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Capo XI.
La stagione delle piogge in Ifagh.
1. Ad Ifagh. — 2. Arrivo del P. Giusto. — 3. Non vi è gioja senza dispiacere. — 4. Carròda, paese del vino. — 5. Perchè si abbandonò la coltivazione della vite. — 6. Confronto col regno di Râs Aly. — 7. Riflessioni sull’Europa. — 8. Lavori del P. Giusto sulla lingua etiopica. — 9. Partenza del P. Giusto. — 10. Occupazioni in Ifagh. — 11. L’Olio Santo in Abissinia. — 12. Le ostie della Messa abissina. — 13. Il Battesimo fra gli Abissini. — 14. Un’Ordinazione a buon prezzo. — 15. Curiosa pretensione di un prete. — 16. Commercio, clima ed abbondanza d’Ifagh. — 17. Popolazione e corruzione d’Ifagh. — 18. Visita ad un fondaco di schiavi. — 19. Mio ritiro fra i Zellàn. — 20. Vita semplice di quella famiglia. — 21. Religione e costumi di questi pastori.
Dopo tre giorni di forzata dimora ad Enferàs, partimmo accompagnati da una guida del Nagadarâs, e con raccomandazioni per le Autorità d’Ifagh. Vi arrivammo felicemente, e ci dirigemmo alla casa dello stesso Nagadarâs, dove suo Mesleniè ci ricevette con ogni riguardo, e ci provvide di tutto ciò che avevamo bisogno. Ifagh era il mercato centrale di tutta l’Abissinia, e vi si stava molto bene. Eravamo già alla metà di Giugno, la stagione delle piogge in quelle parti; e l’acqua cadendo giù dirottamente, i fiumi, i torrenti e le paludi ingrossarono di tal maniera, che mi fu impossibile continuare il viaggio, e dovetti risolvermi a restare in Ifagh sino alla fine di Agosto. Il Mesleniè, secondochè eravamo rimasti d’accordo col Nagadarâs, si diede premura di farmi alzare una grande capanna, comoda anche per potervi celebrare segretamente la Messa, e lì fermai la mia dimora. Egli chiamavasi Ato /124/ Maquonén (1), ed in verità aveva tratti da signore. Sua moglie, una devota abissina, era pure di esemplare condotta, ed ogni settimana invitava a pranzo il suo confessore, il che è segno di gran pietà in Abissinia. Questo sedicente confessore era eunuco, ed in quanto a scienza, una vera tavola rasa: tuttavia le signore del paese sel tenevano, come la moglie del Mesleniè, per loro confessore; il che dandogli una certa autorità, e con essa il comodo di procacciarsi rispetto e regali, se la passava bene. Noi avremo occasione di parlare più volte in questo capo di un tal personaggio, e potremo conoscere completamente che sorta di confessori allevi l’eresia.
2. Passati alquanti giorni, ecco giungere il P. Giusto, accompagnato, per non isvegliar sospetti, da un solo servo. Quel giorno fu per me, ed anche per lui, il più consolante che avessimo goduto in quelle parti. Ho detto altrove ch’è difficile comprendere quanta gioja si provi in paese straniero, quando si ha la fortuna d’incontrare una faccia amica, un fratello che parli la patria lingua, e ricordi il cielo, i costumi, l’aria soave, che respiravasi insieme nella terra nativa! Ma il P. Giusto mi era più che amico, più che fratello; poichè i vincoli dell’apostolato sono più forti di quelli del sangue, e le persecuzioni ed i dolori da entrambi sofferti, rendevano questi vincoli più sacri e più indissolubili. Si parlò lungamente della espulsione da Tedba-Mariàm, dell’odio, che sempre ci portava la razza eretica, delle continue ed ognor più crescenti difficoltà, che si opponevano ai nostri disegni, e di cento altre cose relative alla nostra Missione. E veramente sotto questo rispetto ci era poco di che consolarci.
