Vol 4. Progetti e attuazioni
Intermezzo europeo
1863 – 1868

/7/

1.
Nell’Abisssina. La razza «uoïto»
Teodoro stratega. L’arresto a Nagalà.

Il luogo dove ho passato il Nilo è forze sei o sette kilometri più [più] [in] alto dell’imboccatura del fiume Bascilò sulla strada che da Martola Mariam conduce a Estie. Il giovane monaco che mi accompagnava, essendo nativo di Tedba Mariam più al Sud Est, [p. 526] egli conosceva molto bene tutti quei contorni. Appena saliti la prima salita sopra il letto del Nilo mi fece vedere più al Sud l’imboccatura del fiume Bascilò, ed un poco più all’Est il suo paese Tedba Mariam; quindi girando lo sguardo più all’ovest al di là del Nilo sul continente del Gogiam mi fece vedere pure paese nativo del martire ghebra Michele
[nato c. 1788; † 13.7.1855]
Cfr. Vol. 2 cap. 35 M.P.
il paese nativo di Abba Ghebra Michele, il nostro famoso martire cattolico morto pochi anni prima al campo di Teodoro; ucciso da Abba Salama. Gli ho domandato se conosceva il luogo dove morì quel campione della fede cattolica. Io in quel tempo, mi rispose, contava appena dodeci anni, guardava le vacche del mio padre, epperciò non seguiva i movimenti della guerra; però so che non era lontano dal mio paese, e forze non mi sarebbe difficile trovare qualcheduno che potrebbe indicarmelo, ma oggi Ella non ha tempo, di occuparsi di questo, nelle circostanze in cui ci troviamo di viaggio secreto.

un’amico misterioso Di quella sera il manachello mi condusse ad una povera casa di un suo amico, mezzo cattolico, dove avrei desiderato di passare un giorno nascosto per riposare dopo una settimana di notti passate sempre in viaggio. Egli ne parlò [p. 527] al padrone di casa del bisogno che avevamo di riposarci qualche giorno. Quando è così, rispose egli venga con me egli col giovane Stefano, e voi restate qui. Era la sera quasi sul fare della notte. la grotta secreta di un woïto. Sortimmo di casa ed entrammo in un bosco, dopo un poco di cammino discendiamo un gran precipizio, e dopo varii giri ci fa entrare in un buco oscuro che avrei detto la tana del lupo, e mi introduce in una grotta, do[ve] egli teneva del grano; si trovava là un poco di fuoco, un miserabile letto ed alcuni vasi di cucina. Ella qui può riposare, anche una settimana se vuole, là intanto con Abba Rafaele /8/ anderemo a cercare qualche cosa da mangiare. Qui Ella non può temere, perché nessuno conosce questo luogo; sono pochi giorni che il paese è stato tutto pigliato, i soldati qui non sono arrivati. Circa un’ora dopo, nel bujo della notte, venne egli con Rafaele, e portarono birra, latte, pane, ed una eccellente polenta d’orzo ben condita di butirro, ed altre cosette. Un poco più lontano quasi un kilometro fra precipizii si trovava un’altra grotta, dove vi era[no] la moglie e [i] figli [del padrone].

Abbiamo passato la sera a discorrere. Il padrone di casa ci disse che era una famiglia di Woïto; la casa dove siete entrati arrivando è la casa conosciuta dal governo, essa è sempre quasi vuota, disse, e venendo [p. 528] qualcheduno a cercarvi è là che vi cercano; ma quelle sono tutte case vuote, dove esiste sempre qualcheduno di guardia con piccole proviste che non contano. Questa grotta, mi diceva, il solo mio figlio più grande la conosce, e la mia moglie, ma tutti gli altri non conoscono questo luogo. Poco lontano di qui abbiamo un’altra grotta, dove sta la famiglia e potete andare a vederla se volete Qui siete sicuro che nessuno viene fuori del mio figlio più grande, il [quale] penserà a voi. fasi diverse della razza Woïto Questi Woïto sono la stessa razza che in Kafa si chiama Mangio; e fra i Galla si dice Wata. Fra i galla si sono fusi coi conquistatori, ed appena si distinguono dai forestieri. In Kafa sono infami, anzi immondi; anche in Abissinia, ma non tanto come in Kafa. Parlano la lingua del paese, ma non mancano di un gerg[hi]o particolare, e di tradizioni speciali. Come è una casta molto isolata dal popolo, di tipo è meglio conservata, ma troppo ristretta in certi luoghi, come appunto era il luogo in discorso, dove il figlio primogenito aveva per moglie la propria sorella germana.

