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6.
La rigenerazione dell’Etiopia.
Voce di Mons. De Jacobis e visioni celesti.

aspirazioni degli abissini Lascierei una laguna in queste mie memorie se non dicessi qualche parola sopra il sentimento che lasciò in Abissinia la comparsa dell’armata inglese, e delle conseguenze naturali che avrebbero seguite se essa fosse rimasta in qualche luogo dell’alta Etiopia. Già prima che incomminciassero le vertenze inglesi coll’imperatore Teodoro, la parte più notabile del popolo stanco della guerra civile, non lasciava [di] dimostrare un desiderio vago, ma sincero che una qualche potenza cristiana alla fine avesse compassione dell’Abissinia [p. 326] e mettesse fine alla guerra civile, ed al sistema delle continue rappresaglie, che finivano per distruggere il paese, per le quali nessuno era sicuro persino nelle proprie case; era questo un voto che si sentiva quasi ogni giorno dalla bocca del popolo. prove sincere di tali aspirazioni In particolare poi degli inglesi, contro i quali i musulmani avevano sparso tante favole odiose dopo la presa di Aden, il senso comune abissinese erasi affatto cangiato in questi ultimi anni: io mi sono trovato presente a certi discorsi, nei miei moltiplici viaggi, obligato a pernottare nelle famiglie; noi qui dicevano, [non] siamo padroni più di nulla, neanche delle nostre mogli; evviva il paese inglese, là l’uomo si può dire veramente padrone della sua casa, della sua roba, e del suo mondo; i musulmani stessi tanto nemici degli inglesi, come riferiscono i mercanti, oggi quelli che hanno denari gli tengono in Aden, perché là solamente trovano sicurezza.

simpatia per l’armata Dopo simili preliminari, è facile concepire come l’Abissinia si rassegnasse con tutta facilità a sentire che l’armata era realmente per venire. Sopratutto poi bisogna confessare che l’amministrazione dell’armata medesima, seppe così bene prevenire ed ordinare la disciplina dei soldati suoi, da rendere quell’atto, per se stesso ostile ed irritante, [gradito,] da tirarsi una vera simpatia, e produrre un vivo desiderio in moltissimi, che vi rimanessero per sempre. [10.4.1868] Mentre le due armate si battevano ai piedi di Magdala, [p. 327] il desiderio di tutti, anche di coloro che /52/ naturalmente erano nemici, perché interessati, allegria per i trionfi inglesi era per la vittoria degli inglesi, e quando cadde Teodoro fu una vera festa universale, come già si è detto. È vero che detta festa rifletteva piuttosto la morte del comune nemico che era Teodoro, ma nessuno dubitava che gli inglesi vittoriosi dovessero partire, anzi all’opposto, tutti speravano che sarebbero rimasti; cosa significava dunque tanta allegria, se non il piacere correlativo favorevole ai nuovi conquistatori? Non vi fu più dubbio di ciò quando [29.4.1868; 1.5.1868] quattro giorni dopo si seppe la loro partenza con universale dispiacere.

nuova ragione giustifica la partenza Per calmare quel dispiacere universale, gli inglesi, si diceva, non si fermano a Magdala, perché è un luogo troppo lontano dal mare, ma resteranno nel Tigrè, luogo più vicino al porto di Zula, e dominò questa ragione più di 15. giorni a calmare il dispiacere della loro partenza da Magdala; ma quando arrivò il Signor Mekev con le lette[re] venute dall’armata
[17.5.1868]
[28.4.1868]
lettere venute dal campo, nelle quali si parlava del loro effettivo abbandono dell’Abissinia, allora si può dire che mancò il respiro per la pena universale di tutti. Io ho ricevuto allora una lettera dal console Mussungher, capo dragomanno dell’armata inglese, il quale narrava tutti gli impegni fatti da lui, e da altri per determinare il governo [p. 328] inglese per ritenere almeno una posizione sopra l’alto piano etiopico, e come il governo restò fermo nella presa risoluzione. Ad istanza dello stesso Menilik questa lettera [17.5.1868] fu tradotta da me, e data a leggere a tutti, e fu questa come l’ultima sentenza che toglieva ogni speranza all’Abissinia sopra l’armata inglese. Si noti che noi eravamo alla corte di Menilik, luogo naturalmente poco favorevole ai trionfi di un’armata estera nel paese; eppure non si può dire il sentimento di malinconia che lasciò in tutti quella lettera.

