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Capo XV.
Entrata nel campo del mio apostolato.
1. Partenza da Zemiè. — 2. Passaggio del fiume; mia trasformazione, Te Deum, stupore di tutti. — 5. Arrivo alla casa di Workie; apparecchi per la Messa. — 4. Prima Messa nei paesi galla. — 5. Ad Asàndabo; ricevimento galla. — 6. La questione di Abba Fèssah. — 7. Mi risolvo di ordinarlo. — 8. Pratiche religiose ed apostolato — 9. La nuova casa della Missione — 10. Arrivo di Workie-Iasu; feste ed augurj. — 11. Un’infausta notizia ed un nemico della Missione. — 12. I due fratelli, Kiggi e Gama-Moràs. — 13. Il matrimonio religioso e gli effetti civili fra i Galla. — 14. Antenati e figli di Gama-Moràs. — 15. Regno-di Gama-Moràs e di suo figlio. — 16. Il Torba Gudrù. — 17. Arrivo di Abba Saha. — 18. Al pranzo di Abba Saha; onori e sgradite carezze.
Partito il signor Bell, pensai di accelerare anch’io la partenza pel Gudrù, a fin di mettermi in sicuro da ogni velleità di Râs Aly; quantunque in quei giorni egli avesse ben altro da pensare che a me. Insistendo continuamente presso Workie-Iasu, finalmente giunse giorno tanto sospirato di volare verso la terra del mio apostolato. Era il 21 Novembre del 1852, festa della Presentazione di Maria Santissima al Tempio, e secondo il calendario abissino il 12 Eddàr, festa di S. Michele. La nostra carovana contava dieci persone, oltre gl’indigeni, che ci accomagnavano; cioè, io ed Abba Fèssah, Berrù e Morka, i cinque giovani neofiti condotti dal Beghemedèr, ed una vecchia donna, addetta al servizio della farina e del pane (1). Eravamo provvisti abbon- /190/ dantemente di ogni cosa, poichè Workie si era mostrato generoso, ed il P. Cesare da Basso-Jebunna ci aveva mandato il necessario. Si partì di buon mattino, e verso le dieci eravamo già presso la sponda del fiume; dove il giovane Zàllaca aspettava per tragittarlo con noi.
2. Scaricate le bestie, ci accingemmo a passare il fiume, ma le acque essendo ancora alte, fu necessario tragittarlo a nuoto. Io non sapendo nuotare, mi legarono sotto la pancia un otre gonfio, ed avendo ai fianchi Zàllaca ed un altro bravo nuotatore, lo passai felicemente. Segui appresso Abba Fèssah, poscia Morka, Berrù, ed il resto della famiglia con i servi ed il bagaglio. Giunti all’altra sponda baciai quella terra, e spogliatomi delle vesti che indossava, presi quelle di monaco abissino. Indi accompagnato da Fèssah, da Berrù e da Morka intonai il Te Deum in rendimento di grazie al Signore, che dopo circa sei anni di lunghi viaggi e di penosi tentativi, mi dava finalmente la consolazione di toccare la terra, che la Provvidenza avevami destinata, per portarvi la luce del Vangelo, e farvi conoscere ed amare nostro Signore Gesù Cristo. Immagini il lettore lo stupore di quei giovani e servi nel vedere quella mia improvvisa ed inaspettata trasformazione: e quanto dovettero restare meravigliati nel trovarsi con un prete cattolico, anzi con un Vescovo, mentre credevano di aver seguito un mercante! Tuttavia se prima eransi affidati a me, e con gioja ed affetto, perchè mi riputavano un forestiero di onesti e cristiani sentimenti, venuti a conoscenza poi della mia sacra condizione, la loro contentezza si accrebbe smisuratamente; onde tutti insieme si dichiararono felici di seguirmi dovunque volessi, e restare sempre come membri della mia casa e del mio ministero.
