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35.
Prosperità di Rasa e signoria di Uanenamba.
Divorzio: cause e conseguenze.

prosperità della colonia di Rasa Quella mia colonia fu molto contenta quando si vidde il suo caro Deftera Sahelie non solo ordinato sacerdote, ma collocato alla testa della colonia medesima, come pastore delle anime loro. Egli, uomo attivissimo, si occupava da un canto della scuola dei due sacerdoti convertiti, e dei piccoli ragazzi; la sua moglie poi era tutta intenta ad istruire le donne, e le figlie onde prepararle ai sacramenti. Molti correvano da Ankober, da Elioamba, e dai paesi cristiani. La colonia cresceva in tutti i sensi: nel primo anno fece gran raccolta di grani che bastavano non solo per le loro famiglie, ma ancora per provedere di farina il piccolo mercato dei denakil che venivano a vendere il loro butirro e le loro capre. Anche molti denakil incomminciavano a sentire il bisogno di sentire la parola di Dio, e lasciavano sperare [p. 805] all’avvenire di poter incomminciare l’apostolato di quelle nomadi tribù che abitavano la riva ovest dell’Awasce. Il tutto camminava col massimo ordine. Da una parte la coltivazione dei terreni cresceva ogni giorno; i terreni medesimi, che prima erano stati distribuiti gratis, incomminciavano ad essere cercati con un prezzo che cresceva ogni giorno. mie grandi speranze Io perciò era fuor di me di contentezza, per la speranza di potermi formare là una popolazione tutta cattolica. Il Re stesso era entrato nelle mie viste, e mi accordava tutti i favori che gli domandava; fra gli altri quello di un mercato fuori delle dogane del regno, specie di porto franco per i mercanti che venivano dall’Est, dalle montagne opposte degli Ittu galla, i quali, passato l’Awasce, solevano tenere la strada del fiume Dinki per recarsi ad Elioamba. Le carovane che venivano dalla riva opposta dell’Awasce, facevano piccole fermate a Rasa, ed incomminciavano a farsi dei piccoli affari dai miei cattolici.

mia dimora in Escia Correva verso il suo fine in secondo anno della colonia di Rasa, se non erro nel 1876. Era il mese di Settembre, il raccolto del tief e del durra, era già in parte tagliato, ed in parte mature con delle apparenze portentose. Io mi trovava in Escia coltivando i miei giovani; anche in Escia /335/ tutti i miei giovani stavano tagliando l’orzo maturo, ajutati dai gabbar di Wanenamba, dove all’intorno [p. 806] del monastero erano state tagliate le foreste, e coltivati molti terreni. Mentre dai giovani miei si stavano tagliando e radunando i grani di Escia, io la mattina dopo la Messa, fatto un poco di scuola ai più grandi soleva discendere alla casa di Fekerie ghemb, dove mi aspettavano sempre grandi quantità di forestieri venuti da lontano per l’inoculazione del vaïvuolo. Io soleva passare la giornata, parte inoculando il vaïvuolo, e parte sentendo le questioni religiose di molti che venivano da Ankober, e dai contorni. Un giorno della settimana era destinato per il paese di Wanenamba, di dove venivano il mio Procuratore col Cicca Scium, (1a) ed alcuni vecchj del paese, alla presenza dei quali io soleva sentire l’appello delle questioni già state terminate sul luogo. Sopra tutto io aveva riservato a me le questioni di divorzio.

signoria di Wanenamba Nel paese di Wanenamba io non era che Melkegna, cioè semplice Signore civile (2a), epperciò io non aveva diritto di variare le leggi del paese, le quali riconoscevano il concubinagio, ossia [il] contratto matrimoniale celebrato alla presenza del potere civile colla condizione di potersi separare i conjug[l]i sciogliendo il loro contratto civile col consenso dell’autorità civile, pagando una multa al Melkegna. Io nella nomina di un Procuratore o rappresentante in Wanenamba aveva dato tutte le facoltà di finire le questioni civili e criminali, riservandomi solo il diritto di apello, ed eccettuando il solo caso del divorzio, il quale doveva essere trattato in presenza mia; non era già il caso che io pretendessi di annullare la legge del paese, ma unicamente per avere soventi l’occasione favorevole di trattare il divorzio una simile questione, la quale occupa il primo luogo in materia di civilizzazione [p. 807] cristiana. Con questo mezzo ho potuto molte volte pacificare i conjugi dissidenti, e qualche volta anche determinarli a fare il loro matrimonio evangelico secondo gli usi di quel paese (1b). In questo caso ultimo io soleva anche /336/ pagare le spese delle nozze che facevano. In caso di non poter ottenere la pace desiderata, allora i due conjugi passavano alla divisione dei loro beni ed interessi, e quindi, pagata una multa al melkegna, era considerata sciolta la loro società.