aspirazioni popolari e plebiscito Certamente che tutte quelle aspirazioni popolari equivalevano ad un vero plebiscito, nome tanto sacro nei paesi della rivoluzione, il quale ha servito altrove come di formola sacramentale per detronizzarvi i veri Re padri dei popoli per stabilirvi dei governi popolari chiamati governi liberi a modo turco, fatti per introdurvi una nuova schiavitù più terribile ancora del dispotismo abissino tanto temuto da quei popoli medesimi. La povera Abissinia tendeva le mani verso un governo qualunque della nostra Europa sperando compassione per sortire da un sistema di governo del più forte, che si cangiava ogni giorno per mettere in trono un’altro despota più affamato del primo che lo distruggesse ancora più [p. 329] potentemente del primo, perché armato di passioni e di bisogni novelli. La poveretta faceva questo raziocinio: questi governi d’Europa tanto zelanti per abolire la schiavitù e la tratta dei nostri neri, non /53/ può essere altro che un sistema di governo, dove regna Iddio misericordioso padre degli oppressi. Confermava questa sua persuasione l’incessante apparizione di missionarii santi uno più dell’altro della taglia di Monsignore Dejacobis vero portento di carità per il debole e per l’oppresso. Ma l’Abissinia non conosceva i governi d’Europa cosa faranno? il mondo della nostra povera Europa, e non poteva sapere il mistero d’iniquità che si stava operando fra noi. Che i missionarii siano santi sta bene, perché essi vengono da Dio, ma essi [non] hanno niente da fare col loro governo. Questo essendo ateo non può sentire compassione dell’Abissinia. La citata legge contro la schiavitù non è altro che un giuoco di formalità senza effetto; è una pilola colorita per ingannare le nostre popolazioni cristiane a lasciarsi condurre dal nuovo sistema ateo, il quale dovrà finire per loro medesime ad una schiavitù pagana più terribile della turca e dell’abissina, dove ancora si conosce Iddio.

Tali sono state sempre le mie convinzioni nei 35. anni da me passati in Etiopia; ma avrei creduto di scandalizzare quei poveri popoli facendoli conoscere ciò che si passava nei miei paesi; [p. 330] all’opposto ho cercato sempre di ravivare la loro speranza; fatevi coragio, soleva dir loro, confidate in Dio, il quale finirà per esaudirvi. In quanto a me, dal momento che la nostra razza latina in modo speciale, sposò la diplomazia atea della massoneria, ed entrò nel sistema di fare la guerra al cristianesimo, allora andò perduta ogni mia speranza per l’Abissinia cristiana. l’Abissinia, e l’Africa orientale Il principio diplomatico sostenuto da gran[di] calcolisti cristiani [era questo]: l’Abissinia cristiana, divenuta fervente cattolica, essa sola basterà per purgare tutta l’Africa orientale dal monopolio arabo che sta mettendo dovunque barriere di ferro alla nostra civilizzazione e commercio europeo. Dunque con tutti i mezzi possibili venga rigenerata ed educata l’Abissinia cristiana, ed allora solamente in modo simpatico e meno violento cesserà la tratta dei neri, circoleranno i nostri commercianti, ed i nostri geografi potranno riempire le lagune delle nostre carte in luoghi così vicini a noi, ma impenetrabili.

