/228/

23.
Verso Doka. Storia religiosa dell’Etiopia.
Le febbri. Sepolcro di un console.

nostra partenza da Matamma
[4.11.1879]
nostra carovana e cavalcatura
Passati appena gli otto giorni, dopo il nostro arrivo a Matamma, quando noi eravamo abbastanza rifatti dalla stanchezza del viaggio passato, e prima che scoppiassero segnali di febbri nella nostra famiglia, già la nostra carovana [già] era pronta. Monsignore Coadjutore, ed il Padre Luigi Gonzaga, come pure tutti i giovani venuti con noi dall’Abissinia erano persone nuove per la cavalcatura del Camelo, ma erano tutte persone in piena forza, [e] non tardarono ad assuefarsi. Io solo vecchio, e già affranto da malattia precedente, era il più meritevole di compassione, benché già anticamente assuefatto a simili viaggi: per me quindi, [p. 240] e per alcuni altri che, ad ogni caso avesse potuto occorrere il bisogno, vennero preparati alcuni cameli con un piccolo letto sopra, all’uso arabo, (1a) da potervi camminare anche corricati, oppure in due persone. Così aggiustati, alla presenza del nostro Padrone, del medico, e di altri signori, i quali vollero onorarci della loro compagnia fino ad un certo tratto fuori della Città, abbiamo lasciato Matamma, e siamo partiti per Doka, accompagnati da una piccola scorta. Era appena ritornata la comitiva d’onore, e noi arrivati al più un kilometro fuori di Matamma, che un dromedario del governo ci seguì a galoppo, era un telegramma venuto da Massawa, e diretto al capo del governo, nel quale Goldon Bascià domandava notizie di noi. Se non erro, il telegramma era del 10. Ottobre, ed era questo il primo telegramma arrivatoci da quel gran dignitario anglo egiziano, al quale si fece rispondere che noi /229/ eravamo in viaggio per Doka, e Gadaref, ringraziandolo della sua attenzione.

le invenzioni del nostro progresso Ho già riferito altrove poco sopra, alcune idee del medico arabo sopra l’azione dinamico, o fisiologico vitale della società civilizzata che esercita il telegrafo nel mondo attuale; ora debbo qui notare, come questo ramo di progresso è concepito da alcune razze primitive da noi dette selvagie, che l’hanno veduto senza comprenderlo; sopra tutti poi riferito l’idea che ne hanno di esso le società musulmane isolate e semibarbare. Ciò che dirò quì in breve del telegrafo o telefono, in proporzione s’intenderà detto di altri rami di progresso, come le vie ferrate, i vapori di mare, della dinamite, e di tutti i rami delle diverse machine esplosive. [p. 241] Tutte queste invenzioni, in una società veramente cristiana, moderata dalla vera religione di Cristo, l’unica capace di tenere in freno le passioni private, sono un vero tesoro, ma nelle mani di una società anarchica, è un flagello peggiore del Chollera morbo, capace di tutto distruggere, oppure, quod probabilius, tutto ridurre ad una famiglia di schiavi dominati dal bastone e dalle catene, a modo dei faraoni, dei greci e romani pagani, e possiamo dire anche degli imperi [dei] secoli preistorici o ciclopici che ci hanno lasciato monumenti di eterna memoria costruiti col cimento delle lacrime di popolazioni schiave. sogni dei barbari e musulmani in proposito Ora giova sapere come la pensano i barbari di questi nostri progressi. I barbari pagani spiegano tutto questo con delle superstizioni, attribuendo ogni, cosa ad una forza diabolica, e questa è forze la spiegazione più semplice e naturale: io inorridisco di qui ripetere ciò che dicono di noi certi popoli barbari e pagani. Dei musulmani poi in particolare [che sentenziano]: questi frangi o frammassoni sono altrettante orde d’inferno, mandate da Dio, per preparare il regno di un nuovo profeta che presto verrà a rigenerare i figli dell’islam, destinati questi a passare tutti al filo della sua spada trionfante. Chi ha conosciuto la francia, l’inghilterra e l’america ha veduto queste orde di diavoli sortire dalla terra e dall’inferno, neri come il carbone che vi portano per alimentare il fuoco delle loro machine. Fa orrore il sentire certe profezie che si sentono [a] ripetere del nostro progresso.