informazioni prese in quella famiglia. Come sono rimasto là qualche giorno aveva preso delle memorie sulla loro religione tradizionale; e sopra la loro lingua, di cui rimane appena qualche segnale, aveva scritto questo in un foglio di carta, ma poi in Nagalà quando sono stato [p. 529] arrestato dal soldati alcuni giorni dopo, tutti i pochi manoscritti che aveva con me mi sono stati presi, e mandati all’imperatore Teodoro, e non gli viddi più. Da quanto posso ancora ricordarmi, quella razza, dice costantemente dapertutto, cioè sia in Kafa, sia in Abissinia, che anticamente erano loro i padroni del paese, stati vinti e fatti schiavi dagli amara. Questa e una loro tradizione costante. In quanto alla religione il Woïto ha meno osservanze esteriori dello stesso galla, ma le poche tradizioni dogmatiche che tiene sono bibliche riguardo all’idea della divinità e della creazione, se pure non si voglia supporre che le abbia prese dalle popolazioni colle quali è in contatto; così l’oscura idea dell’immortalità e del fine ultimo del uomo. /9/ Nella moralità poi, circa la parte sensuale, e quasi nulla. Io avendo fatto alcuni rimarchi al figlio, per avere sua sorella come moglie: questo lo sappiamo, disse, e nei luoghi dove sono molti osservano questo, ma quì la nostra famiglia [è] isolata da tutti [e io] non aveva altra [donna] che questa, mi sono affezionato... Quì mi fece poi una descrizione, della corruzione delle famiglie isolate, per questa stessa ragione...

Io poi, venuto da Kafa, dove se ne trovano molti Woïto o Mangiò, ho veduto che tutto era vero ciò che quel giovane mi raccontò: vi era anche là [p. 530] un capitale non indifferenie di corruzione per lo stesso motivo dell’isolamento molto più grave in Kafa che in Abissinia; il Mangiò essendo in Kafa non solo infame, ma immondo da non poter essere avvicinato, ne potersi egli avvicinare ad una persona civile. Fra le infamie che si attribuiscono, a quella razza è quella di nutrirsi della carne di qualunque animale, ad eccezione degli avoltoi, e delle jene.

il woïto di Kafa e le scimie Il Woïto o Màngiò ha una vera passione per la carne delle scimie, massime di grossa specie. I nostri trasformisti avrebbero di che occuparsi, per studiare la scimmia in Kafa nelle case dei Mangiò, dove se ne trova sempre delle morte e delle vive, ed anche dei castrati scimioni. Io era molto ricco di simili memorie, e sono persuaso che portandole avrei guadagnato una decorazione. Il Woïto in questo senso sarebbe nemico naturale dei darvinisti. Tutti i kafini vestono un capello piramidale fatto con pelle di scimia. Penso che i trasformisti farebbero bene [a] portare un simile capello per distinguersi dalla razza biblica.

Ciò notato di passagio, pieno di riconoscenza pel mio ospite Woïto ho lasciato il versante del Nilo con qualche provisione. Accompagnato quindi dal mio monachello Rafaele e dal giovane Stefano, invece [p. 531] di prendere la strada che costegia il Nilo più all’ovest, la quale mi avrebbe condotto ad Ifagh ed a Gondar, come tutti paesi stati distrutti poco prima da Teodoro, io ho preso la via dei paesi alti più all’est, guidato di notte dal mio ospite Woïto, il quale mi accompagnò sino al fare del giorno, consegnandomi ad un suo conoscente pastore, il quale mi ricevette in una capanna molto piccola, e mi diede del latte in quantità per me, e per i due compagni. Ho passato là tutta la giornata a dormire. Verso le due dopo mezzo giorno, il bravo pastore mi fece accompagnare un tantino da un vecchio suo servo, e camminammo sino a sera per arrivare ad Wof-wascia un paese chiamato Wof-Wascia (grotta degli ucelli), dove, arrivati a notte, piovendo dirottamente, siamo entrati nel degia Salama della Chiesa; i miei giovani cercarono un poco di legna e di fuoco per asciugarci. Vicino alla Chiesa vi era una casa di vecchie don- /10/ ne, le quali ci mandarono un poco di pane ed aqua. La Chiesa era chiusa, ed il Santuario era dentro la grotta stessa.

