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Capo III.
Divertimenti e liberazione.
1. Compra di capre e di formaggi. — 2. Messa della Domenica. — 3. Assistenza al refettorio. — 4. Divertimenti osceni. — 5. Pranzo nel giardino. — 6. Accordi con Michelangelo per la sua liberazione. — 7. Un monaco ammalato. — 8. Michelangelo ottiene di accompagnarmi. — 9. Regali e partenza. — 10. Un ultimo sguardo a S. Antonio. — 11. Disegni per la fuga. — 12. Accoglienza all’ospizio; la medicina all’ammalato. — 13. Partenza per Assiùt; timori per Michelangelo. — 14. Ciò che avvenne a Michelangelo.
Verso sera giunsero al Monastero alcuni Beduini a con capre e formaggetti da vendere (1): ed i monaci corsero tosto ad avvisarmi della bella occasione per fare il pranzo promesso. Vi andai con Michelangelo, e trovandole ben grasse, ne domandammo il prezzo. Chiesero dieci piastre per ciascuna capra, cioè tre per uno scudo: ed avendo offerto loro mezza ghinea inglese per tutto, cioè per capre e formaggi, da prima mostrarono non esser contenti; ma poi, ascoltando anche le premurose insistenze dei monaci, ce le cedettero, con grande gioja di quei figli di S. Antonio. Con queste liberalità io mirava a distogliere la loro attenzione da ciò che intendeva fare, per liberare Michelangelo; a rendermeli inoltre confidenti, per meglio studiare la loro vita ed i loro costumi; e nel tempo stesso ad affezio- /34/ narmeli, per parare nel caso un qualche brutto tiro, che mi avrebbero potuto fare: poichè, guai a me se avessero subodorato un minimo che della missione ch’era andato a compiere; quei figli di Dioscoro, dominati da brutali passioni, e senza neppur segno di timore di Dio, sarebbero stati pronti a commettere qualunque eccesso. Questa liberalità intanto mi fruttava da parte loro regali in abbondanza, segnatamente di uva, di frutti del giardino e di quelle buone pagnottelle.
2. La Domenica, terzo giorno dopo il mio arrivo, si portarono tutti in chiesa per assistere alla Messa, celebrata secondo il rito copto, con qualche canto, che io aveva inteso al Cairo, e con accompagnamento di campanelli e del triangolo, soli strumenti musicali da loro usati. Vi assistevano tutti in piedi col bastone in mano, come gli Ebrei; ed io dalla porta della cripta osservava ogni cosa, avendo accanto Michelangelo, che mi dava di tutto la spiegazione. Avrei avuto anch’io il desiderio di celebrar Messa, ed il buon Michelangelo di comunicarsi: ma oltre la difficoltà di trovare un’ora libera, vi era l’altra, di non tenere presso di me gli oggetti necessari. Laonde consigliai il buon giovane ad unirsi meco in ispirito, per assistere col cuore e col desiderio alla Messa cattolica. In tutto il tempo che dimorai in S. Antonio, non vidi altro atto religioso che la celebrazione e l’assistenza alla Messa, se non erro, due o tre volte: del resto nessun esercizio di pietà, non coro, non letture spirituali, non orazione, neppure le preghiere della mattina e della sera. Finita la Messa gettarono a terra i bastoni, e corsero a ricevere due pagnottelle per ciascuno, che solevano distribuirsi sempre dopo la Messa; e poscia usciti fuori, chi le mangiava, chi le vendeva, e chi le scambiava con altri oggetti. Io ne comprai alquante, e con quelle che mi furono regalate, ne radunai una trentina. Pesava ciascuna circa quattro once, ed erano esse il mio prescelto cibo giornaliero.