nostri telegrammi falliti
[25.10.1879]
Chiudo questo quadro, per non dire ciò che la modestia cristiana non permetterebbe di scrivere e presentare al publico, per finire la questione del telegrafo. Appena arrivati in Matamma, il mio coadiutore andò all’ufficio del telegrafo arabo con un dragomanno abissino. Alla meglio che ha potuto ha spedito un telegramma in Cairo al consolato francese da rimettersi a Monsignore Delegato sul nostro arrivo, affinché si facesse [p. 242] conoscere a Roma il caso nostro. Più tardi se ne mandarono /230/ altri telegrammi, ora al suddetto, ed ora di risposta a Goldon Bascià, e si pagarono sempre a prezzi favolosi senza ottenere la menoma risposta. Si scrissero parimenti lettere, le quali arrivarono dopo molto tempo al loro destino. Arrivato in Egitto ho domandato conto dei nostri telegrammi, ma nulla arrivò al suo destino. perché falliti? Ora a cosa attribuire una simile mancanza? Per non pensare male degli impiegati, che non l’avessero spedito, o per negligenza, o per avarizia, oppure per malizia contro di noi cristiani, abbiamo attribuito questo alla imperfezione della linea telegrafica stessa, mal costruita e mal custodita. Anche questa, per una gran parte, è una verità; le linee telegrafiche principali governative, giova credere che saranno sufficientemente custodite, ma le linee secondarie laterali non lo sono affatto. Noi in viaggio le abbiamo trovate senza pali in molti luoghi, con il filo di trasmissione per terra [lungo] quasi intieri kilometri, e calpestati dai cameli, dagli animali, e dagli uomini. Da una popolazione insubordinata, che non capisce, che non ama, che non vuole, e che odia simili invenzioni, cosa si può pretendere? Ecco, se non altro, la ragione per cui i nostri telegrammi non sono arrivati. Innoltre le persone che conoscono le lingue orientali devono confessare, come esse poco convengono al telegrafo. (1b)

strade e stazioni Ora ciò detto, come di passaggio facio ritorno al nostro viaggio. Goldon Bascià governatore del Sudan, e di tutte le coste orientali dell’Africa, aveva fatto aggiustare un poco le strade principali tra i diversi centri o Provincie di quei paesi semi deserti, e sopra- [p. 243] tutto aveva fatto fare certe stazioni fornite di capanne sode per il commodo, sia dei mercanti, e sia anche delle truppe in viaggio, e probabilmente col fine anche di concentrare in villaggi quelle popolazioni semi nomadi per poterle meglio governare, come mi dicevano le nostre guide (1c). Nel primo giorno quindi fummo abbastanza fortunati, e dopo alcune ore di viaggio ci siamo arrestati nella prima di quelle stazioni, dove si trovava sufficiente aqua e, luogo da potersi adagiare riparati dal sole nel giorno, /231/ e dalla roggiada nella notte. Ristorati, e fatta un poco di siesta, verso le tre di sera si viaggiò di nuovo, ed arrivammo ad una seconda stazione, dove si passò la notte.

incomminciano le febbri Non mi trattengo nel descrivere in detaglio i diversi paesi, per i quali passammo nel nostro viaggio da Matamma a Doka, perché a misura che ci allontanammo da Galabet, incomminciaronò tosto in me i brividi della febbre che andava manifestandosi anche nella famiglia a fronte delle grandi dosi di decotto di tamarindi e di zolfato di kinino, cosa che rendeva il nostro viaggio più faticoso e pieno di preoccupazioni e sollecitudini. Epperciò non si badava più agli interessi della scienza o geografia, tanto più che [già altrove] già fu detto altrove (2a). delta del Sudan Tuttavia per non tacere affatto di simili interessanti materie, rileverò solamente un’idea che potrà servire per comprendere la natura di tutti quei terreni del delta sudannese tra il Nilo azzurro all’Ovest, e l’alto piano etiopico all’Est del medesimo. Da una parte il Nilo, e dall’altra le aque discese dall’alta etiopia, sopra tutto quel piano [p. 244] in origine leggermente ondeggiato, han dovuto lasciare uno strato di humus o terra vegetale di una notabile profondità da variare tutta quella superficie, e renderla quasi piana, e mirabilmente fertile, dove, nei tempi preistorici di quelle parti, han dovuto svilupparsi e presentare una certa civilizzazione tutte le razze che noi usiamo chiamare trogloditice, della Nubia, dell’Egitto, e dell’alta etiopia nord sino al mare rosso.

