Missione e Viaggi nell’Abissina
di Monsignor Guglielmo Massaia
Vescovo di Cassia e Vicario Apostolico dei Galla

1857

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Capitolo IV.

Sommario

Consacrazione del sig. de Jacobis. — Conversione di Teclafa. — Colloquio di Mons. Massaia con Ubiè. — Iniquità dei giudici di Gondar. — Monumenti di questa città. — Il Janni. — Questione di precedenza. — Ponte sospeso sul Nilo azzurro. — Campo del Ras-Alì. — Un vecchio accusato e lapidato da sua nipote. — Incendio nel deserto. — Luoghi assegnati alle varie missioni.

Il sig. de Jacobis, come si è veduto, aveva colà sua stanza da qualche tempo: e la Provvidenza aveva pur le sue viste in fare, che i due missionari si abboccassero di nuovo. Era più di un anno trascorso, da che il signor de Jacobis ricevette le Bolle del sovrano Pontefice, che nominavalo vescovo; ma egli, la cui modestia in grandivane il carico, sfuggiva una tal dignità. Monsignor Massaia gliene fece rimostranze nuove; ma egli persistendo /47/ pur tuttavia sul niego, il prelato gl’ingiunse, in virtù della santa obbedienza che doveva alla Chiesa, di ricevere la consecrazione episcopale. La cerimonia cominciò alle nove della sera, senz’altro spettatore che il frate Pasquale. Un’ora dopo la mezzanotte, tutto era compito. Monsignor de Jacobis, nominato vescovo di Nilopolis, diveniva vicario apostolico dell’Abissinia, e, eccezione forse unica in tal genere, dal rito latino passava al rito etiope (1). Dopo essersi dato l’abbracciamento fraterno, i due vescovi proscritti si separarono; l’uno prese il cammino del suo rifugio nelle montagne dell’Altiena, l’altro andò a chiedere qualche giorno di riposo alle rupi di Dalac. Quest’isola è dal suo antico splendore scaduta assai. Secondo la tradizione conteneva altra volta una fiorente cristianità col suo vescovo; tempo dopo i Veneziani vi fabbricarono una fortezza, con che proteggervi la pescagione delle perle, la quale vi è pur sempre abbondante. Ha acque minerali di oltre 50 gradi (Réaumur) di calore; e, cosa maravi- /48/ gliosa, nella sorgente più calda, in sì alta temperatura, ci vivono pesciolini.

I cavalieri abissini, impotenti contro Massova, marciarono alla volta di Arkico, deliberati di sbramare la loro vendetta sa questa città; ma alquanti meschini pezzi d’artiglieria, che erano nella fortezza, bastarono a volgerli in fuga. Poco avvezzi al sibilo delle palle e della metraglia, corsero via ai primi colpi di cannone. Indi a quattro dì disparvero dalla costiera, lasciando dietro di sè ruine e stragi.

In questa si sparse voce, che Teclafa, superiore di più di mille monaci, in grande fama di santità, e in autorità uguale a quella dell’Abuna, aveva abbandonato il cattolicismo, cui da qualche tempo studiava, e s’era fuggito sotto lo stendardo dell’eresia. Novella più funesta di questa non si poteva spargere; perciocchè il gran capo dei monaci è personaggio che esercita somma influenza sul popolo abissiniano, da cui è avuto quasi esemplare di mortificazione e di pietà. Il suo abbandono stava dunque per trascinar seco di molte apostasie. Ma, per buona sorte, non era vero. Anzi Teclafa, seguito da alquanti suoi monaci, /49/ comparve inaspettatamente a Massova, per ismentire da se medesimo la calunnia, che l’Abuna Salama aveva sparso sopra di lui. Mai, diceva egli, non avere avuto pure il pensiero di abbandonare la religione cattolica. Sdegnato della perfidia del vescovo scismatico, da un canto, e dall’altro convinto delle verità della Chiesa Romana, si affrettò di mettersi in comunicazione col vescovo Massaia, e di abiurare nelle sue mani.

