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28.
Arrivo di Martini e Cecchi. Padre Alessio.
Proposto il ritorno di Martini in Italia.
Arrivato intanto a Fekerie Ghemb ho avuto poco tempo di pace, e di riposo per coltivare la mia piccola cristianità nel villagio della [della] fortezza, dove si trovava la cappella del crocifisso (1a), e per continuare l’operazione del monastero di Escia, il quale camminava [p. 710] egli pure a gran passi, che due notizie contemporanee venute mi obligarono a sloggiare di nuovo, la venuta cioè del Capitano Martini, di cui già una notizia volante si era sentita in casa dell’Abegaz nel viaggio sopra narrato, e quella della colonia di Rasa, che andavasi sviluppando. arrivo di Giovanni dalla costa Un bel giorno mi arrivano due giovani della missione, accompagnati da un capo carovana, i quali accusano l’arrivo di alcune casse con alcuni documenti inesatti. Uno dei giovani era il così detto Giovanni, di cui si parlò nella partenza del Signor Arnus, e che io ad istanza sua gli aveva spedito come dragomanno; l’altro era un suo compagno del nostro collegio di Marsilia, il quale era rimasto in Aden [3.2.1873] alla partenza di là del P. Luigi Gonzaga, come già è stato detto a suo tempo
un brutto affare
All’arrivo di quei giovani, io mi sono trovato alla presenza di affari gravissimi, affari che interessavano direttamente la missione, ed interessavano anche nel tempo stesso la Spedizione geografica. I due giovani nel fondo erano stati congedati dalla missione: essi erano venuti per darmi conto di alcuni oggetti portati di poco conto, e con questo titolo essi pensavano di godere della loro libertà, per andarsene a fare il loro commercio, lasciando a me il debito di liquidare le spese col capo della carovana, il quale voleva essere pagato di avvanzi notabili per spese di
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viaggio. Essi parlavano di un certo Padre Alessio nostro missionario cappuccino venuto di Francia, che lasciarono al campo del Capitano Martini come moribondo:
notizie del capitano Martini
[10.9.1877]
parlavano del suddetto Martini mettendo
[p. 711]
in dubbio il suo arrivo, perché aveva amazzato un dankali, e tutta la tribù denakil aveva giurato di ucciderlo. Essi con me dicevano una cosa, mentre colla famiglia in secreto tenevano un’altro linguagio molto diverso da seminare nel mio cuore dei dubbi gravissimi sulla loro condotta. Frattanto il capo della carovana voleva ad ogni costo essere pagato. Vedendomi così preso di mezzo ad un’affare intricatissimo ho fatto chiamare il capo della fortezza, uomo furbo e di mondo: Sentite, gli dissi, prendete questi tre, custoditegli, e fate voi un’esame, e poi si vedrà. Il capo della fortezza, sentite le mie parole, gli prese, e consegnatigli separatamente a diverse famiglie della fortezza con ordine di custodirgli, se ne andò. Il capo della carovana, come mercante ricco, fece venire due altri mercanti musulmani, i quali, divenuti sicurtà della persona convenuta, e degli interessi, fu consegnato ad essi, e rimase libero.
arresto di Giovanni
[metà set. 1877]
I due giovani, come figli della missione, e conosciuti come schiavi, rimasero in custodia sotto esame. Fratanto si spedirono ai confini ordini di sequestro di tutti gli effetti spettanti ai detenuti; gli impiegati spedirono [un messo] a Warra Ilù per avvertire il Re del prossimo arrivo di Martini, ed io
[29.9.1877]
[ne] ho spedito [un altro] a Finfinnì per far venire il Coadiutore Monsignore Taurin, affinché si trovasse presente.