3. Un giorno mostrai il desiderio di assistere in refettorio al loro desinare, e mi fu permesso. Come ho detto, esso era assai lungo e stretto, e con una sola tavola di alabastro in mezzo, a cui i monaci sedevano dall’una e dall’altra parte. Ciascuno si aveva una scodella, una bottiglia di acqua, un bicchiere di terra, un coltello ed un cucchiajo. Sedevano divisi a dieci, ed uno di essi la faceva da capo: al quale si portava una marmitta piena di minestra, che distribuiva alla sua decina; poscia si dava a ciascuno un pezzo di carne, ed una pagnotta di circa una libra, e nei Mercoledì e Venerdì, invece della carne, si passava un piatto di lenticchie o di fave. Non facevano preghiere, nè prima nè dopo il pranzo; la p. 35 è interamente occupata dall’illustrazione Pranzo nel giardino M.P. /35/ /36/ solo in principio si segnavano col pollice alla fronte, alla bocca ed al petto senza dir nulla: nè vi era lettura, come costumasi in tutte le comunità religiose; ma, mangiando, si chiacchierava e si faceva baccano, come in una taverna. Finito il pranzo, tutti si alzavano, eccetto i Superiori ed i Capodecina.
4. Usciti di refettorio, ci recammo alla sala di conversazione. Io fui fatto sedere accanto al seggiolone dell’Abbate, dove aveano posto i sotto Superiori ed i più vecchi. Alcuni giovani monaci distribuirono le pippe, lunghe un metro, poscia il tabacco ed il fuoco, e si cominciò a fumare come tanti Turchi. Quel giorno vollero dare, a mio onore, un divertimento particolare, e stese delle stuoje per terra, presero a rappresentare una commedia. Dalle parole capiva ben poco, ma dai gesti e dagli atti sconci, onde l’accompagnavano, m’accorsi che non doveva essere per nulla morale. Si andò tant’oltre in quelle sconcezze, che ad un certo punto fui tentato di andarmene via; e ciò che più mi faceva stizza era il vedere quei vecchioni anacoreti ridere saporitamente alle oscenità, che si rappresentavano. Sulla barca aveva veduto i barcajuoli trastullarsi con simili atti, e nessuna meraviglia mi aveano fatto, perchè sapeva benissimo ch’erano tutti mussulmani: ma vederli poi rappresentati dai figli di S. Antonio, dagli Anacoreti del deserto, non a meraviglia fui mosso, ma a schifo ed orrore. Poveri eretici!
5. Dovendo finalmente dare il mio pranzo, dissi che desiderava farlo piuttosto nel giardino che in refettorio, dove un fetore insoffribile moveva a nausea al primo mettervi il piede. Fu accettata la mia proposta, e si fissò il Giovedì seguente. I giovani intanto, pieni di entusiasmo, scelto il luogo, cominciarono a disporre ogni cosa: piantati grandi pali, vi misero sopra canne e foglie di palma, e formarono un capannone, capace di contenere tutti quanti. Stesero poscia per terra delle stuoje, e giunto il giorno e l’ora, ci recammo a quella tavola campestre. Non si dovea mangiare altro che carne arrostita sui carboni, e formaggio; seduti adunque tutti per terra, si diede l’assalto a quei pezzi di capra, con un’avidità ed ardore, che pareva non l’avessero mai gustata. A me diedero un piatto, un coltello ed una forchetta: ma essi mangiavano all’araba, cioè stracciando tutto con i denti e con le mani. Consumata una capra, si portava l’altra, e finalmente comparve l’ultima, cotta intiera al forno, e condotta con suoni e canti sino alla capanna in processione. In un batter d’occhio la divorarono come se nulla avessero mangiato. In fine feci portare dell’acquavite, che accrebbe maggiormente la loro allegria: e dopo aver /37/ fatto strazio di tutto, si concluse il pranzo con la nel testo: pippa pipa, e con un’altra commedia più libera e più stomachevole della prima.