3. Licenziati gli uomini che ci avevano accompagnati ed assistiti nel passaggio del fiume, ripigliammo il cammino. Avevamo di fronte una salita abbastanza lunga per arrivare al primo altipiano di quella parte del Gudrù; tuttavia, messici a camminare allegramente, in poche ore fummo lassù: e sentendoci stanchi ed anche deboli, riposammo un poco, e poscia proseguendo il viaggio, dopo altre tre ore di cammino si giunse alla casa di Workie-Iasu. Era mia intenzione di fermarci in quel luogo almeno un giorno, per celebrare la santa Messa, di cui sentiva tanto bisogno, e così confortare lo spirito di tutti quei miei buoni allievi. E di fatto, appena arrivati, Morka e gli altri giovani furono in moto per aggiustare all’uopo /191/ una capanna: e mentre col corpo apparecchiavano come Marta le cose necessarie alla funzione, attendevano con lo spirito come Maria a disporre i loro cuori. Poscia vollero tutti confessarsi, sperando di essere ammessi alla santa Comunione: ma se con tutta convenienza poteva appagare il desiderio dei due antichi proseliti Berrù e Morka, non erami in verun modo permesso di contentare i nuovi neofiti: poichè essi non solo non erano stati ancora ricevuti formalmente nel grembo della Chiesa, ma vi era pure per loro la questione della validità del Battesimo, amministrato dai preti eretici. Questione che per tanti motivi e da più tempo mi teneva in pensiero, e della quale faceva d’uopo attendere una decisione da Roma. Perciò risolvetti di comunicare i primi due, e lasciare gli altri nel loro pio desiderio.
4. La mattina adunque, apprestata ogni cosa, celebrai la santa Messa con tutta la solennità possibile in quei luoghi ed in quelle circostanze, assistendo in cotta il solo Abba Fèssah. A mezza Messa Berrù, Morka ed Abba Fèssah si comunicarono, e gli altri cinque n’ebbero tanta pena nel restarne privi, che stavano lì li per iscoppiare in pianto. Allora per incoraggirli e lenire in parte il loro dispiacere, tenni un’allocuzione: dicendo che Gesù Cristo volentieri sarebbe entrato nel loro cuore; ma voleva che fosse meglio disposto, e adorno di grazie e di virtù. — Egli, soggiunsi, da tutta l’eternità sospira e desidera di unirsi con voi; che meraviglia adunque se anche voi aspettiate e desideriate ancora per qualche giorno questa felice unione? Esercitatevi perciò giornalmente in questo santo desiderio, poichè esso è accetto grandemente a Dio, e servirà a rendervi più degni delle sue sante carni e del suo preziosissimo sangue. — Così fini quella funzione, quanto semplice, altrettanto commovente, celebrata per la prima volta in terra barbara e pagana.
5. Il giorno appresso rimessici in viaggio, dopo poche ore si giunse al vasto altipiano del Gudrù, e ci avviammo ad Asàndabo, dove ci era stata apparecchiata una casa da Gama-Moràs. Fummo ricevuti con grandi dimostrazioni di affetto, e trattati con ogni riguardo. In Abissinia, arrivando in qualche paese forestieri ragguardevoli, si stende per terra una pelle nell’interno delle capanne, su cui s’invitano a sedere: ma fra i Galla si offre loro una sedia, semplice si, ma solida e comoda, e si ricevono quasi sempre all’aperto; poichè in casa non si entra che per mangiare e dormire. Ai padroni viene subito offerto idromele, ed ai servi e compagni birra. Le donne in queste occasioni raramente escono fuori, ma attendono a fare i loro complimenti quando i forestieri entrano in casa per mangiare. /192/ Dopo breve conversazione vengono introdotti nelle capanne loro destinate, e tosto si preparano i letti e si ammannisce il pranzo.
La capanna principale, che ad Asàndabo ci venne assegnata, era abbastanza grande, ma non tanto spaziosa per contenere tutta la famiglia, e darci il comodo di alzarvi una cappella: onde si dovette dividere con cortine, poichè di un piccolo oratorio avevamo assolutamente bisogno. Per alcuni giorni Gama-Moràs ci mandò pranzo e cena, e ci provvide di ogni cosa necessaria: ma poi presa conoscenza del villaggio e delle persone, pensammo a tutto da noi.