abbiamo passato la notte Abbiamo dormito alla meglio e la mattina sul fare del giorno siamo partiti con una nebbia foltissima. Il mio Abba Rafaele, conosceva abbastanza quel paese per servire di guida; egli mi diceva che a sinistra [p. 532] un poco più [in] basso e non molto lontano da noi si trovava Devra Tabor, ma non solamente non si vedeva, noi due non ci vedevamo l’un l’altro, tanto la nebbia era folta; nostra marcia fo[r]zata fin qui, diceva io, abbiamo camminato sempre di notte, oggi possiamo camminare anche di giorno, perché nessuno può vederci. Erano pascoli immensi e piani, dove non si vedeva un solo albero.

animali morti e putrefatti Una sol cosa infestava tutti quei luoghi[:] erano animali morti e corrotti che si incontravano ad ogni tratto; vacche, bovi, vitelli, cavalli, muli, ed asini cadevano come le mosche, e si lasciavano sul luogo dove erano caduti. L’Abissinia anticamente aveva un rimedio dato da Dio per tutti gli animali in putrefazione, e per le stesse popolazioni decimate dalla guerra, per il che la società non usava di provedere, erano le gran famiglie di lupi, di iene, e nuvole di corvi e di sparvieri, che finivano tutto in poco tempo. In tempo di Teodoro non bastavano più tutte queste creature poste da Dio per l’igiene del paese.

Per spiegare tutto quel sbilancio e mortalità debbo qui riferire alcuni gravissimi errori commessi da Teodoro, i quali lo condussero alla totale sua rovina. Teodoro era un vero genio mandato da Dio per distruggerla [l’Abissinia] ma non per organizzarla. valore del famoso Teodoro In proporzione del paese si poteva dire di Teodoro ciò che molti [p. 533] scrissero del nostro Napoleone primo. 1. Parola che incantava i soldati. 2. Mistero d’operazione, tale che cento mille persone dovevano seguirlo senza sapere dove andavano. 3. Marcie militari a due terzi più del comune, da arrivare sempre all’improvviso. 4. Piani di guerra fuori del comune. 5. Distruggere senza misericordia. Fuori di questo, Teodoro era un vero pigmeo inferiore al suo cuoco. Se almeno Teodoro avesse saputo scegliere uomini, e lasciarsi guidare un tantino, la sua razza avrebbe regnato [per] secoli in Abissinia, ed avrebbe regenerato il suo paese per metterlo in contatto colla diplomazia europea. Niente di tutto questo, era egli un’autocrate schiavo del suo calcolo del momento, ed anche un gran genio sotto di lui era una stella cadente. Di qui la sua rovina.

i suoi movimenti e marcie. Vediamolo alla pratica. Teodoro sentiva che qualche paese minaciava rivolta, oppure non spediva i tributi a suo tempo. Egli riceveva la notizia colla massima freddezza, e senza dare il menomo segno di collera. La sera a un’ora di notte batteva il gran tamburro, e tutto il campo si recava a sentire: domani siate pronti a seguirmi; ecco tutto ciò che si sapeva. L’indomani egli montava a cavallo col suo corpo di guardia che lo seguiva. Veduta la sua levata si batteva la generala, e cento mille persone dovevano seguirlo senza sapere dove andavano, e sempre a marcia forzata. Se il paese, dove voleva andare, [p. 534] era lontano sei giorni di marcia comune, egli vi arrivava in tre, e qualche volta in due. Arrivato che era Teodoro, e piantato il suo campo, chi si misurava con lui? Al più si limitavano le forze indigene a custodire qualche fortezza, del resto, anche milliaja di uomini armati non si cimentavano, perché guai a sparare un fucile, perché allora tutto passava a fil di spada.

sistema di pigliagio di Teodoro Da principio egli era un’agnello tutto miele, ed il popolo faceva dei sacrifizii per contentarlo e contentare l’armata. Se avevano preceduto atti di rivolta il paese per sperare misericordia doveva dare tutti i colpevoli nelle [sue] mani; altrimenti prendeva in ostagio le loro famiglie. Se aveva preceduto qualche collera secreta nel suo cuore egli imponeva un tributo impossibile, e passato il tempo fissato egli lanciava l’armata sopra il paese, ed allora bestiami, grani e tutto ciò che si trovava era radunato in mezzo al suo campo, e non partiva fino a tanto che tutto non fosse arrivato alla sua città centrale. uomini, donne, animali tutti erano in movimento di trasporto.

