P. Reginaldo Giuliani O. P.
Croce e Spada

/7/

L’educazione odierna vorrebbe spoltrire la gioventù nelle battaglie ginniche delle gare di foot-ball e di boxe; ma ricordino i giovani che non basta assecondare l’irrequietezza e l’ondeggiamento delle membra per vivere da giovani, poichè i muscoli si sviluppano ed ingrossano anche quando le anime striminziscono ed invecchiano.

L’amico
dei giovani

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Il vostro Caporale

«Miei cari Pesciolini,

Dunque un nuovo capo è entrato nella vostra cara famiglia?

«No, io non sono una faccia nuova per voi, o carissimi pesciolini. Vi ho veduti parecchie volte, ed ho goduto spesso della vostra allegra compagnia, specialmente nella vostra festa dell’aprile scorso. E poco fa, quando mi si fece la proposta di diventare vostro babbo effettivo, accettai di gran cuore, perchè si trattava di diventare babbo di bambini tanto buoni e bravi.

«Quante volte in trincea ho assistito al cambio della sentinella! Un giorno, durante uno scabroso combattimento sul Piave, io ho ricevuto dalle mani di un ferito una bandiera con la raccomandazione di continuare a portarla con l’ondata d’assalto. Mi pare di ricevere ora lo stesso incarico: perchè io dovrò essere un po’ il vostro capo, il vostro generale – e anche, più umilmente – il vostro caporale.

«Vi dirò una prossima volta perchè voi dobbiate considerarvi come i soldati, gli arditi di una bella guerra. Per ora, permettete che io vi saluti con lo stesso amore e con lo stesso ardore con cui salutavo le mie fiamme nere».

Ottobre 1925.

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Arditini!

«Ai miei cari Pesciolini del Po!

«Vi ho visti, cari Pesciolini, andare affrettati per le vie, sotto i candidi fiocchi di neve, imbacuccati, col visino livido sporgente dai baveri di pelliccia rialzati... m’avete salutato in fretta, per correre alla scuola tiepida o alle vostre case riscaldate... Ma il vostro freddo riparato, riscaldato dalle cure di tante buone mammine, mi ha ricordato tanti altri bimbi, che, poveretti, debbono subirlo tutto, senza riparo. Li ho veduti spesso i vostri beneficati – quelli che qualcosa han già ricevuto dalla carità dei Pesciolini, e quelli che ancora aspettano, poverini – ed ho sentito un nodo alla gola. Ma mi sono consolato, sapendo che i miei bimbi, buoni, ricchi, sapranno soprattutto in questo inverno fare il loro dovere di fratelli maggiori con tutti i bimbi poveri e sofferenti.

«Quando noi eravamo soldati, sulle trincee aperte delle grandi montagne, dove tutto il gelido candore delle nevi ci fasciava da ogni parte, e quando stavamo sul Carso, dove la bora soffiava il suo tagliente gelo, allora se c’era un po’ di caldo in qualche caverna, in qualche baracca sconnessa, c’era posto per tutti, soldati ed ufficiali! Allo stesso fuoco si riscaldava il generale e l’ultimo fante: aveste visto quale fraternità perfetta regnava fra tutti i figli d’Italia! E quale prontezza ad aiutarci!

«Siate dunque anche voi, o cari bimbi e bimbe, dei piccoli Arditini! Vi voglio così e così deve essere il Pesciolino: sempre pronto a soccorrere i fratellini poveri, quelli che non hanno casa, od hanno una casa fredda, brutta e tante volte resa più miserabile da genitori inumani».

Gennaio 1926.

Primavera Italica

«Cari Pesciolini,

«Colla partenza delle rondinelle voi ritornate alle vostre case. Dai mari, dai monti, dai colli tornate a sciami verso la città a riprendere i libri, sotto l’occhio vigile delle buone mammine. È vero che quest’anno le vacanze estive hanno /11/ avuto la gradita sorpresa dei quindici giorni in più per le feste del Decennale Fascista. Era pur giusto che anche la piccola Italia dei Balilla e delle Piccole Italiane avesse a godere per la gloriosa ricorrenza: voi siete la primavera più bella della nuova Italia, la primavera autentica che canta a squarciagola: “Giovinezza, giovinezza...”.

