/279/

29.
Convegno a corte e partenza di Martini.
Esplorazione di Cecchi e Chiarini al Sud.

congresso per la partenza di Martini
[13.11.1877]
Arrivò intanto il giorno del congresso. Da una parte sedeva Menilik coi suoi grandi e consiglieri; dall’altra parte sedevano i missionarii cattolici e geografici. Parlò il Re esternando il suo desiderio, equivalente ad un comando per la partenza di Martini per la missione già indicata sopra. Parlarono tutti facendo della gravi opposizioni in tutti i sensi, ma le basi della questione non furono cangiate, ne dalla parte del Re, ne dalla parte di Martini. conclusione del congressoIl Re parlava dalla fortezza con parola di Re; tutti gli altri parlarono dalla platea, ed in quei paesi nella fortezza siede il padrone, e nella platea stanno i schiavi, benché onorati [p. 722] fossero anche rappresentanti di Re lontani, e senza cannoni, perché dove non regna Cristo, di necessità succede la forza brutale, e non si conoscono altri mezzi termini, fuori dei due estremi[:] padroni, cioè e schiavi; nei nostri paesi medesimi si fa la guerra a Cristo, sorgente unica della giustizia, e dell’amore fraterno, ed unica medicina capace di cangiare i padroni in Padri, ed i schiavi in figli, caciando i figli della schiava Agar in Arabia per far regnare i figli della libera Sara, ai piedi del Leone di Giuda. Il congresso dunque non fu per sentire il nostro parere, ma bensì per farci conoscere le sue precise intenzioni. conchiusa la partenzaIl Re conchiuse la partenza di Martini con nuovi regali al Re, al governo, ed alla Società geografica, e mi pregò (per non dire mi comando) di formolare tutte le lettere da farsi a suo nome, non solo al Re, ed al Papa, ma al ministro, ed al Presidente della Società geografica, in modo che Martini fosse contento, e che si potesse sperare un favorevole esito: ciò oltre le lettere particolari a nome mio di semplice raccomandazione. Per preparare i regali e le lettere, soggiungeva il Re, avremo almeno un mese di tempo, nel quale gli impiegati procureranno di disporre ogni cosa per la partenza.

promesse del re alla societàIl Re Menilik poi per parte sua si obligava di dare a Martini la somma necessaria [a Martini], per arrivare sino a Roma. [In] Più egli avrebbe /280/ pensato a fare partire la Spedizione geografica verso Kafa, appena passate le pioggie, somministrando alla medesima tutto il necessario, sia in denari, sia in servi, sia in bestiami di cavalcatura e di trasporto, e sia in qualsiasi altra cosa necessaria al uopo, comprese [p. 723] le raccomandazioni amichevoli, per quanto gli sarebbe stato possibile, presso i governi confinanti, affinché i viaggiatori non incontrassero opposizioni. Al ritorno di Martini dall’Italia, continuava il Re, appena avvertito, io penserò al trasporto di tutti gli oggetti venuti, e del personale che verrà con lui dal mare sino ad Ankober, oppure Liccèe. Come poi la Società geografica ha desiderato sempre un luogo particolare di permanenza per le persone sue che anderanno e verranno, e che rimarranno qui per le corrispondenze, io, continuava egli, cedo alla Società geografica tutto il terreno di Lit Maarefià, dove già sono state costrutte le case, e dove farò trasportare tutti gli effetti venuti appartenenti alla Spedizione. In seguito poi per le persone che verranno per restare qui, e per quelle che dovranno continuare il viaggio per Kafa, io penserò anche a mantenerle, e soccorrerle nei loro bisogni.

