Missione e Viaggi nell’Abissina
di Monsignor Guglielmo Massaia
Vescovo di Cassia e Vicario Apostolico dei Galla

1857

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Capitolo V.

Sommario

Riti degli Abissinesi. — La benedizione del fonte. — I matrimoni. — Pratiche diverse dei sacerdoti. — Scorrerie dei barbari. — I conventi dell’Abissinia. — Il Dannio. — Il Bizien. — L’abbazia di Guendguendiè. — Conversione dell’abate con sette monaci. — Il digiuno dei monaci nella persona dell’abate.

Una lettera di quel Padre Felicissimo, da Cortemiglia, cappuccino, missionario apostolico ai Galla, che fu colà, se vi ricorda, in compagnia di Mons. Massaia, ci somministra alcune curiose notizie intorno al culto degli eretici Abissinesi, a cui evangelizzare era mandato, non che sopra altri loro usi. Nessuno maravigli al trovare qui tali relazioni, giacché, raccogliendosi qua e là queste cose, e non potendo sempre ordinarle come si vorrebbe, non può riuscirne un corpo di continuata istoria, che, a dir vero, non /64/ è possibile ricavare così facilmente dalle lettere sparse negli Annali della propagazione della Fede. D’altronde il leggere ora istorie, ora descrizioni curiose, può anche dare la sua parte di piacevole diletto.

Gli Abissinesi adunque, secondochè ci scrive questo missionario, hanno un rito tutto lor proprio, un calendario diverso dal nostro, e ben sovente la sbagliano perfino nel computo della Pasqua. Ordinariamente non celebrano la Messa che nei giorni più solenni: più raramente dicono Messe private o lette, o, come diremmo noi, Messe basse. Onde per lo più celebrano la Messa in cinque, ed allora cominciano a suonar le loro campane un’ora o due dopo mezzanotte, alcune volte anche a mezzanotte. Queste campane consistono poi in due pietre levate in alto, che battono insieme. Al loro suono si alzano preti e cantori, e vanno alla chiesa: ivi cantano quasi tutto il salterio ed altri cantici, locchè dura anche le tre o quattr’ore: poi si comincia la Messa, la quale meno di tre ore non dura mai.

È sopratutto curiosa una funzione, che racconta di aver veduto questo missionario il giorno dell’Epifania: funzione che /65/ essi chiamano la benedizione del fonte, e che celebrano in memoria del battesimo del Redentore ricevuto da S. Giovanni Battista. Suonarono le campane a mezzanotte, ed il clero ed il popolo si recarono alla chiesa a cantar molti salmi. Indi uscirono processionalmente, e si avviarono verso una laguna non molto distante, vicino alla quale eressero un’altare. Ivi si fermarono, e fecero una buona cantata, interrotta di quando in quando da certi strilli che facevan le donne.

Il prete celebrante aveva sulle spalle una certa tela colorita, che non si sapeva dir cosa fosse: non era piviale, non era pianeta, non era un velo omerale come il nostro: e teneva in mano una croce di ottone. Verso il fine del canto accesero due piccole candele, e si avvicinarono alla laguna. Colà giunti, il prete la benedisse colla croce, poi s’inchinò e colla destra prese dell’acqua e si toccò la fronte; indi colla mano ne gittò ai quattro lati della laguna.

Ciò fatto, una gran quantità di ragazzi entraron nell’acqua, e molte madri vi gettarono i loro bambini: poi una turba di gente, specialmente affetta da qualche male, andò a lavarvisi, dimostrando una /66/ gran fede di uscirne guarita. Dopo tutto questo la processione ritornò in chiesa a cantarvi la Messa, la quale finì alle ore nove. È strano il modo con cui stanno in chiesa. Se sono in ginocchio, siedono sulle calcagna, o col capo appoggiato al pavimento, il quale è coperto di paglia: altrimenti stanno in piedi, ma sempre senza scarpe, che le depongono tutti, se le hanno, all’entrata; sul pavimento della chiesa non isputano mai, ma chiunque sia, ne deve uscire, eccettuato il celebrante, al quale, quando gli occorre tale bisogno, si porge un brano di panno.