3. Dai discorsi tenuti mi avvidi, con gran pena del mio cuore, ch’egli avea preso troppa affezione all’Abissinia, e sembrava poco disposto a seguirmi nei paesi galla, vera nostra Missione. Ripigliando pertanto il discorso sulla forzata espulsione da Tedba-Mariàm, presi motivo di persuaderlo che non conveniva restare più oltre in quelle parti, dove immancabilmente si sarebbe rinnovata la stessa persecuzione di prima; e che quindi bisognava pensare a partire per la Missione assegnataci dalla Santa Sede. I miei dubbj pur troppo erano fondati; poichè cominciò a mettere innanzi tanti pretesti e tante scuse, che quasi venne a dichiarare che non se la sentiva di seguirmi in quei paesi. Egli da due passioni era dominato; primo dal timore che i popoli galla fossero crudeli e feroci, (almeno così li descrivevano gli Abissini) e poi dall’affetto verso la lingua sacra etiopica, per la quale veramente aveva una grande attitudine, ed in cui, fa duopo confessarlo, aveva molto progredito. Sin da quando eravamo /125/ giunti là, invece di applicarsi allo studio della lingua galla, si era occupato della lingua gheez, e con tanto ardore ed assiduità che poco attendeva ai doveri dell’apostolato. Questo studio necessariamente lo metteva in corrispondenza con la casta dei Defteri, gente corrotta e perversa quanto mai; e già non solamente lo avevano alquanto distolto dall’attendere ai suoi doveri, ma vi era tutto il pericolo di guastarmelo interamente. Di fatto notai in lui, con quanto mio dispiacere non so dire, un certo affetto a quel modo di vivere abissino, a quel lusso ed a quei costumi, segnatamente nel viaggiare e nel conversare, che veramente non tanto si addicono alla vita semplice e grave del Missionario (1). Tuttavia, perdurando ancora le difficoltà di penetrare fra i Galla, giudicai meglio di usar prudenza per allora: e con la speranza che mi avrebbe immancabilmente seguito quando fossi entrato nel paese della nostra Missione, gli permisi di continuare i suoi studj e lavori etiopici, e di tenere in quel tempo la corrispondenza con Massauah.
4. In quei pochi giorni che il P. Giusto si trattenne con me, c’ingegnammo aggiustare alla meglio una cappella segreta, per celebrare la Messa ed attendere agli altri esercizj di religione: e così potemmo liberamente passare alcune ore del giorno in devoto ritiro, per rinvigorirci nello spirito, e prepararci a nuove lotte, se il Signore così avesse voluto. Il P. Giusto conosceva Ifagh meglio di me, ed un giorno volle farmi un’improvvisata col presentarmi alcuni vasi di vino, procurati per mezzo di alcuni suoi amici, e che io non aveva più gustato sin da quando lasciai Kartùm. In tutta l’Abissinia non trovasi vino, neppure pagandolo cento talleri la bottiglia: in Ifagh solamente, un paese chiamato Carròda, posto su di una montagna, coltivava la vite, e ne raccoglieva una buona quantità. Râs Aly comprava l’uva a Carròda, e se ne faceva un poco per uso suo e per darlo ai forestieri europei: s’intende una quantità limitata; poichè quand’anche si avesse voluto farne assai, in Abissinia non si sarebbero trovati i vasi necessarj per conservarlo. Gli unici recipienti capaci di contenerlo sono i corni di bue, grandi circa dieci litri: i vasi di terra cotta in uso nel paese, non essendo verniciati, non possono servire all’uopo; poichè assorbono e trasudano qualunque liquido.
5. Oggi nè in Abissinia, nè in Ifagh si trova un bicchier di vino; perchè la coltivazione della vite venne totalmente abbandonata sotto il /126/ regno di Teodoro. Questo Principe, divenuto padrone di quei paesi, volle per sè tutto il vino che produceva Carròda, e giunta la stagione della raccolta, vi mandava uno sciame di guardie, per invigilare il frutto, e poscia portarne via tutto il prodotto. I poveri paesani adunque non solo dovevano faticare senza aspettarsi alcun compenso, ma per maggior fastidio erano costretti a mantenere le guardie, e soffrire tutte le vessazioni e sfrenatezze, di cui quegl’indisciplinati soldati si rendono bene spesso colpevoli. Per liberarsene, fecero in maniera che le viti a poco a poco assecchissero, e così si perdette totalmente quell’industria. Quasi lo stesso avvenne del grano, che le popolazioni coltivavano, e l’Imperatore raccoglieva per isfamare i suoi soldati, talmentechè negli ultimi anni del suo dominio, l’Etiopia era afflitta da una grande carestia. Ed anche oggi sotto Giovanni, perdurando le vessazioni, l’agricoltura è quasi abbandonata.