un mio apprezzamentoIl Re Menilik domandando all’Italia una quantità di fucili con alcuni cannoni, colle relative munizioni da guerra, era certamente una domanda molto forte per la Società geografica, ma non per il governo italiano, un milliajo di fucili rammencton, quattro o cinque cannoni, ed una quantità di munizioni da guerra, per la nazione italiana non sarebbe stata una gran cosa. Tutto calcolato la spesa che avrebbe fatto il governo italiano non avrebbe sorpassato gran cosa ciò che già aveva fatto e ciò che prometteva [p. 724] di fare il Re Menilik, e che poi fece puntualissimamente in mia presenza, quando partirono per il sud Cecchi e Chiarini, contribuendo largamente e [con] denari, e bestiami, e servi, e protezione per quanto si estendevano le sue forze. La questione tra l’Italia ed il Re Menilik non stava nel più e nel meno del dare, e del ricevere, perché in questo caso la nostra Italia era già arrivata, ed aveva già fatto un gran passo, vedendo i suoi inviati rispettati in Scioha contro un’ammasso di pregiudizii insuperabili. Questo solo meritava tutto, e meritava anche di fare qualche sacrifizio. La questione era tutta un’altra; la questione era quella di non poter fare, e ciò unicamente, perché l’epoca della grandi potenze europee, massime della nostra razza latina conquistatrice è passata. la nostra ItaliaLa nostra Italia, colla sua imaginaria unità, ha creduto un momento di essere diventata una gran nazione, mentre è divenuta una piccola provincia. Dicendo io provincia non intendo già di dire provincia, ne della Francia, ne dell’Austria, ne della Germania, ne dell’Inghilterra, ne della Russia, ne di altra nazione, perché tutte queste /281/ corrono la stessa via di abbassamento, e sono condannate a divenire altrettante piccole provincie di un’impero di barbari, il quale non ha ancora mostrato la sua fronte, non ha ancora spiegato un nome, e non ha ancora fissata la sua sede.

un paradosso Diranno che è un paradosso imaginario mio, ma pure no. Io quì non posso sviluppare questo mio paradosso senza allontanarmi troppo dalla storia che sto scrivendo, ma se non avrò tempo a svilupparlo lo svilupperà un’altro che mi avrà compreso, e se quest’altro non lo svilupperà, il tempo sarà quello che lo farà vedere. La crisi odierna è crisi di distruzione: [p. 725] oggi la guerra è apertamente intimata, al potere ed all’autorità di ogni genere, alla proprietà, alla moralità, alla scienza sublime, ed alla religione, e dicendo religione si noti che è la sola cattolica, perché [è] la sola vera, e la sola potente sopra i popoli, e la sola che possa paralizzare la crisi attuale. Se la guerra attuale non potrà arrivare a distruggere tutti questi elementi, sarà segno che Iddio ancora vuole usare della sua misericordia al mondo odierno, e l’impero dei barbari da me citato, arriverà sino ad un certo punto, ma poi sarà vinto per dar luogo alla calma universale dei figli di Dio. In caso diverso dovremo confessare essere venuta l’epoca dell’anticristo.

Maometto, e la massoneriaIddio per punire le eresie cristiane dei primi secoli ha permesso che si sollevasse il falso Profeta arabo, il quale non solo fu un barbaro, ma fu un vero mostro brutale, che facendo la guerra alla fede, alla scienza, alla moralità dei popoli, a nome di Dio medesimo, distrusse tutto l’Oriente e l’Africa; l’oriente già culla della vera civilizzazione al soffio di questo mostro diventò un deserto popolato da pochi barbari bedovini; e dell’Africa ne fece un mercato di schiavi. Oggi per punire l’eterodossia protestante della nostra Europa in questi ultimi tempi, il castigo è ancor più tremendo, in proporzione del male; non è più un’Arabo falso profeta che viene a nome di Dio colla spada che taglia senza pietà, ma che pure ha lasciato ancora uno scheletro di società, e lasciò intatta ancora la Chiesa di Cristo a battersi quasi sola coll’arabo, ucciso sulle nostre porte, in Vienna, in Lepanto, nella Spagna, ma è una furia d’inferno è un nuovo mostro di società atea senza nome: [p. 726] se non è l’anticristo, è qualche cosa di peggio; è il diavolo in persona che porta la bandiera nera di morte, arrivato sino a Roma. Io non sono profeta per spiegare il paradosso; non è ancora comparso l’arco baleno di pace tra il cielo e la terra per annunziarci la fine di questo diluvio di fuoco, è partito il corvo, e non è ancora ritornata la colomba. Ecco tutto ciò che posso dire nel caso nostro.