6. Erano già otto giorni che dimorava in S. Antonio, e bisognava partire. I tratti di liberalità, usati con quei monaci, mi avevano cattivato la loro benevolenza; onde poteva trattenermi con più libertà a discorrere con Michelangelo, senza destar sospetti. Egli già avea compito la sua Confessione, e restava col desiderio di ricevere Gesù Sacramentato. Rispetto alla fuga si convenne che in niun altro modo avrebbe potuto riuscire, che ottenendo di accompagnarmi sino al villaggio: di là poi con maggior facilità gli sarebbe stato possibile fuggire, e riparare al Cairo o ad Alessandria. A questo scopo preparai le lettere di raccomandazione per Monsignor Teodoro Abucarim, per Monsignor Delegato, ed anche pel signor Lemoyne, Console Generale di Francia, affinchè, giunto in Cairo o ad Alessandria, principalmente quest’ultimo lo prendesse sotto la sua protezione. Fatto ciò, non trattenendomi alcun altro affare al Monastero, risolvetti di partire: ma fui costretto fermarmi altri quattro giorni, per aspettare la partenza della carovana, solita a portarsi al villaggio.
7. Un giorno mi si presentò un monaco dei più vecchi, e mi domandò se per avventura conoscessi l’uso delle medicine. Gli risposi che me ne intendeva un poco; ma che, non avendo portato meco alcun farmaco, non poteva occuparmene. Allora cominciò a raccontarmi una storia si lunga dei suoi malanni, che non la finiva più. Il pover’uomo era afflitto da una brutta malattia. — Ma che posso farvi io? gli dissi finalmente. — Allora gettandomisi ai piedi, e stringendoli e baciandoli: — Abbiate pietà di me, diceva, io son perduto, non sono nè uomo nè donna, e tutti mi fuggono. — Voleva farsi osservare: ma per levarmelo d’attorno, gli dissi che non faceva bisogno, e gli promisi che, giunto al villaggio, dove teneva il bagaglio, gli avrei mandato una medicina, che immancabilmente lo avrebbe guarito. Tuttavia non mi lasciava un momento tranquillo, e mi tenne quattro giorni in un vero martirio. Quello poi che più mi faceva stizza non era la sua noiosissima insistenza: ma la smania che aveva di raccontarmi cose che io non voleva sentire, ed il lamentarsi sempre che non era nè uomo nè donna!
8. Finalmente giunse il giorno della partenza; e nulla ancora si era potuto fare per Michelangelo. Tuttavia io non disperava di averlo meco nel viaggio; poichè, quantunque egli si trovasse colà tra il numero di coloro ch’erano sotto vigilanza, e per l’affezione che tutti gli portavano, non lo perdessero mai di vista; pure, la stima in cui avevano la mia /38/ persona, ed i regali loro fatti, quasi sempre per mano sua, mi facevano sperare che, domandandolo per compagno sino al Nilo, non me lo avrebbero negato. Per meglio ottenere l’intento, pensammo di rivolgerci al monaco ammalato; e facendogli conoscere che, ritornando dal villaggio, non solo gli avrebbe riportato il medicamento, ma anche la regola da tenere nella cura, facilmente si sarebbe data premura di ottenerci dal Superiore e dai suoi vecchi colleghi un tal permesso. Intanto nel dubbio che i nostri disegni non fossero riusciti, ed egli sarebbe stato costretto di restare in quel luogo dopo la mia partenza, gli diedi una sommetta di danaro per servirsene a fuggire in altra maniera, gli consegnai le lettere di raccomandazione, e lo mandai dal monaco. I nostri desiderj furono appagati: quel povero vecchio, contento e riconoscente di tanta premura, che ci prendevamo per la sua salute, seppe sì bene perorare presso i suoi confratelli, che il permesso fu accordato.