6. Ciò non accadeva sotto il regno di Râs Aly: questo pacifico Principe, moderato nelle sue passioni, amante del benessere del popolo, e non ambizioso di dominio, teneva pochi soldati; quanti bastassero per conservare l’ordine e la pace nel paese dei suoi antenati. Sicchè l’Abissinia lasciata tranquilla, si applicava con amore all’agricoltura ed alla pastorizia, e viveva nell’abbondanza di ogni cosa. E già ricorderanno i miei lettori quello che dissi nel primo volume sull’abbondanza di Tedba-Mariàm, dove con un tallero si compravano dieci sacchi di grano, e per ugual prezzo diciotto pecore, più vasi di miele e di butirro, ecc.: ebbene, ultimamente, cioè nel 1879, passando prigioniero per Devra-Tabor, con un tallero a stento si potevano comprare tre chili di grano! E non poteva essere altrimenti: poichè le braccia, che prima si applicavano all’agricoltura, allora erano inutilizzate dalla milizia, aumentata enormemente, e quindi riusciva difficile trovare chi volesse addirsi ai lavori della terra. Ma peggio verrà appresso; poichè gli eserciti, non trovando di che vivere nel Nord dell’Abissinia, già spopolato e deserto, si vanno dirigendo verso il Sud, dove l’agricoltura ancora fiorisce: laonde dopo pochi altri anni, continuando questo barbaro depredamento, si può esser certi che toccherà al Sud la medesima sorte del Nord; e così, rendendosi necessaria l’emigrazione, l’Abissinia sarà tutta un deserto.
7. La stessa sventura io temo assai che sia anche per toccare alla nostra Europa, se si continuerà a camminare per la via che presentemente si batte. È una verità innegabile che la prima ricchezza di un paese vien data dall’agricoltura; or questo sproporzionato accrescimento di soldati, che consumano senza produrre, e la superficiale istruzione, cotanto genera- /127/ Ill. a piena pagina Veduta di Gondar. || /128/ lizzata, che invanisce e sveglia desiderj di più agiata condizione, non possono fare a meno di togliere alla terra le braccia necessarie per coltivarla, e d’impedire quindi ch’essa ci somministri le sue ricchezze. La gravezza inoltre dei tributi, la difficoltà di soddisfare i bisogni della vita, e molto più quelli che la corruzione della presente comunanza civile ha introdotto fra i popoli, anche delle campagne, costringono le laboriose popolazioni ad emigrare: e diminuendo i lavoratori, necessariamente diminuisce il prodotto; e quindi l’agiatezza, le comodità e la felicità della vita sociale è d’uopo che vengano meno, anche fra noi.
8. Il P. Giusto mi portò alcuni saggi dei suoi studj, fatti in quegli anni nella difficile lingua etiopica: cioè, la traduzione in lingua indigena di un opuscolo scritto da un Missionario francese, ed intitolato Les soirées de Carthage, dialogo fra un Mufti, un Kadi, un Missionario ed una Suora di Carità. Questo opuscolo fu da me trovato in Propaganda, e giudicando che avrebbe potuto fare molto bene in Abissinia, dove l’islamismo menava gran guasto, lo aveva spedito a lui per tradurlo. E di fatto un tal libro fu sì gradito da quei popoli, che in poco tempo se ne erano fatte parecchie copie, e da tutti si chiamava il Mufti. Inoltre mi fece vedere il libro del Battesimo usato dagli Abissini con la traduzione latina di fronte al testo etiopico, che poi doveva essere spedito alla Sacra Congregazione di Propaganda, affinchè su tale libro liturgico desse il suo giudizio. Altri lavori aveva già cominciati, che sarebbero stati utilissimi alla Chiesa ed alla scienza, se la morte non avesse presto troncato i suoi giorni. Inoltre gli aveva commesso di tradurre anche il messale abissino, per sottoporlo al giudizio di Roma, e questo lavoro era già molto innanzi, quando uscì il decreto del suo esilio, seguito poscia dalla morte. Di tutti i suoi lavori una parte venne spedita in Roma a Propaganda, dopo la sua morte avvenuta in Kartùm, ed il resto mi fu mandato in Kaffa, che si ebbe la stessa irreparabile sorte dei miei manoscritti. Così per solito vanno a finire gli studj e le fatiche dei poveri Missionarj fra gente selvaggia! Perciò è meglio spendere il tempo nel ministero della parola, la quale o presto o tardi non manca di produrre i suoi frutti.