6. La guerra era già cominciata, ed i movimenti delle truppe minacciando di chiudere tutte le strade, bisognava pensare al ritorno di Abba Fèssah alla sua Missione. Il signor Biancheri nella sua lettera mi pregava solamente di metterlo in regola, convalidando l’Ordinazione conferitagli per saltum dal Vescovo Salâma; a mio avviso dunque la questione era più imbrogliata di quanto credesse il signor Biancheri. Prima di tutto era necessario pensare al Battesimo, che, da quanto io aveva veduto e sentito, doveva ritenersi come invalido. Posto ciò, avrei quindi dovuto cominciare dal Battesimo, venire poscia alla Confermazione, e finalmente agli Ordini Sacri. Rispetto al Battesimo, dato dai preti abissini, i miei dubbj erano sì fondati, che qualche anno dopo mi vidi fatta ragione dalla stessa Santa Sede, la quale ordinò di ribattezzare quegli eretici sub conditione. Quanto all’Ordinazione poi ricevuta dal Vescovo eretico, ci erano motivi più gravi d’invalidità. Lasciando da parte la questione dell’Ordinazione sacerdotale senza farla precedere dal conferimento degli altri Ordini inferiori; basti conoscere il modo con cui quest’Ordinazione venne data, per giudicarla di nessun valore. Ecco come lo stesso Abba Fèssah mei raccontava. — Un giorno Salàma, senz’alcun apparecchio e disposizione, mi volle fare prete; e chiamato il suo assistente, gli fe’ prendere il pontificale copto per leggervi la corrispondente liturgia. L’assistente, che forse se ne intendeva meno di me, sfogliava il libro e non la trovava. Allora Salâma adirato: « Che cosa cerchi, gridò; prendi anche la liturgia del matrimonio, che tutto è buono! » Ciò detto, aprì il libro, e su quelle pagine che a caso vennero sott’occhio, mormorò poche parole, e mi conferì l’Ordinazione. — Sembrerà un fatto incredibile; ma io, conoscendo l’indole e lo zelo di quella gioja di Vescovo, posso far fede della veridicità del racconto. Or lascio giudicare al mio lettore che sorta di Ordinazione fosse stata quella.
Due altri motivi mi tenevano ancora in perplessità, cioè, la condotta del Vescovo e quella dell’Ordinato. Salâma era un incredulo, ed egli /193/ stesso se ne dava vanto: ma pure, lasciando da parte questa sua particolare e punto invidiabile qualità, è certo che, entrato da giovane nella setta dei protestanti, ricevette educazione, istruzione e fede protestante, e che poscia senza fare alcun’abiura, venne eletto e consacrato Vescovo dal Patriarca copto, per mezzo di tutte quelle simonie e birbonate, che ho già raccontato. Or che sorta di Vescovo dovesse essere costui il lascio a chiunque giudicare! Quanto ad Abba Fèssah non poteva non essere che un degno allievo di un tanto maestro! Passata la sua gioventù in casa di Salâma, come suo paggio (e si sa che voglia dire paggio in quei paesi!), educato da lui, istruito da lui, formato sul suo esempio, sarebbe assurdo credere Ill. Te Deum. || che fosse venuto su un angelo di costumi e di fede; ed in verità non mi pareva stoffa da sacerdote (1). Io adunque avrei voluto soprassedere qualche tempo, almeno per provarlo ed averne segni un po’ certi di vocazione; ma ostando tante difficoltà e pericoli, e pur dovendo prendece una risoluzione, mi rimisi al giudizio ed alla coscienza del signor Biancheri.
7. Egli nella lettera mi diceva di dargli solamente il diaconato, e secondo /194/ il rito orientale ciò poteva passare; poichè in molte conferenze tenute in Egitto con Monsignor Teodoro Abukarim, si era parlato fra le altre cose di questa pratica tenuta in Oriente, di dare, cioè, il diaconato senza gli Ordini precedenti, contenendosi in esso le forme essenziali degli altri Ordini inferiori. Ma le facoltà, che io aveva ricevute da Roma, avendomi imposto di ordinare gli Etiopici in rito latino, con la condizione però di restare ciascuno nel rito etiopico; ed il rito latino non permettendo di dare il diaconato senza gli Ordini precedenti, era necessario che, per seguire il consiglio del signor Biancheri, cominciassi necessariamente dalla tonsura. Quindi per mettermi in sicuro mi feci da capo, e gli amministrai il Battesimo e la Cresima sub conditione, poscia gli conferii i sei Ordini con forma assoluta, poichè non li aveva ricevuti, e finalmente il sacerdozio sub conditione. Scioltomi da quest’impiccio, lo feci partire immediatamente, dandogli una lettera pel signor Biancheri, in cui, senza entrare nei particolari della questione, gli diceva di avere rettificato l’Ordinazione del suo inviato, in quel modo che la prudenza mi aveva suggerito di fare.