«Ma il Duce, che tanto ama i bimbi e che molto da voi aspetta, vi vuole cooperatori felici delle fortune d’Italia. Con lo studio e con la disciplina vi preparate a diventare i forti e saggi italiani di domani, e col cuore addestrato all’amore fraterno di tutti i vostri simili vi preparate pure a compiere le più eroiche azioni. Amate adunque tutti e specialmente i poveri, i poveri bimbi che sono vostri fratelli, come voleva Gesù, come vuole ancora il Duce: e in tal modo sarete pronti alle sublimi rinuncie che faranno di voi i veri italiani».

Un’opera italianissima

«Dovete sapere, cari Pesciolini, che vi sono molte famìglie italiane che vivono fuori d’Italia, sparse per il mondo, e che non vogliono rinunciare al bel nome ed alla gloriosa bandiera della cara Patria. In alcuni paesi stranieri, questi italiani sono soggetti ad angherie di ogni genere per parte dei nemici della nostra Italia.

«In una di queste eroiche, italianissime famiglie vi era una fanciulla bella come il sole, buona come il pane, ma fierissima del suo nome italiano. Essa, povera, non poteva continuare gli studi che rinunciando alla nazionalità italiana. I dirigenti del Benefico Pesce, venuti a conoscenza del fatto, per le relazioni con società patriottiche e con il Regio Console di quella città, hanno offerto di aiutare quella piccola ed eroica italiana, affinchè essa potesse continuare i suoi studi in Italia, nella sua, nella nostra adorata Patria. Essa si trova infatti oggi in un collegio della nostra bella Italia ed è pieno di riconoscenza verso tutti i benefici Pesciolini del Po.

«Siamo certi di aver fatto bene ad aiutare quella fanciulla, e siamo certi ancora che tutti i nostri Pesciolini sono /12/ contenti ed orgogliosi di questa patriottica opera, che farà ripetere ancora una volta dagli stranieri: “Ecco come si amano gli Italiani!”, e che a tutti i buoni fa cantare in cuore quei bei versi: “I bimbi d’Italia son tutti Balilla!”».

Novembre 1932.

Il vostro dovere

«Miei cari Pesciolini,

«L’aprile si avvicina: e voi lo attendete con ansia non solo perchè vi porta la gioia santa della Risurrezione di Gesù, ma anche perchè siete orgogliosi di compiere il vostro dovere di carità verso i fratellini, i poveri bimbi da voi beneficati.

«La gioia più grande che avrete nella vostra vita è quella di compire sempre il vostro dovere. Avete dei doveri verso Dio, verso la famiglia, verso la Patria, e verso i cari bimbi poverelli. I primi doveri sono naturalmente dati a tutti gli uomini: ma questi ultimi, verso i bimbi poverelli, ve li siete assunti voi stessi, diventando soldati volontari nell’esercito della più simpatica carità. Ed è appunto perchè voi stessi vi siete addossato questo compito di fare del bene ai bimbi poveri, che non dovete mai venir meno a tale dovere. Avete accettato con gran cuore, per consiglio dei vostri ottimi genitori, l’onore del Pesciolino, che vi faceva partecipi della carità: avete fatto delle rinuncie ai dolci, ai divertimenti, ai balocchi... siete stati sempre bimbi meravigliosamente buoni. Quante volte io mi sono commosso pensando alla vostra generosità, ed ho pregato il Signore di ricambiare le vostre generose offerte con quelle benedizioni che solo Lui può spargere sulla vostra graziosa e preziosa vita!

«Ora è tempo che voi, bimbi maturi nel bene, veri Balilla dell’Italia di Mussolini, dimostriate che la vostra buona volontà non fu fuoco di paglia, e che anche quest’anno vi facciate onore. È vero che molti dicono che siamo in tempo di crisi e che denari ve ne sono pochi. Ma siccome dei poveretti ve ne sono più che mai, è necessario che i buoni moltiplichino il loro eroismo e che siano capaci di farsi delle restrizioni per venire in aiuto ai più bisognosi. Il dovere qualche volta richiede /13/ l’eroismo, e voi, amati Pesciolini, non sarete certamente dei deboli che si rifiutano di fare dei sacrifici e di essere eroici.