9. Questo buon Padre non poteva trattenersi più a lungo in Ifagh, come ambidue desideravamo, senza nuocere a me ed anche a lui stesso. A me pel pericolo che la sua presenza non desse motivo di essere io riconosciuto; a lui pel timore di non potere più ritornare a Betlihèm per causa delle piogge. Le acque già minacciavano di chiudere tutte le strade, ed in Abissinia, non essendovi ponti, torna impossibile passare i /129/ fiumi ed i torrenti, ben più pericolosi in questi alluvioni dei fiumi medesimi. Egli pertanto dopo alcuni giorni di lieta e fraterna compagnia, se ne partì per Betlihèm, dove teneva tutta la sua famiglia: e ci dividemmo, per non più rivederci! Anche il mio servo Giuseppe ed il portatore Tokkò mi chiesero il permesso di andare a passare un mese in Gondar con i loro parenti, e li contentai col patto di trovarsi pronti a partire verso la fine di Agosto; così restai solo, circondato sempre dalle affettuose premure della famiglia Maquonèn, che generosamente mi somministrava il vitto giornaliero, e mi prestava tutti i necessarj servizj.
10. Rimasto libero e solo, ebbi tutto l’agio di passare quei due mesi in utili occupazioni. Presi prima a rivedere ed ordinare il diario del mio viaggio, e le memorie più importanti: indi, trovandosi in casa del Mesleniè alcuni schiavi e servi galla, profittai di quest’occasione per continuare gli studj su quella lingua. E finalmente per mezzo del confessore, di cui testè parlai, potendo introdurmi nelle chiese abissine ed assistere alle funzioni di quei preti, proposi di esaminare accuratamente quella liturgia, e portare un giudizio sulla validità dei loro Sacramenti. Di fatto fui presente più volte alla loro Messa ed all’amministrazione del Battesimo; e non vidi che un guazzabuglio di ridicole cerimonie, non esenti talvolta di atti immorali, principalmente nella pratica delle unzioni, che sogliono unire all’amministrazione del Battesimo.
11. Un giorno domandai al confessore donde si provvedessero dell’Olio Santo, e qual rito tenevasi nel benedirlo? Mi rispose che un mussulmano lo portava da Gerusalemme, e poi lo vendeva alle chiese. E manifestandogli il desiderio di volerne comprare un poco anch’io; dapprima oppose qualche difficoltà, ma poi fattisi dare un tre o quattro sali, promise di procurarmelo. Di fatto dopo tre giorni me lo vedo comparire con un pezzo di canna ben turata e ripiena d’olio, e raccomandandomi il silenzio, mi avverti di tenerlo nascosto, poichè esso non si vendeva che alle sole chiese. Rimasto solo, presi ad esaminarlo, e vidi ch’era olio cavato dal sellit, una specie di grano che si coltiva nei paesi caldi del Sudan, e del quale si fa gran commercio con l’Arabia. In fondo della canna poi trovai anche un granello del seme, da cui era stato estratto (1).