Dopo una tanto solenne professione di fede partitosi, andò a proclamare nelle corti dei re dell’Abissinia, e nel forte della persecuzione, ch’egli era sacerdote cattolico. Dichiarazione cosi ardimentosa in bocca a un tale neofito fece piegare la testa a’ nostri nemici, e ridestò il coraggio ai cristiani. Nessuno osò toccare Teclafa: avrebbero temuto ribellamento de’ popoli. Tornato al suo monastero, tutti i suoi monaci si dichiararono essi pure cattolici. Ma qui non si rimase il suo zelo: nuovo S. Paolo, si consacrò alla conversione de’ suoi fratelli: e già tre cristianità sonosi, per opera sua, riunite alla Chiesa di Gesù Cristo. Quanto a Monsignor Massaia, impaziente di raggiungere i suoi missionari, /50/ tutti già pervenuti sulle frontiere delle prime tribù dei Galla, si determinò di rientrare nell’Abissinia, malgrado l’editto di morte che stavagli contro. Suo divisamente era di presentarsi da prima al re Ubiè, che gli aveva avanti ordinato di levarsi da’ suoi Stati, e scoprire le disposizioni di questo principe, che dicono convinto della verità della nostra religione, ma rattenuto sotto le insegne dell’eresia non per altro che per ragioni politiche.

Al 5 di giugno, l’anno 1849, uscì di Massova, e trasse alla volta dell’Abissinia. Tagliatasi la lunga barba, e indossatosi un logoro vestimento, entrò in una carovana, che tornava a Gondar, in forma di povero mercatantuzzo; e facevasi chiamare Antonio. Giunse al 18 di detto mese al campo di Ubiè, e gli fece chiedere udienza. Poco stante, colui che aveva fatta l’imbasciata al principe, tornò dal vescovo, e gli fece di molte e incalzanti interrogazioni, a cui egli non rispose mai, ristringendosi a dire soltanto, che desiderava parlare al re. Il quale, udito il racconto di quella misteriosa circospezione del forestiere, meditò così un poco, poi disse al confidente: «Cotest’uomo /51/ debb’essere l’Abuna Massaia, od un suo prete. Non ne far motto a persona, e domani per tempissimo menalo qui».

L’indomani infatti, poco dopo la levata del sole, Monsignore venne introdotto nella tenda del re. Ubiè stava seduto sotto una specie di baldacchinaccio di tela bianca e rozza; ed alquante persone, vestite da corte, vale a dire nudo il busto, gli stavano intorno. L’umile mercante Antonio, salutato il re, che l’accolse garbatissimamente, e l’invitò a sedersi, fe’ presentare al principe una pezza di raso celeste, con entro un foglio, ove dichiarava essere l’Abuna Massaia di recente mandato in bando per ordine suo. «Ma, aggiungeva, mi è noto il tuo cuore: so che ami i cattolici, e che la sola politica ti mosse a trattarmi cosi. Rientrato sotto questo travestimento nell’Abissinia, io poteva traversare i tuoi Stati senza che tu il risapessi; ma io aveva fiducia nella generosità tua, e volli vederti.» Ubiè, commosso dalla schiettezza e dal coraggio del vescovo, aveva gli occhi pieni di lacrime. Nulladimeno temendo, che, in presenza di tutta la corte, lo scoprire la sua tenerezza nuocesse a Monsignore, il licenziò dicendogli che il ri- /52/ vedrebbe. E nel medesimo tempo comandò che fosse condotto in una delle capanne più belle nel campo, ove gli spedì il presente che è uso di fare ai gran personaggi: una vacca, birra e idromele.

Malgrado questo onorevole accoglimento del principe, Monsignor Massaia bramava assai di continuar presto il suo viaggio, per tema, non le spie dell’Abuna scoprissero la sua venuta, e gli tendessero nuovi agguati. Il confidente essendo venuto a vederlo, per domandargli, se avesse bisogno di nulla: «Di’ al tuo signore, rispose, ch’io voglio partire stasera o domani». Il re, a tale annunzio, il fece tosto chiamare, o lo ricevette da solo a solo. Libero allora il principe di aprirgli il suo cuore, manifestò al vescovo la gioia che aveva avuto di rivederlo, e gli disse: «Tu hai operato saviamente, e come mi pensava che tu faresti. Ora, che nessuno si pensa che tu sii qua, rimanti nel mio campo: alcun pericolo non ti stimola di partire. — Debbo anzi, ad utile tuo e mio, allontanarmi di qui quanto più presto per me si potrà; perciocchè se l’Abuna intendesse novella del mio ritorno, noi cadremmo in compromesso ambedue. Inoltre, sta nel tuo campo un /53/ europeo, che mi conosce (era il segretario del console inglese); s’egli ha odore del mio arrivo, tutto sarà scoperto. —  Or bene; e io il farò partire immediate. — No; se tu il manderai via, si crederà tosto ch’io ne fui cagione. Savio partito soltanto sarà il mio sollecito partire», Ubiè stette brevi istanti sopra se stesso, poi aggiunse: «Tu di’ il vero; parti. Ma rammentati, ch’io sono l’amico tuo».