«Avete sentito che molti bei soldatini d’Italia partono per l’Abissinia? Li ha chiamati l’ordine del Re, il volere del Duce, la gloria d’Italia, la salvezza della Civiltà. Ed essi partono allegri ed orgogliosi di assolvere il loro dovere. Anche colui che scrive ha preparato la divisa militare e non attende che un semplice ordine per imbarcarsi per l’Africa, quale primo Cappellano dei battaglioni delle Camicie Nere. Ed egli, vecchio Cappellano degli Arditi, parte contento, con la certezza di essere accompagnato dalle preghiere di tutti i suoi diletti Pesciolini, e con la promessa di ricordarli sempre tutti, e di ritornare per trovarli ancora tutti uniti nella bella e santa opera della Carità.

«Compite pure voi il vostro eroico e nobile dovere, e come i soldati d’Italia un’altra volta si preparano a versare il sangue per coronare di gloria la Patria, offrite generosamente i vostri sacrifici affinchè in Italia vi sia sempre minor numero di poveri e più grande letizia nei cuori innocenti dei bimbi vostri fratelli. Così e così solo l’Italia sarà sempre più bella!».

Aprile 1935.

Ill. fra le pp. /12/ e /13/

Ultima lettera di Padre Giuliani
ai Pesciolini del Po

Ultima lettera

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/14/

Tendopoli domenicana
a Varazze

Addio bella Torino!

Nelle prime ore del pomeriggio un fiorito reparto di esploratori, susseguito da un plotone di sportivi bianchi e neri, attraversava le strade torinesi, diretto alla stazione di Porta Nuova. I gagliardetti sventolavano in testa ai reparti: Pronti ecc. è ancora oggi una canzone degli scout; più avanti è citata la strofa Bello è il bivacco ecc.

Pronti, compagni allineati a schiera
tutti all’appello vigili e sicuri
bastone in pugno, sacco a bandoliera:
squadriglie avanti al rullo dei tamburi!

I tamburelli rullavano e il passo delle squadriglie affardellate snodavasi con frenesia.

Si partiva: il 15° reparto «Lepanto» e la sportiva delle «Fiamme Bianche», un’ondata di ottanta giovinezze lasciava l’afosa città e invadeva un largo carrozzone del diretto di Savona. Parenti ed amici s’accalcavano sulla banchina della stazione per dare l’ultimo addio ai cari visetti che, incorniciati dalla larga falda del cappello, si affacciavano e si sovrapponevano agli sportelli del treno. Occhi di mammine e occhi di fanciulli s’imperlavano di lacrime.

Il treno scricchiolando s’invola sul binario, con uno sventolìo di bandiere, di pezzuole bianche e di manine protese all’ultimo saluto.

In treno

Il lungo carrozzone è invaso da una gioia un po’ scomposta, ma serena: le bianche tonache dei due Padri domenicani s’aggirano premurose, diffondendo ordine e calma.

Ognuno s’è allogato fra gli zaini gonfi e le masserizie del campo che pendono dalle pareti o s’affastellano sotto i sedili. Canzoni e musiche. Le trombe e i tamburi accompagnano i canti degli «scouts» e riempiono tutti gli intervalli. E poi si sciolgono i sacchi e s’incomincia (sempre troppo presto!) a rosicchiare le munizioni di viaggio che le buone mamme hanno /15/ confezionato. I bei giovanotti della sportiva, più resistenti agli stimoli dell’appetito, accantonati in una estremità, continuano a provare sulle chitarre, sui violini e mandolini, le musichette che dovran spandere tanta gioia per tutta la durata del campo.

Da Savona a Varazze il treno corre lungo la marina. Il cielo non è sereno, ma il mare non perde il suo incanto, anche se velato nella tinta delle nubi. Al primo apparire della striscia luminosa un grido di gioia scoppia da tutti i petti, come dai diecimila dell’Anabasi di Senofonte.