12. Un giorno quel confessore mi portò alcune pagnottelle, bianche, /130/ fresche e saporite, come quelle che aveva mangiato al Monastero di S. Antonio. — È questa, disse, la mia parte di distribuzione, che si suol dare nella Messa. — Trovandole molto buone, gli diedi un sale in compenso, e gliene promisi di più per l’avvenire, se spesso me ne avesse portato: così mi assicurai il pane della colazione; poichè ogni giorno segretamente mi riservava la sua porzione. Mi raccontò poscia che quel pane veniva fatto dai diaconi con grano e farina scelta: e portato in chiesa processionalmente, il sacerdote in principio della Messa lo benediceva dicendo: Besma Ab, Ua Old, Ua Manfès Kedùs (1), ed immediatamente, al dire di quell’ignorantissimo confessore, diventava carne di Gesù Cristo. In fine poi della Messa si distribuiva come pane sacro nel Betlihèm (2) a tutti coloro che avevano servito ed assistito all’altare. Quest’uso di fare un pane particolare per la Messa e per la Comunione, e distribuirlo alle persone addette al servizio della chiesa, credo che sarà stato introdotto in Abissinia dai Copti di Egitto: ma vi notai però la differenza che i Copti lo distribuiscono in pubblico, laddove gli Abissini fanno la distribuzione e la consumazione segretamente nel Betlihèm, che è un luogo riservato, invisibile al pubblico, e più sacro del Sancta Sanctorum.
13. Volli anche interrogarlo sul rito che da quei preti tenevasi nell’amministrare il Battesimo: e da quanto mi disse, compresi che l’essenza di questo Sacramento si faceva consistere piuttosto nella benedizione dell’acqua, che nel versamento di essa sul battezzando. Poiché, per ogni Battesimo prima si benediceva con solennità l’acqua, dicendo al solito: Besma Ab, Ua Old, Uà Manfès Kedùs, e poi si versava sul neofito ripetendo le stesse parole. Deggio qui notare che in sostanza la forma canonica di questo Sacramento vi è nella loro liturgia; e nell’alta Abissinia, dove il dialetto tigreno si avvicina più alla lingua sacra, ed il clero ha un po’ più d’istruzione, la formola si pronunzia esattamente, e poco dubbio resta d’invalidità: ma nelle provincie del Sud non è così. Ivi la liturgia è abbandonata alla crassa ignoranza ed ai capricci di quello stupido clero, che a piacimento muta, pospone, toglie ed aggiunge cerimonie e parole, come se si trattasse di un affare di lieve momento, e di propria pertinenza. Nè vi ha alcuno che possa richiamarli all’esatta osservanza della liturgia; poichè, ordinati, restano in balla di loro stessi, senza nessuna vigilanza e senza dovere render conto ad alcun Superiore ecclesiastico. Laonde che sorta di Battesimo si amministri da questi ministri dell’eresia, ciascuno il può comprendere.
/131/ 14. Io conosceva già il modo che tenevasi dai Vescovi eretici nel conferire le Ordinazioni, e principalmente da quella brava stoffa di Abba Salâma; pure un giorno domandai a quel confessore, come gli fosse riuscito di ottenerla, essendo egli eunuco. In quanto al modo, confermo quello che io sapeva. — Per essere poi ordinato, soggiunse, dovetti pagare un sale pel diaconato, e quattro pel sacerdozio. Più, essendo di sangue galla, non poteva essere ammesso al sacerdozio abissino: ma con cinque sali si rimediò a tutto. Restava il difetto di eunuco: e quantunque in Abissinia questo difetto fosse riputato come una qualità nel sacerdote, pure mi ci volle un tallero per essere ammesso. —
In Abissinia è poco conosciuta, e niente curata la legge ecclesiastica, che dichiara irregolari gli eunuchi; e perciò di tali ce n’è in abbondanza fra i preti eretici. Il popolo abissino in generale, e massime quello che vive lontano dalle grandi città, quantunque non abbia un concetto esatto dell’evangelico fiore della verginità, pure professa una gran venerazione per l’uomo celibe e pel monaco, e molto più pel prete eunuco. Ed appunto per questo le principali famiglie di quel paese si avevano scelto il nostro prete per confessore, e chiunque, incontrandolo, devotamente gli baciava le mani. Ma io che potei studiare da vicino questo ed altri preti eunuchi di quei paesi, posso dire di aver trovato in essi tali difetti, che non li rendevano davvero degni di quella venerazione, che loro si prestava; onde sempre più cresceva la mia ammirazione verso la gran sapienza della Chiesa cattolica, che vuole esclusi dal ministero sacerdotale siffatti individui. L’eunuco è inetto a servire la Chiesa e dirigere le anime; perché pigro, volubile e senza propositi, e quel che più importa senza moralità.