/282/ le nazioni antiche La ragione principale che la nostra Italia non è stata fortunata, e non lo sarà nella spedizione in Africa, è perché è passato il tempo delle potenze cristiane conquistatrici; erano piccole potenze le due piccole republiche di Venezia e di Genova a suo tempo; e sortendo dall’Italia, restando nella nostra razza latina, era una gran potenza la Francia, lo era la Spagna, lo era il Portogallo, perché unite alla Chiesa, erano corpi di nazioni cristiane animate dal soffio omnipotente di Dio, ma non lo sono più oggi, come potenze civili, perché hanno negato Iddio, hanno adorato il mostro invisibile che le sta divorando, e sono divenute povere schiave, e sentono i dolori della dissoluzione, forriera della morte loro, come nazioni civili, e come potenze in diplomazia. le nazio[ni] moderneQueste nazioni sentono il bisogno di emulare il valore ed i trionfi dei loro antichi padri, vorrebbero cingersi la fronte delle corone da loro meritate, ma, arrivate all’atto pratico, si trovano colle bracia e colle gambe legate, e sono costrette a desistere. Se poi noi andiamo al detaglio per esaminarne le cause, noi troveremo in prima linea che manca l’idea, perché questa non si vende in piazza d’erbe, ma deve discendere dall’alto, da Dio, come frutto [p. 727] di grande studio, di grande calcolo, di una seria educazione religiosa; quindi troveremo che mancano di energia, perché, oscurata l’idea, è perduto il brio, e se ne va in fumo la forza morale. Più dentro ancora troveremo che le loro persone sono divenute più pesanti, più materiali, più delicate e bisognose di commodi, epperciò più spendiose, più sensuali, e meno atte alla vita di sacrifizio. ragioni pratiche dell’impotenzaDopo tut[te] queste difficoltà personali, se esaminate la società loro, troverete ancora che essa non è più quella di una volta, essa non ha più autonomia ed autorità, manca di unità di governo, al di dentro essa è divenuta una casa in disordine, e senza padrone per conchiudere e prendere una risoluzione, che manca di denari per aver dato da mangiare a mille invece di dieci che la governavano, una casa, dove tutti vogliono comandare, e tutti vogliono mangiare. All’estero poi ancor peggio, una complicazione in diplomazia da non potersi più sapere il vero diritto internazionale, e si trovano incagli da tutte le parti, gelosie, pretenzioni, e prepotenze internazionali senza fine. In una parola[:] il mostro in discorso ha avvelenato il mondo col suo fiato per essere solo a dominare, ed a mangiare e far mangiare solamente i suoi addetti e favoriti. Ecco in breve la gran ragione per cui l’Italia nostra non era più in caso di poter fare grandi affari in Scioha.

Io prevedeva che la missione di Sebastiano Martini non avrebbe avuto un’esito felice ne in Abissinia, ne in Italia. Non avrei voluto mischiarmene, ma il Re Menilik, e le circostanze me l’hanno imposto, ho dovu- /283/ to prenderne l’iniziativa contro conscienza, per non espormi [p. 728] ad una rottura col Re, e con molti dei suoi grandi, con pericolo di compromettere, non solo la missione nostra, ma la stessa Spedizione geografica, nella quale la cancrena incomminciava [a] reagire, per rendere sempre più difficile la partenza verso il Sud. impegni di re Menilik per la partenza di MartiniI due colossi che si disputavano l’impero, Menilik e Giovanni si guardavano in cagnesco, e si temevano a vicenda; il primo si vedeva superiore in tutto, ma non nei fucili; il secondo era superbo delle sue vittorie sull’Egitto, ed aveva canoni e fucili, ma temeva l’immensa superiorità dell’armata di Menilik. Questi aveva già tentato di aver cannoni e fucili colla Spedizione di Arnus, la quale andò male, come già si è detto. Egli perciò non aveva più altra speranza di trovarne che dal Governo d’Italia, e col mezzo della Società geografica, e colla partenza e ritorno di Martini. Il Re perciò fece tutti i suoi sforzi per favorire questa spedizione, io non aveva che [da] parlare e proporre che si otteneva ogni cosa; mise fuori tutti i tesori, in lavori d’argento dorato, che si trovavano in casa sua. In ciò godeva il pieno favore dei suoi grandi e consiglieri, i quali non volevano più servire all’imperatore di Gondar, ma volevano la loro autonomia.