Passarono circa dieci giorni, e la carovana di Martini, dopo aver lottato coi denakil
[9-12.9.1877]
poté passare l’Awasce. Passato che ebbe l’Awasce, il Capitano Martini, lasciato il suo compagno Capitano Cecchi alla custodia della carovana, tutto solo ben armato
[27.9.1877]
riuscì di passare le prime tribù denakil senza incontro ed arrivò sulle frontiere del regno, dove fu ricevuto da alcuni uffiziali, e direttamente
[p. 712]
a Liccèe con sorpresa generale di tutti. Il Re era arrivato poco prima, e vi andai anche io, portando con me i due giovani Giovanni e compagno. All’arrivo dell’Capitano Martini incomminciò a scoprirsi la vera storia dei due giovani Giovanni e compagno, rimasti non poco sorpresi.
morte del padre Alessio
[28-29.9.1877]
Si spedirono subito persone alle frontiere in soccorso del Capitano Cecchi e del Padre Alessio nostro missionario, ma all’arrivo della nostra gente, quest’ultimo era morto nella notte, ed arrivarono per ajutare il Capitano Cecchi a seppelirlo sulle rive stesse dell’Awasce. La morte di questo missionario fu una vera desolazione per la nostra povera missione; non erano ancora passati due anni dalla
[† 23-24.5.1876]
morte del P. Giovanni Damasceno, morto egli pure in strada senza potervi arrivare; la morte del povero P. Alessio, già come arrivato fra noi ci rese inconsolabili. Monsignore Taurin, arrivato di
[4.10.1877]
quello stesso giorno da Finfinnì, non poteva darsi pace.
/273/ [incontro a Farrè: 2.10.1877] Intanto partirono il Marchese Antinori coll’ingeniere Chiarini verso la frontiera all’incontro del Capitano Cecchi, lasciando in Liccèe il Capitano Martini con noi. Questo signore era sommamente irritato contro i due suddetti compagni, perché non corsero subito al soccorso, appena la carovana sua si avvicinava al fiume, ma il poveretto, ancora non conoscendo il paese stentava a persuadersi delle difficoltà grandi, sia per avere notizie, e sia ancora per discendere [p. 713] sino al fiume, cosa che non si poteva fare senza il permesso del Re, e senza un’accompagnamento di soldati, per attraversare le tribù indipendenti per arrivarvi. Si fece [di] tutto per tranquillizzarlo, ma egli appena poteva persuadersene. carattere di capitano Martini, e compagni Il Capitano Martini era un uomo di un carattere schietto e militare duro nei suoi detti, e nelle sue operazioni, uomo che nella verità conosciuta, anche per l’amore della pace, non sapeva tacere o transigere, ma era uomo retto a prova di bomba, sul quale, ne i partiti politici, ne la massoneria han potuto far brecia; egli in pratica non era fervente cattolico, ma di principii era una rocca che non si piega. Antinori all’opposto era una pasta di zuccaro che poteva servire di condimento ad ogni cuore, ma timido da lasciar correre. Chiarini poi era un giovane di gran talento, fatto alle scuole moderne, epperciò senza freno, e bisognoso di guida. Sebastiano Martini al suo arrivo, dopo passato un’anno trovando tutti ancora fermi, non fu contento, e ruggiva come un leone. Il Re Menilik medesimo, benché ancor giovane anch’egli, pure vedeva grandi difficoltà nell’unione di quella famiglia, allo scopo voluto dalla Società geografica.
Mentre la carovana di Martini veniva a lenti passi dalla frontiera, e si trasportavano le casse in numero certamente superiore ad un centinajo, tanto io, quanto i miei compagni, conversando con Martini, eravamo naturalmente impazienti di sapere i detagli della storia del nostro missionario P. Alessio, morto, appena passato il fiume
[p. 714]
Awasce, e dei giovani che l’avevano preceduto.