governo catolico Io sono partito da Roma sul principio di Giugno 1846. lasciando ancora il Papa Gregorio morto due giorni prima, ma ancora insepolto. Sono partito meditando il piano suddetto, arrivo in Abissinia in Ottobre dello stesso anno e trovo là il fu sforzi di Dejacobis
[dal 29.10.1839]
Monsignore Dejacobis, ancor semplice Prete, il quale lavorava colà già da sette e più anni, animato dalla speranza [p. 331] che un giorno l’Abissinia sarebbe stata tutta nostra, e coll’elemento di novelli apostoli ivi guadagnati, l’Africa orientale avrebbe finalmente chiuse le porte ai vicini arabi ivi padroni da secoli, per aprirle alla nostra Europa cattolica; egli con dei grandi sacrifizii già da /54/ me altrove narrati, aveva fatti già dei gran passi nel cuore di quel popolo; mi fece vedere delle lettere di gran diplomatici che gli promettevano di potentemente adoperarsi per assisterlo, e grandi anime pregavano, affinché l’opera di Dio fosse coronata di esito felice. Monsignore Dejacobis era divenuto mio maestro, ed io era glorioso di camminare dietro a lui; l’opera di Dio marciava a vele gonfie, e fecimo insieme il voto di morire per la grande opera della rigenerazione dell’Africa orientale cattolicizzando l’Abissinia.

ci furono contrarie le crisi d’Europa Mentre noi stavamo lavorando in Abissinia sperando di essere assistiti dalla diplomazia cattolica dei nostri paesi, nei nostri paesi la diplomazia camminava ad un polo tutto opposto. Sono conosciute abbastanza da tutti le crisi politiche d’Europa avvenute dal 1848. al 1850. senza che io le riferisca; arrivarono gli atei ad impadronirsi di Roma ed a farvi sloggiare il Papa. Io, obligato a recarmi in Europa nell’anno 1850. ho trovato la nostra Italia talmente disorganizzata, che sarebbe stato impossibile parlare di affari. Ho fatto una corsa in Francia, e là si dimenavano i due partiti, ma la Francia più sperimentata nelle [questioni politiche] [p. 332] diede il sopravento al cattolicismo, ed io ho potuto trovare ancora tutto l’eco della diplomazia cattolica a farci coragio; ma fù questo un fuoco di paglia, che non diede tempo ad operazioni di rilievo; al prezzo di un giuramento sacrilego [fatto] alla massoneria Napoleone III
[presidente: 10.12.1848-2.12.1852; imperatore: 2.12.1852-4.9.1870]
fù comprato l’impero da Luigi Napoleone; così il nuovo Giuliano più scaltro e più ipocrita dell’antico, ha saputo così bene barcheggiare ed ingannare il mondo cattolico, che in 12. anni d’impero massonico matricolato, ha venduto il mondo e la Chiesa al diavolo, ha installato in trono la diplomazia atea in quasi tutte le corti d’Europa, fingendosi cattolico coi cattolici e turco coi turchi, arrivò a consummare la vendita dell’Italia, della Chiesa, di Roma, e del Papa Re al diavolo, sparse la desolazione in tutto il mondo cristiano, lavorando a preparare il trionfo massonico attuale. [udienza: 25.6.1865] Nel 1866. io mi trovava in Parigi, il diavolo in quel tempo stava lavorando il lacio che doveva strangolare l’imperatore pochi anni dopo in premio di tante iniquità da lui commesse; egli veniva [11.6.1865] dall’Algeria ubbriacco di entusiasmo musulmano, ho dovuto sentire dalla stessa sua bocca: evviva l’islamismo... se tutto il mondo fosse musulmano, io mi sentirei di governarlo senza soldati... tutto detto per far capire l’uomo che era [Napoleone III].