Dopo altre ambasciate, la sera di quel medesimo dì Mons. Massaia lasciò il campo d’Ubiè, seguito da una persona della casa del re, che aveva ordine di fargli rendere dappertutto i medesimi onori che ai grandi impiegati del regno. Al 6 di luglio giunse sulle rive del fiume Tacazzè, sul quale si veggono ancora le mine di un ponte fatto dai Portoghesi. L’arco di mezzo n’è interamente distrutto; e però è d’uopo traversare il fiume in battello. Quinci il Vescovo si recò a Gondar, ove nuove persecuzioni aspettavano. Il giorno dopo il suo arrivo, fu chiamato davanti il tribunale della città imperiale; e vi trovò per giudici un dodici vecchi di aspetto ipocrito, pronti a condannarlo anche prima di averlo ascoltato. «Perchè mi faceste chiamare, domandò egli, e che /54/ avete da dirmi? — Tu sei entrato, gli fu risposto, di nottetempo nella città, con animo di sottrarti al pagamento del dazio; e quando vennero a reclamarlo da te, e tu ci minacciasti colle tue armi.» Due accuse evidentemente falsissime: quindi fu agevole a Monsignore di provare, ch’egli era pure entrato di giorno, e che nè esso, nè quelli che erano seco portavano armi di sorte alcuna. Ma con tutto questo egli fu costretto di pagare 100 talleri, sotto pena d’essere legato e gittato in prigione.

La città di Gondar, che tanto splende nella storia dell’impero abissinio, non è oggi che l’ombra dell’antica capitale del gran Janni. È situata in bella pianura alle radici di verdeggianti colline, tutte coperte di ricca vegetazione. Dalle ruine, che si veggono prima di entrare nel suo attuale circuito, pare che la sua lunghezza sia stata di più leghe. Di tatti i suoi monumenti nulla rimane, fuorché il castello imperiale, fabbricato dai Portoghesi circa l’anno 1680, quando vennero in soccorso dell’imperatore minacciato da un generale musulmano. Le camere interne sono sconcie la maggior parte, e danno ricovero il meglio che possono alla scaduta gran- /55/ dezza del sovrano che vi risiede. Tutta l’autorità sua si limita al diritto di vita e di morte sugli abitanti della sola città di Gondar. Quantunque i re, che l’hanno soppiantato, sieno tenuti in sua presenza di starsi nella postura umiliante di sudditi e di schiavi (cosi porta l’uso abissinio), ciò non pertanto, allorché questo fantasma d’imperatore gli adombra, non si fanno scrupolo di deporlo, e di nominarne un altro in sua vece. Perchè questi vassalli ribelli mantengono in piedi quella fastosa dignità, a cui tolsero ogni possanza? Perchè quella memoria è cara alla nazione, e nutre il suo orgoglio e la sua speranza: poi i principi emuli si lusingano ciascuno di potere un giorno ricostituire l’impero per sè. E questo è il sogno più vagheggiato di Ubiè; e se avesse effetto, sarebbe il maggior bene che potesse toccare all’Abissinia. Fra le altre particolarità, che nel palazzo imperiale si scorgono, è l’antica sala, ove imperatore e l’Abuna venivano a trattare delle loro differenze. Siccome ciascuno di essi voleva avere il diritto di precedenza, sempre avevano luogo alterazioni per sapere chi si leverebbe allorché uno dei due potentati giungeva ultimo. A to- /56/ gliere questa quistione di cerimoniale, s’immaginò di costruire due, dirò cappelle laterali, ove ciascuno di essi aveva il suo trono. Erano chiuse con gran cortina davanti. L’imperatore entrava nella sua, per un cammino coperto, la cui porta era al norte; ed un medesimo corridoio, colla porta al levante, conduceva in quella dell’Abuna. Cosi essi non potevano vedersi, nè incontrarsi per via: e quando ambedue erano seduti, si tirava la cortina: il che esimevali di salutarsi.