suoi abitatori antichi Io non ho potuto fare sufficienti studii sopra l’antichità di tutte le razze semitiche che hanno dominato e civilizzato tutte le lande dell’alta e bassa Etiopia da dettare la legge a Tebe, ed ai faraoni medesimi sino al mediterraneo, mentre dalla parte sud hanno caciato i figli di Cam o Canaan all’interno dell’Africa, dove era loro riservata l’eredità e la maledizione del Patriarca Noè. Tuttavia meditando il tipo, le tradizioni, ed il genio semitico di quasi tutte le lingue etiopiche, ho dovuto conchiudere sempre che tutte quelle razze nell’antichità hanno giuocato un gran ruolo nell’educazione del mondo. parole di un vecchio dotto Un giorno avendo io voluto fare alcuni rimproveri ad un vecchio (1d) dotto abissino, Padre di due miei /232/ chierici che facevano molto profitto nella fede e che avevano già convertito la madre e molti parenti, il quale, invece di seguire la corrente cattolica che già regnava nella sua famiglia, manteneva anzi in casa sua una scuola di opposizione: Sentite, mi disse egli allora, io rispetto molto la vostra persona e la vostra dottrina molto migliore della nostra, perché essa sola può rigenerare il cuore del uomo, e farvi dei veri miracoli di trasformazione. Io non ho difficoltà da opporvi in quanto [p. 245] alla dottrina, perché la mia casa, dopo [l’apprendimento] di essa è divenuta la casa dei santi. Solamente, continuava egli, sono geloso diffensore di quella primazia che il Re David annunziò all’Etiopia, quando disse che essa avrebbe prevenuto tutte le altre nazioni alzando le sue mani a Dio nella professione della vera fede. Quindi con questo principio fondamentale, soleva predicare anche delle stravaganze, che sarebbe lungo [a] riferirle tutte.

sistema migliore di risposta all’abissino In Abissinia è raro il caso di dover rispondere direttamente a categoricamente, perché l’abissinese manca di logica, e [non] lascia mai di darvi una risposta appoggiata a qualche testo della Scrittura, oppure di qualche S. Padre antico della scuola orientale registrato in alcuni loro libri di scuola da loro riconosciuti e venerati; non riconoscendo poi le opere del Santi Padri o concilii della Chiesa, e neanche la Storia Sacra stampata e non manoscritta, naturalmente parlando degli eretici, e non dei nostri cattolici. Io soleva lasciar dire simili dottori ascoltandoli in silenzio, perché nella moltiplicità non mancavano di somministrarmi delle stravaganze da risponder loro indirettamente e per absurdum, senza toccare direttamente certe questioni da irritarli, riservandole per il momento che essi erano già meglio disposti. Al vecchio in discorso, accordai subito piena ragione sul testo del Profeta David = Etiopia prævenit manus ejus Deo = lodandolo del suo zelo, perché veramente l’Etiopia fu la prima, e direi anche l’unica nazione che seguì la fede mosaica, alla quale fu fedele sino all’apostolato di [2a metà sec. IV] S. Fromenzio. La profezia però del Salmista reale era una profezia che riguardava solo il vecchio testamento, perché nel nuovo testamento l’Etiopia conobbe Cristo solamente nel quarto secolo, quando quasi tutto il mondo [p. 246] allora conosciuto era già cristiano. Questa mia risposta non era certamente una risposta categorica e dotta, ma era tutto quello che poteva convenire ad un dotto abissino, il quale [non] ha nessuna idea degli espositori.

applicazione del fatto; orgoglio etiopico Ora, se nelle pretensioni del vecchio citato non vi è una coerenza che dinoti un calcolo di operazione politico religiosa, di cui l’abissino è come incapace, si scorge però un sentimento intimo di orgoglio nazionale, che tuttora esiste nel paese, e che ha avuto sempre una grande /233/ influenza vitale sopra le razze etiopiche antiche. È questo un sentimento di orgoglio vitale che non va perduto di vista da uno scrittore che studia l’antichità di quei paesi. l’Etiopia mosaica, L’antichità etiopica delle epoche preistoriche di quei paesi avendo abbraciato il mosaismo, aveva sparso dovunque un sentimento di tradizioni mosaiche e bibliche in tutti quei contorni, anche i più rimoti e pagani; sentimento che ancor si vede in molte pratiche del rito mosaico, come frà gli altri quello della circoncisione, e di molte altre osservanze.

[2a metà sec. IV]
e poscia cristiana
Più tardi, fattosi cristiano il centro delle razze etiopiche, tirò al cristianesimo tutte quelle razze medesime, incomminciando dalla bassa nubia sino sopra il Sennaar, e sopra Kafa più verso levante. In verità fù quello un cristianesimo imperfetto, perché [non] ottenne mai un ministero apostolico completo. Era un cristianesimo misto di pratiche mosaiche, che mai lasciò, come già è stato citato più volte altrove, epperciò un cristianesimo sui generis che si perpetuò in questo senso, e che ancora è visibile in Abissinia. la lue dell’islamismo
[sec. VII]
Appena [p. 247] il cristianesimo si era stabilito in Etiopia, in un’epoca in cui l’Oriente, dal quale fu rigenerato, si trovava travagliato dalle più fatali crisi dell’arianesimo, dal nestorianismo, e dall’eutichianismo egiziano, sortì il rovescio dell’islamismo, che insensibilmente s’impadronì dell’Egitto e di tutto l’Oriente. L’islamismo [è] la più perfida e la più lurida di tutte le eresie, la quale fingendo una base biblica e rivelata viveva di una vita che sortiva in realtà dal pantano dell’antico panteismo asiatico che consacrava l’apoteosi delle passioni più luride del senso, mistificandosi sotto l’aspetto di missione e rivelazione celeste.