A Varazze

La bella cittadina adagiata sul magnifico golfo, coronata da monti verdeggianti, era la mèta nostra. I buoni Padri domenicani dell’antico e grazioso convento ci accolsero come i fratelli minori d’una stessa famiglia: a loro s’unì Don Ferraris e i giovani del suo Circolo.

Si iniziò poi la marcia per superare i quattro chilometri che ci separavano dal campo. Qualche goccia d’acqua rinfrescava l’aria, ma i giovani non si sgomentarono, e coi canti e gli urrah si internarono presto nella magnifica pineta d’Invrea per la strada che si svolge parallela alla costa. E siamo giunti finalmente! L’ora è tarda, ma due grossi lumi ad acetilene illuminano la foresta, per l’operazione non facile dell’erezione delle tende. Si accende la gara, comune fra le squadriglie scautistiche, a chi prima rizza la tenda. Prima delle 21 la pineta presenta un nuovo aspetto fantastico: fra i tronchi annosi sono distribuite più di venti tende e fra esse un aggirarsi irrequieto di ragazzi allegri che vociano e cantano ancora.

Quando il trombettiere fece udire le belle note del silenzio, ognuno rientrò ed ebbe il suo posto distinto sul suo piccolo saccone di paglia. Il riposo, al campo, deve sempre essere una impellente necessità: ma quel giorno i Padri direttori non avevano avuto da arrabattarsi per procurare alle agili membra dei loro giovani quella stanchezza che è madre di salute e di moralità.

/16/

La giornata al campo

Non sarà più la mamma
Che ti sveglia la mattina,
Sarà la trombettina...

Al primo squillo tutto il campo è invaso dai giovanetti che sbucano dalle tende per fare la pulizia personale. Ve acqua abbondante ad Invrea: un grazioso ruscelletto, figlio d’una chiara fonte vicina, passa all’orlo del campo invitando a rinfrescare i visi.

E poi un alto squillo aduna le vispe schiere attorno al piccolo altare da campo appoggiato al tronco d’un bel pino. Lo stesso altarino, la stessa bandiera che porta impresso il Sacro Cuore di Gesù hanno conosciuto il campo di battaglia, fra i fanti e gli arditi dello stesso Cappellano. Ora, lo scenario è ancora lo stesso: cielo, mare e pineta. Ma le corone viventi dei cuori sono mutate: non più militi armati alla vigilia d’un assalto di sangue, ma miti schiere di giovani che pregano ad alta voce, che cantano le lodi della Madonna. E quasi tutti si accostano, devotamente, ogni mattina, a ricevere il Pane degli Angeli. Onde, non a torto, una canzone degli esploratori canta:

Bello il bivacco nella sua vicenda,
bella la Messa al campo di montagna
quando l’aurora illumina la tenda
e par che preghi tutta la campagna.

Dopo la S. Messa, la colazione. Marmitte fumanti di cioccolato vengono vuotate, mestolo per mestolo, con una celerità vertiginosa; e poi v’è la musica (di tutte più gradita) delle gavette e dei cucchiai... L’appetito non manca: aria imbalsamata, larghe nuotate mantengono in continua efficienza l’attività dello stomaco.

Due bagnature al giorno, fatte sempre sotto la vigile solerzia di due bravissimi bagnini, riempiono la parte maggiore della nostra giornata. Quale incanto, là sulla piccola duna, rinchiusa fra le roccie rivestite di pini, e tutta completamente riserbata a noi, dalla generosissima ospitalità delle marchesine Jolanda ed Elena Centurione Scotto! V’è chi impara a nuotare /17/ sotto la guida dei Padri o di qualche compagno provetto: v’è chi si affida gagliardamente ai flutti e ci ricorda i versi del Giovanni Alfredo Cesareo (Messina 1860 - Palermo 1937), Inni 1895 poeta:

O Sacro Mar, tu allevi i poeti e gli eroi;
A chi pensiero e braccio temprò ne’ flutti tuoi,
dormire il cuor non suole!

Non manca il divertimento della barca. È uno sport completo.