I genitori danno le loro figlie in matrimonio a chi vogliono e quando vogliono, anche a 7 od 8 anni, senza farne ad esse parola. Allora solamente gliene danno la notizia quando il giovane, a cui la figlia è promessa, stabilisce il giorno in cui verrà a prenderla. A quest’annunzio è forza che la fanciulla ubbidiente si prepari, voglia o non voglia, alle nozze. Giunto il giorno prefisso, il giovane parte da casa sua accompagnato da venti o più amici, tutti armali di scudi, lancie e sciabole, e vanno a casa della sposa, nella quale si trovano altri parenti ed amici in gran numero e parimente armati, /67/ quasi per volerla difendere, e impedire che la conducano via. Minacciati dall’esercito dello sposo, si arrendono, e quelli entrano come per forza. Allora (vedete che bel garbo) un amico dello sposo si avventa alla sposa, se la leva in ispalla, la porta via prestamente, e va a metterla sullo stesso mulo su cui siede lo sposo ad aspettarla. Il che fatto, la comitiva si avvia cantando, fischiando e saltando; come se avessero riportato una gran vittoria. Arrivati tutti a casa dello sposo, vi si fa un gran trattamento, il quale dura circa un mese: si uccidono vacche e pecore in quantità più o meno grande, secondo le facoltà delle persone. Durante questo si lungo convito la sposa sta sempre ritirata e non si lascia vedere: poi torna alla casa paterna e vi si ferma un anno. Finalmente va a casa dello sposo, e vi rimane finché a lui salti il ghiribizzo di rimandarla.

Più stravaganti ancora sono le pratiche che seguono alcuni dei loro sacerdoti. Siccome dalle vestimenta non si discernono dai secolari, così, per farsi conoscere, si recano, ordinati che sono, in qualche luogo ove sia gran radunanza di popolo, ed ivi ravvisando alcuno che sia loro /68/ nemico, gli dicono in presenza di tutti: io sono prete, e ti scomunico. Questa è la loro prima funzione. E la parola scomunica fa tanta impressione agli Abissinesi, che al sentirla è come se vedessero l’inferno aprirsi sotto i lor piedi. Però si fanno tosto premura di farsi assolvere da colui che gliel’ha intimata, con offrirgli somme di denaro, e ciò al più presto possibile, per timore che il prete muoia, e così non possa più farsela levare. Giacché fra gli altri errori hanno anche questo, che non possa levar la scomunica se non chi l’ha inflitta.

E non solo pagano per farsi levar la scomunica, ma ancora per farsi assolvere dai peccati, e trattano del prezzo col confessore non altrimenti che si farebbe per la compera o la vendita di qualsivoglia merce. Dal che ne viene che quei sacerdoti, i quali sono più discreti nelle loro pretensioni, hanno un maggior numero di penitenti.

Tale era il lagrimevole slato degli eretici abissinesi quando scriveva il P. Felicissimo la lettera da cui ricaviamo queste notizie, che è nel 1847, e per cui gemeva il suo cuore apostolico tutto pieno di carità e di compassione pei /69/ mali dei suoi fratelli. Ma, grazie a Dio, soggiunge nella medesima lettera, sembra che voglia avvicinarsi il tempo del loro disinganno. Di mano in mano cbe si aumentava il credito del sig. de Jacobis, come abbiamo già appreso dalla lettera di Mons. Massaia, in proporzione diminuiva quello dell’Abuna eretico, e già popolazioni intere, ci ripete anch’egli, co’ loro preti alla lesta, abiuravano l’eresia. Sicuramente questo progresso della fede cattolica nella stima dei popoli inaspriva gli eretici, e i poveri missionari coi loro neofiti si vedevano sempre al disopra del capo le tempeste delle persecuzioni che minacciavano di rovesciarsi.

Allo scrivere di questa lettera del P. Felicissimo, ne erano già stati alle prove. Una guerra insorta tra il re della provincia di Agamien, in cui egli si trovava, e un altro re aveva cagionato tale un’anarchia in quella provincia, che i barbari ne andavano e venivano con tutta libertà, e facevano scorrerie tremende, nelle quali cercavano con somma cura gli Europei, persuasi che dovessero avere molte ricchezze. Onde i buoni missionari, con quanti avevano seco, erano stati costretti più volte a rintanarsi nei boschi, /76/ o a rifuggirsi sopra montagne talmente erte e scoscese, che il buon loro Vescovo, se volle giungervi, dovette farsi tirar su con corde attraversate alla vita. Però certe popolazioni quasi cattoliche avevan preso a difenderli, e radunatesi in buon numero, spaventarono i briganti, e li costrinsero a ritirarsi.