sua rovina dove naque Ora con questo sistema il nostro Teodoro in quattro o cinque anni aveva spogliato tutti i paesi dei contorni dei loro bestiami, dei loro giovani, e dei loro lavoratori. All’opposto aveva coperto la superficie del Paese Beghemeder, suo paese centrale [p. 535] di bestiami cinque volte più di quello che poteva sopportare. La quantità di grani venuti nel paese suo distrusse il movimento dell’agricoltura indigena. Ora cosa [ne] avenne? I paesi lontani morivano di fame per mancanza di bracia, di bestiami e di vita sociale. Il suo paese poi, sbilanciato dalla troppa abbondanza mangiando grani fermentati e guasti, era travagliato da diarree e da altre epidemie che lo decimavano. Arrivò anche così dei bestiami. Se Teodoro fosse stato una persona di calcolo, si sarebbe servito di tutte quelle richezze per accaparrarsi i paesi circonvicini ed arrichirli in modo che potessero bastare per mantenergli l’armata in caso di bisogno. Tutto all’opposto, il paese suo fu più soventi ancora vittima del suo furore, e fu il primo ad essere distrutto. Tutti i bestiami [erano] nelle mani dei soldati; un Scialaca [aveva], chi otto, chi dieci mille teste [bovine] da custodire.

una gran ricchezza sciupata Chi conosce in detaglio il modo di regolare i bestiami sono gli agricoltori; essi prima di tutto sanno distinguere i loro bestiami per tenergli /12/ ciascheduno nel suo clima e nel suo paese. Essi conoscono il modo di custodirlo, di nutrirlo, e di guarirlo se si ammala; essi sanno farlo lavorare, e farlo fruttare. Il soldato invece non pensa ad altro che a mangiarlo, e distruggerlo. Un centinajo [p. 536] di mille teste di bestiami ben occupati avrebbero bastato per mantenere i grani, la carne, ed il latte alla casa imperiale ed all’armata di Teodoro; invece un millione di teste circa che si calcolavano, non solo furono un capitale perduto, ma fu la rovina e la morte del paese e dell’armata. Il povero paese di Beghemeder mangiando quella carne e quei grani degenerati e corrotti finì per essere quasi distrutto dall’epidemia. si descrive la sua rovina Fino a tanto che Teodoro fu ricco di grani e di bestie, fu potente, mancato questo incomminciò ad indebolirsi; il Beghemeder non poteva più mantenergli l’armata, andar [a cercare foraggi] lontano i popoli erano troppo irritati contro di lui. Il suo impero finì per restringersi ai contorni di Magdala, dove non aveva più di che mangiare; l’armata si dileguò, e gli inglesi ne fecero un boccone. Almeno avesse saputo umiliarsi agli inglesi, avrebbe salvato l’anima sua e forze l’impero ai suoi figli; invece tutto fu perduto.

riprendo la storia Riprendendo ora il corso del mio viagio, appunto in quella circostanza di epidemia universale degli animali bovini e cavallini, in mezzo alla puzza insoffribile di tanti animali morti e corrotti, inviluppato da una nebbia spessissima che impediva di vedere [p. 537] un mettro lontano mio arrivo a Nagalà, sono arrestato
[27.6.1863]
io arrivava una sera, tutto stanco da un lungo viaggio, sopra l’alto piano di Nagalà, dove si trovava Scialaca Gember come governatore militare del paese con dieci mille bestie da custodire. Un quarto d’ora di più che avessi avuto di libertà sarei disceso nei paesi bassi detti cuolla che versano nella valle del fiume Takasié lontano forze poche leghe dalla sua sorgente, e forze me la sarei scappata da Teodoro; ma quel quarto d’ora di più mi mancò. Io da 10. giorni che camminava come un ladro di notte per fuggire di cadere nelle mani di Teodoro, inviluppato nella nebbia, [proprio] io coi miei due giovani vado a cadere in mezzo ad un circolo di soldati che guardavano la strada; naturalmente fui arrestato.