suo dominio sulle razze etiopiche Orde di corruzione islamica sortirono dall’Arabia musulmana fanatica, e sotto pretesto di commercio, non tardarono ad impadronirsi dell’Etiopia centrale della bassa e dell’alta Nubia, del Sudan, del Sennar, del Kordofan, e del Darfour. Tutti quei poveri paesi lasciarono in parte le tradizioni etiopiche, e non tardarono a divenire provincie semi arabiche, chi più chi meno fanatiche musulmane nemiche del cristianesimo, e tutti quei bei paesi divennero come un deserto dominato da miasmi micidiali, come sono ancora attualmente, a fronte di tutti i sforzi fatti dall’Egitto. l’Etiopia antica e moderna La povera vasta Etiopia fù ristretta al solo alto piano etiopico abissino, dove pure le tradizioni cristiane dovettero lottare coll’islamismo stabilitosi tutto all’intorno, e che non [p. 248] mancò di dover lottare dopo secoli coll’istesso islamismo impadronitosi di tutto l’impero etiopico facendo man bassa dei cristiani. Quindi quasi nel tempo stesso colle orde pagane degli Oromo detti Galla che invasero quasi tutto il Sud dell’alto piano etiopico. sforzi della Chie[sa] per salva[re] l’Etiopia La Chiesa Cattolica in tutti i tempi non ha /234/ mancato di mandare apostoli per coltivare questo gregge meritevole di ogni riguardo, e di gran compassione.

lavori e trionfi dell’apostolato Senza calcolare le antiche spedizioni, appena stabilita la S. C. di Propaganda in Roma, una delle principali sollecitudini della medesima fu quella di pensare alla coltura dell’Abissinia Cristiana. Ad istanza del governo portoghese, [1540-1559] in tempo dell’imperatore Claudio, il Sommo Pontefice, decise [1626] la spedizione di un Patriarca con poteri straordinarii, immediatamente soggetto alla S. Sede per affrancarlo da tutte le pretenzioni dei Patriarchi d’Egitto figli del scisma e fuori della Chiesa di Cristo. Al Patriarca univa uno stuolo dell’inclita [1555-1597;
1603-1633]
compagnia di Gesù, che già allora faceva cose mirabili nelle [nelle] indie; che bella epoca di risorgimento per la povera Abissinia! Tanto lavorarono quegli atleti dell’apostolato di quel tempo, che in pochi lustri il campo già sorgeva presentando alla Chiesa di Dio lo spettacolo di una messe prodigiosa, quando il nemico sollevò [1633] un’orrenda battaglia a disputare la raccolta. Alla sorta persecuzione il gran Pontefice della Propaganda Urbano ottavo, aggiunse dei figli del Serafino d’Assisi, e frà gli altiri alcuni fratelli della mia congregazione Cappuccina, [p. 249] [1637] che volarono in soccorso ai figli d’Ignazio, fu allora che la Chiesa di Dio vidde sorgere martiri dell’Etiopia uno stuolo di martiri, ed un fiume di sangue [scorrere] a consacrare l’apostolato dell’alta Etiopia da fecondare le gloriose spedizioni [1839]
[1846]
dei figli di S. Vincenzo, e di miei fratelli, dei quali io fui il testimonio oculare di nuove speranze. Altri martiri si viddero in questo stesso nostro secolo [a] fecondare quel terreno già benedetto, dei quali io stesso [ne] fui il testimonio oculare: altre battaglie del nemico si viddero [a] disputare i trionfi.