le conseguenze del divorzio Le conseguenze di questa legge del divorzio erano sempre fatali, tanto prima della separazione, che dopo di essa. Prima della separazione, il marito naturalmente tirava dalla sua parte nell’economia domestica, e la moglie tirava dalla sua; quindi [si suscitavano] continue questioni fra [di] loro. Dopo la separazione poi soleva restare un deposito di odio, non solo fra i due conjugati, ma ancora fra le parentele dei medesimi. I più disgraziati poi erano i poveri figli; questi, se ancora bimbi, dovevano seguire la madre, la quale, contraendo altro matrimonio, come soleva accadere, erano causa d’interminabili questioni coi figli del precedente matrimonio. Se poi nella separazione erano già grandicelli, allora rimanevano col Padre, ma sempre malveduti e perseguitati dalla nuova moglie; Finivano per lo più per andarsene di casa a fare i servi, oppure a fare i soldati seguendo qualche gran personagio. Il peggio poi ancora toccava ai beni immobili, i quali nella separazione dovevano restare alla famiglia del marito; nessuno più pensava a migliorare i beni patrimoniali, dai quali tutti cercavano di prendere solamente, e nessuno pensava [p. 808] a migliorargli, cosa molto da calcolarsi nell’interesse del paese in grande. La ragione è naturale: quando gli interessi di una famiglia sono divisi, ciascheduno pensa alla fortuna mobile, la sola divisibile, e la sola che si presta ai furti privati. Eppercio, sia la fatica personale per migliorar i beni, sia le spese che occorrono al caso, diventano sempre di un’interesse estraneo ai beni patrimoniali. Il padrone stesso di casa, la sola persona direttamente interessata, dopo uno o due divorzii, [si trova a mal partito:] la sua casa diventa così divisa in fazioni, che [a cimentarsi] vi suole perdere la testa.

il divorzio in Wanenamba Io sono rimasto circa sei anni Signore di Wanenamba, villagio che contava circa 60. case di possidenti, e forze altre 20. case che non possedevano; in tutto 80. case. Nel primo anno della mia Signoria ho avuto 24. divorzii; nel secondo anno ne ho avuto solamente 14; nel terzo anno ne ho avuto solamente nove; nel quarto anno ne ho avuto tre; quindi a forza di battere negli ultimi anni ne ho avuto ancora qualcheduno che mi riuscì di pacificare. Due questioni, residuo delle Signorie che mi precedettero, mi diedero grandi disturbi, e voglio riferirle, perché servono molto a far conoscere la questione del divorzio, oggi sollevata dal diavolo anche nei nostri paesi, dopo tanti secoli di pace.

/337/ un fatto curioso raccontato dal padre Primo fatto. In Wanenamba esisteva un vecchio molto rispettato, il quale fù Cecca Scium a suo tempo, ed in seguito ha sempre fatto parte nell’amministrazione. Appena io sono stato nominato Melchegna di Wanenamba, venne da me: voi siete un uomo di Dio, mi diceva, e vi prego per l’amore di S. Giorgio di farmi [p. 809] un servizio; io sono povero, ed il mio figlio primogenito è un gran Signore, il quale non mi vuole riconoscere come padre, perché sono povero, e si vergogna di me; voi fatemi fare la pace, e così dicendo mi stringe la mano, e mi lascia un tallero di Maria Teresa con queste parole: è questo l’ultimo pezzo di pane che tengo. Sentito questo, senza dir nulla, facio una visita alla mia piccola borsa, ne prendo uno [tallero], lo unisco [a quello offertomi], e ritornato gli stringo la mano, e gli lascio i due talleri con queste parole: il tuo tallero è già arrivato a Dio, ed eccolo di ritorno con un compagno; io farò ciò che potrò unicamente per piacere a Cristo, di cui sono servo, e mai al mondo per essere pagato. una pace impossibile Io sperava di poter ottenere questo [favore] da quel Signore, perché gli aveva fatto un gran servizio; subito che l’ho potuto trovare, avendogli parlato dell’affare: mi comandi qualunque altra cosa, egli rispose, io la servirò in tutto, perché non dimenticherò mai la riconoscenza che Le debbo per tanti titoli; allontanatosi quindi un momento, ritor[nò] con cinque talleri, e me li pose in mano: due sono in restituzione di ciò che Ella diede [a mio padre], e tre sono nelle sue mani per soccorrerlo in caso di bisogno; io lo socorrerò sempre, ma non si parli di pace, come cosa impossibile.