racconto di c[a]p[itano] Martini
[partenza da Aden: 15.4.1877;
arrivo a Zeila: 20.4.1877;
da Zeila: 15.5.1877;
a Tull-Harrè: 14.6.1877]
Io, diceva Martini, nel partire da Aden, avendo bisogno di un dragomanno, d’accordo col superiore della missione di Aden, aveva preso il giovane Giovanni loro antico discepolo educato in Marsilia; questi era al mio servizio con paga fissa. Il superiore della missione avendomi pregato di prendere con me il P. Alessio con un’altro giovane suo servo: ben volontieri, dissi, e siamo partiti da Aden, come una sola famiglia. Il Padre Alessio mangiava alla nostra tavola, e stava benone. Già in Zeïla ci siamo accorti che il nostro dragomanno Giovanni trescava troppo cogli arabi; strada facendo poi, egli era sempre con un’altra carrovana che camminava a poca distanza di noi, e ci siamo accorti che rubava notabilmente, e portava alla carovana amica. La cosa arrivò a tal punto, che io ed il Capitano Cecchi abbiamo
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deciso di mandar via il dragomanno.
si separa da lui p. Alessio
[27.6.1877]
Il Povero P. Alessio, uomo di poca esperienza, lasciatosi ingannare dal dragomanno, volle seguirlo. Abbiamo aggiustato i conti, gli ho consegnato i denari che aveva in deposito presso di me, e prese le sue casse e cameli, se ne andò.
La sua separazione è stata la sua morte ed è stata la rovina di tutti gli interessi della missione; non abbiamo potuto trattenerlo, continuava egli, ma non abbiamo acconsentito. Il viaggio fu lungo e durò alcuni mesi per continui rubarizii di cameli che abbiamo avuto; noi non abbiamo perduto
[p. 715]
di vista il povero Padre Alessio a fronte delle tribulazioni grandi, nelle quali eravamo noi stessi; dalle relazioni che noi potevamo avere, le notizie di lui si facevano ogni giorno più allarmanti;
suo ritorno al campo di Martini
[4.8.1877]
fatto quindi consiglio col Capitano Cecchi, ci siamo recati all’altra carovana per prenderlo; l’abbiamo riportato alla nostra carovana in uno stato che faceva compassione alle stesse pietre. Abbiamo fatto tutto il nostro possibile per guarirlo, e pareva che stasse un poco meglio, effetto forze di un nutrimento più sostanzioso, ma fu effimero, perché, da quanto mi dicevano i miei servi, (1b),
egli si lagnava sempre di grandi dolori al ventre. Alcuni dei nostri lasciavano anche trasparire qualche dubbio di veleno, ma erano semplici congetture, e l’ammalato era una persona di una virtù così massicia, da non lasciar trasparire la menoma lagnanza a carico di chicchessia.
parole di Martini del padre Alessio
Del resto il P. Alessio era un vero portento di virtù cristiane, massime in materia di mortificazione e di sacrifizio personale. Fu ammirabile in tre cose. 1. coll’andare sempre a piedi, per lasciare il suo mulo ad altri bisognosi. 2. con spogliarsi delle sue stesse vesti, per vestire i poveri nudi; noi stessi siamo stati obligati a vestirlo delle nostre camicie parecchie volte. 3. Con voler montar la guardia di notte al suo turno, ancorché ammalato; egli montando la guardia passava la notte pregando col suo crocifisso in mano in luogo del fucile oppure rivoltella.
Fin quì sono parole di Martini ancor vivente, le quali poi mi furono [poi] confermate dal Capitano Cecchi, e dai servi del Capitano Martini. Sul conto del P. Alessio tutti erano d’accordo nell’eclattare la santità del giovane missionario.
il capitale della missione
Una questione rimaneva sempre ancora a sciogliersi, era quella dei capitali della missione, cioè 18. casse, ed alcuni involti partiti di Aden con P. Alessio, unitamente alla somma pecuniaria di 600. talleri di M.[ari]a Teresa,
[p. 716]
tutto scomparso non solo,
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ma [con] nuovi debiti contratti col capo della, carovana. Il Capitano Martini possedeva una ricevuta [di] scritta dalla mano del P. Alessio, nel giorno che egli sortì dal campo di Martini; dunque, siano le casse, siano i denari, siano i cameli [tutto] era passato alla carovana degli arabi: dove andò tutto quel capitale sarebbe stata la questione ancora da trattarsi, ma non fu possibile avere altro risultato, se non che tutto fu consegnato alle fiamme, perché mancavano cameli per il trasporto.
