/115/

14.
Al Gudrù da Bace-Giàui: la moglie. Un’eredità.
Alta chirurgia. Ordinazione di abba Jacob

nostro ritorno al Gudrù. Intanto io sono rimasto in tutto circa otto giorni alla casa di Tufa Boba, pendenti i quali tutta quella famiglia conobbe la missione e gustò un poco di catechismo, e per una strada diversa dalla prima, per la via più breve siamo discesi al Gudder a tre o quattro kilometri sopra il luogo che l’abbiamo passato venendo; la sua valle perciò era meno profunda, e dello stesso giorno siamo discesi dall’alto piano del Kuttaï, ed abbiamo potuto salire l’alto piano del Gudrù a dieci o dodeci kilometri più al Sud di Assandabo, dove abbiamo passato la notte in casa di un grande benefattore della missione per nome Bacce Giawi, il quale da molto tempo desiderava una nostra visita, a cui era troppo giusto di far sentire la parola [p. 188] di Dio, non tanto a lui che alla sua famiglia; Bace era vero figlio di Giawi, che in lingua del paese significa serpente; egli in casa sua era un vero furioso, e tutti tremavano alla sua presenza, incominciando dalla sua moglie, la quale non era la prima, ma la seconda.

storia interesante della prima moglie di Bace. Riguardo alla sua prima moglie la storia è troppo interessante nella storia di quei popoli, e non posso tacerla. Questa donna, da quanto si diceva, allontanatasi dagli amori del suo marito per causa del suo umore troppo violento e furioso si era ataccata ad uno schiavo della casa, ed il primo figlio natole si supponeva da molti piuttosto figlio d’infedeltà, che non del suo marito. Quando naque questo figlio Bace minaciava di volerlo gettare alla jena, ma siccome essa moglie era di una famiglia molto distinta, e non voleva macchiarsi di sangue colla medesima, ne percuotendo sovverchiamente la moglie, ne uccidendo il figlio, allora egli prese il partito di caciarla dalla casa collo schiavo suo amante dandogli un terreno sufficiente per vivere, e lasciandola libera di vivere a suo modo. Questa donna ebbe ancora molti altri figli così separata, e questi come figli di uno schiavo, secondo la legge del paese potevano considerarsi come schiavi da potersi anche vendere, ma erano anche figli della madre, persona libera, e moglie [p. 189] sposata con Bace, essendovi il Racco matrimonio religioso, per questa parte i figli diventa- /116/ vano tutti figli legittimi di Bace in caso di sua morte, perché anche là è vigente il principio che partus sequitur ventrem, epperciò in caso di morte del suddetto marito i figli, benché naturalmente generati da un’altro padre diventavano eredi, a preferenza di altri figli di seconda moglie, come figli di prima moglie, dei quali è il maggiorasco colla successione quasi universale. Le cose della prima moglie restavano in questo senso, e dovevano sollevare una gran questione alla morte di Bace, il quale non se ne curava affatto.

Bave prende una seconda moglie,
suo bel carattere.
Egli, dopo aver caciato la sua prima moglie, prese una seconda moglie di famiglia più bassa, colla quale fece il Racco, cioè matrimonio religioso e legale. Questa seconda moglie era una donna impagabile di una pazienza unica nel soffrire tutte le furie del suo marito; essa era bianca come una donna europea, e nell’epoca che io la conobbi aveva [avuto] dal suo marito un figlio di circa 12. anni tutto simile alla sua madre nel colore, e nella virtù; questo ragazzino se fosse stato in un collegio d’Europa non si sarebbe distinto dai suoi compagni, non tanto nel colore, quanto nei suoi lineamenti, e nella delicatezza dei suoi tratti. Ora sia la madre che il figlio [p. 190] presentavano un grande ataccamento alla missione, e sentivano con gran piacere l’istruzione religiosa. la moglie di Bace domanda il battesimo. Come la casa di Bace era una casa di albergo ordinario per tutte le persone nostre, queste due creature coglievano tutte le circostanze di passaggio per istruirsi, ed arrivarono ben presto a possedere l’istruzione sufficiente per essere battezzati. Per il figlio non vi era difficoltà, ma la gran questione stava nella madre, come seconda moglie di Bace poligamo. Bace poi era una persona affezionatissima a noi, veniva soventi a trovarci, mai colle mani vuote, ma portando sempre o un castrato, oppure un vaso di miele, e quando veniva in Assandabo per i suoi affari, benché grand’amico di Gama, pure egli amava meglio venire da noi, e passarvi anche tutta la giornata; con tutto questo rapporto alla fede era una tabula rasa, e [non] vi era niente da sperare per la sua conversione; la stessa moglie sua era troppo dominata dal prestigio di Bace per influire sopra di lui per la sua conversione, dimodoche il caso dell’Apostolo del mulier fidelis habens virum infidelem potesse aver luogo.