9. La carovana essendo pronta a mettersi in viaggio, i monaci raccolsero tutte le pagnottelle che aveano ricevuto nelle due seguenti Messe, e me le offrirono in segno di loro affezione. Ed io alla presenza di tutti consegnai al Superiore un napoleone, affinchè lo spendesse in carne ed acquavite per quei bravi monaci. Allora il detto Superiore mandò a cogliere il resto dell’uva che si trovava nel giardino, e me ne riempirono un canestro, per mangiarla lungo il viaggio. Non credeva che dovessero provare tanto dispiacere per la mia partenza; e mi allontanai commosso quando vidi che molti si separarono piangendo. Il vecchio monaco ammalato lottava fra due affetti, quello di dolore, perchè vedevami partire, e quello di allegrezza per la speranza di avere la medicina e risanare della sua malattia; e perciò ora stringeva i piedi miei, ed ora quelli di Michelangelo, augurandogli un presto e felice ritorno. Più della metà mi vollero accompagnare per un lungo tratto di strada, e mi ci volle di tutto per farli ritornare. Nell’accomiatarci, il monaco ammalato esclamò: — Questo Signore non è nè uomo nè donna (e diceva il vero secondo il senso, ch’essi davano a queste parole); ma è un Angelo venuto dal cielo, per portare la benedizione alla nostra comunità. —
10. Il Monastero contava circa sessanta persone; dodici dei quali tenevano i diversi ufficj, ed amministravano le rendite; altri dodici ubbidivano direttamente all’Abbate, e ricevevano un soldo particolare, perchè erano addetti al servizio della comunità, ed infliggevano i castighi dati a coloro che commettevano mancanze. Una quindicina poi vi si tenevano rinchiusi per punizione, mandativi o dai Vescovi, o dai genitori, /39/ e questi erano invigilati severamente; tutti gli altri in fine erano aspiranti a quella vita. Da quanto potei osservare, mi accorsi che neppur l’ombra dello spjrite monastico si trovava fra di loro, e nemmeno dello spirito evangelico e cristiano. Tolta qualche esteriore apparenza di vita monacale, tenuta più per conservare la casta, o la nazione, come là si dice, nel resto erano peggiori dei più depravati secolari; i quali, per rispetto alla società in mezzo a cui vivono, hanno pure un po’ di pudore e di ritegno: ma quegli eretici in veste monacale non conoscevano nè ritegno, nè pudore. E quindi quel luogo destinato alla santità, e fatto per allevare uomini adorni di grazie e di virtù, era ridotto ad un ergastolo per alcuni, e ad una scuola di brutali immoralità per tutti. Nessuna meraviglia adunque se il Monastero, un tempo sì straordinariamente popolato di cenobiti, allora contava un sì sparuto numero di monaci. L’eresia lo aveva isterilito; ed i pochi aspiranti che vi accorrevano, vi andavano più per ambizione e per assicurarsi un sostentamento; anziché per seguire S. Antonio nella via della penitenza e della virtù.
11. Ritornati i monaci al Monastero, restammo noi due soli con tre cammellieri che ci accompagnavano. Non comprendendo questi la nostra lingua, potevamo parlare liberamente: e quel viaggio in verità fu una delizia; due giorni e due notti ci parvero due ore. Il nostro discorso si /40/ raggirava sempre sulla sua fuga, e sulle cautele da usarsi per non mettere a rischio ogni cosa. Egli avrebbe desiderato di venire con me; ma, dovendo io viaggiare per paesi, popolati in parte di Copti, la sua compagnia sarebbe stata pericolosa per lui ed anche per me. — Il miglior partito, gli dissi, è quello di recarti in Egitto, e presentarti alle persone, per le quali ti ho date le lettere. Giunti all’ospizio, affetterai quella prudente indifferenza che hai mantenuta al Monastero, per non isvegliare sospetti, e per esser più libero a cercare un mezzo di fuga: indi, partito io, dopo uno o due giorni, fuggirai di notte, travestito, costeggiando sempre la sponda del Nilo; ed incontrata la prima barca, se pure non ti riuscirà di accaparrarla prima, entrerai in essa, pagando qualche cosa, ed anche adattandoti a fare il barcajuolo, finché non giungerai al Cairo. Poscia, senza entrare in città, dove i Copti sono numerosi e potenti, sopra un’altra barca ti porterai direttamente ad Alessandria: ivi presentandoti con le mie lettere a Monsignor Delegato ed al Console Generale francese, ti lascerai guidare da essi, e ti assicuro che tutto anderà bene. — Il buon giovane, riconoscendo la saggezza di questi miei suggerimenti, si acquetò al mio consiglio, e si dispose a metterlo in pratica.