una preghiera al lettore Il mio lettore non si scandalizzi al vedere tanto contrasto a disputare i trionfi della Chiesa in quel campo di eroi sempre pronti a combattere e sempre vinti, perché così sta scritto sul Calvario col sangue stesso dell’agnello che vinse morendo, e che morendo fece sorgere più gloriosa la Sua Chiesa nel corso dei secoli nelle battaglie cristiane in tutto il mondo dell’apostolato di Cristo. Non si scandalizzi il mio lettore, e non perda perciò la speranza del sospirato risorgimento della povera cristianità abissina. Essa nata frammezzo alle più stolide contradizioni delle eresie orientali, e costretta a combattere coi più luridi scandali dell’islamismo per il corso di molti secoli, prima ancora di poter penetrare nel tesoro dei misteri cristiani, e poter essere ricreata dalla grazia di Cristo, è un gran miracolo l’essersi solo conservata nell’infanzia quella cristianità in mezzo all’apostasia di quasi tutte le razze etiopiche. sollecitudine della chiesa La Chiesa medesima cresciuta ed assuefatta a simili battaglie, che nel corso dei /235/ secoli fu assalita molte volte nella stessa sua fortezza di Roma, dove vinse il paganesimo che regnava glorioso nel mondo, sopra una navicella che galleggiava sopra un mare di sangue versato [p. 250] dai suoi figli trionfò sempre, come trionferà oggi prigioniera nel suo capo, assalita dalla più terribile delle sette pagane mai vedute nel mondo, la quale, dopo aver fatto un giuoco di tutti i poteri della terra, ha rivolto ad essa tutte le sue forze per la sua distruzione. i papi e l’Etiopia Il capo di questa Chiesa di Cristo, dalla sua prigione del Vaticano, alza la sua voce al mondo sull’orlo dell’abisso, a tutti insegna, a tutti grida, a tutti fa coraggio, per tutti spera, e tutti chiama a salute, e gran zelo dimostra per la cara Etiopia che spera [di] rigenerare. [due udienze: ago. 1841] Il Papa Gregorio XVI., dopo aver ricevuto nell’anno 1839. gli inviati etiopici, nel 1846. tre spedizioni faceva partire, una all’antica Etiopia dell’Africa centrale, appoggiata ai Padri della compagnia di Gesù, una seconda [De Jacobis prefetto: 4.4.1839] all’Abissinia diretta dall’Venerando Dejacobis, ed una terza ai Galla assegnata ai Cappuccini. Tutto ciò nel momento stesso in cui pensava a morire. Cosa non fece il suo successore nel corso di 32. anni del suo pontificato? Quante lettere! quante sollecitudini del gran Papa Pio IX.! Quanto non fece Egli per mantenere in vita i tre Vicariati dell’Etiopia suddetti!

Leone XIII. all’Africa centrale Non parlo dell’attuale Leone XIII. Parli per se il defunto [per se il defunto], già mio figlio, Comboni, parli il suo successore Monsignor Sogaro attualmente in esilio per causa del Maddi, parlino gli ultimi martiri del Suddan! dicano essi quanto non fece, e non fa ancora il nostro Papa Leone per salvare la Cristianità dell’Etiopia nel Suddan!

all’Abissinia ed ai Galla
[7.1.1849]
Non parlo dell’Abissinia cristiana dell’Nord il cui Vicario apostolico, quarto successore [p. 251] del Venerabile Dejacobis da me consacrato Primo Vicario Ap.[ostolic]o nel 1848. di cui tanto già si parlò. Cosa dirò io di questo gran Pontefice? di quanto fece per salvare l’Apostolato frà i Galla, quello di Kafa, e quello di Scioha? Quante lettere, e quanti regali al Re Menilik, dei quali io fui testimonio? Quanto non fece egli per me, e per i miei colleghi in prigione alla corte dell’Imperatore Giovanni? Quanto non ha fatto dopo il nostro arrivo a Roma...? speranze di risorgimento Ma dunque è perduta ogni speranza per l’Etiopia, dirà il mio lettore? Dunque [è risultata] opera inutile tanta fatica per l’Etiopia? Oh questo poi no! non è perduta la nostra fatica, come non è stata perduta la speranza alla morte di Cristo sul calvario per tutto il mondo Cristiano; come non è stata perduta alla morte di Pietro crocifisso, e di Paolo decapitato in Roma, e di tutti i seguenti Pontefici; come non è perduta l’eterna causa del Cristianesimo [giunto] oggi alla prigionia del Papi in Vaticano!

/236/ Ancor due parole, e poi riprendo la storia dei mio viaggio d’esilio nel Suddan. Il mondo ha capito, come Cristo ha vinto morendo, e come nel corso dei secoli morendo e tribolando ha dovuto vincere il suo apostolato. l’occhio di tutti verso il Vaticano Il mondo ha dovuto capire oggi come la fede [non] è mai stata tanta viva nel mondo, quanto oggi predicata dal Papa prigioniero in Vaticano, ed il mondo [non] ha mai sperato tanto di vedere i trionfi della Ghiesa di Cristo, quanto spera oggi, perché i fatti odierni [p. 252] sono fatti di risveglio nella fede, e tutto il mondo che ha un senso di vita cristiana ha gli occhi rivolti al Vaticano, come l’unica ancora di salute nel mare che si agita verso l’abisso dell’ateismo. non esclusa l’Etiopia Tanto più la povera Etiopia che ha combattuto fin quì la Chiesa di Dio e la combatte ancora in buona [buona] fede, guidata solo da una certa diffidenza contro gli urti d’infedeltà che da secoli lavorano contro di essa tutto all’intorno, essa ha dubitato, e dubita ancora di ogni movimento estero, epperciò teme dello stesso cattolicismo. Ma in Etiopia è entrato il germe di salute dalla parte del nord dopo Dejacobis, e vive sempre; esso [è] entrato dalla parte sud dai paesi galla, ed anche là non è morto. Questo germe caduto in terra non per morire, ma per germogliare, come dice il Vangelo, esso vive, esso cresce, ed aspetta da Dio [la grazia] per arrivare ad una messe consolante, perché sta scritto, nisi granum frumenti cadens in terra[m] mortuum fuerit.