grande imbarazzo per me. Io mi trovava adunque alle strette, essa da una parte non lasciava passare un’occasione di qualcuno dei nostri che passava per colà, che [p. 191] non mi mandasse le più pressanti suppliche di dargli il s. battesimo; dall’altra parte poi mi spaventava la risoluzione di battezzare una donna legata in matrimonio con un marito che teneva ancora il vincolo della moglie sua prima che aveva lasciata libera, ma non in quanto al vincolo, e che avrebbe potuto richiamare da un giorno all’altro, un ma- /117/ rito che un bel giorno avrebbe potuto prenderne ancora [prenderne] una terza. Una volta presa questa risoluzione, diceva fra me stesso, dei casi simili non mancherebbero fra questi oromo, ed aperta la via sarei stato obligato a tenerla anche per altre, forze anche con minori disposizioni. Anche i miei allievi in seguito con cognizioni più ristrette potrebbero abusarne, come è chiaro.

esame della questione col clero. Un giorno vennero a trovarmi i giovani più anziani con alla testa il Sacerdote indigeno per finire questa questione, la quale avrebbe potuto riprodursi da un giorno all’altro altrove. Casa dobbiamo rispondere a questa povera donna, essi dicevano? Per qual ragione non possiamo battezzarla? Vedete, risposi io, avanti [a] Dio essa non è che una semplice concubina, non essendo essa la vera moglie di Bace, il quale ha la sua prima moglie, la quale sola [p. 192] si può dire vera moglie di Bace avanti [a] Dio. continuazione della discussione. Essendo dunque essa semplice concubina, nel caso di ricevere il battesimo dovrebbe promettere di lasciare ogni relazione carnale col supposto suo marito, cosa impossibile nello stato in cui si trova, attesi gli usi e le leggi del paese. Non potrebbe più restare con lui, senza esporsi a continue violenze, ed interminabili questioni, pericolose anche alla missione, oltre al pericolo per l’anima sua, come è chiaro. Non potrebbe fugire, perché in tutto il Gudrù, e nei paesi amici sarebbe ricondotta al suo marito, ed anche altrove in qualsiasi casa galla sarebbe molto esposta; guai poi se fuggendo si ricoverasse alla missione, anche in case molto lontane, perché darebbe motivo ad accuse molto fatali per noi. L’unica cosa che potrebbe ajutarci a sciogliere questa questione sarebbe quella della validità o invalidità del matrimonio colla prima moglie per vedere se si potrebbe accordare alla battezzanda la facoltà di coabitare pacificamente col suo supposto marito in virtù del matrimonio naturale esistente La coabitazione pacifica di alcuni anni prima del crime supposto e non provato proverebbe piutosto che il primo matrimonio è stato valido; il crime d’infedeltà supposto non distruggerebbe il vincolo del matrimonio preesistente. In quanto poi al privilegio di separazione aquistato nel battesimo, questo, nel paese dove siamo, serve solo per metterla in regola avanti [a] Dio, [p. 193] ma non la salverà dalle vessazioni esterne del paese. conclusione della questione. Qualora essa sia costante nella sua domanda dicendo di essere disposta a qualsiasi vessazione, ed anche alla morte, la missione, non potendo rifiutarsi, studierà la maniera di amministrargli il battesimo in modo da non compromettere la missione. Del resto poi il mio sentimento e la mia decisione sarebbe questa: abbia pazienza, ed aspetti da Dio il cangiamento delle attuali circostanze; preghi il Signore per la conversione del suo marito, da cui /118/ dipende ogni cosa; Iddio calcolerà il suo desiderio, quale basterà per salvarla in caso di morte improvisa, ed in caso di malattia la missione è là disposta a battezzarla prima che muoja.