12. Dopo un felicissimo viaggio, la mattina del terzo giorno eravamo a vista del villaggio; e quei monaci, avendo già inteso relazioni della mia liberalità, e dell’affezione con cui era stato trattato al Monastero, mi aspettavano con impazienza. Il mio arrivo fu per loro come quello di un fratello; poichè non mi riputavano più come un pellegrino od un forestiero, ma come un membro della famiglia. Mi prodigarono quindi gentilezze di ogni sorta, e volevano assolutamente che restassi a pranzo con loro: ma prescelsi di ritirarmi nella barca, che lo Scièk, da me avvisato, aveva fatto trovar pronta, adducendo la scusa che, dovendo presto partire, bisognava allestire con premura le mie cose. Il primo pensiero fu quello di soccorrere il povero ammalato del Monastero; e perciò, aperto il sacco da viaggio, dove teneva la mia piccola farmacia, presi una trentina di pillole, composte con lieve dose di sublimato, di cui mi era provveduto in Torino all’ospedale mauriziano, e le consegnai al Superiore dell’ospizio. Poscia, fingendo di non fidarmi di Michelangelo, lo pregai a scrivere esso stesso in lingua araba il metodo da tenersi nella cura: e Michelangelo poi, ritornato al Monastero, avrebbe riferito a voce altre particolarità però segretamente. In quei paesi caldi la sifilide è molto più mite che tra noi, ed è più facile a curarsi: si manifesta piuttosto cancrenosa che bubonica, e con una mezza dose di sublimato si ottiene quasi subito la guarigione.
/41/ 13. Essendo pronti tutti i barcajuoli, feci trasportare il bagaglio nella barca; e presi gli ultimi accordi con Michelangelo, che mostravasi pieno di fiducia e di speranze per la sua liberazione, la sera ci recammo all’ospizio per accomiatarmi da quei monaci e dallo Scièk. Pagate al Superiore alcune spesuccie, che aveva fatte per me, aggiunsi qualche moneta di più, pregandolo di comprare qualche cosa, e mangiarla con gli altri per amor mio. Indi ci abbracciammo, e ritornai alla barca. Verso il mattino cominciò a spirare un venticello favorevole, sicchè, levata l’ancora, si parti, ed allo spuntar del sole avevamo perduto di vista il villaggio. Ma l’animo mio era in preda ad una grande agitazione, pel passo che stava per dare il giovane propagandista. Temeva che non riuscisse a fuggire, o che poscia avesse ad incontrare maggiori guai e dispiaceri. Da parte mia intanto non potei face altro che raccomandarlo al Signore ed alla Vergine Santissima, affinchè lo assistessero in quel pericoloso cimento.
14. Solamente quattordici anni dopo potei avere notizie di lui e della sua fuga. Egli partì di notte, come si era stabilito, camminando a piedi per due giorni continui: trovata poscia nella città vicina una barca, si recò al Cairo, e di là su di un piroscafo giunse in Alessandria. Monsignor Delegato lo tenne qualche giorno nascosto, finché poi, preso dal Console Generale francese sotto la sua protezione, potè con lui trasferirsi in Cairo. Ivi trovò i suoi parenti, i quali già si erano convertiti al cattolicismo: e ricevuto in casa da Monsignor Abucarim, fu ordinato sacerdote. Ed oggi trovasi ancora in Cairo col nome d’Abba Potros (Padre Pietro), e lavora con zelo nella Chiesa del Signore. Nei miei viaggi, passando dal Cairo, sempre è venuto a trovarmi; ed ogni volta, gettandomisi ai piedi: — Voi siete, esclama, il mio Angelo liberatore. —
[Nota a pag. 33]
(1) Questi Beduini abitavano alcune oasi distanti una giornata dal Monastero, ed in cui trovavano a pascolare piccole mandre di capre ed anche di cammelli. Vivevano quasi indipendenti, e pagavano solo un qualche tributo ai loro Capi; i quali poi corrispondevano col Governo. Erano di un tipo ben conservato, perchè lontani dalla corruzione mussulmana, e dai non meno luridi costumi dell’eresia. [Torna al testo ↑]