15. Più volte quel buon uomo, conversando meco confidenzialmente, avevasi lasciato sfuggire parole, che mostravano il suo desiderio di essere dichiarato mio confessore; ed un giorno finalmente me ne pregò chiaro e tondo. — Ma io già ne ho uno, gli risposi, e non ho bisogno di altri. — Dopo questa negativa era smanioso di sapere quanto e che cosa dessi al confessore, e non valevano ragioni a persuaderlo che questo ministero fra i cattolici si esercita senza retribuzione. Sospettando inoltre che lo rifiutassi per timore di manifestare certi peccati, mi disse ch’era pronto a dispensarmi da tale accusa, e che non mi avrebbe proibito di farne degli altri anche per l’avvenire. Quanto poi al compenso si rimetteva alla mia generosità. Che zelo di salvare l’anima mia! Parrà incredibile questo racconto, od almeno esagerato, ma pure è così; ed io stesso non vi avrei creduto, se non fosse capitato proprio a me. Ed appresso vidi /132/ cose anche peggiori rispetto alla venalità ed all’avvilimento del prete eretico abissino: e talvolta dovendo in talune occasioni rimproverare per ragione del mio ministero siffatti scandali e disordini, alcuni venuti da Gerusalemme se ne giustificavano col dire che anche i Greci tenevano là una simile pratica. E dicevano il vero: poichè in Oriente la vigna piantata dal Figlio di Dio, essendosi emancipata dalla vigilante ed amorosa cultura della cattolica Chiesa, divenne selvaggia, inaridì, e quindi non potè più produrre frutti di vita eterna.
16. Ifagh in quel tempo e sotto il regno di Râs Aly era il centro di tutto il commercio dell’Abissinia. Per la sua posizione geografica, le carovane dovevano necessariamente dirigersi o passare pel suo territorio, tanto quelle del Sud-Ovest, che per la via del Goggiàm portavano le mercanzie dei Galla, quanto quelle del Sud-Est, che venivano dallo Scioa. Quelle inoltre che dalla costa di Massauah portavano le mercanzie straniere, e quelle che dalla via di Matàmma e del Sudan venivano dall’Ovest e dal Nord, facevano necessariamente stazione in Ifagh. Il suo clima sempre dolce, e la sua temperatura sempre uguale, lo rendevano il luogo più sano e più ameno di tutta l’Abissinia. Posto in un’altezza media, e ricco di acqua, i suoi terreni producevano ogni sorta di cereali; onde vi era abbondanza di grano, di bestiami e di erba, cose tutte necessarie ai viaggiatori ed alle carovane, che devono camminare con grande quantità di bestie da trasporto. La vicinanza poi del lago. Tsana, lo provvedeva abbondantemente di pesci, cotanto necessari a quei popoli per i lunghi e frequenti digiuni, cui sono obbligati. Poco lontani, si trovavano i Zellàn, un popolo che attendeva alla pastorizia, e che possedeva una quantità immensa di bestiame: e questi mandavano giornalmente in Ifagh carne, latte, formaggi e butirro per poco prezzo. Più, il Governo riguardava questo territorio come luogo immune, onde i soldati non potevano restarvi gran tempo; il che favoriva molto la sua prosperità, essendo il soldato in Abissinia la prima piaga dei paesi.
17. Per tutti questi motivi la città d’Ifagh era popolarissima; allora contava circa dieci mila abitanti, oltre un quattro mila, che andavano e venivano per ragione di commercio. In questo miscuglio di cristiani di nome, di pagani, di mussulmani, la più parte Arabi fanatici ed immoralissimi, lascio considerare che sorta di corruzione vi dovesse dominare! Era una cloaca di ogni immondezza, che appestava chiunque per avventura vi fosse capitato. Nè si trovava alcuno che valesse a dire una buona parola, o dare un buon esempio; poichè quel miserabile clero eutichiano /133/ era più corrotto del popolo medesimo. Povero Ifagh! Pochi anni dopo non esisteva più; la barbara spada di Teodoro lo aveva totalmente distrutto: e nel 1879, passando io di là, neppure vestigio potei vedere dell’antica città. Le sole chiese stavano in piedi e quasi abbandonate!