8. Appena giunti in Gudrù, ed assestata alla meglio quella casa, diedi opera all’apostolato, prima rispetto a coloro che formavano la mia famiglia, e poscia pel gregge, che il Signore ci aveva affidato. Già mi era provveduto di un piccolo manuale contenente, tradotte in lingua galla, le preghiere del mattino e della sera, ed un conciso catechismo sull’Unità e Trinità di Dio, sull’Incarnazione del Verbo, sul Decalogo, sui Sacramenti, ed altri punti principali della fede, sufficienti per disporre un neofìto al Battesimo. Questo manuale si doveva recitare in famiglia mattina e sera immancabilmente; e quando io poteva, non lasciava di spiegarne il significato, e tenere opportune conferenze. Oltre ai miei familiari, intervenivano pure a queste pratiche religiose alcuni della casa di Gama-Moràs e delle famiglie vicine: a mano a mano poi che la Missione si stabiliva e si allargava, l’insegnamento religioso si dava con una maggiore ampiezza, e più volte al giorno; nè era lecito esimersene, poichè questa pratica diventò ben presto un punto di disciplina inviolabile, non solo per tutte le case della Missione, ma per ciascun Missionario, anche se si fosse trovato in viaggio con uno o più compagni e servi. Oltre a questo stabilii che in casa un allievo la facesse da catechista, e fosse sempre pronto a ricevere ed accogliere qualunque indigeno o forestiero, che si presentasse; e dopo avergli usato tutti quegli atti di carità, che la religione e la civiltà comandano, aveva l’obbligo di trattenerlo su qualche punto del catechismo, a fin di esercitare l’apostolato verso il popolo, che il Signore ci aveva /195/ mandati ad evangelizzare. A quest’ufficio, dal quale mi prometteva molto bene, erano destinati i giovani indigeni per turno, non appena acquistassero una sufficiente istruzione.
9. Gama-Moràs, come ho detto, ci aveva dato una capanna grande per abitazione comune, dove già avevamo aggiustato la cappella; una più piccola per la cucina e per alloggiarvi la donna che ci doveva fare il pane; ed in fine, un’altra per dormirvi i giovani. Ma tutte e tre non essendo sufficienti ai tanti nostri bisogni, il buon Gama-Moràs, senza che nemmeno il pregassimo, ci assegnò un pezzo di terreno, non molto lungi dal villaggio, per inalzarvi casa, cappella, officine, tutto ciò insomma che per una Missione numerosa sarebbe stato necessario. Ci mettemmo tosto all’opra, e dato a Berrù e Morka la commissione di comprare i materiali, e di cercare persone che ajutassero al lavoro, in pochi giorni fu trovato tutto; onde i giovani della casa ed alcuni indigeni a noi vicini si prestarono con tanto zelo ed affetto, che in breve, essendo i materiali al posto, furono cominciate le costruzioni; ed ajutati da Gama-Moràs, si lavorò con tanto genio e premura, che pel Natale potemmo celebrare Messa nella nuova cappella, ed in Gennajo recarci tutti ad abitare la nostra nuova e comoda casa.
10. Otto giorni dopo il nostro arrivo in Asàndabo, giunse Workie-Iasu. Quel buon Fitoràri sentendo dagli uomini, che ci avevano accompagnato ed ajutato a passare il fiume, che il signor Bartorelli aveva cambiato il tarbùsc (1) di mercante nel cuov (2) di monaco, e che non era punto un medico, ma un Vescovo romano, anzi il perseguitato Abûna Messias, ne fu così meravigliato, che non voleva prestarvi fede, nè sapeva darsi pace. Risolvette pertanto di venir presto a trovarmi, per vedere con i proprj occhi come stessero le cose, congratularsi meco e raccomandarmi ai suoi amici del Gudrù. Di fatto dopo otto giorni cel vedemmo comparire; e poichè non solamente era conosciuto da tutti, ma stimato e rispettato come un parente delle prime famiglie del Gudrù, fu ricevuto con grandi feste e dimostrazioni d’onore. In quest’occasione Gama-Moràs volle dare un gran pranzo, invitando le persone più ragguardevoli dei paese, sia per onorare il principe di Zemiè, sia ancora per far meglio conoscere l’Abûna romano: e riuscito quel pranzo numeroso e solenne, in fine Workie si alzò, ed alla presenza di quella illustre comitiva cominciò a dire le mie lodi. Prese a raccontare minutamente la mia vita tenuta a Zemiè, con /196/ concetti ed aneddoti si bizzarri e poetici, che sembrava recitasse un romanzo; si congratulò poscia dell’acquisto prezioso che aveva fatto il Gudrù, e finì con una serie di augurj e di predizioni favorevoli alla Missione, che, a dire il vero, mi consolarono grandemente. In quell’occasione tanto era l’entusiasmo suscitato dalle parole di Workie-Iasu, che la Missione del Gudrù parve tutta inghirlandata di rose; ma sgraziatamente non vi sono rose senza spine.