nostre strettezze in Etiopia Io non la finirei più se potessi tutto dire, ma qui io non scrivo la storia della nostra Europa di quel tempo; il mio scopo essendo quello unicamente di prevenire il lettore di queste mie memorie [circa] il bel capitale di fiele che dovevamo digerire lavorando in Abissinia per farla /55/ [p. 333] cattolica e nostra, e quali speranze noi potevamo concepire che potesse[ro] incoraggiarci sopra gli ajuti sperati. La razza latina quindi [non] lasciava più nulla a sperare per noi e per l’Abissinia, ci era anzi divenuta oggetto della più grande tristezza, pensando alla persecuzione che stava facendo alla Chiesa, ed ai sforzi continui di scristianizzare i popoli nostri fratelli in Cristo. Per questo solo motivo sarebbe stato il caso di abbandonare l’Abissinia per ritornarcene in patria a salvare i nostri fratelli assaliti da pagani molto peggiori di quelli d’Etiopia. Ma come potevamo partire se in Etiopia già esistevano torme di figli, coi quali era nostro dovere morire prima di abbandonare il campo? Nel 1860. un’estrema catastrofe io aveva il mio campo generale in Kafa dalla [dalla] parte Sud dell’Etiopia e stava combattendo il diavolo con vantagio notabile delle anime, quando nel mese di Luglio al Nord, in un deserto, sotto una mimosi, il mio generale d’armata Monsignore Dejacobis lasciava in Tigrè il campo a Monsignore Biancheri per [† 31.7.1860] volarsene in Cielo a ricevere il premio delle sue fatiche. Altra catastrofe per l’opera di Dio; dei due giurati io rimasi solo.

Rimasto solo, l’idea di Dejacobis non mi lasciava, sia la riconoscenza che mi legava a quel gran maestro nell’apostolato, sia una santa invidia della sua sorte beata, sia una speranza di patrocinio in lui, il certo si è che Dejacobis mi era sempre presente e non sortì più dal campo [p. 334] della mia imaginazione. Io non sono visionario, ne pretendo di averlo veduto, ma dico solo che parole di Dejacobis la sua parola [mi si faceva sentire]: Fratello mio, egli mi diceva, come un’eco che risuona dal fondo di un pozzo, o di un’antro, non è la vittoria, ma è la guerra che Iddio domanda da noi[:] la vittoria è del principe, la guerra è del soldato; noi dobbiamo battersi per ottenere vittoria, ma il comando [rivolto] a noi non è di vincere ma di batterci per vincere, e per conto nostro [nostro] noi saremo sempRe Vittoriosi dal momento che ci batteremo fedelmente per vincere. Erano queste e simili [le] parole, colle quali il nostro generale d’armata apostolica accendeva di nuovo fuoco i suoi soldati, quando era ancora fra noi, e queste medesime parole anche dopo la sua morte mi pareva di sentire vivissimamente e con tutto il suo ardore consueto.

differenza tra vedere e sentire Io non voglio entrare nella questione, se cioè la visione della persona di un trapassato nella sua persona e propria sua figura sia da preferirsi alla semplice sua parola; la prima e, per così esprimermi una forma impressa nel corpo lucido ambiente che si presenta all’apparato ottico e passa al comune sensorio; la seconda è un’altra forma impressa nel corpo sonoro ambiente, ricevuta dal timpano dell’orecchio, passato pure al comune sensorio. Tutte [e] due queste sensazioni, come puramente ma- /56/ teriali, possono naturalmente prodursi come procede il sogno nel sonno, anche il più profondo, senza il concorso di una causa e di un senso esteriore, come suole accadere nel sogno, e possono [p. 335] arrivare sino al punto d’imperare ai sensi esterni un movimento consentaneo, come nel sonambulismo, e nel sonniloquio. La ragione di questo fenomeno, per quanto posso dire io che non sono fisiologo di professione, è molto chiara. Nel sonno completo e perfetto diventano inattivi gli organi puramente esterni ordinati al contatto cogli oggetti extra suppositum humanum; ma i sensi puramente interni, massime misti, essenziali alla vita, non solo animale, ma intellettiva, questi, divenuti liberi da ogni funzione estranea, nel sonno diventano ancor più vivaci, ed attivi; possono prodursi quindi delle idee vaghe di oggetti presi dall’abitudine, idee le più simpatiche alla persona, e senza il concorso delle facoltà intellettuali e volitive dell’anima umana libera.