arrivo di Cecchi
[a Liccè: 5.10.1877;
udienza reale: 6.10.1877]
Arrivata quindi la carovana dalla frontiera, si lasciò da una parte la questione nostra per occuparsi del ricevimento del Capitano Cecchi, e del gran numero di Casse portate dal Capitano Martini.
gran quantità di bagaglio
[visita: 8-9.10.1877]
L’arrivo delle casse portate dal Capitano Martini durò tre giorni, i quali furono giorni di lagnanze e di pianto dei poveri gabbar portatori. Il cortile interno del Re si vidde pieno di casse amonticchiate. Il Re aveva concepito nuove speranze di ricevere nuovi regali, e si passarono tre giorni intieri nell’aprire casse, ripassare tutte le richezze venute.
[lettera di Vitt. Emanuele a Menelik: 25.2.1877]
Si fece un chiasso immenso sulla venuta di tante casse; una turba di cortigiani ardevano di speranze di avere qualche cosa; ma i due terzi degli oggetti venuti erano proviste di articoli di lusso europeo, tutte cose di poco o nessun valore nel paese. Il Re ed alcuni grandi della corte al vedere tanti gingilli, camicie, braghe, calzetti, scarpette, pettorali, collarine, guanti, profumi di ogni specie, capelli, berrette, e quante altri simili oggetti di un valore imaginario nostro, essi se ne ridevano, e non sapevano darsi pace, come
[p. 717]
uomini grandi spendessero tanti denari, e stancassero tanta gente per portare dall’estremità del mondo tanti stracetti dentro casse chiuse, come se fossero siate piene di oro.
dicerie del publico
Noi qui siamo docili come agnelli, dicevano alcuni altri fra il popolo, il Re ci comanda, e noi vi portiamo tutto come tanti asini, ma, una volta sortiti dal regno di Menilik, chi vi porterà tutto questo? Quelli che dicevano così erano barbari, ma se noi vogliamo seriamente riflettere, siamo obligati a confessare, che dicevano anche delle grandi verità. I nostri stessi Padri, poche generazioni addietro, quelli che ci hanno fatto grandi fra tutti i popoli del mondo, se mettessero fuori la testa loro dai sepolcri, forze non parlerebbero diversamente, perché essi erano meno superficiali e leggieri nei loro bisogni.
ma cosa disse il re? Ma lasciamo le dicerie del popolo, e faciamo ritorno al Re Menilik, dal quale dipendeva in gran parte l’esito della Spedizione geografica, cosa diceva egli? Egli come abissino, ed affatto estraneo a tutte le nostre leggerezze di mode, ed a tanti bisogni sconosciuti ai nostri stessi padri, egli pure non poteva parlare diversamente dai suoi connazionali; egli ricevette volentieri alcuni piccoli regali di aquavite, di dolci, e qualche /276/ rivoltella, ma fu egli contento? egli che non sognava altro che fucili, cannoni, e munizioni da guerra per battersi coll’imperatore Giovanni, il quale lo minaciava al nord, ed era meglio armato di lui, perché possedeva i fucili degli egiziani da lui battuti e vinti poco prima, egli non fu contento, egli anzi si lodava a preferenza di Antinori, e di Chiarini, venuti un’anno prima, perché, almeno essi, [p. 718] diceva il Re, mi portarono dei fucili di nuova invenzione, di quelli medesimi che l’imperatore Giovanni aveva preso [d]agli egiziani. progetto di ritorno di Martini Il Re Menilik perciò incomminciò a lasciare andare certe proposizioni, le quali lasciavano vedere un nuovo piano molto delicato e difficile, quello cioè di far partire di nuovo il Capitano Martini per l’Italia colla missione di prendere fucili, cannoni, e munizioni da guerra. Io non posso, ne debbo, ne tanto meno voglio accusare chicchesia dei nostri di aver messo in capo [al re] un piano, il quale in fine fu la rovina mia e della missione cattolica; solamente voglio notare una cosa la quale è un fatto conosciuto, e ciò non per spirito di risentimento, perché è questio[ne] di un mio figlio convertitosi [† 5.10.1879] in morte con dei segni straordinarii, e che perciò credo salvo avanti [a] Dio, ma solo per amore della verità, affinché serva di norma in avvenire ai superiori che spediscono individui troppo giovani, con pericolo di rovinare se stessi, e rovinare grandi affari. Dico perciò solo, che fra tutti gli europei, l’unico che in quel momento conosceva sufficientemente la lingua da farsi comprendere, e che era divenuto tutto figlio della corte, e dei costumi indigeni amico, fù il nostro giovane Chiarini che in ciò poté aver parte.