11. Mentre di fatto eravamo tutti con l’animo ricolmo delle più belle speranze, una notizia venne a turbare la nostra allegria. Un corriere, venuto dal Goggiàm, richiamava con sollecitudine Workie-Iasu a Zemiè, perché gravi avvenimenti politici, accaduti nelle provincie centrali, stavano per mutare le sorti dell’Abissinia. Il corriere diceva inoltre che Degiace Gosciò, uno dei più valorosi generali di Râs Aly, e protettore di Workie-Iasu, mandato a combattere con l’esercito del Râs contro Degiace Kassà, era stato ucciso, e l’esercito fatto prigioniero. Le conseguenze di questa sconfitta si vedranno appresso.
Un secondo fatto che cominciò a farmi sentire le punture delle spine, venne da un fratello adottivo di Gama-Moràs, chiamato Kiggi. Questi non la pensava come il fratello rispetto a noi; messosi in sospetto sia dal nostro arrivo in quelle parti, ci guardò sempre di mal occhio, e ad ogni occasione non lasciava di manifestare che nell’animo suo nutriva rancori verso la Missione. Il giorno della festa pertanto, non solo non volle prender parte a tutte quelle dimostrazioni di affetto verso di noi: ma, per farci un contrapposto, imbandì anch’egli un pranzo, al quale invitò tutti i mussulmani del paese.
12. Per ben conoscere questo nostro avversario, voglio prima raccontare il fatto della sua adozione. Moràs-Occotè, padre di Gama, dopo più anni di matrimonio con una certa Dunghi, non avendo generato figli, per lasciare un successore ed un erede si era risolto di adottare il figlio di un suo vicino, appartenente a famiglia antica e nobile, ma decaduta, del Gudrù, della schiatta dei Borèna. A questo figlio adottivo era stato posto il nome di Kiggi. L’adozione fra i Galla è molto in uso per le successioni, delle famiglie, ed è sempre rispettata tanto dalle leggi quanto dal popolo. Però gli adottati non restano eredi universali se non nel caso in cui il padre venga a morire senza avere generato, dopo l’adozione, altri figli legittimi: che s’egli lasci qualche figlio naturale e legittimo, l’eredità passa a questo, ed agli adottati non resta che quell’appannaggio loro assegnato nell’atto di adozione. Ora avvenne che Dunghi, moglie di /197/ Moràs-Occotè, perduta la speranza di aver figli naturali con quel marito, finse una fuga ad altro paese nemico, dove, vivendo due anni con altro uomo, e venuta incinta, ritornò al proprio paese; dove, interponendosi varie ragguardevoli persone, fece la pace con suo marito Moràs-Occotè, e rientrò in casa. Dopo alcuni mesi nacque Gama, il quale, secondo la legge galla, che esporrò più sotto, divenne il figlio legittimo di Moràs-Occotè, e quindi l’erede universale del patrimonio paterno. Kiggi pertanto restò nella sua condizione di figlio adottivo, senz’alcun dritto all’eredità, tranne l’assegno ricevuto nell’adozione. Da quanto ho detto, si può giudicar probabile che l’avversione di Kiggi alla Missione abbia avuto origine Ill. Al pranzo di Abba Saha. || piuttosto da rancori contro il fratello, che da un animo ostile verso di noi; talmentechè, non potendo altrimenti vendicarsi dell’eredità e primogenitura perduta, si contentava di fare il contrario di ciò, che dal fratello venisse operato. Di fatto alcuni giorni dopo, Garna-Moràs avendo radunato il Torba Gudrù (le sette case del Gudrù), per dichiarare con atto pubblico sotto la sua protezione la Missione cattolica; Kiggi a sua volta, radunate alcune di quelle sette case, dichiarò pure sotto la sua protezione i mussulmani. Come è chiaro con quest’atto venne a palesarsi indirettamente nostro nemico, e tale si mostrò sino alla morte.