come le visioni sopranaturali All’opposto le visioni puramente sopranaturali, per quanto esse si possono spiegare da noi, trattandosi di operazioni sopra la natura umana, epperciò contenenti sempre ancora del misterioso ed impervio, esse avvengono per lo più sempre fuori del sonno, in una persona libera e padrona dei suoi atti interni. Queste sogliono procedere da una causa puramente esterna, o all’improvviso, come S. Paolo sopra la strada di Damasco, oppure, come egli confessa nell’epistola ai corinti, avvenuta in corpore, o extra corpus, nescio, come egli confessa, ma da quanto pare, in seguito ad una meditazione volontaria. Così di S. Giovanni nell’Apocalisse, di Ezzechiele, e di Daniele dai libri santi come si trova. Così parimenti di infiniti estatici ed estatiche sino alla la visione di Bernadetta
[18 apparizioni: 11.2.1858-16.7.1858]
Bernardetta di Lordres, molti dei quali [p. 336] sono stati esaminati dai periti dell’arte, e furono constatati in uno stato veramente ammirabile ed innesplicabile fuori di una causa sopranaturale. Per tacere di infiniti altri casi, di quest’ultima consta che era portata alla grotta da una forza quasi irresistibile, ed appena arrivata, messasi in atto di pregare, quasi sul momento tutti i suoi sensi esterni diventavano paralizzati in modo da più non sentire qualunque atto anche violento. Era dunque indubitatamente il bello ed il buono indefinibile della Vergine Immacolata, che inundava il cuore ed il senso interno della verginella in modo così attraente da concentrare tutte le forze vitali esterne. Secondo me non si può altrimenti spiegare, se pure vogliamo ancora rispettare un poco le leggi della nostra fisica, e seguire le spiegazioni che si sogliono dare a certi fenomeni parziali ordinarii prodotti da una consolazione o [da un] dispiacere.

Fin qui però noi non abbiamo fatto altro che spiegare materialmente /57/ l’effetto prodottosi in Bernardetta per la visione della Madonna; il professore fisico che ha constatato il fatto, non ha potuto ragionare diversamente per spiegare un fatto storico caduto sotto i suoi occhj. Il gran miracolo però non è qui ancora; come Bernardetta abbia potuto vedere la Madonna, e sentire la sua voce, cosa che non si vede e non si sente ordinariamente dagli altri, ed essa medesima non soleva vedere fuori di quei momenti fortunati. una spiegazione della visione Qui sta la gran questione, alla quale, per chi ha fede darò una breve risposta [p. 337] di fatto, riferendo alcuni fatti narrati nei libri santi. Io dico adunque che la nostra Bernardetta vidde la Madonna, come i tre apostoli sopra il Taborre viddero nostro Signore Gesù Cristo nella sua divinità e lo viddero che parlava con Mosè ed Elia; Bernardetta vidde la Madonna, come i pastori di Betlemme viddero l’angelo che loro annunziava la nascita del divino infante, e le turbe angeliche che cantavano il gloria in excelsis. Questi due fatti conosciuti da tutti mi dispensano di citarne mille altri simili.

ragione della data spiegazione Veniamo ora alla spiegazione dei fatti citati. Gesù Cristo sopra il Taborre non si è spogliato dell’umanità per lasciare vedere la sua divinità; ne tanto meno si è vestito di [una] nuova divinità per rendersi più visibile; nessun cangiamento ebbe luogo in Lui, come sappiamo di fede; egli rimase pendente il miracolo quel medesimo di prima. Riguardo poi a Mosè ed Elia ricordiamoci di quanto dice l’Apostolo, che viviamo in Dio, ci moviamo in Dio, e siamo in Dio: in Deo vivimus, movemur, et sumus; se dunque noi tutti viviamo in Dio, ci moviamo in Dio, e siamo in Dio, senza dubbio alcuno si trovano in Dio Mosè ed Elia con tutti gli angeli e santi del cielo, come, per così esprimermi, nella testa di uno scrittore si trovano tutte le idee di un libro da lui scritto, benché non tutte egualmente attivate. Ciò posto, un raggio momentaneo e limitato di lume di gloria accordato in quell’istante ai tre apostoli ha dovuto bastare per vedere, non solo [p. 338] la divinità di nostro Signore, ma tutte le creatore beate, massime quelle che avevano qualche relazione al mistero del redentore. la visione beatifica La visione beatifica fu un dono alla natura nostra prima del peccato; fu perduta col peccato originale questa bella eredità, ma fu riaquistata colla riparazione del Redentore. Essa non è eguale in tutti, perché, secondo il detto del Redentore[:] nella casa del suo Padre celeste sono diversi i gradi, e le mansioni a misura dei meriti diversi; ora ciò che è accordato ai beati in misura, può comunicarsi provisoriamente ad una creatura in questo mondo per dono speciale. Nell’esplicazione del mistero divino sul Taborre, ciò che era fede prima diventò visione, e cessata questa gli apostoli rimasero quei di prima con nostro Signore circondato dall’umanità. Così la Bernardetta, essa vedeva /58/ la Madonna in quell’istante felice, e passato quello, essa ritornava al suo essere di prima ritenendo solo un desiderio che potentemen[te] la invitava alla grotta.