I sacchi del pane, alti come colonne, s’annientano: il cuoco, il bravo cuoco a cui vanno frequenti, spontanei e clamorosi gli urrah, per le nuove e sempre geniali trovate, è sempre in attività, e la sua cucina all’aria aperta ha frequenti visite, fuori orario, di assaggiatori spontanei...

Genitori lontani e vicini

Il cuore del giovanetto è unito alla famiglia, come il fiore al cespite: così deve essere, poichè solo amando i genitori si impara e s’incomincia ad amare nel mondo.

È dunque necessario fomentare questo sacro amore, ne’ nostri ragazzi.

Il piccolo tavolo portatile coi sei seggiolini è fissato in mezzo al campo e offre matite, penne, calamai, cartoline e carta da lettere: e v’è sempre una lunga coda di aspettanti il turno per scrivere a casa. Quanti scarabocchi, ma pur parole belle, buone, promettenti, in quelle cartoline! E soprattutto quante fiamme di affetto purissimo!

Liete serate

Riportiamo dal diario di un ragazzo:

«In mille modi si trascorrevano le nostre sere.

«Sovente si andava alla “piola”: così era detta nel nostro gergo un’osteria rustica, appollaiata fra le palme e i pini del Castello d’Invrea, dove s’ingannava il tempo fra consumazioni di gazose, birra, caramelle... e il gioco delle boccie. /18/ Le buone signore e signorine della “piola” moltiplicavano le loro cure, così che ci parevano buone e pie mamme e sorelle. Le migliori fra le nostre serate furono quelle in cui allestimmo, un po’ alla svelta, delle rappresentazioni all’aperto, in onore dei nostri ospiti. L’orchestrina, composta di violini, mandolini, chitarre, trombe, tamburi e timpano, ci faceva sentire pezzi di ottimo effetto. I bravi filodrammatici recitavano bozzetti, macchiette e monologhi. Chiudeva sempre la serata un atteso e magnifico spettacolo pirotecnico. I buoni agricoltori di Invrea, i signori villeggianti formavano un pubblico completo e sempre largo di applausi».

Ma chi ci potrà togliere dall’animo la nostalgia di quei plenilunii d’argento, e di quelle canzoni gettate a squarciagola da un largo cerchio di «scouts» nell’aria salsa e profumata di quelle incantevoli serate? Solo chi si è immerso in quella purissima gioia può intenderla pienamente.

Quando la ritirata squillava per l’aria abbrunita, l’altare da campo rosseggiava al lume dei ceri e ci invitava a cantare l’ultima canzone – una lode alla dolce Madonna degli esploratori – e a recitare le preghiere e a ricevere gli avvisi dei buoni Padri.

Il campo piombava poi nel silenzio profondo. Due «scouts» ravvolti nelle oscure mantelline, facevano per turno il servizio di ronda notturna... e spesso s’incontravano in una guardia non meno vigile... la bianca tonaca d’un Padre.

Agosto 1924.

Illustrazioni fra le pp. /18/ e /19/
CroceSpada016a1

«... quale incanto sulla piccola duna rinchiusa fra le rocce rivestite di pini!».

CroceSpada016a1

«... lo stesso altarino che ha conosciuto il campo di battaglia tra i Fanti e gli Arditi dello stesso Cappellano...».

/19/

Davide e Balilla

La storia di Davide è ripresa da 1 Sam 16 sgg. Quando il vecchio sacerdote, che cercava un Re per il popolo, ebbe veduto tutti i figli di Isai, levò lo sguardo sospiroso verso il padre, interrogandolo: «Non ne hai altri». Quegli rispose: «Resta ancora un fanciullo che sta al pascolo delle pecore». «Fallo tosto venire», soggiunse il sacerdote.

Una voce gettata sulla prateria fra i pastori ricondusse in casa un adolescente quindicenne, di cui Ludovico Ariosto (Reggio Emilia, 1474 - Ferrara 1533) Orlando Furioso XVIII, 167 il poeta avrebbe potuto cantare:

Occhi aveva neri e chioma crespa d’oro
Angiolo pareva, di quei del sommo coro.