Al sentirmi questa risposta così decisa io mi [mi] alzo in piedi, lo prego col crocifisso alla mano, ma a nulla valse la mia eloquenza. Allora gli ritorno i suoi cinque talleri, e parto disgustato, anzi indispettito. Veduto questo, il Signore si gettò ai miei piedi: voi siete mio Padre, disse egli, prima di andare, sentite le mie ragioni, e poi mi risolvete voi la questione. racconta la storia il figlio La persona in discorso è veramente mio Padre; mia madre era la sua prima moglie, ed io l’unico [p. 810] [figlio] non ancora decenne; in casa nostra non eravamo molto ricchi, ma eravamo felici, quando il mio Padre s’invaghì di una fantesca di corte, e per averla fece divorzio con mia madre, la quale se ne andò ad unirsi con un’altro marito. Venne la nuova padrona, la quale portò con se un suo figlio un tantino più grande di me, ma con tutti i vizii dei mercanti. Da quel momento io sono diventato il suo schiavetto per divertirsi e farmi servire a tutte le sue bassezze, minaciato del bastone ogni momento, obligato a rubare il grano nei campi per vivere. Fugito di casa, fui incatenato e spogliato di tutte le mie vesti. Allora sono fugito alla corte, dove sono divenuto ciò /338/ che sono colla mia industria, e benedetto da Dio, mentre mio Padre ebbe tanta baldanza di dichiarare che io non era suo figlio, con gran disonore mio e di mia madre. Egli ha fatto quattro volte divorzio; ha consumato tutto e venduto i terreni. Senza che egli lo sapesse io l’ho sempre ajutato, ma per fare la pace con lui, dopo tanti anni di vergogna, e trattarlo da Padre dovrei farlo sedere a canto mio, cosa impossibile. Io lo perdono e lo ajuterò sempre in secreto, ma stia lontano. conclusione del fatto Certo che quel Signore avrebbe fatto un’atto cristiano facendo la pace, ma io non ebbi più coraggio a pretenderla. Ho preso i cinque talleri; l’ho ajutato sempre, ma ho usato prudenza, non essendo egli un cattolico.

un’altro fatto Il secondo fatto, è il fatto di un prete eretico appartenente alla Chiesa di Wanenamba. Io riferisco questo fatto, perché farà conoscere al mio lettore le leggi, miste di ecclesiastico e di civile, come sono in Scioha fra gli eretici. [p. 811] la chiesa eretica e la missione Io quando sono stato creato dal Re Signore di Wanenamba, avrei potuto ottenere dal Re la grazia, che la Chiesa di Wanenamba venisse cancellata dal ruolo delle Chiese sogette al Lika Kaenat, ossia specie di ministro dei culto, e fosse dichiarata Chiesa appartenente alla missione cattolica. Il Re, per farmi piacere, l’avrebbe fatto certamente, ma io sono stato sempre fermo nel non acettare Chiese eretiche antiche, sia per la difficoltà di poterle rendere cattoliche senza tanti pregiudizii e superstizioni; sia ancora per non sollevare delle questioni troppo gelose, le quali avrebbero potuto compromettere la pace della missione. Io mi contentai perciò di fare in Wanenamba il ministero apostolico segretamente, lasciando che i nostri proseliti di quel villagio ricevessero i sacramenti in altri oratorii della missione, e conservando in Wanenamba la mia posizione di sempliche melchegna o signore civile.