Passiamo ora a riferire alcune notizie sui conventi abissiniani ed altre cose, ricavate da una lettera del missionario sig. de Jacobis, che già conosciamo qualche poco.

Hanno in Abissinia montagne, la cima delle quali sono talora undici mila piedi sopra il livello del mare: quindi le coste sono tanto scoscese, che paiono torri a perpendicolo. L’insieme di queste montagne è vario oltremodo: or maestoso, or dirupato, ora ridente, ora austero, ora ferace ed ora sterile. E per giungerne al sommo, non vi sono che sentieruoli quasi nascosti tra le incavature, sicché appena si scorgono.

Su questi monti abitano di quando in quando principi fuorusciti, che se ne stanno là al sicuro per la ripidezza della salita, e mantenuti dalla fecondità dei luoghi. E su quelle alture vi sono altresì /71/ i monasteri. Ai missionari sembrò che, cominciando da quei sacri recinti di monaci a far risplendere la luce della verità, di lassù si sarebbe facilmente tramandata ai popoli per l’influenza che esercitavano quei conventi su di loro. Cominciarono adunque la loro impresa dal convento dello di Damuò.

Giunti appiè del monte, si videro innanzi il cammino rotto da immensa rupe, che sporgevasi dritta a guisa di bastione. Dall’una all’altra estremità sua correva in ampio semicerchio una palizzata: era il recinto d’una casa di monache abissiniane, consacrate alla guardia d’un santuario poco discosto e luogo di pellegrinaggio alle femmine divote dell’Abissinia, alle quali non è permesso di visitar mai il romitorio fabbricato in cima del Damuò.

I Missionari, a cui ciò non era vietato, stavan guardando la via per salire. Ma non gli venne veduto altro che due corde pendenti dall’alto: con esse i monaci, aiutati dai paesani, facevano giungere lassù le cose loro necessarie, e per la stessa via anche i forestieri, cui prendesse vaghezza di visitare il loro deserto. Poiché non v’era altra via per giungere lassù, si risolsero, non però senza qual- /72/ che tremito, a lasciarsi alzare da quello strano ordigno, e sbattere contro le rupi mentre ascendevano. Finalmente furon là sopra a vedere le spianate di quella altissima cima di forse due mila passi di giro, vestita appena di gramigna, perchè la terra vi è tanto poco profonda.

Visitarono il sito del monastero e la chiesa, che dev’essere stata disegnata da un europeo. Non lungi sono centocinquanta cisterne e quasi altrettante tombe; e l’antichità delle une e delle altre suppongono che risalga sino ai tempi di Caleb, che regnò nel quinto secolo; e così la sollecitudine di questo principe avrebbe pensato pei vivi e pei morti. I religiosi abitano in grotte incavate nella montagna, ma non sotterra, come alcuno potrebbe immaginarsi, bensì a ridosso di altre salite, e coll’entrata a guisa delle nostre abitazioni, ma angusta e difficile. La più famosa, in cui il sig. de Jacobis non potè entrare, è quella di un loro antico Abuna, uomo di grandissima penitenza. La guida vi si ficcò dentro, e ne uscì tosto con in mano un gran sasso, e diceva esser quello che l’Abuna si metteva sulla testa quando stava in orazione la notte. S’introdusse però in un’altra, quella del- /73/ l’Abuna Aragavvi, di più facile entrata. In fondo ad essa è un’impronta come d’uomo, che, appoggiatosi alla parete, che è vivo sasso, vi abbia lascialo impresse miracolosamente le spalle. Secondo essi, a questo Abuna, mentre pregava in quel luogo, apparve Gesù, e gli parlò.

Di là fecero un secondo viaggetto a Bizien, monte di massi scompigliati di granito, alle falde del quale giunti, si riposarono a piedi di una croce di legno, unica nell’Abissinia, e che indica la vicinanza dell’eremo. Salirono indi il monte, dove sono assai cisterne atte a ricevere l’acqua piovana, sola che possano avere i monaci per cavarsi la sete, obbligati sempre ad aspettare la beneficenza del cielo, e non mai sicuri di arrivare a goderne, perchè, ancorché tutte sieno piene, in una notte l’elefante può arrampicarsi lassù ed assorbirsene tutta l’acqua colla sua proboscide.