ho spedito il caso a Roma
[8.11.1855].
[Su] Questa grave questione, la quale mi costò tanti disturbi, e tante pene, potendo rinnovarsi da un giorno all’altro, ho risolto di scrivere a Roma ad oggetto di averne una norma più sicura. Ho fatto un’esposto poco presso nel senso narrato sopra, benché già prevedessi che l’oracolo di Roma soglia essere difficile a pronunziare sopra un fatto una sentenza, la quale avrebbe un tratto successivo per tutti i casi considerati simili, ma alle volte anche diversi. [Instructio: 28.3.1860] Difatti mi venne una risposta [p. 194] dopo quasi tre anni, risposta molto ben ragionata, ma che sul fatto nulla decideva, mettendo i principii e lasciando a me la decisione pratica. morte di Bace, e di sua moglie. Quando venne la risposta [è venuta] la povera donna era già morta di febbre gialla, e dopo di essa morto anche il povero Bace ucciso in guerra, colla differenza che la moglie morì battezzata, e si è salvata, mentre egli morì nel suo paganesimo, e non poté godere nell’altro mondo il merito delle sue liberalità verso di Noi. I figli della prima moglie entrarono al possesso [dell’eredità], ed il figlio della seconda moglie restò un povero cadetto sotto l’autorita del primo genito figlio di schiavo.

arrivo in Assandabo; Ritornato in Assandabo mi sono occupato a rivedere ed organizzare di nuovo le mie scuole tanto dell’interno della casa, quanto dell’esterno, state molto interrotte dalla crisi del vaïvolo. Abba Hajlù Micaele aveva preparato alcuni catecumeni, e si amministrò il battesimo e la Confermazione ad alcuni. Appena si seppe il mio arrivo non tardarono a venire dai contorni molti per l’inoculazione del vaïvuolo e per altre medicine. un mendico gogiamese.
è ammalato di sifilide;
Un povero mendico venuto dal Gogiam passava il giorno alla porta da alcuni giorni; lo scopo della sua venuta era per cercare la medicina [p. 195] per una malaria sifilitica molto vecchia; parte [per] la sua malatia, e parte per il lungo viaggio l’aveva[no] ridono in uno stato compassionevole; i galla non lo ricevevano in casa per causa della sua malatia atacaticia, ed i miei giovani per compassione gli avevano fatto una piccola capanna fuori del recinto. ragioni per non riceverlo. Io ho fatto il sordo due o tre giorni, perché mi trovava imbarazzato a riceverlo per molte ragioni. La prima ragione [era che io] non aveva casa a parte da metterlo. La seconda ragione [che] io temeva per la sua sifilide con tutti i giovani che vi erano. La terza ragione era la mia povertà di mezzi, ed appena poteva comprare il necessario vitto e vestito per quei di casa, e quel povero amalato aveva bisogno non solo di pane, ma di vesti per coprirsi. La quarta ragione [era che io] non aveva donne per macinare la farina e /119/ per fare il pane; in casa si mangiava pane solamente una volta al giorno, e si mangiava grano bollito. La quinta ragione, [che] una volta incomminciato la mia casa sarebbe divenuta ben presto un’ospedale, e dove prendere [il necessario] per mantenerlo?

eppure devo riceverlo. Dopo tutte queste ragioni che mi impedivano di prenderlo non mancavano poi anche altre ragioni che quasi mi costringevano a prenderlo. La prima era il bisogno che io aveva di insegnare coll’esempio la carità [p. 196] a tutti quei poveri galla, i quali ne avevano molto bisogno. Una seconda ragione era l’estremo bisogno dell’ammalato, il quale era come incapace di moversi in uno stato che faceva pietà. La terza ragione è che era cristiano, e non si doveva abbandonare ai pagani. La quarta ragione era quella di convertirlo a salvare l’anima sua, essendo eretico.

si costruisce una casa, Ho risolto perciò di far costrurre una casa fuori del recinto un poco più commoda e grandicella, destinata per simili casi. Il mio chierico Morka sempre pronto, e che già aveva preso molta influenza nei contorni, domandò mezzi e ajuto, ed in due giorni la casa era già fatta. entra l’infermo, si aggrava, muore. Entrò subito l’ammalato, ma siccome già si trovava in uno stato di prostrazione da temersi della sua vita non ho potuto tentare la cura sifilitica, esiggendo questa un capitale di forze per sopportare la crisi della medicina mercuriale per se stessa pericolosa. L’ammalato invece di migliorare andava sempre peggiorando, ma come subito da principio era già stato istruito gli si amministrarono i Sacramenti, ed in pochi giorni si trovò agli estremi.