il re me ne parla;
mie risposte
Ciò detto, dirò che, appena terminato il ceremoniale del ricevimento, il Re non tardò a darmi l’attacco: quel uomo, disse, che portò tante inutilità da rendersi ridicolo, e da inimicarmi persino la mia gente, egli ritorni
[p. 719]
in Italia a prendermi dei fucili, e dei cannoni colle occorrenti munizioni; questo uomo col suo sistema di diffesa a punta di spada e di fucile, egli non potrà andare avanti, e neanche credo che i suoi compagni possano andare con lui; egli parta, ed io penserò a fare partire la Spedizione alla volta di Kafa, promettendo di somministrargli tutto il necessario. In caso diverso io non so ancora quali saranno le mie risoluzioni. Era questo un linguagio di Re, col quale il diritto delle genti, la coscienza, ed anche l’onore poco potevano fare. Signor mio, risposi io, voi mi parlate di un’affare, nel quale io ne posso, ne debbo mischiarmi; non posso, perché essendo prete, questo è un’affare che non mi compete, e non debbo, perché io [non] ho niente a vedere con loro. Questi signori sono venuti senza prima consultarmi; fin qui mi
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sono prestato, perché essi non avevano persona che potesse parlare; Oggi Chiarini può farla da dragomanno, Antinori è il vero loro superiore; dunque voi intendetevela con loro senza di me. Ho capito, disse il Re, siete voi che non volete. No, risposi, il volere o non volere non sta da me; tuttavia, voi pensateci e conferite, ed io penserò e conferirò; dopo alcuni giorni si prenderanno le occorrenti risoluzioni.
gravità delle risoluzioni La questione era tanto grave, che meritava di essere ponderata da tutti i lati. In primo luogo dal lato della stessa Società geografica italiana: cosa dirà essa, e cosa dirà il governo stesso, quando vedrà una seconda volta di ritorno Martini per domandate fucili, cannonile munizioni da guerra? Solamente da questo lato la questione spaventava tutti, e spaventava talmente, che temeva Martini stesso, temeva Antinori capo della Spedizione, e temeva Chiarini. Dal lato [p. 720] sue conseguenze poi dello stesso Re Menilik la questione faceva temere non poco, non solo l’esito della Spedizione che sarebbe stato compromesso, ma della missione cattolica medesima in caso di secco rifiuto. Quindi dal lato della politica abissinese, specialmente dell’imperatore Giovanni, contro il quale erano dirette le domande del Re Menilik. Una simile spedizione, male interpretata, poteva accelerare la guerra tra i due pretendenti, e poteva produrre tristi effetti contro la missione cattolica, come poi avenne. Le tristi conseguenze da temersi da tutti i lati indicati erano così chiare e lampanti, che non [vi] era bisogno di gran raziocinio per vederle. Io ne ho parlato coi miei missionarii, e ne ho parlato con Antinori capo della Spedizione. Col vostro gran sfarzo avete fatto nascere tutte queste difficoltà: dunque sbrigatevela, e non obligate la missione a compromettersi più oltre; io diceva al suddetto capo della Spedizione.