13. Ho detto che Gama, benchè generato illegittimamente, divenne /198/ figlio legittimo di Moràs-Occotè, ed erede del suo patrimonio. Per comprendere questo fatto fa d’uopo conoscere il valore, che si dà fra i Galla al matrimonio religioso. Unitasi una donna in matrimonio col rito religioso, detto racco, i figli che nascono da essa, anche illegittimamente, sono riputati come figli del marito legittimo; e ciò non solamente mentr’egli è in vita, ma anche dopo la sua morte; purché però la donna non si unisca con altro racco, ossia con nuovo matrimonio religioso ad altr’uomo. Sembra veramente una legge strana: ma pure mostra come l’unione religiosa sia riputata da quei popoli di un ordine assai superiore all’unione carnale delle persone. Ed il codice tradizionale galla è sì geloso custode di questa legge, ed il popolo talmente la rispetta, che si vincono con facilità i risentimenti della natura, e si obliano, almeno apparentemente, le inimicizie che ne possano nascere. Occorrerà parlare altrove di questo racco, e del rito con cui si amministra; per ora basti il detto, per ispiegare la legittimità del figlio Gama.
14. La stirpe di Gama non poteva chiamarsi veramente galla; poichè egli, come si è detto, era figlio di Moràs, questi figlio di Occolè, ed il padre di Occotè era proveniente da una famiglia del Goggiàm di razza cristiana. Ma stabilitosi in Gudrù, e sposatosi a donna galla, poteva dirsi di avere ormai acquistata la naturalità (1).Gama-Moràs inoltre aveva molti figli, generatigli da schiave, ed uno dalla vera moglie, chiamato Gosciò, il quale, affezionatosi alla Missione, passava quasi tutta la giornata con noi, trattenendosi principalmente col buon giovane Zàllaca. Un altro figlio di nome Kuma, e già grandicello, frequentava pure il catechismo, e ci dava molto da sperare: esso però, quantunque figlio di Gama, non era tenuto come legittimo, ma come figlio naturale, perchè nato da una schiava, non unita al marito col racco; che se questa religiosa unione poscia fosse avvenuta, egli avrebbe acquistato immediatamente la legittimità, e lasciata la condizione di schiavo. Gosciò adunque era il vero erede, e su di lui erano rivolti gli occhi e le speranze del Gudrù, principalmente perchè la madre apparteneva a nobile famiglia galla della razza Borèna.
15. La famiglia di Gama-Moràs, diventata ricca e potente in Gudrù mercè la protezione di un antico Borèna, che da principio l’aveva adottata, /199/ dopo la morte di questo, non solo era rimasta erede delle sue ricchezze, ma anche del governo di quella provincia, di cui Asàndabo era capoluogo. Tuttavia, riputata quella famiglia di origine forestiera, non si soffriva di buon animo il suo governo, e molte contrarietà le venivano mosse, segnatamente dai nobili indigeni: onde la sua autorità e potere si stendevano più o meno limitatamente in quelle parti sino a quando prese in mano le redini del governo Gama-Moràs. Questi poi, dopo che ricevette e favori la Missione cattolica, sembrò che venisse benedetto e prosperato da Dio; poichè il suo potere politico si accrebbe talmente, che nel 1856 il Torba Gudrù si sottomise tutto al suo governo, lasciando che regnasse solo e pacificamente per molti anni. Gama però verso il 1862 cominciò a venir meno ai suoi giuramenti, e si rese un po’ ingrato verso la Missione; e forse per questo il Signore permise che gli si ribellasse una parte del Gudrù. Allora, rientrato in sè stesso, mandò un corriere a Lagàmara, dove io dimorava, pregandomi di recarmi tosto da lui, poichè ne aveva gran bisogno. Lo contentai, e quando ci trovammo faccia a faccia fu preso da tale rimorso della sua condotta, che non ardiva alzare gli occhi. Naturalmente lo rimproverai dei giuramenti traditi, e gli feci conoscere come il Signore per la sua infedeltà cominciava a dargli tribolazioni ed amarezze. Mostrandosi pentito, ci rappacificammo, e fatta poscia la pace anche con i ribelli, seguitò a regnare tranquillamente sino al 1863, anno in cui avvenne la sua morte. Gli successe il figlio Gosciò, non tanto buono verso la Missione quanto il padre, e regnò sino al 1870, in cui morì di vajuolo senza lasciare eredi. Allora Givàt, uno dei discendenti di colui che aveva adottato quella famiglia, mostrò i suoi diritti al regno, e mercè la protezione del Goggiàm, si ebbe il dominio lasciato da Gosciò-Gama.