Roseo di colorito, biondo di capelli, coperto di leggera, candida tonaca, balzò davanti al padre in armoniosa sveltezza. Era il più giovane di casa, il più amato dei numerosi fratelli: fra i coetanei era stimato il più forte, l’invincibile. Anche gli anziani ambivano la presenza del garzoncello per la sua speciale abilità a pizzicar l’arpa. Alla sera, quando i pastori vegliavano in cerchio attorno ai fuochi lingueggianti all’aperto, la sua slanciata personcina, illuminata dalla fiamma, balzava viva sopra il giro dei bianchi baraccani accoccolati, e gettava nell’aria certe ondate di melodie argentine e trillanti che parevan fermarsi nel cielo le stelle ad ascoltare. Di dove traeva quelle melodie? Chi gli dettava le parole piene di senso e di incanto? Chi gli aveva adattato fra le mani la fistola dai sette fori e il decacordo fremente?

Il pastorello di Betlem non aveva avuto altra scuola che l’armonia naturale che fascia quelle edenniche terre orientali. Non era stato avvolto che dall’onda del gregge, delle candide sue pecorelle, che salendo dai lavacri correvano a lambirgli le mani rosee dalle dita affusolate, trasparenti quasi, adusate a pizzicar le corde, a vellicare i dorsi lanosi. Negli occhi larghi, cerulei, mitissimi alle volte, alle volte lampeggianti, vi era tutto un candore d’innocenza, un balenìo d’autorità, uno sfolgorar di genio, che, a dispetto della minorità fra i fratelli, lo facevan facilmente presagire il dominatore della sua tribù.

Se non che nell’anima il giovinetto nutriva un profondo /20/ rispetto e un amore senza limiti all’Iddio de’ Padri suoi. Perfetta è la sua sensibilità che percepisce ogni voce dell’universo, fremente d’uragani, mareggiato di soffi: ma la sua spiritualità lo lancia più in alto, a cercare il Creatore, ad amare il suo Dio. Perciò egli canta; e le sue canzoni sono tutte ardentissime preghiere.

Il genio e l’eroe hanno per primo maestro, per ispiratore diretto quel Dio che li suscita quando e come e dove Egli vuole: anzi talvolta li suscita fra le condizioni più sfavorevoli per deridere quegli stolti che fanno nascere ogni cosa – persino la virtù autentica – dalle fredde combinazioni della materia.

Davide intanto, in mezzo ai fratelli che nulla comprendono della misteriosa cerimonia, riceve da Samuele la mistica unzione di Re d’Israele. L’olio profumato scende sulle bionde chiome fiorenti di puerizia, mentre il cuore del fanciullo trema e le sue labbra s’atteggiano a un salmo di ardito ringraziamento. Quella sera, fra i pastori accoccolati attorno ai fuochi, la sua canzone fu patetica del più alto lirismo.

Alcuni anni di poi doveva palesarsi a tutto Israele l’elezione regale fatta dal cielo. Mentre i fratelli di Davide sono tutti arruolati in guerra contro i filistei, egli intende un banditore che annuncia: «Chi ucciderà quel bastardo filisteo che insultò il popolo di Dio, avrà la figlia del Re in isposa e l’esenzione dai tributi per tutta la sua gente». Il giovinetto s’infiamma e decide di affrontare il beffardo Golia. Al Re Saulle che lo dissuadeva, deridendo la giovinezza sua, Davide risponde: «Quando il tuo servo pascolava le greggi del padre suo, io inseguii e uccisi un orso e un leone rapace: così ucciderò il filisteo».

Il Re stesso ordina d’armare il pastorello: ma questi, inadatto a reggere l’elmo e la spada, riprende il bastone, la fionda e cinque ben scelti ciottoli. Golia deride, bestemmiando, ignaro, l’avversario. Ma Davide risponde: «Tu vieni a me con la spada, la lancia e lo scudo: ed io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti». Il duello fu breve, l’incontro repentino. Agile e svelto, caricata la fionda, Davide vibra il colpo che conficca il sasso nell’ampia fronte del gigante. Il /21/ colosso stramazza al suolo, mentre il giovincello gli balza addosso e con la spada del caduto gli spicca la testa.