Mons. Massaja, temendo nuove angherie, si decise di allontanarsi tosto da Gondar; e s’incamminò il giorno appresso al campo del Ras Alì, con intendimento di guadagnar questo principe alla causa de’ cattolici. Il Nilo, ch’egli doveva passare, era allora traboccato: l’antico ponte dei Portoghesi coperto dall’acque; ed ogni passo divenuto insuperabile con quelle barche di giunco, che l’impetuosità della corrente avrebbe spezzato. Ed ecco in tal caso il mezzo adoperato dagli Abissini. Tendono da una ripa all’altra un canapo in cert’altezza al di sopra de’ flutti: indi mettono una corda, a modo di sedile, sotto le gambe di colui che vuole andare dall’altra sponda, e lo fanno scorrere su /57/ quel ponte sospeso. Cotale tragitto è pericoloso assai per causa de’ coccodrilli, di che il fiume è pieno; e li conviene cacciarli a colpi di pietra, per tema non si avventino all’umana preda, che veggono passarsi da presso. Colà perì, alcuni anni sono, un viaggiatore francese, il sig. Petit, tenente di nave: fu divorato dai caimani.

Salito fino alla sua sorgente il Nilo azzurro, e traversate, in compagnia d’una carovana di due mila persone, tribù in guerra, e selve coperte di tigri, che si tolsero due uomini sotto gli occhi di tutti, il Vescovo e due missionari giunsero finalmente al campo del Ras, piantato sopra una collinetta, e prolungantesi fino alla pianura. Si sarebbe detto, nel vedere da lungi quello spazio coperto di tende, un prato coperto di cataste di fieno congiunte a mille a mille le une insieme coll’altre. Eranvi infatti colà trenta mila uomini sotto le armi, senza contare gli schiavi, le femmine, i fanciulli. Ciascun capitano è attendato in mezzo alla sua squadra, le capanne de’ soldati facendogli cerchio d’intorno. Nel centro di tutti que’ gruppi si distinguono alcune tele bianche e nere: è il quartiere reale. Quinci all’entrata del campo corre un cammino /58/ d’un’ora; e tutto quello spazio è coperto di battaglioni in sentinella. I missionari, giunti che furono alla tenda reale, si fecero annunziare: ed il Ras diede subito ordine che fossero introdotti. Li ricevette in una pessima capanna di paglia, ove stava allora co’ suoi ufficiali, tutti seduti a terra sopra bei tappeti nel luogo più riguardevole. Il Ras, per lo contrario, stava presso la porta sopra un tappeto sdrucito, in veste di canavaccio, ed appoggiato ad un fascette di fieno, che teneva le veci di guanciale. Tale era il palazzo del Ras Alì, potentissimo fra i principi dell’Abissinia, come quello che conta sotto di sè un qualche cento mila uomini in arme. Sebbene sia battezzato, ebbe educazione affatto lurchesca: però impossibile fu a Mons. Massaia di favellar seco a proposito della religione cristiana, ch’egli risguarda con somma indifferenza. La conversazione dorò più di un’ora: indi furono messe le tavole. Colà non si conoscono tondini, nè cucchiai, nè forchette: ciascuno intinge colle dita nel piatto comune; ma in casa de’ principi e de’ grandi non occorre darsi pensiero di ciò: sono gli schiavi stessi, che, colle mani nitide o no, pigliano la pietanza /59/ dal piatto, e, fattene pallottoline, le vengono delicatissimamente a mettere in bocca al convitato. Talvolta la regina e le dame di corte fanno esse medesime quest’ufficio, quando hanno convitati che molto desiderano di onorare. Certo che ad assuefarsi a cotal uso è necessario sentirsi forte appetito. Levate le tavole, il sig. Bel, inglese stabilito nell’Abissinia, e capitano nell’esercito del Ras, fattosi incontro ai missionari, loro profferse una tenda nel suo quartiere; e dimostrossi poi sempre, comechè protestante, il protettore e l’amico de’ missionari.