16. Ho parlato e dovrò parlare altre volte di questo Torba Gudrù, credo pertanto conveniente spiegarne l’origine ed il significato. Il nome di Gudrù, dato a quella regione galla, le venne da un certo Gudrù, che la conquistò, cacciandone la razza amara o cristiana, che la possedeva prima e dopo la catastrofe dell’arabo Gragne, ucciso in Carròda dai Portoghesi. Questo Gudrù aveva sette figli, e da essi nacquero le sette case principali, o meglio le sette divisioni presenti di quel paese. Ora, l’unione di queste sette case vien chiamata Torba Gudrù. Esso ha un’autorità grandissima, e qualunque atto pubblico, che si voglia fare nel paese, per esser valido, fa d’uopo che vi assista un rappresentante di ciascuna di queste sette case, talmenteché, mancandone anche uno, è stimato di nessun valore.
17. Ritornando alla nostra storia, circa un mese dopo della mia perma- /200/ nenza in Gudrù, giunse ad Asàndabo Abba Saha, quel famoso ammalato di rospi, che guarii a forza di emetico. In Zemiè sembrava una persona di poca importanza; ma pure apparteneva alla prima aristocrazia del Gudrù, ed era tenuto da tutti in grande stima ed onore. Appena si sparse la notizia del suo arrivo, accorsero ad Asàndabo migliaja di persone per riceverlo e fargli festa; e veramente fu accolto con grandi dimostrazioni di gioja da ogni classe di persone. Non avendomi veduto fra la comitiva che andò ad incontrarlo, appena potè staccarsi da quel popolo, venne difilato a trovarmi; ed abbracciatomi, non sapeva, per la gioja che provava, come esprimersi e manifestarmi la sua gratitudine. E poi, parlando con tutti i suoi amici, e raccontando i benefizj da me ricevuti, diceva che, dopo Dio, doveva a me la sua vita, onde esortava tutti a rispettarmi e tenermi come un prezioso regalo fatto da Dio al Gudrù. Abba Saha era fratello di Dunghi, madre di Gama-Moràs, e contava circa quarant’anni, età presso a poco eguale a quella di Gama-Moràs, laddove sua sorella Dunghi ne aveva sessantacinque. Nei paesi, dov’è in uso la poligamia, si veggono molto sovente queste differenze di età tra fratelli e sorelle: di fatto un giorno, entrato in una casa galla, trovai un vecchio con la barba bianca che teneva in braccio un bambino di circa due anni; lì per lì credeva che fosse suo figlio, ma restai grandemente meravigliato quando mi disse che gli era zio.
18. Dunghi, per l’allegrezza dell’arrivo del fratello, volle dare un gran pranzo, a cui insieme con me furono invitati i principali personaggi del paese. Stancherei i miei lettori se volessi riferire gli onori ed i complimenti che in quell’occasione mi furono prodigati: basti il dire che Abba Saha rappresentava lo sposo, ed io la sposa del pranzo. Quindi le prime e particolari carezze erano per me, e che carezze! Fra le altre cose mi toccava ingollare certe pallottole di pane e carne, che lì per lì Abba Saha e Dunghi facevano con quelle loro manine, che avrebbero avuto bisogno di un buon bucato per dirsi almeno nette, se non pulite. Oltre a ciò, tanto l’uno quanto l’altra erano in costume di etichetta galla, cioè con i capelli sciolti e tutti spalmati di burro, il quale se all’aria aperta si mantiene denso, dentro le abitazioni, per causa del calore ivi concentrato, si scioglie e cala giù gocciando; e quello del mio sposo e della cara sorella gocciava giù sudiciamente sulle vesti, sulle vivande e su quelle squisitissime pallottole. Nè basta, il mio carissimo sposo e la sua pulitissima sorella, manipolando quelle pallottole, non lasciavano di ficcare a quando a quando le dita fra i capelli per grattarsi il capo; e poscia, come se nulla fosse, ripigliavano /201/ il mestiere e venivano ad imboccarmi. Per queste dimostrazioni d’affetto tutti i commensali grandemente godevano, ed ogni volta che mi toccava ricevere quelle