I filistei, caduto il più forte di loro, se ne fuggono inseguiti dagli israeliti. Fu una giornata di vittoria, di bottino e di ebbrezza. E sulle labbra dei vincitori corse in gloria il nome del giovinetto eroe che, in un istante, dalla democrazia veniva assunto agli onori della successione reale.

Molta strada e molta gloria è riserbata al futuro monarca; ma quella vittoria riportata nella valle del Terebinto contro il bastardo Golia sarà per sempre uno dei ricordi più belli della umanità, ed anche quando nel cuore dell’Italia nostra Donatello, Andrea del Verocchio e Michelangiolo vorranno, nel marmo e nel bronzo, ideare un fiore di giovinezza satura di forza e di beltà, che s’erge perenne sul mondo, balilla dell’umanità, figureranno il giovinetto Davide che nell’audace e pur modesto suo eroismo canta, più con l’anima che con l’arpa: 2 Sam 22:33 sgg. «A Dio che mi cinge di forza – che insegna alle mie mani la guerra – che le mie braccia fa quasi arco di bronzo».

Il gesto repentino dell’antico fromboliere giovinetto, eternato dall’arte, non brillò infecondo agli occhi della gente italiana assueta a produrre ininterrottamente genii, eroi e santi. L’ispirazione divina agitò un’altra volta un cuore fanciullo a liberare con un colpo maestro la propria terra dalla profanazione dello straniero.

Il moderno Giovanni Bertacchi (Chiavenna SO 1869 - Milano 1942) poeta cantò:

Balilla, divino monello, tu balzi
foriero improvviso d’un’ira pugnace:
col braccio fermato nell’atto audace
per sempre t’innalzi.

Nel meraviglioso fascio di vite eccezionalmente grandi che l’Italia offrì all’onore del mondo non doveva mancare questo fiore di giovanile arditezza. La sensibilità squisita di cui è do- /22/ tato tutto il sangue italico doveva accentuarsi nel cuore di un giovinetto, improvviso eroe di una grande causa, di cui egli diventava profeta e apostolo nel tempo stesso.

Quando il nome di Patria non fasciava ancora di amore fraterno ed eroico i popoli diversi della penisola, quando erano ancora lontani di una ottantina di anni i primi moti patriottici del 1821, quando i canti del Brofferio non erano ancora nati, il monello di Portoria lanciò il sasso contro lo straniero. Nei suoi neri occhi a mandorla di fanciullo genovese, nel suo braccio adusato a fender l’acqua ne’ guizzi spumosi, nel suo grido trillante: Che l’inse?, balena una improvvisa luce che ridesta, che scuote. Il gonfalone di S. Giorgio ha un fremito mentre il popolo intero, al grido di Viva Maria, la celeste Protettrice di Genova, riacquista la coscienza della libertà e il coraggio della più santa rivoluzione.

Ma non è certo da attribuirsi al caso o alle sole circostanze l’atto ardito del pugnace fanciullo. Le nostre azioni sono anzitutto figlie della nostra volontà: se pur gli improvvisi scatti della nostra sensibilità sono prodotti dal temperamento nostro modificato dalle abitudini. La prima causa di tutte le nostre azioni poi è l’anima nostra, che può essere diversamente educata, nel bene o nel male.

Il I bimbi d’Italia si chiaman Balilla: la frase è nel Canto degli Italiani di Goffredo Mameli (Genova 1827 - Roma 1849); non ho trovato la citazione corrispondente in Angelo Brofferio (Castelnuovo Calcea AT 1802 - Minusio CH 1866) Brofferio nella sua bella canzone afferma che i bimbi d’Italia si chiaman Balilla. Tutti? Oggi potremmo rispondere di sì, poichè quasi tutti i fanciulli italiani fanno parte dell’O.N.B. Se non che l’antico proverbio che ci ammonisce che non è l’abito che fa il monaco, ci fa pensare che veri Balilla non sono se non quei giovinetti che hanno l’anima forgiata a modello e somiglianza dell’eroe genovese. Cuore ardente e puro, fegato sano, anima nobile e sinceramente cristiana ci appare la figura di quel Gian Battista Perasso (battezzato nella chiesa di S. Stefano il 26 ottobre 1735 e seppellito in quella stessa chiesa), in cui pare identificarsi il leggendario Balilla. Nè può essere altrimenti, perchè l’eroismo vero non sorge che dalle profonde qualità dell’anima.