Dalla sommità della montagna si vede da una parte l’Abissinia cristiana, e dall’altra immense pianure occupate da tribù anch’esse una volta cristiane, ma allora miseramente gementi sotto l’oppressione del maomettismo e dell’idola- /74/ tria. Così gli ordini religiosi di quei paesi scaduti dalla verità avevano aiutato ad accrescervi la superstizione e l’errore, mentre quelli che in altre parti serbarono intatta la loro fede, la sostennero, e ravvivarono eziandio nei popoli con cui comunicavano. Ma quel monastero è pressoché deserto di religiosi, perchè, avendo essi a temere le vendette dei discendenti degli antichi cristiani apostati, se ne stanno dispersi pei villaggi, nè si radunano che alle maggiori solennità, come quando arrivarono lassù i missionari.

L’ultima corsa che fecero finalmente fu all’abbazia di Guendguendiè, posta in un immenso cratere di una montagna così orrida che, al dire del signor de Jacobis, forse non sorge la più orrida in tutto il mondo. Tutta come un masso deforme di metallo fuso ed irrugginito, spoglia di vegetazione, non bagnata da rugiada, non riparata da alcuna nube, e fessa da molti crepacci profondissimi, che rassomigliano immensi precipizi, entro uno dei quali secondo le tradizioni del luogo s’annida da più secoli un dragone infernale, che in principio vagava terribile per le sottoposte pianure, e vi mangiava una fanciulla ogni dì; poi dagli scongiuri /75/ dei monaci fu rinserrato là dentro. Ancora i monaci allora ne avevano spavento grandissimo. Dal chiamarlo che facevano passando davanti a quell’oscurissimo speco, sembrava alla loro immaginazione atterrita di udirsi rispondere con un suo orrido fischio, anzi di vedere là giù in fondo la testa del mostro. Il missionario però scevro il capo di queste superstizioni, chiamatolo più volte, non sentì che l’eco della sua voce ripercossa da quelle gole, e non vide che l’ombra della roccia. Le guide allora dissero che Gabella (tale è il nome del mostro) dovea probabilmente dormire. Del resto aggiunge il missionario, il luogo profondissimo, circondato da un aere crasso, e popolato da rettili velenosi, spira proprio un’aria infernale, e si presta moltissimo a queste spaventose leggende.

L’abate del convento, religioso di finissimo intelletto e molto più dotto di quel che lo sieno generalmente gli altri monaci, fece al missionario onorevole accoglienza: fece coprire di ricchi tappeti il vestibolo della chiesa, ed egli in cappa abbaziale e seduto in mezzo ai principali suoi monaci ci ricevette con pomposa cerimonia. Era egli seduto sopra /76/ una specie di sedia curule, che usano solo i grandi personaggi dell’Abissinia, e da cui mai non si levano al sopravvenire di qualunque persona, anche del Re.

Ebbene l’abate, per farci onore, rinunziò per allora parte di sua dignità, e si alzò alla nostra presenza. A destra del vestibolo, ove fu fatto il ricevimento, visitarono le ceneri del famoso principe dell’Abissinia Sabagadi, che decorò il trono di illustri virtù e di molte belle opere, di cui sono dono i più begli ornamenti che abbelliscono il tempio, e ucciso di un colpo di lancia da un Galla, mentre in Europa si aspettava da lui che traesse finalmente l’Abissinia dalla sua nessuna importanza politica.

Il giorno appresso furono condotti nella libreria del monastero, piena di molte opere abissiniane. Tutti quei libri che nessuno curava mai di toccare, nè tampoco di spolverare, tolto l’abate, contenevano molte preziose opere per gli Abissiniani, e sopratutto venne loro veduto un esemplare di una Somma teologica famosa per l’Abissinia, e che rende testimonio alla Chiesa Romana sopra la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio; siccome però quegli /77/ eretici la negano, cosi (per imitare tutti gli altri eretici, che, per sostenere i loro errori, falsano la Scrittura) vi raschiarono la parola Filioque, e con ciò pretendono di aver ragione, dicendo che lo Spirito S. non procede se non dal Padre, e che la parola Filioque vi fu introdotta dai cattolici. Che acume d’intelligenza! e che prodigio di buona fede!