sua partenza
[da Liccè: 1.12.1877;
da Farrè: 2.12.1877]
La spedizione di Martini ebbe dunque luogo con tutte le condizioni desiderabili; io stesso nello scrivere le lettere, sia a nome del Re, che a nome mio, non ho lasciato di presentare la questione, sia alla Società geografica, sia allo stesso governo in modo da accaparrargli tutti in favore del Re Menilik. Di modo che Martini partì fra le acclamazioni di tutti e si poteva dire che portava con se i voti dell’intera popolazione di Scioha. Appena [p. 729] partito Martini, ora voglio farvi vedere, mi disse il Re, che io in ciò che ho fatto non ho avuto intenzione di corbellare l’Italia, ma ho operato con sincera risoluzione di unirmi all’Italia, a preferenza di qualunque altra nazione amica, se essa vorrà prendere parte agli interessi miei. questione del p. Alessio
[inizio 1878]
Di quest’oggi stesso voglio occuparmi di alcune questioni che dormono, fra le quali, la prima sarà quella del suo missionario morto in strada, e delle venti casse scomparse coi denari. Da questo esame vedrò le perdite che ha avuto Martini venendo, e dopo queste, anche quelle di Antinori dell’anno passato. Tutte queste sono questioni che dormono, ma che io non ho dimenticato. Per la questione del missionario Ghebra Gristuos [= padre Alessio] (1a) io farò venire alcuni figli e parenti di Abubeker, e qui nella sua casa stessa, alla presenza di alcuni miei fidi, voi presenterete i vostri due giovani, affinché sia esaminata la questione dai suddetti, e poi vedrete cosa farò io. Difatti qualche giorno dopo vennero i suddetti e venne con essi anche /284/ il capo della carovana. io condannatoFu esaminata la questione; lascio tutto il detaglio dell’esame fattosi, perché sarebbe troppo lungo: fu ammesso il fatto che le venti casse della missione furono date alle fiamme per mancanza di cameli per il trasporto, ed io fui condannato a pagare le spese che pretendeva il capo della carovana.

il re Menilik giudica le carovane Il Re, sentita ogni cosa, chiamò a se i figli di Abu beker, e sentita da essi la decisione, bene, disse, ma per la regolarità, anderete tutti un giorno da Walasma Abegaz capo dei musulmani, e sentite di nuovo le cose, egli pronunzierà la sentenza definitiva, ed io allora l’approverò. Il Re però era già inteso, e sapeva, come presso l’Abegaz esistevano delle prove irrefragabili, [p. 730] fra le altre prove una quantità di oggetti della missione, non esclusi oggetti sacri stati sequestrati sul mercato di Elioamba. Arrivato il giorno fissato, io ho mandato un mio Procuratore, il quale, presi i due giovani Giovanni ed il suo compagno, legati come erano per ordine del Re, discesero a Dinki, dove si discusse la causa, e si svelarono tutti i misteri, anche molti risguardanti la causa di Martini e di Antinori già come stati dimenticati. Là si provò che il fatto delle casse date alle fiamme fu una finzione per coprire il furto, fatta credere al povero missionario, gravemente ammalato. Tutta la risponsabilità fu giudicata, a carico del capo della carrovana. Come il Re era partito per Warra Ilù, furono tutti tenuti in prigione presso l’Abegaz, sino al ritorno del Re, il quale volle tutto vedere e sentire di nuovo in Ankober qualche mese dopo, alla presenza mia, di Antinori, e di molti grandi di corte. Molti oggetti della missione furono trovati, ma la maggior parte andò perduta. perdono dei colpevoli I colpevoli stettero legati [per] molto tempo, ma poi, siccome erano Denakil, per non chiudere la strada alla missione per l’avvenire, pro forma, colla garanzia di Abubeker, tutto fu lasciato; per lo stesso motivo, non fu continuata la causa in favore della Spedizione geografica, per i cameli stati rubati.