sua dichiarazione, suo testamento. Vedendosi vicino a morire mi fece chiamare, mi ringraziò della carità fattagli, principalmente nei bisogni che aveva per l’anima sua, e mi dichiarò di voler morire cattolico, e ne ringraziava Iddio, il quale si servì della sua malattia, frutto di peccato, per condurlo a conoscere la vera fede. Quindi mi consegnò un piccolo otre con qualche cosa dentro, [p. 197] dicendomi di prendere qualche cosa per compensare la casa per i disturbi avuti, e spedire il resto ai suoi parenti in Gogiam; ciò appena detto entrò in agonia e morì quasi subito. Si fece la sepoltura ecclesiastica con tutto il decoro possibile, e fu sotterrato vicino ai due morti del vaïvolo.

chiamata degli eredi; Appena fatta la sepoltura; dovendo partire alcuni mercanti per il mercato di Zemiè ho scritto un biglietto a Workie Jasu, pregandolo di far avvertire i parenti del defunto da lui stesso indicati, affinché venissero a prendere il fatto loro lasciato dal defunto. Due giorni dopo col ritorno dei mercanti rrivarono tre individui se dicenti eredi del morto, era[no] un fratello e due nipoti, i quali, prima ancora di sapere cosa loro tocca- /120/ va questioni sopra la successione. questionavano fra [di] loro, pretendendo ciascuno di essere l’erede unico ed universale. Vedendo tutte queste questioni io non ho voluto consegnare, ne aprire l’otre per timore che non accadesse qualche scandalo, ed ho risolto di mandare i contendenti da Gama, come unico giudice in paese; il prete indigeno e Morka gli accompagnarono portando con loro l’otre chiuso tal quale era, e le parole del morto tali [e] quali mi erano state dette, rimettendomì in tutto a Gama.

giudizio di Gama e sua sentenza. Gama sentì prima di tutto le parole del defunto, e sentiti i titoli e le pretenzioni degli eredi in particolare, alla presenza di tutti fece aprire l’otre ancor chiuso come fa consegnato; si trovò [p. 198] che conteneva trenta talleri di Maria Teresa con alcuni oggetti di poco valore. Sentito e veduto che ebbe ogni cosa, Gama prese la parola e disse = Prima di tutto io condanno il morto: egli era mendico e possedeva tutto questo denaro, vero sciocco, perché avrebbe dovuto mangiarlo esso, invece di lasciarlo a voi; quelli che gli hanno dato limosine l’hanno dato per lui, e non per voi. Voi poi dite che siete eredi e questionate fra [di] voi, ma siete eredi solo quando si tratta di prendere; quando questo uomo è venuto qui nessuno di voi lo accompagnò, non potendo reggersi in piedi sono gli uomini miei che l’hanno passato il Nilo, e l’hanno aiutato a montare tutta questa salita. Arrivato qui chi l’avrebbe ricevuto? chi l’avrebbe assistito senza questa famiglia, tutta gente di Dio? Ora sentite la mia sentenza: ricevete cinque talleri caduno, e partite subito, altrimenti vi facio partire; ringraziate che il vostro parente sia morto qui presso questa gente che teme Iddio, altrimenti [non] avreste trovato neanche un sale.

arrivo del giovane Walde Sembet, oggi Abba Domenico. Così finì la questione, ma all’arrivo della carovana dei mercanti venuti da Zemiè arrivò pure un giovane dal Gogiam per nome Walde Senebet dell’età di circa 15. o 16. anni stato emasculato da una banda di assassini sui confini del Gogiam verso il Gudrù, probabilmente assassini del Kuttaï che sogliono qualche volta [p. 199] girare da quelle parti coll’unico scopo di uccidere e portarsi via i trofei, onde godere degli onori che sogliono farsi in paese galla a coloro che hanno ucciso in guerra, e così potersi ungere il capo di butirro. Come il luogo di questo disastro non era lontano dagli ultimi villaggi sud‑ovest di Basso, la paura degli assassini fece sì che [questi] tagliarono con paura ed alla meglio, lasciandogli una parte dello scroto con un mezzo testicolo. natura del tumore di questo giovane emascuolato. Questo povero ragazzo quasi abbandonato se ne stette dei mesi in questo stato senza nessuna operazione e cura, e quando si credeva guarito si fece un’tumore direi quasi di una natura fungosa, il quale crebbe talmente, che l’impediva a camminare; consigliato da alcuni venne da [me] con una raccomandazione di Workie Jasu. Io sono rimasto stordito al vedere /121/ quell’escrescenza così voluminosa, da sembrate un grosso cedro, il quale lasciava sortite goccie di orina da quattro o cinque piccoli buchi quasi capillari uno lontano dall’altro.