La visita dei missionari a questo convento fu per loro di molta consolazione, perchè giunsero a condurre in grembo alla Chiesa sette monaci, alla testa dei quali lo stesso abate, che si chiamava Mamer, uomo, come si è detto, di un ingegno assai bello e di un coraggio e di una fede ammirabili. Non è a dire quanto questo monaco convertito difendesse con coraggio i cattolici: basti dire che davanti a chiunque della sua setta, anche davanti a re Ubiè, faceva apertamente l’apologia dei cristiani, anzi diceva loro, che per combattere con vantaggio i cattolici incominciassero a vivere così bene com’essi. E questo argomento poteva recarlo a ragione e con frutto; giacché la vita dei cattolici abissiniani è veramente esemplare. Il monaco però non si contentava d’esser convertito e di /78/ parlare in favore della Religione: voleva essere ammesso alla comunione dei fedeli. Ma i missionari temettero nella loro prudenza che la conversione di un uomo universalmente venerato qual era Mamer non producesse qualche danno alla religione medesima, e, nonostante tutta la sua buona volontà, non lo ricevettero ancora.

La venerazione esterna universale verso quest’uomo gli venne dal suo digiuno perpetuo, per cui è riguardato nell’Abissinia come un miracolo vivente, dovendo essere pochi quelli che l’abbiano sostenuto. Or la ragione di questo perpetuo digiunare dell’abate sta in ciò, che i monaci di colà sarebbero obbligati dalla loro regola ad astenersi per sempre da qualunque cibo grasso, da qualunque liquore inebbriante, e forse anche a mangiare in pochissima quantità di altre cose. Ma persuasi i monaci che non avrebbero potuto sopportare tal vita, l’aggiustarono bellamente. Quando si eleggono un superiore, lo fanno giurare di osservare per tutti e a loro nome questo digiuno, sicché, osservandolo tutti nella persona del loro abate, pretendono di mantenere intatta la regola. Così il povero superiore, /79/ non sa se per ambizione, o per una carità che nel caso sarebbe veramente eroica, fa sacrifizio di se stesso per tutti i suoi religiosi; e dal punto che accetta la strana sostituzione, è invigilato severamente da tutti: colto nella più minuta trasgressione, viene senza indugio deposto.

Ai conventi è affidata quasi esclusivamente la istruzione pubblica. Il signor de Jacobis visitò anche questi luoghi, e ne diede qualche notizia. Quello che in Europa si chiama collegio, scuola, università, in Abissinia è compreso tutto col solo nome di Debra. Niun debra è diretto da laici. Tutti sono sotto la direzione dei religiosi; onde ciascuno di questi stabilimenti è contiguo ad una chiesa o ad un convento. Quindi, p. es., Debra Damuò vuol dire convento di Damuò e la sua scuola, Debra Mahemmache, chiesa di S. Giovanni e sua università. I professori sono per lo più preti e frati, e quando per caso mancassero di questi, si sostituiscono alle loro cattedre i Debtari ossia maestri laureati nominati dall’imperatore. Queste scuole sono la fonte ove principi e sudditi vanno ad attingere la scienza naturale. L’istruzione è data gratuitamente, e lo stipendio dei professori /80/ è tutto a carico del debra a cui la scuola appartiene. Questo stipendio ascende tutto al più ogni anno a ventiquattro misure contenenti circa cinquanta libbre di grano e quattro amuliè, moneta del valore di mezzo scudo circa.

Per sì piccolo stipendio è chiaro in quanta miseria devono vivere i dottori abissiniani. Ma quello che fa maggiormente stupire, dice il signor de Jacobis, sono i disagi che patisce un giovane per salire di grado in grado al santuario della sapienza. Senza parlare di quella specie di servitù che lo rende quasi famiglio del suo maestro, egli deve abbandonare il suo paese e la sua famiglia portandosi in ispalla il sacco di piselli, che sarà il suo unico sostentamento: quando ne vedrà il fondo, andrà limosinando per vivere. Or il tempo, per cui deve durare questa dieta, consideratelo voi. Il corso de’ suoi studi abbraccia: selle anni per imparare lo Ziema, ovvero canto della Chiesa; nove anni per lo Suasuò, ossia grammatica; quattro pel Chanien, cioè poesia; dieci per lo studio dei libri sacri dell’antico e del nuovo Testamento: in tutto trenta. Poi sono gli studi superiori del diritto civile e canonico; dell’astronomia, /81/ della storia, che richieggono un tempo lunghissimo, ma che pochi allievi hanno il coraggio di intraprendere. E tanto studio, conchiude il missionario, per acquistar poca scienza; eccetto per altro lo studio della Sacra Scrittura, per rispetto alla quale un semplice debtari abissiniano è superiore di molto ai sapienti europei.