18. In questo luogo centrale di commercio non doveva mancare il traffico della carne umana, e vi si faceva spudoratamente in grande. Il Mesleniè del Nagadarâs mi diceva che più di due mila schiavi stavano registrati in dogana, ed in quei giorni parecchi di quegli sventurati si tenevano stipati in luride capanne. Volli visitare una specie di fondaco di questa mercanzia umana, e vi andai col confessore e col figlio dello Ill. Visita ad un fondaco di schiavi. || stesso Maquonèn. Entrati, trovai un largo recinto, sparso di capanne di varia grandezza, tutte sudicie, mal costrutte, e con poca paglia per terra. Il confessore ed il giovane si accostarono al padrone, e gli parlarono in segreto. Seppi poi che, per avere maggior libertà, gli dissero che io era andato con intenzione di comperarne alcuni: il che era falso. Ci fu offerto il caffè, e poscia ci mettemmo a visitare alcune di quelle capanne. Qual vita era costretta a menare in quelle luride stalle la creatura più nobile dell’opera di Dio! Gli animali si avevano migliore trattamento, e si usava loro più compassione! Finalmente mi condussero in una capanna, in cui vi stavano rintanate sei o sette giovani schiave, che al nostro apparire si /134/ rannicchiarono in un canto, guardandoci stralunate. I miei compagni, come se fossero due mezzani, le cominciarono ad osservare ad una ad una con tanta libertà e spudoratezza, che non potei tenermi dal mostrar loro il mio disgusto; e lasciandoli soli colà, me ne uscii tosto, e mi allontanai col cuore lacerato per la sventura di quei miei fratelli e sorelle, ed anche stomacato del fare punto onesto ed umano di quei due, che mi tenevano compagnia. Il confessore mi raccontò poscia tante cose rispetto a quelle povere disgraziate; e fra le altre che gl’immondi ed ingordi mercanti fanno un doppio negozio di quelle misere creature, che hanno la sventura di capitare nelle loro mani. O luce del Vangelo quando illuminerai tante barbare regioni, e porterai in mezzo a quei popoli la libertà di Gesù Cristo?
19. Restando in Ifagh, aveva un gran timore di essere riconosciuto, molto più che varie ragguardevoli persone indigene e forestiere venivano continuamente a visitarmi, quantunque cercassi di schivare ogni amicizia e corrispondenza con chicchessia. Ad evitare pertanto questo pericolo, che mi avrebbe esposto a nuovi e maggiori guai, risolsi di ritirarmi presso i Zellàn, dove sarei stato più sicuro, ed avrei potuto fare una cura di latte fresco, di cui sentiva gran bisogno. Intesomi col signor Maquonèn, e senza neppur parlarne al confessore, un giorno insieme con suo figlio me ne partii, portando meco il solo breviario, un po’ di carta ed il calamajo. Le abitazioni dei Zellàn erano distanti circa tre ore di cammino, ed arrivati, il giovane mi condusse in casa di un ricco pastore amico di suo padre; dal quale fummo accolti affettuosamente, e trattati subito con un vaso di latte fresco. Tosto mi apparecchiarono una capanna, abbastanza comoda per me; ed il giorno dopo il giovane se ne ritornò in Ifagh, promettendomi di venire a rivedermi.