Salvo il parere contrario dell’infallibile magistero della Chiesa di Dio, io credo potersi spiegare in questo modo le visioni, le quali sono come il bacio dello sposo divino a qualche anima eletta, cose da verificarsi con saviezza e rispetto, ma non sempre da rifiutarsi con stile troppo secco, e forze anche mordace senza pericolo di dispiacere al nostro padrone divino. una mia protesta Se io ho preso motivo dalla parole del defunto mio maestro Dejacobis, per diffondermi oggi in questa materia, è per dar peso alla narrazione [p. 339] scritta da me in parecchi casi di simili visioni, forze troppo semplicemente da lasciare supporre in me una certa credulità; da ciò potrà il lettore persuadersi che [io] uso di ragionarvi sopra, e se le ho scritte è segno che ho creduto di doverle rispettare, benché per brevità non abbia sempre riferito tutte le mie ragioni. Ciò detto una volta per sempre ritorno da dove ho incomminciato, e dico, che non ho veduto la presenza del mio maestro defunto, [De Jacobis,] ma assicuro d’aver sentita molte volte e per molto tempo la sua parola, e la sentiva sempre nei brutti momenti di terribili afflizioni che non mi mancavano in Kafa. Sopratutto la sentiva nella celebrazione dei santi misteri, quando il mio cuore si perdeva nella raccomandazione di certi affari spinosi. L’apparizione della sua figura sarebbe stato per me un fiore di paradiso, ma ad un vecchio ministro della parola non sono i fiori, ma gli oracoli della parola stessa che più occorrono.

due profezie dolorose Le tribolazioni erano gravi, ma superabili; le parole sopra riferite del defunto Dejacobis miravano a prepararmi a due catastrofi future molto più importanti, quella cioè [26.8.1861] dell’esilio da Kafa, il quale mi avrebbe costato il doloroso abbandono di alcune milliaja di cristiani già convertiti, e quindi la speranza già concepita del trionfo cattolico in Abissinia, per il quale avevamo giurato insieme [De Jacobis ed io] di combattere; senza vederla [la vittoria] io ho abbandonato [p. 340] il mondo, egli dicevami, e tu vi combatterai ancora ed abbandonerai il campo senza vederla. La crisi massonica in Francia ed in Italia già riferita mi confermava l’adempimento della seconda profezia, ma [† 25.10.1867]
[13.4.1868]
[lug. 1868]
la morte di Salama, la disfatta di Teodoro, ed il trionfo dell’armata inglese parve un giorno che la speranza dovesse rivivere, ma poi quando viddi partita l’armata inglese, oh purtroppo, esclamai allora, la seconda profezia di Dejacobis si verificherà. Quando poi alcuni mesi dopo una sua lettera di M.r Faugère, capo del gabinetto al Ministero di Francia, di cui già a suo tempo se ne parlò in queste mie memorie, un disinganno
[18.4.1868; ricevuta: metà gen. 1869]
m’incaricava per parte del- /59/ l’imperatore [Napoleone] III. di assicurare Menilik che l’armata inglese sarebbe definitivamente sortita dall’Abissinia rinunziando [ad] ogni diritto di conquista sopra la medesima, allora ho finito di capire la profezia di Dejacobis, ma ho capito ancora, che se l’Inghilterra non volle consolare la povera Abissinia nelle sue aspirazioni, la causa fu il massonico imperatore della Francia cattolica.