voluto dall’igiene, centinaia di salme cadute sotto la marea av- /163/ velenata dei gas asfissianti o del colera? Non bastavano le braccia dei portaferiti: le sezioni di disinfezione della sanità militare si facevano sempre attendere: ed intanto le epidemie minacciavano.

Il famoso fortino di Oppachiesella sul Carso, quello sperone di collina inciso da formidabile trincea, che era stato disperatamente difeso con tenacia teutonica, otto giorni dopo la sua caduta (Ottobre 1916) era ancora ripieno di cadaveri maciullati dalla nostra artiglieria e già in avanzata putrefazione.

Non fu possibile identificarli: onde, benedetta quella terra colla formola di rito, rimboccammo gli orli stessi della trincea su quegli infelici, e apponemmo al tumulo tante croci, quante salme giudicammo trovarsi in quel carnaio.

Tutto il terreno guadagnato dalle nostre avanzate carsiche rimaneva normalmente seminato di morti italiani e austriaci, per il seppellimento dei quali io non conobbi miglior sistema del seguente. Nel fondo delle doline, luogo non soggetto al bersaglio diretto del nemico, facevo scavare e benedicevo una fossa capace di tutti i morti che si trovavano in quei pressi. Poscia uscivo io stesso, celandomi il più possibile alla vista del nemico che spiava dai colli dominanti, e dopo d’aver riconosciute le salme all’ingiro, tornavo al riparo a spiegare ai miei uomini la locazione precisa dei cadaveri da raccogliere. Essi scattavano a coppie, nello stesso tempo, e si portavano di corsa sul luogo a ciascuna coppia prefisso, prendevano il cadavere e in un attimo tornavano con quello al punto di partenza. Il nemico, che non riconosceva o non voleva riconoscere che quel movimento non era una manovra strategica, ma un’o- /164/ pera di pietà comunemente necessaria e ammessa da tutte le convenzioni internazionali, aveva appena il tempo di trasmettere l’ordine del fuoco: ma quando i suoi piccoli e grandi calibri mordevano la zona della nostra pietà, i miei uomini, vivi e morti, erano tutti al riparo. E questo bel gioco durò persino una settimana, senza costarci gravi perdite.

Nelle sepolture urgenti, i cadaveri venivano allineati uno di fianco all’altro, senza cassa, nell’unica fossa, profonda pochi palmi, quanti ne permetteva la natura, sempre rocciosa, del Carso. Nulla riuscirà a cancellarmi dalla memoria la visione di quelle lunghe teorie di morti, distesi supini a contatto di gomiti, colle carni violette già sfatte dalla putrefazione, colle braccia irrigidite in moti misteriosi, e i piedi, calzati di scarpe ferrate, tesi nell’aria come squadre che si incamminassero ad un’ascensione verso un ignoto destino perduto nell’azzurro. Ufficiali e soldati, italiani e austriaci, cattolici, greci, protestanti, israeliti, turchi, uomini di tutte le razze e di tutte le religioni di cui era formato l’impero austriaco, venivano intercalati indifferentemente nella improvvisata fossa comune: la terra, a tutti madre, con un solo amplesso accoglieva tutti quei poveri figli della sanguinosa Babele! Un telo da tenda, una manciata della rossa terra carsica, serviva loro di coltre.

Su queste eterogenee fosse comuni si sarebbe potuto incidere, meglio che su qualunque cimitero, la grave parola che le nostre labbra han ripetuto, con angosciata speranza, nei lunghi anni di guerra: «Pace, pace duratura!». Ma la battaglia ferveva sempre troppo vicina, e passava e ripassava ancora su quelle salme, deposte a fior di terra, disseppellendole e lanciandole /165/ nuovemente nell’atmosfera di fuoco, con qualche obice peregrino che turbava anche la pace meschina degli angoli morti.

A qualcuno di quei seppelliti non si poteva dare la rituale benedizione cattolica, nè apporre il segno del cristianesimo; ma su tutti era permesso almeno scrivere quanto lessi su una tomba sperduta sull’Adamello: «Soldato austriaco – morto per la sua patria»; o una più bella epigrafe incisa su un’umile tomba di Doberdò: «Cuore italiano ad un austriaco».

Se ad una strage susseguiva un po’ di calma, trasportavamo i nostri morti per qualche chilometro indietro dalla linea, ad una sepoltura più tranquilla, con l’onore di qualche cerimonia.