Sono queste le prime riflessioni che nascevano nel mio intelletto, ed i sentimenti del mio cuore dopo la mia sortita dall’Etiopia cristiana, e dai paesi del mio apostolato abissino-Galla di Scioa e di Kafa, per il decreto brutale che mi colpi[:] il quale dalla nascente chiesa, che quasi Sposa io lasciava, dalla quale crudelmente mi separò, mentre dopo trenta e più anni, una seconda volta io mi trovava di ritorno nel paese del Suddan, antico retaggio della razza etiopica. arrivo a Doka
[8.11.1879 nel mattino]:
Sortito dunque di Matamma per la via di Doka, già anticamente da me praticata [p. 253] e descritta, in tre piccole giornate, nel terzo giorno con molta pena siamo arrivati a Doka. Ho detto con molta pena, perché incomminciarono subito a spiegarsi le febbri in alcuni dei nostri. Come però [1.11.1879] prima di partire da Matamma, tutta la famiglia aveva fatto una cura radicale di decotto di tamarindo, e quindi [di] forti dosi di solfato di kinino, la febbre andava spiegandosi di carattere più mite da non impedirci di viaggiare sopra i cameli, ben inteso alla meglio e con gran pena per i febbricitanti.

[1852]
suo nuovo aspetto
Doka anticamente piccola città di stazione militare nel 1851., al mio passaggio, presentava un poco più di vita, ma in seguito la stazione militare, essendo passata a Matamma divenuta possessione militare d’Egitto e di frontiera, Doka rimase una piccola città di commercio, e di /237/ passaggio dei mercanti tra Matamma e Gadaref; essa appena contava un milliajo di abitanti, più della metà schiavi di servizio permanenti, e l’altra metà arabi o egiziani; contava innoltre cinque o sei famiglie di greci, alcune anche ricche e con belle case. ricevimento ivi avuto Noi fummo ricevuti dal Scieck capo civile della città, il quale ci diede due o tre capanne o stamberghe quasi tutte rovinate, in una delle quali un poco migliore siamo entrati noi tre missionarii europei, e nelle altre si adagiarono i nostri giovani quasi la metà ammalati di febbre. i miei due compagni assaliti dalla febbre Essendo io convalescente di lunga data, di tutti aveva cura Monsignore [p. 254] [Monsignore] Coadjutore ajutato dal mio Segretario P. Luigi Gonzaga, ma non tardarono anche questi due miei compagni ad essere assaliti dalla febbre. Difatti, l’indomani stesso del nostro arrivo a Doka fù per me una brutta giornata, tutti [e] due i suddetti miei dilettissimi compagni furono assaliti dalla febbre di un carattere molto cattivo: carattere della medesima un forte male di capo, ed un’oppressione non indifferente al petto, con un polzo celere e profondo; povero me! dissi per un momento, siamo perduti; mi parve davvero in quel momento che Iddio volesse aggravare la sua mano sopra la povera nostra missione con privarci dell’ultimo sostegno di essa, ed aveva sentito allora il bisogno di pregarlo, a prendere me vecchio di preferenza. Il caso era grave, ed argomentando da altri simili casi già veduti, mi parve una febbre venuta sopra un’indigestione, perche la sera precedente i due infermi avevano mangiato qualche cosa di difficile digestione. Gli ammalati sentivano il bisogno di prendere una buona dose di emetico, cosa poco indicata, ed anche pericolosa, stando alla pratica del paese. Con pena e tremando mi sono lasciato vincere dalle loro replicate istanze; ciò non ostante la diedi; il rimedio sortì un’esito al di là delle mie speranze, e si trovarono entrambi un tantino meglio, da poter loro somministrare una forte dose di solfato, appena passato il parossismo della febbre.

loro miglioramento Dopo ciò la febbre prese un carattere più mite da poter continuare il viaggio dopo alcuni giorni. Ho voluto detagliare il fatto [p. 255] per norma altrui. diversi pareri sopra di essa La risoluzione presa l’avrei giudicata una vera imprudenza, e come tale mi venne segnalata da alcuni greci venuti a visitarci in quel momento. Ma la febbre, di natura nervosa, o meglio biliosa del Sennaar e Suddan, è così strana, che qualche volta un’azzardo può anche avere un risultato sorprendente. I greci suddetti però mi assicurarono, che un simile tentativo fatto da loro pochi mesi prima sopra un loro servo abissino ebbe un’esito fatale; forze, dicevano essi, il caso del nostro servo andò male, per causa del verme solitario, a cui vanno soggetti gli abissini; ma io, conscio della preghiera da me fatta a Dio in /238/ quel momento, ho giudicato a proposito di essere più giusto, attribuendolo ad una grazia fatta da Dio alla missione Galla, della quale in seguito [il coadiutore e il segretario] avrebbero dovuto essere l’unico sostegno.