amputazione del tumore. Ho pensato e ripensato per vedete cosa sarebbe stato meglio [di] fare, ma [non] ho veduto nessun’altro rimedio possibile che l’amputazione [del tumore] nella radice. Dopo averlo preparato con alcuni purganti, e quindi calmanti, la mattina con un rasojo ben affilato, per mancanza di altri stromenti, mi sono fatto coragio, ed assistito dal prete indigeno, e dal mio Morka [p. 200] ho fatto, un’operazione mai fatta in vita mia, ed ho fatto tabula rasa di tutto quel tumore. conseguenze felici dell’operazione Io mi aspettava qualche emorogia, ma niente di tutto questo, appena un poco di trasudazione sanguigna nei contorni, dove la cute era ancor vivente, e fuori del parassito. Una sola preocupazione mi rimaneva, ed era un piccolo spessore di una specie di tessuto bianco e spongioso [che] ancora rimaneva verso il centro, [e] che avrebbe avuto bisogno in seguito di essere distrutta coi caustici, ma ho creduto bene lasciate per il momento riposare il paziente, mettendovi un leggiero cataplasma, onde favorite la sortita degli umori, ed impedire l’infiammazione nei contorni, dove è stata ferita la carne viva.

Così per allora terminò la mia operazione riservandomi per l’indomani le ulteriori operazioni, massime quella di dilatare l’apertura dell’orina e concentrarla quanto sarebbe [stato] possibile. L’indomani la piaga spiegava un carattere molto docile, [senza] nessuna infiammazione sostanziale, solamente [con] un colore rossicio nei contorni; le [a]perture dell’orina erano tre più [lontane] fra [di] loro, e non ho voluto toccarle per l’unione, cosa che ho poi fatto in seguito molto felicemente; solamente ho voluto incomminciare a cauterizzare un piccolo spazio, dove la radice del parassito era meno [p. 201] spessa, e poi ho ripetuto il cataplasmo. Così in seguito è stato sempre il processo della cura; anche il [sistema di] concentrazione del canale dell’orina in seguito mi riuscì benissimo, di modo che l’orina in meno di otto giorni [l’orina] sortiva in un luogo solo col mezzo di un piccolo canellino vegetale che ho potuto fare, preso da una pianta che ho trovato di cui non mi ricordo il nome. Incomminciò la piaga a restringersi nei contorni a misura che io cauterizzava all’intorno il poco residuo del parassito, ed in 40. giorni la piaga era come guarita

guarigione totale, il giovane si dedica alla missione. Il povero giovane era fuori di se di contentezza. Volle dedicarsi al servizio della casa, che mai più abbandonò. Si dedicò all’istruzione, e divenne un buon catechista. Più tardi si fece terziario, e prese l’abito di monaco indigeno col nome di Abba Domenico; fù ordinato chierico /122/ minorista per il servizio della Chiesa, e nel momento in cui scrivo, lo suppongo ancora nella missione di Ghera, dove io l’ho lasciato nella mia partenza dallo Scioha. Ho voluto scrivere questa storia per far conoscere, come il povero missionario si trova qualche volta nel bisogno di fare tutti i mestieri, e Iddio suol benedire [p. 202] le opere del medesimo, ancorché mancante di scienza sufficiente; il bisogno di operare per salvare un povero disgraziato giustifica lo slancio, e la sua carità merita dal cielo [particolare assistenza] per guidare la sua operazione fatta qualche volta senza la pratica [sanitaria].