Dopo i combattimenti scendevano in lunga fila le barelle, per gli stretti camminamenti interrati, e formavano una processione intercalata di feriti e di morti. I portatori, nelle soste, asciugandosi i goccioloni dalla fronte, narravano cose meravigliose, gli ultimi atti di eroismo e l’avventura fatale di cui era stato vittima il compagno che essi portavano gelosamente all’estrema dimora. Il passo lento e barcollante della dolorosa processione agghiacciava il cuore.

— «Chi è questo morto?» domandai a due soldati estranei al mio reggimento che reggevano una barella.

— «È il nostro capitano». E col viso commosso di pietà filiale, mi mormorarono il nome, a me ignoto. /166/ Poi, fermatisi, rimboccarono religiosamente sul petto la coperta che velava la testa insanguinata del povero morto, e mi pregarono di benedirlo.

— «Di che reggimento è questo?» — Chiesi ad altri portatori.

— «Non lo sappiamo: non ha alcun segno di riconoscimento», rispondevano i portatori, e proseguendo il cammino, incalzati dalla interminabile fila delle barelle susseguenti, dicevano: «L’abbiamo trovato in una buca; è morto da parecchi giorni». Li rincorsi, e proseguendo per un tratto di fianco alla barella, rimossi la coperta inzaccherata, e scoprii un giovane viso livido, coronato di lunghi capelli biondi, incrostati di fango. Il cadavere pareva intatto, ma gli angoli della bocca semiaperta erano orlati di sangue raggrumato. Addio, piccolo sconosciuto, che vai a seppellire i tuoi vent’anni sotto ad una croce senza nome! Ma la gloria della risurrezione divina ti riconoscerà, come il Signore saprà consolare una madre, che in una lontana e quieta casa d’Italia, accarezza in sogno le bionde chiome del figlio che, sulla terra, non vedrà mai più!

Alle falde d’ogni calvario di guerra s’erano formati i cimiteri militari. Tutta la fronte lunghissima sarà per sempre segnata sul nostro suolo, più che dalle trincee incise nella viva roccia, dalla immancabile serie dei campi fioriti ove dormono i nostri caduti. Ogni valle alpina che vide le ondate d’assalto salire fresche contro i baluardi, ogni valloncello scendente alle acque azzur- /167/ re dell’Isonzo, raccolse poi la parte eletta della nostra eroica gioventù.

Nel solo presidio di Merna, che abbraccia una piccola parte del fronte carsico, si contano settantamila tombe raggruppate in più di cento cimiteri. Il fondo del Vallone di Doberdò è tutto percorso da innumerevoli recinti, alcuni dei quali comprendono più migliaia di tumuli. Nell’Agosto del 1916, quando il mio reggimento, inseguendo il nemico, colle armi in pugno, ascese in quella monotona e cupa gora, scavammo le prime fosse presso il bivio di Crucevie, e vi erigemmo una gran croce con questa iscrizione:

In questa terra
che il vostro sangue fece italiana
sotto la rabbia nemica ancor stridente nell'aria
sia pace a voi
o cari fratelli
e vita immortale nella gloria dei cieli

Ma chi previde allora che il piccolo seme di morte si sarebbe cotanto moltiplicato?

I cimiteri militari erano ufficialmente affidati ai cappellani militari, che ne fecero il giardino delle loro preferenze: coadiuvati dall’arte e dall’abilità dei commilitoni, li ridussero a vere aiuole di fiori. Ogni giorno quando il dovere non ci chiamava altrove, erigevamo l’altare da campo fra le tombe e celebravamo la santa messa coll’assistenza dei compagni e dei superiori. Quando ci era permesso, formavamo pure il corteo funebre, in cui il culto pareva quasi diventare guer- /168/ riero, poichè le mani dei fanti, use alle armi, portavano la croce, le candele e l’incensiere. Fra quelle zolle benedette venivano spesso ad inginocchiarsi i compagni per piangere e per pregare.