Ho voluto riferire in breve questi fatti, prima, per rendere [una] testimonianza alla giustizia del Re Menilik, benché questo principe non sia padrone dei mercanti Denakil, se non indirettamente, in virtù di alcune proprietà che essi posseggono nel suo regno, ed egli stesso abbia bisogno di loro per le corrispondenze [p. 731] colla costa di Tagiurra. In secondo luogo ho voluto tutto ciò riferire, affinché serva di norma per gli europei, tanto missionarii, che altri viaggiatori. tribù del litorale africano Le tribù dei nomadi, tanto dei denakil, quanto dei somauli esistenti tra il paese di Scioha, e la costa del mare, sono considerate come indipendenti. Lo stesso governo turco, oppure egiziano della costa da una parte ha il suo interesse di considerarli come indipendenti per non rendersi risponsabile dei delitti, /285/ che dette tribù sogliono commettere, in facia alle potenze d’Europa. Per altra parte poi, quando l’Europa cercasse di prenderle, non lascierebbe di fare opposizioni, come paesi mussulmani. un mistero africano È questa una questione misteriosa, perché in questo stato semi indipendente serve anche di appoggio secreto alla tratta dei neri, di cui l’oriente musulmano ha gran bisogno, e senza di cui il paese musulmano non può sussistere. Lo stesso si deve dire dei governi semi civili dell’Abissinia, i quali favoriscono questi paesi indipendenti del litorale africano, come una fortezza contro le temute usurpazioni turche, ed anche europee dei loro paesi. Come però tutte quelle tribù di nomadi non possono vivere senza il commercio colla costa, e coll’interno, la loro indipendenza è più nominale o fittizia che altro, potendo essere presi dalle due parti. Tolti alcuni paesi stati presi ultimamente dagli inglesi, dai francesi, e dai portoghesi, quasi tutti i litorali africani sono in questo senso. Ciò ha favorito molto il monopolio musulmano.

un mio progetto per la civilizzazione dell’Africa Ancora due parole sopra i litorali dell’Africa, e poi ritorno alla mia storia. Se veramente, e sinceramente le potenze europee avessero voluto civilizzare l’Africa ed abolire la tratta dei neri, l’unico rimedio sarebbe stato quello di dividersi [p. 732] pacificamente tutto il litorale con certe leggi di mutuo soccorso, in caso di bisogno, obligate tutte a seguire un piano uniforme di colonizzazione, e di istruzione, di questa parte del mondo infelice e là più barbara di tutte, benché la più vicina a noi. L’apostolato cattolico in altri tempi sarebbe stato quello che avrebbe potuto dare l’impulso ad una tale sublime confederazione delle potenze cristiane, ed il Papa di altri tempi col suo prestigio avrebbe presa l’iniziativa, ed avrebbe egli solo potuto vincere le difficoltà sorte contro una tale unione. un sogno di realtà presente Sogni, dirà qualcheduno che mi leggerà, ed io ne convengo con lui, ma cosa mai? [Per] un re divenuto povero pezzente, anche il sogno della sua antica regia lo consola, ed io in Africa privo di vino mi pareva di sentire il gusto del Sciampagne pensando alla richezza delle nostre tavole d’Europa; nel secolo della bugia il pensiero della verità, è sempre una risorsa; oggi mi basti il dire che questi sogni sono stati una verità nella chiesa di Dio; pensate a Viena assediata dai Turchi e troverete che non sono tanto fuori di strada. Oggi la nostra società atea senza Dio, senza Cristo, e senza Papa, divenuta lo zimbello della massoneria, di un mostro che non lascia vedere la sua fronte, ha ragione di ridersi con chi ha incomminciata la commedia ancora per qualche tempo.

impegni del re Menilik in favore della società Io intanto facio ritorno al mio Re Menilik, il quale, benché povero Re barbaro, ciò nulla ostante ha saputo mantenere la sua parola; egli, dopo /286/ la partenza di Martini [p. 733] per l’Italia, mantenne la sua parola, anche in tutto il resto; egli si occupò di Lit Marefia, e fece aggiustare le case, affinché la Società geografica vi avesse una stazione, ed un deposito, dove fece trasportare tutti gli oggetti della Spedizione geografica italiana: egli sentiva i gemiti del bravo capitano Cecchi, il quale non sognava altro che partenza per il Sud alla volta di Kafa, egli seppe rinunziare a certe sue simpatie e viste particolari sulla persona del giovane Chiarini, e dietro il mio consiglio, e quello di Antinori capo della Spedizione intimò al giovane suddetto di prepararsi a partire col Capitano Cecchi. Intanto non ha perduto il suo tempo, spedì corrieri da tutte le parti verso il Sud ai suoi amici; chiamò a se alcuni capi principali dei confini al di là dell’Awasch per conferire sulla partenza; egli mandò regali, onde assicurarsi dell’operazione, partenza di Cecchi e Chiarini
[da Liccè: 14.5.1878;
a Rogghiè: 19.5.1878]
e non lasciò mezzo intentato per far partire la Spedizione, come aveva promesso alla Società geografica di Roma ed i nostri viaggiatori Cecchi e Chiarini, accompagnati dal loro capo Antinori, furono presto di partenza per Finfinnì, forniti di denari, di bestiami, e di uomini.