un corriere venuto dall’Ennerea; belle notizie. Era il primo di Novembre 1854. presto un’anno dalla partenza dei missionarii per l’Ennerea, e vicini a compirsi i due anni dal nostro ingresso in Gudrù, quando mi arrivò una lettera del P. Cesare, ed un’altra del suo compagno P. Felicissimo, nelle quali questi due missionarii mi davano belle notizie della missione di Ennerea, dove la più parte della casta abissina dei mercanti stazionarii in quel paese era divenuta fervente cattolica; [in] più da Nonno Billò, quasi ogni Sabbato incomminciava [a] venire una quantità [di gente] per sentire la Messa che colà incomminciava a celebrarsi con qualche solennità, e fra questi alcuni sempre rimanevano per essere istruiti, e prendervi il Battesimo; la missione di Ennerea perciò non si poteva più abbandonare. Le trattative di Abba Baghibo col Re di Kafa erano per finire, e si avvicinava il tempo di decidere la partenza per Kafa. Di tutta necessità conveniva determinare e preparare i soggetti che sarebbero [stati] destinati per quella nuova missione. Non manchi, mi dicevano, di scrivere una lettera ad Abba Baghibo [p. 203] per disporlo a rassegnarsi, poiché questi nuovi cristiani nostri non mancheranno di raccomandarsi a lui, ed egli da parte sua non mancherà di fare delle difficoltà per la nostra partenza per Kafa.

risposta dei missionarii, ed al re. Era questa una difficoltà già preveduta, e determinata, ma non aveva ancora pronunziato il nome delle persone che sarebbero partite per quella spedizione. Nel mio cuore aveva deciso che sarebbe partito il P. Cesare da Castelfranco con Abba Jacob che avrei ordinato Sacerdote, a condizione che il P. Cesare mi avrebbe spedito una promessa giurata d’istruirlo. E arrivato perciò il momento di publicare questa mia determinazione scrivendo al P. Cesare la determinazione presa, e di mandarmi al più presto la promessa con giuramento d’istruire il novello Sacerdote che gli sarà aggiunto per compagno, facendo in modo che detta dichiarazione giurata mi arrivi prima della festa di S. Stefano, giorno fissato per l’ordinazione in Sacerdote dei suddetto Abba Ajlù Jacob, perché in caso che non arrivi sarò costretto a ritardare l’ordinazione. A questa lettera [ne] ho aggiunto un’altra al P. Felicissimo, ed una terza /123/ ad Abba Baghibo, nella quale [p. 204] [dicevo] di spedire a Kafa il P. Cesare col suo compagno, subito che sarebbero terminate le trattative con quel Re, e che in quanto alla missione di Saka‑Ennerea vi sarebbe rimasto il P. Felicissimo. Fatte queste lettere le ho consegnate ad un nostro giovane, il quale doveva portarle al più presto, e riportarmene la risposta.

preparativi, e seguenti ordinazioni. Ho lasciato quindi da una parte ogni altra occupazione, e mi sono posto a coltivare i due ordinandi, di cui ho già parlato avanti. Da quattro e più mesi [e più] avevano già ricevuto molte istruzioni per summa capita sulle cose più necessarie a sapersi con molte esortazioni, onde esercitare il loro spirito nelle idee dell’apostolato. Ho fatto fare loro un ritiro, pendente il quale io faceva delle conferenze, almeno tre volte al giorno, alle quali assisteva anche il Sacerdote indigeno, benché molto più avvanzato di loro. Dopo il ritiro ho conferito loro il Suddiaconato. Nel Sabbato delle tempora dell’Avento gli ho fatto tutti [e] due diaconi. Dal momento che furono in Sacris ogni giorno gli faceva assistere [al]la mia messa in piedi, mancomale vestiti come è di dovere di tunicelle e dalma‑ [p. 205] tiche, affinché colle cerimonie imparassero, e succhiassero la gravità, la fede, e l’esatezza nella celebrazione dei santi misteri, consuetudine che ho sempre tenuto [sino] alla fine. sistema mio nel celebrare. A questo scopo mi sono proposto due [due] cose: la prima è quella di pronunciare le parole della messa mia celebrando in modo che i ministri immediati della medesima potessero sentire ed accompagnare col cuore tutto, quello che io diceva, invece di pronunciare in secreto assoluto. La seconda cosa è quella di eseguire le ceremonie della Messa medesima coll’esattezza quasi matematica colla quale un professore di ceremonie deve insegnare, dispensandomi da qualunque abitudine, che purtroppo suole introdursi in alcuni Sacerdoti anziani. Abitudini che ancora attualmente non posso più lasciare.