A quelle fosse recenti mancarono le lacrime delle madri e il singhiozzo degli orfani. I parenti lontani vivevano nell’ansia continua, ma nulla sapevano della grave perdita appena avvenuta. Forse, nel giorno stesso del seppellimento, giungeva ancora a casa una lettera scritta dalla mano ormai morta per sempre, ma era l’ultima lettera. Il giorno dopo e tutti i susseguenti, il postino non aveva più nulla per quella famiglia, che incominciava a sospettare di qualche sinistro. Se l’estinto, prima di morire aveva lasciato al cappellano l’indirizzo dei suoi cari, perchè fossero avvisati di qualunque sua disgrazia, il sacerdote scriveva alla famiglia; altrimenti doveva attendere di esserne richiesto per comunicare la notizia della morte. Nel compilare quelle lettere, cercavamo d’estrarre dal fondo del cuore le espressioni più soavi, e avremmo voluto scriverle non coll’inchiostro, ma col nostro stesso sangue, per addolcire la tremenda notizia. Narravamo gli ultimi istanti, ripetevamo le parole e i ricordi estremi, indicavamo il luogo preciso della sepoltura e tutti gli onori che si erano resi alla cara salma. E poi, allorchè ci tornavano le risposte, irrigate dal pianto inconsolabile delle madri, con le parole di desolazione delle spose e degli orfani, /169/ andavamo a prostrarci ancora su quelle tombe per interpretare con maggior commozione l’affetto delle persone care obbligate alla lontananza.

Le tombe dei nostri cari morti, erano il luogo preferito, in cui l’animo nostro si sollevava e pareva quasi godere la conversazione di amici puri e veri, nella placida ospitalità della loro casa. Vi era tanta pace, e sopratutto tanto affetto fra quelle piccole tombe! Vi si respirava un’atmosfera di speranze celesti che dilatava il cuore, e gli dava l’illusione di vivere quasi nella diafana regione della luce perpetua.

La fede e la preghiera infrangono le barriere che separano i vivi dai morti e creano le dolci comunioni degli eletti.

Per tutto il settore alpino, sin dai primi tempi di guerra si trasportarono i caduti nei vecchi cimiteri dei paeselli più prossimi alla linea.

Quei sacri asili, abituati a raccogliere la consunta senilità, dovettero tosto riempirsi della fresca gioventù macellata. In ogni angolo della terra benedetta si scavò una fossa: e poi i tumuli varcarono le cinte dei muriccioli e le corone di cipressi, occuparono i campi e si diffusero nei pascoli circostanti. Valloncelli e fresche conche, nel giro di pochi anni, divennero vasti cimiteri in cui balzò il più bel fiore della gente italiana, accorso dalle pianure, dalle marine, dai monti, dalle metropoli. Le piccole croci guardavano a migliaia, racchiuse nella siepe di quello stesso filo spinoso che si usava a sten- /170/ dere i reticolati per tenere il nemico lontano dalle nostre trincee.

Le reclute che arrivavano al fronte e dovevano salire alla linea, giravano attorno alla siepe del cimitero, dilatavano gli occhi per abbracciare quell’immensa distesa, pregavano e si preparavano al combattimento e alla morte.

Quando il cannone mugghiarne nell’eco delle valli tacque, e le roccie non vennero più schiantate sotto il fuoco e il ferro, le truppe vittoriose, conchiuso l’armistizio, portarono i loro stendardi agli estremi confini naturali della nazione. Ma non dimenticarono i fratelli caduti: li vollero affidati alla custodia dei buoni alpigiani che tornavano dall’esilio forzato per rialzare le pietre dei loro focolari abbattuti dal cannone. Quelle rozze popolazioni, duramente provate dal flagello della guerra, sono ora i fidi tutelari delle zolle sacre a tutta la nostra gente. La natura riveste perpetuamente i tumuli di muschi e di margherite e di grossi ranunculi profumanti, e li culla col pianto dei torrenti come voce piovente dal coro delle alpi circostanti. Il cielo li vellica coll’ala delle brezze e li bacia col sole incontaminato, li veglia col tremolìo delle stelle e li ricopre della nivea coltre invernale.

Nenie di pastori, innocenti belati, tintinnìo diffuso di miti armenti, non turbano il sonno dei giovani morti!

I gitanti estivi, trattenuti sul margine erboso, osservano, con stupore e con religiosa pietà, la moltitudine delle piccole croci amate dall’oblìo, e indugiando in pie meditazioni acquistano lena per le ardue ascensioni e per le lotte più ardue della vita.