le mie vesti da viagio. Incommincierò quì per dire come io era vestito: lo aveva un abito cappuccino, levatogli il capucio, ed apertolo avanti in modo di veste talare, o specie di mantello. Quindi l’ho foderato da due lati di tela bianca grossa del paese, e l’ho trapuntato, affinché mi riparasse dal freddo. Sotto quel sopratutto [vestivo] una camicia bianca di tela semplice che arrivava ai piedi, sopra la quale una cinta molto grossa [mi cingeva] alle reni. Sotto di questa una piccola camicia di tela bianca sino alle reni, la quale si cangiava e si lavava soventi colle braghe. [spogliato di tutto] Ora arrestato che fui quei manigoldi mi spogliarono senza pietà e senza pudore, lasciandomi /13/ le sole braghe [p. 538] in quelle altezze sopra i tre mille mettri, dove, se non gela il freddo è molto sensibile, come cosa al di là della temperatura normale, a cui la persona si suppone accostumata. Ma il freddo era ancora il meno, ma [stavo con] la persona quasi nuda in mezzo ad una decina di giovinastri o meglio ragazzaci impertinenti, e senza freno affatto. Io ed il monachello col distintivo di monaci che è il berettino, eravamo minaciati, ma per forza ci rispettavano; ma il povero Stefano, il quale colla sua semplicità si era, dichiarato schiavo, a lui [gli] cavarono persino le braghe; era, un giovanetto ancora innocente che io conservava come un gioiello, il sentirlo [a] piangere era per me un vero martirio. Per fortuna che ha piovuto tutta la notte, altrimenti sarebbero venute donne dal villagio, e la cosa sarebbe stata molto più grave.

[l’acqua nella capanna] Oltre a tutto il resto, la capanna era [una capanna] più fatta per riparare il sole che non la pioggia e pioveva più dentro che fuori; non bastava, essendo un terreno piano l’aqua incomminciò [a] scorrere, dimodoché [durante] una parte della notte l’aqua veniva di sopra e correva di sotto; [p. 539] l’aqua aveva smorzato il fuoco, [ed era così] oscuro che nulla si vedeva, avrei voluto levarmi per fare qualche manovra, ma io era legato con un giovane, il quale, quanto era nojoso la sera prima del sonno, altrettanto divenne immobile dormendo; io avrei potuto sciogliermi e partire, se la prudenza non mi avesse trattenuto; oh che notte lunga! per fortuna che io aveva passato la giornata senza mangiare, del resto sarebbero ancora state maggiori i miei bisogni, e le mie tribolazioni. Verso mattina incominciava [a] venire il sonno, ma il mio compagno di catene che non aveva digiunato dovette sortire, ed io che con tutto il mio episcopato era divenuto una virgola di un ragazzo, levandosi egli ho dovuto levarmi anche io, e sortire con lui; tutto il resto poi non si dice; il detto basta per far conoscere la triste posizione di un prigioniero in quei paesi. Per fortuna sortendo ho veduto l’orizzonte a levante che lasciava vedere un poco di luce e di sole vicino.

Venne il giorno, sortì il sole focolare dei poveri, e siamo sortiti sulla porta e ci siamo messi al sole per asciugarci e riscaldarci un tantino. Appena fummo un poco riscaldati, venne da Scialaca Gember [p. 540] l’ordine di partire, e ci siamo messi in viaggio. mio arrivo da scialaca Gember Appena arrivati al campo m’introdussero in una specie di capanna, dove si trovavano altri [altri] infelici della nostra condizione, tutti guardati come noi; vi erano anche alcune donne e ragazzi di mercanti. Scialaca Gember avendo veduto un bianco mezzo nuto [= nudo] ebbe qualche compassione di me, e disse al mio compagno certe parole di collera disapprovando il modo con cui mi avevano spogliato. Tutte le nostre vesti ed effetti /14/ erano già andati la sera da lui. Fece portare ogni cosa, e mi domandò se vi era tutto. Come tutto era bagnato, mi fece la cortesia d’imprestarmi una vecchia veste asciutta per coprirmi. Intanto si ripassarono gli effetti miei e dei miei giovani, e tutto fu trovato, meno alcuni talleri, i quali erano cuciti in una sacocia del mantello stato [a] metà scucito. Dopo molte questioni comparirono anche quelli. Domandai di un’inviluppo di carte, quelle, disse, non le trovate, perché nella notte sono partite per il campo [dell’imperatore].