[23.5.1878] In Finfinnì furono ricevuti da Degiace Masciascià cugino del Re, e da Monsignore Taurin mio coadiutore. Dovettero aspettare in Finfinnì qualche tempo, fino a tanto che il principe musulmano governatore tributario del paese dei Soddo venisse al fiume Awasce per ricevergli. Venuto questo, Degiace Masciascià suddetto, allora governatore di tutte quelle provincie Sud, gli accompagnò con tutta la sua armata [p. 734] sino al fiume suddetto, dove furono consegnati ad un’altra armata venuta a prenderli. loro sortita dal regno di Scioa
[4.7.1878]
ed avanie sofferte
Là i due viaggiatori si separarono dal loro capo Orazio Antinori in eccellenti condizioni di pace e di amicizia, e forniti di tutto il necessario, anche troppo, perché, se in seguito, sortiti essi da tutti i confini del regno di Menilik, ebbero a soffrire delle avanie, sino a trovarsi spogliati di tutto, non è stato colpa, ne del Re Menilik, ne di altri, ma sibbene del sistema adottato, quello cioè di viaggiare con troppe richezze, e dopo aver fatto cantare i rossignoli del giornalismo alle quattro parti del mondo, da sollevare le passioni nemiche. Quindi colpa dell’islamismo che mandò avanti gli emissarii della Mecca a piantarvi la bandiera della mezza luna; tutte cause, delle quali già ho parlato ad oltranza.

il p. Leone corre in soccorso
[in Ghera: 6.2.1879;
con p. Leone il 7]
Ciò che posso dire di certo, prima di chiudere questo mio articolo sopra la Società geografica, è che questi due nostri viaggiatori, muniti da me di lettere di raccomandazione presso il P. Leone des Avancer mio missionario di Ghera, il quale da venti e più anni godeva la confidenza di tutti quei principati Galla, poterono arrivare sino a Ghera, alle /287/ porte di Kafa, da lui diffesi e raccomandati. morte del padre Leone
[2.8.1878]
Il povero missionario per ubbidirmi fece tanto per sollevare i due viaggiatori nostri, che entrato in sospetto presso quei principati, dovette soccombere avvelenato alcuni mesi prima ancora [† 5.10.1879] di Giovanni Chiarini, e così meritò l’onore di essere il primo martire della Spedizione italiana all’equatore; ma intanto chi disse una sola parola di lode, fuori dei due beneficati, del P. Leone fra tante cose che si scrissero e si publicarono sopra questa materia? Ho detto [p. 735] che il P. Leone meritò l’onore di essere il primo martire della Spedizione geografica italiana all’Equatore. Io mi sono servito di queste espressioni unicamente per tenere il linguagio in uso nella nostra società odierna, la quale per s[c]immiotare e profanare le cose più sacrosante della Chiesa, ha introdotto l’uso di onorare col nome di martiri alcuni eroi delle scienze, ed anche soldati che mojono in guerra ingiusta; io ho voluto con ciò unicamente rilevare il diritto che, anche nel senso suddetto dei nostri atei, avrebbe avuto il Padre suddetto a non essere dimenticato come è stato dall’odierna società. questione sul martirio Il vero martirio è un vero sacrifizio che l’uomo cristiano fa a Dio solo in testimonio di una verità rivelata da lui, oppure in diffesa di una virtù evangelica qualunque. Esso è il più grande atto di carità verso Dio, oppure verso il suo prossimo. Il P. Leone sarà certamente un vero martire, perché morto per un’atto di carità verso i suoi figli della Spedizione, carità comandata da Dio, e statagli raccomandata dai suoi superiori. Il P. Leone in ciò non aveva servito che materialmente alla Società geografica, ma al solo Cristo suo maestro e padrone: epperciò, appena morto l’anima sua sarà stata ricevuta dai millioni di martiti che l’hanno preceduto; i quali al suo arrivo avranno gridato, come dice S. Giovanni, vindica sanguinem nostrum, ma Iddio avrà risposto il sustinete modicum, perché ancora il numero delle vittime non era compito; rimanevano ancora altre vittime della persecuzione tutta vicina, causata dalla Spedizione in discorso.