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Il Carso, detto «la pietra di paragone della virtù della nostra stirpe, il bianco calvario a traverso il quale la nazione, dolorando e sanguinando, espiò debolezze ed errori», (1) il Carso, sotto il martello di undici battaglie, si è trasformato in un solo immenso cimitero. Dal fondo delle doline, dai margini erbosi delle strade, dai piccoli campi, dalle rocce affioranti sulla terra sanguigna, guardano migliaia di piccole croci. Circa due terzi dei nostri più che seicentomila morti giace su quel campo, dove quasi tutti i reparti dell’esercito vennero lanciati alla prova del fuoco.

La Terza Armata, l’armata eroica e vittoriosa che occupò ininterrottamente quel doloroso e glorioso settore, quando ebbe raggiunto Trieste, la città fascinatrice per la quale aveva sacrificato il fiore dei suoi combattenti, nell’ebbrezza del trionfo si volse a rimirare le tombe seminate sulla lenta strada del Carso.

Per volontà del Duca d’Aosta, il condottiero purissimo, erede delle grandi virtù sabaude di religione e di magnanimità, il ventiquattro maggio 1919, l’anniversario che si voleva destinato a grandiosa celebrazione della vittoria italiana, fu volto ad un trionfo dei nostri caduti.

Nel pomeriggio precedente, le signore e le fanciulle della città redenta uscivano da tutte le case e si dirigevano verso il colle di San Giusto, recando tutti i /172/ fiori che il maggio aveva sparso nel giardino della magnifica baia adriatica. Erano mille rivi di una primavera prorompente, che sull’erta fatidica diventavano un fiume di freschi colori e di profumi. La folla sfilò qualche ora, deponendo i mazzi dinanzi all’altare eretto sul poggio della basilica, ai piedi del massiccio torrione romano. Cento bandiere tricolori guizzavano nei raggi vespertini: le argentine campane di san Giusto affidavano alla brezza patetici concenti; i fiori si alzavano in una meravigliosa piramide policroma, vaporante dei più soavi effluvi. Dopo la benedizione rituale, impartita da Don Rubino, coadiutore del vescovo di Campo, io dissi poche parole di circostanza; chiesi quale interiore chiaroveggenza avesse tratto quel popolo al monte fatidico della sua speranza e della sua gloria, e lessi su quei cuori aperti una risposta di riconoscenza, di propiziazione e di suffragio per i morti rimasti sulla strada di Trieste.

Quando la folla, a malincuore, si volse per scendere alla città, nell’ampio panorama, le pendici carsiche velate, come una grande bara, dalle patetiche ombre vespertine, cadevano melanconicamente nell’ampio bacino adriatico riboccante d’un argenteo tremolio diffuso, e al di là del golfo, fra lievi vapori della uguale pianura friulana, s’alzava l’erma torre di Aquileia, quasi a porgere il saluto degli innumerevoli sepolcri di quella terra benedetta.

La dimane, un pio pellegrinaggio di autorità e di delegati, civili e militari, e di parenti di caduti, si portò a Sdrausina, e dopo aver ascoltato fraterne e devote parole di commemorazione, dette da S. A. R. il Duca d’Aosta, sparse i fiori triestini sulle tombe di quel /173/ monumentale cimitero di guerra. Si ascese poi il San Michele. La strada correva fra le croci che tendevano le braccia dai mirtilli e dai ciuffi fioriti del biancospino, ricordando i più bei nomi italiani, e le ondate d’assalto che si erano incessantemente incalzate sulla groppa fatale per tutto il primo anno di guerra, sino alla resa dell’Agosto 1916. Sulla vetta più eccelsa era stato innalzato un altare per la celebrazione della santa messa. Mons. Francesco Borgia Sedej (1854 – 1931) Nel 1906 fu nominato dall’Imperatore Principe Arcivescovo di Gorizia. Fu rimosso dall’incarico nel 1931 per la sua opposizione alla snazionaliz­zazione di sloveni e croati promossa dal regime fascista; morì un mese dopo. Officiò Monsignor Vescovo di Gorizia.

Nell’azzurro diffuso ronzavano numerosi velivoli, che gettavan fiori sulle quote del brullo altipiano: dalle circostanti alture, accese pire mandavano pennacchi fumosi e nuvoli, e cento spari rianimavano il teatro tragico del soffio delle recenti battaglie.