20. Una sessantina di persone tra padroni e schiavi componevano quella famiglia, divise nelle varie mandre, in cui tenevano e pascolavano le diverse specie di animali. Di giorno non restavano in casa che la madre ed i figli di minore età, recandosi gli altri alla guardia del bestiame, ed ai servizj della campagna; e la sera si riunivano insieme sotto il medesimo tetto alla cena ed alla conversazione. Parlavano un dialetto proprio, ma conoscendo anche la lingua amarica, poteva prender parte anch’io ai loro discorsi. Il cibo ordinario era il latte, quando sciolto quando coagulato, e qualche poco di carne; più, pane di tièf, (della specie del miglio) il quale, inzuppato nel latte, era molto buono e gustoso. Inoltre aggiungendo ad un cibo si semplice qualche tazza di caffè senza zucchero, che avea portato meco, me ne stava là contento e tranquillo. Questa famiglia sola /135/ possedeva circa due mila bestie bovine, oltre le pecore e le capre: eppure con tante ricchezze vedevate in quella casa tale ordine e semplicità, che sembrava una di quelle famiglie patriarcali, che leggiamo descritte nella divina Scrittura. Sembrerà incredibile, ma è pur vero, che la maggior parte di essi non erano mai stati ad Ifagh. Il padre e la madre mi dicevano che per tutto l’oro del mondo non avrebbero mandati i loro figli in città, dove immancabilmente sarebbero stati viziati e guastati da quella gente. Talmenteché, tranne i pochi servi addetti a portarvi ogni mattina il latte, il butirro e la carne, nessuno si accostava mai alla città.
21. In quanto a religione potevano chiamarsi piuttosto pagani che cristiani. Non ricevevano il Battesimo; ma conoscevano i fatti principali della Bibbia, e principalmente dell’Antico Testamento, ed avevano anche cognizione delle feste cristiane, senza però comprenderne il mistero. Tutte queste cose le avevano apprese dai popoli cristiani, vicino ai quali dimoravano, e con cui erano continuamente in commercio. Trattando anche con i mussulmani, si erano pure introdotte presso di loro alcune pratiche maomettane; sicchè la loro religione era un misto di paganesimo, di cristianesimo e d’islamismo. I costumi in generale corrispondevano alla semplicità della loro vita; e di fatto la legge del matrimonio, fonte della prosperità delle famiglie, era fedelmente e costantemente osservata, tanto dal padrone, quanto dai servi: ed appena si acquistava un nuovo schiavo o schiava, subito si dava loro una compagna od un compagno, che solo la morte poteva dividere. Vi era del guasto nella gioventù, proveniente piuttosto da ignoranza che da malizia, e dal non avere una voce paterna ed autorevole, che insegnasse loro sin dai teneri anni dove fosse il bene e dove il male. I cattivi esempj poi e la coabitazione promiscua di giorno e di notte nelle medesime capanne erano in gran parte la causa della perdita della loro innocenza; poichè in queste occasioni, apprendevano senz’accorgersene certe umane malizie, che svegliano innanzi tempo le naturali passioni. Nè i genitori usavano quella diligenza, e mostravano quella severità rispetto all’onestà dei giovani, che veggiamo fra noi, e che la legge naturale a tutti comanda. Nella loro ignoranza e forse semplicità credevano che certe miserie si potessero permettere alla gioventù, come puerili passatempi; e perciò non che custodirli e riprenderli, piuttosto li favorivano e vi prendevano sollazzo. Era questo tutto il male, che ebbi a notare fra quella gente.
[Nota a pag. 124]
(1) Ato significa signore. [Torna al testo ↑]
[Nota a pag. 125]
(1) Ogni paese, quantunque povero e barbaro, ha il suo lusso, e l’Abissinia lo cerca in quelle misere vesti, nelle cavalcature, nel numero dei servi, ed in altre piccolezze, ridicole per un Europeo, ma di gran conto per quei popoli. [Torna al testo ↑]
[Nota a pag. 129]
(1) Questo seme oleoso, comune nel Sudan e nel Sennàar, è anche conosciuto in Abissinia, ma se ne ignora la maniera di estrarne l’olio. Le carovane di Gadàref che discendono alla costa lo portano a Suakim, e di là passa in Arabia ed in Egitto. Gli Arabi lo mangiano arrostito con molto gusto, e dell’olio si servono per condimento, e per i lumi. A Massauah è l’unica qualità di olio che si trovi in mercato. [Torna al testo ↑]
[Note a pag. 130]
(1) Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. [Torna al testo ↑]
(2) Casa del pane. [Torna al testo ↑]