In fatti l’imperatore, informato di tutto ciò che si passava tra il Re Menilik e la nostra Italia, non ha creduto prudente perdere tempo, e lasciare che arrivassere dall’Italia i fucili ed i cannoni domandati, ma furbo [qual’era] volendo prendere [p. 736] [prendere] all’improvviso il nostro Re Menilik, senza nulla dire, lasciate le vicinanze di Gondar, si mise in campagna, fece alcune scorrerie verso l’est, e lavorò indefessamente per organizzare il suo campo, il quale, benché [fosse] stato vittorioso in Tigrè contro gli egiziani, non aveva lasciato di soffrire molto; camminava a gran passi verso di noi, come si vedrà a suo tempo. Io intanto, che, per seguitare la storia della Società geografica, nel corso /288/ delle presenti memorie storiche, ho lasciato indietro i moltissimi fatti della missione nostra, prendo dal mio lettore congedo, e ritorno indietro alcuni anni per continuarla.

corso del fiume Awasch Io ho parlato già del fiume Awasch a levante di Ankober, punto quasi unico notato dalle carte antiche, anche precedenti la Spedizione inglese, come antica capitale del regno di Scioha. Ho parlato di questo stesso fiume ultimamente nel riferire la partenza del Capitano Cecchi, e dell’ingegnere Chiarini alla volta di Kafa dalla parte Sud-Sud-Ovest, alla distanza di 40. e più miglia geografici da Ankober. Potrei ancora aggiungere un terzo punto del corso di questo stesso fiume al Sud-Sud-Est di Ankober ad una distanza forze un poco minore della suddetta. Di questi tre punti di questo fiume, io non ho veduto che il punto Est-nord, dove l’ho passato io, e lo passano tutti i viaggiatori che vengono dalla costa del mare di Zeïla, e di Tagiurra, per arrivare al regno di Scioha. Con questi tre punti il mio lettore imaginandosi un triangolo più o meno perfetto, come può darlo uno che scrive senza il rigore [scientifico:] di uno che scrive alla buona prescindendo dalle misure matematiche, potrà avere un’idea [p. 737] sufficiente della curva che questo fiume medesimo descrive intorno al regno di Scioha, incomminciando dall’ovest, dove nasce, e passando il sud, per recarsi all’est-est-nord di Ankober, di dove, tenendo sempre poco presso la medesima direzione, va a gettarsi nei laghi di Aussa, al più 30. miglia all’ovest di Assab sul mare rosso, vicino a Bab-elmandel. simile al Nilo azurro intorno a Gogiam Arriva al fiume Awasch ciò che circa due gradi più al nord-ovest arriva al Nilo azzurro, il quale nasce al sud-ovest del lago Tsana, o Dembea, taglia un piccolo golfo di detto lago, e sortito di esso, si avvicina al Damot, gira intorno a tutto il Gogiam percorrendo il Nord-Est, e Sud, facendone di quel regno quasi una penisola, per gettarsi nei bassi delle regioni aurifere sopra il Fasuglu, per andare quindi nell’estremità nord del Sennar ad unirsi col fiume bianco a Kartum, capitale del Sudan. Il punto sud-est dell’arco che descrive il Nilo azzurro intorno al Goggiam non deve essere lontano più di 25. miglia geografici dalle sorgenti del fiume Awasch, le quali ricevono le aque che discendono dalle altezze del Guraguè, altezze, le quali dividono il versante del Nilo azzurro, che va nel mediterraneo, da quello dell’Awasch, il quale va verso il mare rosso, benché non vi arrivi, come accade a molti fiumi secondarii di quelle coste orientali. Ciò basti, affinché il mio lettore possa formarsi un’idea topografica dei paesi che sono stati il teatro del mio apostolato.


(1a) [Manca la nota M.P.] [Torna al testo ]