Quando, allo squillo delle trombe, nel silenzio d’ogni voce umana, s’alzò nelle mani del vescovo l’Ostia candidamente baciata dal sole, pareva che da Doberdò, dal Dèbeli, dal Faiti, dalle sponde fiorite del ceruleo Isonzo, da Gorizia distesa nel piano, dal Sabotino e dal Monte Santo, tutto un popolo di morti avesse scosso il leggier velo di terra e fosse venuto a prostrarsi attorno all’altare del Dio della risurrezione.

Poveri morti del Carso! Ora che i superstiti commilitoni hanno svestito la divisa e sono tornati alle faccende ordinarie, alle lotte civili, chi porterà ancora sulle vostre tombe i fiori della pietà e le preghiere della divozione? Memori compagni hanno formulato la proposta di costruire una Via Sacra, che, salendo dalla /174/ pendice di Castelnuovo sull’Isonzo, pel San Michele, Castagnevizza, il Vallone e le fonti del Timavo, attraversi tutto il teatro della guerra carsica, e offra al viandante una visione completa della brulicante vita di guerra e del furore delle offensive e delle infinite giovinezze immolate sul campo ardente e terribile. (1) È opera santa ricondurre, in pio pellegrinaggio gli immemori italiani in quella regione delle morti serene. Bisognerebbe che le nuove generazioni non solo passassero, ma indugiassero alquanto a ricevere le lezioni date da quelle innumerevoli croci.

Una signora di Trieste diceva che non le era possibile portare i bambini in campagna, dopo che nel giardino della sua villa di Fogliano erano stati seppelliti trenta nostri italiani. Ma trovò chi volle persuaderla che la gioventù non può avere insegnamento migliore di quello che viene dalle tombe dei nostri eroi.

È così frivola l’educazione moderna, che fa davvero invidiare la serietà insegnata dalla serena immolazione di tanto giovane sangue.

Ma la parola più eloquente delle croci disseminate sulle silvestri pendici carsiche è un dolce richiamo alla speranza cristiana. Quei campi in cui l’occhio si perde fra lontananze disseminate ancora di altre piccole e bianche croci, come di infiniti gigli cristallizzati per incanto celeste, sono una smentita al volgare materialismo, e un grido supremo di fiducia nelle idealità soprannaturali. Tale onda di gioventù non poteva assogettarsi ai supplizi terribili e alla morte stessa, senza /175/ nutrire la speranza in una vita migliore, in un premio celeste. Giosuè Borsi, il convertito che, a ventisette anni, cadde su quei campi, con la gioia in cuore e il sorriso sul labbro, termina il suo meraviglioso testamento spirituale con una rivelazione che è certo la più pura espressione dei migliori sentimenti che guidarono le anime elette alla suprema immolazione. «Quando saprai che alle mani della morte non lascerai altro che la tua mortalità, et mors ultra non erit... allora, amico fatto intrepido e libero, sentirai orrore dello schiavo indocile che eri prima e vedrai insieme quanto eri impertinente e ridicolo...»

Il germe che dorme in quelle solitarie terre della morte, potrebbe diventare il lievito spirituale e morale in cui dovrebbe rinnovarsi il nostro secolo corrotto.

/Nota a p. 171/

(1) Prof. Guido Manacorda: in «Proposta per la consacrazione dell’altipiano Carsico a monumento della guerra nazionale.» (inedito) Torna al testo ↑

/Nota a p. 174/

(1) Il progetto fu ideato dal prof. Guido Manacorda, già prode combattente della Terza Armata, e ora professore all’Università di Napoli. Torna al testo ↑

Guido Manacorda (Acqui 1879 - Firenze 1965), filologo e studioso di letteratura tedesca.
Nel 1915 si arruolò volontario. Costituì all’interno della 3ª Armata una struttura, denominata Giovane Italia, che compiva azioni segrete nelle linee nemiche.
Sono particolarmente importanti le sue traduzioni di Wagner e di Goethe. La sua traduzione del Faust provocò un’acccesa polemica con Croce.
Elaborò un sistema di idee fortemente mistico, che lo portò alla conversione al cattolicesimo e ad un forte urto con Gentile.
Si avvicinò al fascismo, e difese l’alleanza con la Germania anche se non condivideva le idee razziste del nazismo.