rinnovo la cura a tutta la famiglia Il caso dei miei due compagni suddetti avendoci obligati a rimanere in Doka alcuni giorni, mentre essi riprendevano lena e forze per continuare il viaggio, io mi sono occupato a rinnovare la cura per assicurare il resto della famiglia, onde impedire in essa il progresso della febbre, sia in quelli che già ne erano stati colpiti in viaggio, e sia ancora in tutti gli altri ancora intatti dalla medesima. Fatta quindi bollire una gran marmitta di tamarindi per due giorni intieri feci fare [un decotto] del medesimo da purgarli sino ad una diarrea, come già e stato detto altrove, e poscia [p. 256] ho somministrato a tutti una forte dose di solfato. Con ciò, se non siamo guariti radicalmente tutti, abbiamo almeno ottenuto di paralizzare un tantino il miasma, ed il ritorno degli attacchi della febbre fatale da poter continuare il nostro viaggio.

visita di un sepolcro Nel decorso di quei pochi giorni passati in Doka per combattere la terribile potenza del miasma suddetto che pesava sopra di noi molto più fortemente, come persone straniere venuti dalle altezze etiopiche, ho voluto pagare un debito verso il [Costantino Reitz] fù console austriaco di Kartum, di cui già molto è stato scritto in queste mie memorie destrivendo il mio viaggio del Suddan, Sennaar, Fasuglo del [1851] 1850. il quale, venuto in Abissinia dietro di me, e quasi per me, di ritorno da Gondar, fu vittima della febbre in Doka nel 1853., quando già io mi trovava in Gudrù in pieno esercizio del mio apostolico ministero. Accompagnato quindi da [Xanderios] un greco ricco negoziante di Doka, il quale conobbe ed assistette il Vice Console viaggiatore defonto, mi sono recato al cimittero dei Cristiani, tutto vicino alla Città, ho voluto recarmi al sepolcro del medesimo defonto, al quale sono arrivato con molta pena attraversando un centinajo circa di mettri frammezzo un’erba alta quasi tre mettri, che io non saprei chiama[re] col suo vero nome nel linguaggio teknico della nostra botanica, la quale forma [p. 257] una spiga simile a quella che nei nostri paesi suole darsi come pascolo ai canari[ni] domestici, spiga, che nel Suddan da un grano mangiabile nei casi di fame. In mezzo dunque a quell’alta erba, in mezzo a sterpi, e spine, e diciamo pure ancora a serpenti custodi che sogliono ben soventi lasciarsi vedere, quasi all’improvviso ci trovammo vicini al sepolcro del fu nostro Console austriaco di Kartum. meditazioni sopra il medesimo Io che l’aveva conosciuto circa 30. anni prima in tutto il bello della sua età, e del suo mondo di uomo politico, che faceva molto parlare di se in Vienna ed in Egitto; sono rimasto come /239/ stordito e senza parola, al vedermi in presenza di un piccolo mucchio di pietre appena visibile: ecco il sepolcro del console, nel quale è stato messo in presenza mia, e quasi per opera delle mie stesse mani, mi disse il greco che mi accompagnava. Io rimasi mutolo, immobile, anzi direi quasi secco, esclamando frà me stesso: oh mondo ingannatore, quì nell’oblio eterno hai guidato un giovane pieno di se, che seppe ubbriaccare un governo di illusioni e di utopie sino a spendere dei millioni, ed a sollevare la politica gelosia di alcune potenze, dopo aver tanto fatto parlare di se in Etiopia ed in Gondar! Caro mio lettore ritorna un momento a leggere ciò che ho scritto altrove di lui, e sarai capace di [comprendere] ciò che dico: mentre io addolorato penso all’anima sua, anima di un povero protestante, la quale certamente non è rimasta qui estinta.

salute o dannazione del defonto Ritornava dal sepolcro dal gran pensiero assorto e quasi fuor di me, dicendo, con gualche dubbio di poterlo [suffragare con] dire un requiem, come protestante [p. 258] l’estinto amico, ma poi pensando e ripensando, egli era protestante di nascita, ma conosceva il cattolicismo ed era vissuto in contatto di missioriarii, che non hanno lasciato di parlare al suo cuore coll’esempio e colle parole, come erano i due Padri della Compagnia [di Gesù], cioè il vecchio P. Pedemonte e Padre Zara; bolliva allora nelle sue vene un sangue amico dei piaceri del mondo e di ogni libertà morale, nutrimento unico che mantiene in vita il protestantismo; anche i vincoli di parentela e di amicizia colla società protestante sono altrettante catene che legano al protestantismo, anche ripugnando [con] le private convinzioni e movimenti del cuore. Ma una persona tutta sola, che si vede [a] morire, abbandonata da tutti, essa si trova in caso tutto diverso: allora si risvegliano gli antichi rimorsi, e le rette aspirazioni del cuore, oh allora si presenta il cattolicismo conosciuto in tutta la sua bellezza, come unica via per volare al suo Dio! Quanti eretici o scismatici non ne ho assistito io stesso in simil caso, convertiti dal bracio omnipotente di Dio, il quale da una parte gli percuoteva nella sua giustizia, mentre dall’altra gli chiamava a misericordia a conversione! Ora non poteva essere stata anche così [la sorte] del nostro defonto Console? Ed in questo caso, perché privarlo io delle mie preghiere? Così sperando, ho pregato anche per lui.