Non si può tacere una scena orribile, che ebbe luogo nel campo del Ras, mentre colà rimase il vescovo. Un vecchio di sessant’anni uccise sua nuora, che aveva una figliuoletta di otto in dieci anni. L’orfanella, vinta dalla disperazione e dal dolore, chiese giustizia. Quindi l’uccisore fu preso, e, in virtù della legge del taglione, condannato al medesimo genere di morte che aveva dato. Indarno furono offerti cento talleri, in prezzo del sangue, vale a dire per riscattare la vita. (Cento talleri nell’Abissinia sono un tesoro immenso: i più ricchi ne possedono appena venti.) L’offerta /60/ fu rigettata dalla giovinetta, cui nulla potè smovere dal suo proponimento. «No, gridava costei, non voglio riscatto: a lui è forza morire, ed a me vendicare mia madre.» Il vecchio fu dunque condotto al luogo del supplizio. Aveva ammazzata la nuora a colpi di pietra: però doveva essere lapidato, e per mano del più prossimo parente della sua vittima. Ora, questo prossimo parente era l’orfanella medesima, che, piena di sete della vendetta, trovò nel suo furore le forze, che la natura non le forniva. Lapidò colle proprie mani l’avolo suo; e, mentre l’infelice ebbe un filo di vita, mai non cessò di scaricargli sopra de’ sassi. Cotali esempi, che pure non sono rari nel paese, dimostrano, quanta sia ancora la ferocia in questi popoli mezzo selvaggi.

Più di un mese era trascorso in conferenze inutili col Ras, e tutte le speranze, che i missionari avevano fondate in esso, eransi svanite. Fu dunque necessario disporsi alla partenza. Il 30 di gennaio, Monsignor Massaia abbandonò il campo abissinio, e trasse verso il mar Rosso. Aveva già oltrepassale le alture maggiori, ed erasi fermato colla sua scorta sulle rive del fiume Mareb, quando /64/ videro avvolgersi all’orizzonte nubi nerissime: era il fumo di vasto incendio. Il fuoco, appiccatosi in una parte del deserto, gittava fiamme alte come montagne, ed avventavansi terribili come onde di mare; perchè il vento le spingeva con tanto impeto e tanto fragore, quanto quello del fulmine. I nostri viaggiatori si posero tutti in fuga verso il letto del fiume; e fu sommo provvedimento il non indugiare; perchè il fuoco già cominciava a comunicarsi alle erbe testè calpestate, giunti che furono appena sulle sponde del torrente, in cui si gittarono tutti: e pervennero all’altra riva. Le fiamme, non potendo superare l’ampia superficie di quelle acque, ribadirono le loro punte, e portarono altrove l’incendio. Il quale a poco a poco si dileguò, lasciando da per tutto dietro di sè carboni e tizzoni fumanti.

Finalmente addì 7 di marzo, i Missionari, dall’alto delle ultime giogaie che corrono con soave pendio sino alla spiaggia, scorsero il mar Rosso: e il giorno appresso ebbero la lieta sorte di stringere fra le braccia il Vescovo e padre.

Fa ora il missionario motto de’ luoghi, che Mons. Vicario apostolico a ciascuno di loro assegnò. Al P. Cesare toccò il Tibu- /61/ Mariam, fra quelle ottime tribù, le quali dicevano al Vescovo: «Abuna, rimanti con noi: saremo tuoi figli: beverai il latte delle nostre greggie, ed avrai ricovero sotto la nostra tenda. O padre, insegnaci di amare Iddio!». Il P. Giusto percorre il Goiam, verso le sorgenti del Nilo azzurro. Il P. Felicissimo è come prigione nel regno del Choa. Il frate della Missione sta a Massova, pel nostro commercio di lettere: ed io sono serbato a correre le costiere. Un quinto Padre risiede in Aden, ove adempie, provvisoriamente, l’ufficio di viceprefetto apostolico. Tale, continua il missionario, è la pittura della nostra povera Missione. Dopo tre anni di patimenti e di persecuzioni, appena fu dato al mio Vescovo di porre il piede sul proprio vicariato, che gli convenne fuggirsi. Da ogni banda vediamo sorgere impedimenti: e Dio soltanto vede il giorno, in cui le porte dell’Abissinia ci saranno aperte: giorno da noi tutti aspettato con somma impazienza. Ma ohimè, che i nostri peccati sono forse la causa della maledizione che gravita su questo paese! sopra questa terra, che beve i sudori de’ Missionari, e nessun frutto di salute tramanda!

(1a) Monsignor Massaia ha inoltre ordinato venticinque sacerdoti del paese. [Torna al testo ]