il divorzio di un prete eretico Già molti anni prima sotto i melkegna di Wanenamba che mi precedettero un prete eretico di quella chiesa fece divorzio colla sua moglie. Secondo le leggi del paese, e secondo i canoni antichi della Chiesa, in vigore anche in Abissinia, un Prete, anche eretico, stato ordinato come conjugato, facendo divorzio colla sua moglie, non può più rimaritarsi un’altra volta, ma se vuole continuare nel suo ministero deve farsi monaco, altrimenti deve lasciare. Questa legge canonica orientale è rimasta in Abissinia come tradizionale nelle masse cristiane, ed è caduta quasi intieramente [in disuso] nei magistrati informi che amministrano la giustizia, e spiegano la legge. conseguenze del suo scandalo Il prete suddetto che fece divorzio colla sua moglie [p. 812] prese una donna, che da principio figurava come semplice serva, ma poi accortosi il publico di qualche cosa, gridò presso /339/ l’autorità civile per lo scandalo, ma il briconcello in quel frattempo si era proveduto di una facoltà o dispensa dall’autorità ecclesiastica con qualche regalo, e così costrinse il popolo a star quieto. Coll’andar del tempo il briccone prese piede, fece partito coi malvagi, se ne andarono i migliori preti, e la chiesa non tardò ad avere un clero malvagio. Divenuto io melkegna, il popolo sperava che io avrei messo ripiego allo scandalo sempre più dominante, ma io, come cattolico, non poteva mettermi in lotta col potere ecclesiastico eretico, senza sollevare una questione religiosa contro il cattolicismo, epperciò doveva tenermi nella mia posizione semplicemente civile. buoni effetti del medesimo Questa questione mi sollevò molti imbarazzi, ma nella sostanza faceva del bene, perché a misura che il clero eretico perdeva il suo prestigio, e la chiesa diventava sempre più deserta, il cattolicismo progrediva fra il popolo. Lo stesso potere ecclesiastico eretico alla fine fu obligato a cangiare sistema, e mettervi rimedio, cacciando via il prete del divorzio. Ma fu troppo tardi, perché gli stessi figli dei preti del divorzio, disgustati in famiglia frequentavano la scuola cattolica, e non erano favorevoli ai loro Padri.

una mia parola al popolo Quando il popolo gridava contro i loro preti scandalosi, abbiate pazienza, io soleva dire loro, voi sapete che io in Wanenamba non rappresento altro che il potere civile, ed io non posso sortire dalla mia sfera senza creare delle questioni molto delicate ed imbarazzanti [p. 813] per il re medesimo; ma tenete fermi in massima, che in materia di fede e di religione il giudice ultimo è sempre il popolo. Chi fa forte il prete cattivo è il popolo che lo segue; siate buoni voi, e la questione finirà da se stessa. Io ho tenuto fermo a sostenere il maestro, e voi vedrete che senza fare dei guai vincerete la questione. Gli imperatori di Roma comandavano il mondo conosciuto in quei tempi, ma quando il popolo di Roma diventò cristiano finì per vincere gli stessi imperatori. Cristo ha vinto il mondo morendo, e dietro l’esempio di Cristo la dottrina degli apostoli ed il sangue dei martiri valse più che le armate per stabilire il regno di Cristo. Cari miei, Cristo mandandomi qui non mi ha dato altro potere che quello d’istruirvi colle parole, e coll’esempio, obligato anche a morire in caso di bisogno; voi a misura che siete persuasi dovete seguirmi lasciando il prete eretico e scandaloso; col lasciarlo voi l’avete già condannato, e se tutti lo lasciano egli è vinto di sua natura senza tanti guai; la parola, l’esempio, ed anche il nostro sangue, ecco i nostri cannoni.


(1a) Ciecca Scium è una specie di Sindaco capo di un municipio, il quale si cangia ogni anno per turnum di certe famiglie che ne hanno il diritto ereditario in virtù di un terreno che poss[i]edono, ed approvato dal Melchegna. [Torna al testo ]

(2a) Melkegna: questo nome viene dalla parola Melek, la quale in quasi tutte le lingue semitiche significa Re, come Melkisedek significa Re giusto. In lingua abissina Melkegna significa Signore di un paese. Il Re Menilik mi aveva fatto Signore di Wanenamba, piccolo paese ai piedi di Escia, affinché io avessi qualche ajuto per il monastero di Escia. [Torna al testo ]

(1b) Il matrimonio evangelico, secondo l’uso abissino è molto semplice: i due sposi, di comune accordo, si recano alla Chiesa insieme, sentono la Messa, e fanno insieme la s. comunione. Ciò fatto il loro matrimonio non si scioglie più. Va anche più in là: secondo i loro usi, in caso di morte di uno dei due, chi rimane non può più rimaritarsi, ma deve farsi monaco. [Torna al testo ]