una schiava caduta nel pozzo Mentre me ne ritornava così con questi sentimenti di sperata misericordia per l’antico defonto amico, vicini ad arrivare alla casa del greco che mi accompagnava, un grido confuso si sentiva dai famigli e vicini del medesimo ci annunziava un non so che di sinistro arrivato alla medesima; una sua schiava [p. 259] estraendo aqua dal pozzo con un vaso /240/ attaccato ad una corda, era sgraziatamente caduta nel medesimo, e si stava lavorando dai famigli e dai vicini accorsi per salvarla. Poco male, rispose il greco [mio] compagno alla persona che gli annunziava la disgrazia arrivata, una schiava di meno, aggiungeva, non è una gran cosa in questi nostri paesi: il male maggiore è piuttosto il guasto dell’aqua se non [la] si cava subito, perché un’altro pozzo sarebbe lontano. Povera umanità! dissi io, poco male una persona che muore perché schiava? Il male maggiore si dice la perdita dell’aqua? Così è in facia ad una generazione musulmana o eretica? oh fede! oh Salvatore del mondo! oh carità cristiana dove sei! Per fortuna la schiava fu salva[ta] con qualche mezz’ora di fatica e di manovra. La profondità del pozzo non arrivava ai quattro mettri, sotto lo strato di humus e di terra vegetale. La profondità dell’aqua arrivava appena ad un mettro, e la schiava in piedi poté aspettare senza annegarsi. Il pozzo in Doka è lasciato così senza parapetto, ed il caso di caduta non è tanto raro; esso è pericoloso per i piccoli bimbi e per gli animali. Per questi esseri, in certa lontananza dal pozzo, esiste una chiudenda di legno.


(1a) È doppia la cavalcatura del camelo: cioè quella dei dromedarii, o cameli da sella, e quella dei viandanti ordinarii. Il dromedario o camelo da sella non sa andare al passo ordinario, e non tutti sanno maneggiarlo. Il camelo da trasporto è quello dei viaggiatori ordinarii. Questo solo sa andare al passo di carovana. Il camelo di carico, porta sopra le sue spalle ad minus il carico di quattro asini, e sopra questo carico, che lo obliga a tenere il passo, suole adagiarsi il viaggiatore, o seduto, oppure in un letto. Il camelo poi di carico può camminare tre giorni senza mangiare e senza bere, come molti sanno. [Torna al testo ]

(1b) Le lingue orientali, massime l’araba, politone come sono e con significati diversi dipendenti da accenti e da aspirazioni, è chiaro che poco possono convenire per trasmettere termini categorici e significativi, sopratutto per i nomi proprii dei nostri europei, perché mancanti di lettere labiali principalmente, e dentali, o anche linguali. [Torna al testo ]

(1c) Falzo calcolo, perché i nomadi fuggono di stare nei villaggi e luoghi conosciuti per salvarsi dalle vessazioni dei soldati ed impiegati governativi che viaggiano, ed anche per salvarsi dai tributi. Quando la società è troppo complicata e carica di tributi ed avanie, allora [gli abitanti] tendono naturalmente alla dispersione o emigrazione lasciando un governo oppressore. La società ben governata è un vero tesoro, ma quando è troppo complicata e caricata di pesi, è una fabrica che cade in rovina, come una famiglia disordinata. [Torna al testo ]

(2a) Vedi il viaggio mio del [1852] 1851. dal Fasuglu a Matamma. [Torna al testo ]

(1d) Padre dei due fratelli Atemie e [allievo di M. dal 1873 al 1879] Walde Ghiorghis di Aramba, il primo dei quali avrebbe potuto essere ordinato sacerdote, se i segnali di vocazione non avessero mancato. Più tardi questo vecchio si convertì, fece la sua prima communione, ed il suo matrimonio ecclesiastico colla sua prima vecchia moglie. Volle ricevere il Sacramento della Confermazione, dopo la quale diede segni visibili di avere ricevuto lo Spirito Santo, facendo da vero apostolo. [Torna al testo ]