mie strettezze Io in quel momento mi sono veduto fra una morza di tre denti. Se rifiuto di mischiarmi, il Re Menilik l’ha già detto, dunque siete voi che non volete; questo primo dente già mi aveva punto. Se io rifiuto cosa non diranno i liberali italiani? diranno che la missione cattolica ha respinto la nostra Spedizione; diranno che la missione cattolica è egoista, e pensa solo per se: era questo anche un dente da calcolarsi. Se poi io non rifiuto, il terzo dente era l’imperatore Giovanni, il quale a suo tempo non [p. 721] avrebbe mancato di mordermi, e di prendersela contro la missione cattolica. Aveva in certo modo ragione Martini, il quale diceva al Re, che [non] avrebbe avuto coraggio di cimentarsi al viaggio, se io non prendeva sopra di me la [responsabilità della] sua partenza, e non prometteva di apoggiarlo colle mie lettere. Il capo della spedizione poi non voleva e non poteva prendere la cosa sopra di se /278/ per certe ragioni che io qui non posso tutte riferire (1c), e mi scongiurava a non ritirarmi, altrimenti tutto sarebbe stato perduto. Non parlo di Chiarini, egli solo poteva parlare da se al Re, e se la intendeva con lui. Non parlo del Capitano Cecchi, il quale era persona nuova, e non faceva altro che gridare: andiamo avanti; egli scongiurava, egli piangeva; ma il poveretto non poteva sapere, che l’andare avanti non era più una cosa che dipendesse da noi, per la quale bastasse il visto di un passaporto, come nei nostri paesi, ma vi bisognavano denari, e la Spedizione non ne aveva più (2a), vi bisognavano accompagnamenti militari, vi bisognavano trattati internazionali indigeni; tutto ciò stava nelle mani del Re Menilik, e bisognava prima sciogliere la gran questione.
(1a) Circa due anni prima, coll’arrivo dell’Ebbreo indiano, di cui si parlò già, e di due artisti arabi fabricatori di armi, era venuta una cassa piena di crocifissi di tutte le dimensioni, e di teste in carta pesta per la formazione di un presepio. Frà i crocifissi, due erano di una dimensione di circa un mettro la sola scultura del cristo in legno; uno andò alla missione di Finfinnì preso da Monsignore Taurino, ed il più grosso, fatto mettere in Croce dal Re Menilik nelle circostanza di Pasqua in Ankober, finì nella cappella del crocifisso suddetta. [Torna al testo ↑]
(1b) Martini aveva portato con se tre dei suoi servi più fidi; questi, uniti al loro padrone, ed al Capitano Cecchi, tutti risoluti e bene armati, salvarono la carovana da un’estremo disastro, e rovina totale. [Torna al testo ↑]
(1c) Il Marchese Antinori [15-22.11.1877] scrisse lettere al presidente della Società geografica riservate, nelle quali egli dava ragione di tutto. Io poi [20.11.1877] scrissi, non solo al Presidente suddetto, ma allo stesso ministro degli esteri, ed alla S. C. di Propaganda, nelle quali [lettere] ho esposto ogni cosa. Tutte queste lettere si devono trovare nei rispettivi archivi. [Torna al testo ↑]
(2a) Il primo viaggio di Antinori esaurì i denari nella compra e ricompra di cameli per il trasporto dell’immenso bagaglio. Ciò aveva obligato Martini a ritornare in Italia per rinfrescare la borsa; ma venendo cadde egli pure nel medesimo lacio; finì anche egli i denari a comprare e ricomprare i cameli dagli stessi ladri che gli rubavano, ed arrivò quasi decotto. In simili paesi non si viaggia, ne con denari, ne con fucili, ma con principii. [Torna al testo ↑]