ragioni del sistema. Postoché sono arrivato a dir questo, debbo dar[ne] le ragioni di queste mie determinazioni. La prima ragione. In queste missioni affatto elementari il povero vescovo manca di professori sia per le scienze e sia per le rubriche, e manca ben soventi anche di tempo per tutto insegnare, ma egli è l’unico professore e delle scienze, [p. 206] e delle rubriche. Qualche volta le conferenze sulle rubriche non mancano, ma queste, col tipo visibile avanti i loro occhi quasi tutti i giorni, sono subito comprese dagli allievi, altrimenti sarebbe una parola quasi gettata al vento; la sola conferenza academica è una cosa per lo più sterile e fredda, laddove l’esercizio esatto del loro maestro, da cui hanno tutto, appreso quello che sono, e senza del quale sarebbero ancora nel fango del paganesimo, la fede, la gravità, e l’esattezza del maestro, passa diret- /124/ tamente al loro cuore, diventa per loro un vero bisogno, ed una vera natura coll’aggiunta delle grazie sempre concomitanti, e che non mancano. Difatti ho veduto sempre che i miei allievi ben saturi di questo esercizio, all’atto pratico poi, appena ordinati Sacerdoti, con pochissima assistenza celebrano la loro Messa con un’esatezza ed edificazione da essermi di buon’esempio.

uso abissino ed altre ragioni. Oltre a tutte queste ragioni, ancora un’altra ragione mi invitava a pronunziare tutte le orazioni secrete della nostra Messa latina con una voce un poco più sensibile, ed era quella dell’uso abissinese, il quale si può dire anche nella maggior parte uso di [p. 207] [di] quasi tutto l’oriente; perché l’Abissinia nella celebrazione della Messa, non solamente usa [di] pronunziare a voce chiara, ma con canto indistintamente tutte le parti della Messa; gli assistenti quando sentissero nulla stenterebbero a credere che il Sacerdote stia dicendo, e pronunziando qualche cosa. Negli stessi nostri allievi indigeni il sistema [di] pronunziare le secrete in modo affatto inintelligibile dai più vicini inservienti poteva forze degenerare in oblivioni ed in salti anche notabili. Chi conosce la debolezza umana, anche nei nostri Sacerdoti europei non stenterà [a] persuadersi di questa gran verità. Il Sacerdote guidato da una fede viva, certamente che nulla lascia temere a questo riguardo, ma noi sappiamo [che] non tutti sono di questa tempra, ed in molti [per ciò che riguarda] l’azione santa, l’abitudine è per lo più un movente superiore alla fede, e lascia temere anche fra noi.

ordinazione di un sacerdote per Kafa
[26.12.1854].
Essendo fratanto venuta la dichiarazione giurata del P. Cesare unitamente alla promessa dalla parte di Abba Baghibo che avrebbe fatta la spedizione a Kafa del P. Cesare e di un’altro suo compagno, allora io mi sono [p. 208] affrettato a fare l’ordinazione del Sacerdote da spedire; ho lasciato per un’altra volta la promozione del mio Morka, detto anche Abba Joannes, e mi sono limitato all’ordinazione del solo Abba Hajlù Jacob, il quale doveva partire per Kafa col P. Cesare. L’ordinazione ebbe luogo il giorno di S. Stefano, ed egli se ne partì per l’Ennerea il 2. Gennajo 1855. Colla partenza di questo novello sacerdote ho scritto una lunga lettera di esortazioni al P. Cesare rapporto al suo viaggio di Kafa, ed alcuni regolamenti per quel nuovo stabilimento di missione, il quale col tempo si sperava avrebbe preso gran sviluppo. [partenza dall’Ennerea: 19.4.1855;
arrivo a Bonga [Kaffa]: 1.5.1855]
Aggiunsi anco[ra] una lettera al P. Felicissimo, nella quale raccomandava maggiori istruzioni per i neofiti di Nonno Billò, i quali andavano moltiplicandosi, perché trattandosi di persone che venivano da lontano, dove non vi era Sacerdote, non potendo avere nel paese loro un ministero locale, ne avevano maggior bisogno.