carezze, scoppiavano applausi da tutte le parti: ma in quanto a me confesso candidamente che se vi sia stato giorno nella mia vita, in cui abbia dovuto mettere in pratica lo spirito di mortificazione e di abnegazione, appreso fra i Cappuccini, fu appunto quello, che mi procurò l’onore di un pranzo come sposa di Abba Saha! Ma pure il povero Missionario, dopo aver lasciate le agiatezze, le comodità ed il lieto soggiorno del suo paese nativo, per seguire la divina voce, che lo chiamava ad una vita di patimenti e di abnegazione, è necessario che sia apparecchiato a tutte quelle contrarietà e mortificazioni, che possa incontrare nell’apostolato. Giunto poi in mezzo a popoli barbari e di costumi strani, e totalmente differenti dei suoi, non isperi di cattivarsi la loro confidenza e familiarità col mostrarsi singolare, o disprezzando e schifando quegli atti e costumanze, che formano la loro vita domestica e civile. Finalmente se, contento dei sudori sparsi e dei frutti ricavati, spinge lo sguardo pieno di speranza all’acquisto di un maggior bene, avvenire, fa d’uopo che talvolta si rassegni e si adatti a certi nauseanti usi, con i quali quei popoli credono di fare un grande onore; e si badi che, se tali onori venissero rifiutati, quella gente si terrebbe offesa e l’avrebbe a male.
Ma se almeno la faccenda fosse finita li, sarebbe stato niente; poichè in conclusione, o per amore o per forza, le pallottole erano state ingojate, e la ripugnanza vinta: ma a nuovi disgusti sembrava che dovessi tenermi pronto; poichè la famiglia, mentre mangiavasi, andava dicendo che, per soddisfare in parte al debito della sua riconoscenza verso di me, conveniva fare un convito più sontuoso e solenne. E di fatto, prima di levar le mense, Abba Saha si alzò, e con voce gentile, e per me punto piacevole, promise dinanzi a tutti d’imbandire un altro pranzo con l’intervento del Torba Gudrù; il che voleva dire che avrei dovuto apparecchiarmi ad ingojare altre pillole: ed io, sperando che ciò riuscisse a maggior vantaggio della Missione, mi armai di pazienza, ed aspettai rassegnato quegli sgraditi onori e quelle nauseanti carezze.
[Nota a pag. 189]
(1) Questo servizio vien fatto sempre dalle donne, e quindi è necessario tenerne almeno una in casa. Esse giornalmente macinano il grano ed impastano e cociono il pane. La macinatura si fa maneggiando /190/ su e giù rapidamente una pietra bislunga ed un po’ schiacciata, sopra un’altra pietra larga circa un piede e mezzo, e lunga due; nella parte superiore è un po’ concava, per mettervi a pugnelli il grano da macinare. Gli Arabi chiamano questo apparecchio moràka, gli Abissini uafcciò, ed i Galla uafccì. [Torna al testo ↑]
[Nota a pag. 193]
(1) E per certo non mi sbagliava; poichè riuscì un cattivo arnese, che diede indicibili dispiaceri ai Lazzaristi, a me e ad altri, come si vedrà nel corso di queste Memorie. Egli vive ancora, e non è molto tempo che mi scrisse una lettera da Kaffa. Si dice convertito, ed è forse questa la quinta conversione; tuttavia voglio sperare che sia sincera: ma il lupo muta il pelo e non il vizio. [Torna al testo ↑]
[Note a pag. 195]
(1) Il berretto rosso che portano gli Arabi. [Torna al testo ↑]
(2) Berretto bianco usato dai monaci abissini. [Torna al testo ↑]
[Nota a pag. 198]
(1) Presso quei popoli non si usano cognomi; ma per distinguersi aggiungono al nome proprio quello dei parenti. In Abissinia il figlio unisce al suo nome quello del padre, come Berrù-Gosciò, Workie-Iasu, ecc. Fra i Galla, oltre a questa maniera, il padre prende pure quello del suo primogenito, sia maschio o femmina, quando raggiunge l’età maggiore e diventa una persona pubblica, come Moràs-Gosciò. Alcuni in mancanza dei figli prendono il nome del cavallo favorito, come Abba Baghìbo. [Torna al testo ↑]