Sotto ogni camicia nera vi sia adunque un cuore ardente e puro, un fegato sano, un’anima nobile e sinceramente cristiana: Iddio che agita i cuori, che combina gli eventi, muo- /23/ verà il braccio ai gesti audaci e darà quella gloria bella, che è di servire alla causa della Patria, eroicamente.

In ogni tempo e in ogni luogo questa gran Madre che è l’Italia nostra, vuole godere del gesto eroico dei diversi balilla.

Nel secolo decimosesto un enorme masso di marmo bianco, guasto da un inetto scultore, rifiutato dai migliori, giaceva nei magazzini di S. Maria del Fiore in Firenze. La Signoria l’offrì al vecchio Leonardo da Vinci: che ne prese le misure e titubò con infinite lentezze. Ma un giovanissimo artista intanto s’incaricava di farne un’opera d’arte, e ripetendo: «Talvolta, quando non si fanno tanti calcoli, si riesce meglio», in soli venticinque mesi di lavoro assiduo ne fece un capolavoro, il Davide. Michelangiolo Buonarroti fu anch’egli balilla! Anch’egli lanciò «la pietra», la lanciò in alto come un getto che fiorisse perenne nella gloria della Patria, dell’arte e della civiltà.

«Ogni generazione ha la sua fatica e la sua gloria», disse Arnaldo Mussolini agli avanguardisti nel 1929: e noi lo ripetiamo ai balilla e avanguardisti di oggi, consapevoli che il condurre a termine l’audace e febbrile rivoluzione ideata e diretta dal Duce, spetta proprio a voi, o fortunati balilla e avanguardisti di oggi, che vi struggete nell’ammirazione del vostro eroe, ansiosi dell’avvenire per riempirlo delle vostre gesta. Una trincea vi attende per domani, nell’immenso campo della vita: se non sarà la trincea fangosa del Carso o del Piave in cui macerò il babbo, potrà essere un tavolo di studio o un banco di lavoro: sarà sempre una trincea, perchè là si forgierà la fortuna della Patria.

Ma, affinchè in gesto di eroe si muti il trastullo di oggi, come il lavoro di domani, è necessario che le profonde virtù dell’anima siano da voi valutate, ricercate, curate. Leggiadri adolescenti, correrete verso il vostro dimane col remo e con l’ascia, per la terra, per il mare e per il cielo, sotto la guida del Duce, con la benedizione di quel Dio, cui potrete sempre cantare con Davide giovinetto: «A Dio che mi cinge di forza – che insegna alle mie mani la guerra – che le mie braccia fa quasi arco di bronzo!».

29 Novembre A. XII.

Illustrazioni fra le pp. /22/ e /23/
Balilla Dalmati

Campo dei Balilla Dalmati.

Messa al campo

«... sotto ogni camicia nera: cuore ardente e puro, fegato sano, anima nobile e sinceramente cristiana...».

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Palme e fiori alla giovinezza

La giovinezza è l’età dell’attesa. Essa, che spande sul viso e sul corpo la luce e la freschezza che l’alba spande sulla terra, promette all’anima un giorno sereno, tutto luce e felicità.

La puerizia è forse ancor in fiore, pronta nelle rose turgide delle gote e nel giglio della fronte, ma la virilità comincia a svelarsi nello sguardo fatto più profondo e lampeggiante; allora l’anima vien tormentata da una sete folle di conoscere, di sapere, di godere: il cuore si fa un braciere ardente di desideri. È questo il preludio dello svegliarsi alla vita; e poichè tutto è vergine in quell’anima, la speranza la pervade, la speranza che il filosofo definì «il sogno dell’uomo che veglia».

Onde la giovinezza è l’età dei sogni: sogni veduti ad occhi aperti, sogni tutti belli, letizianti e promettenti.

Quante volte, nel chiuso della sua cameretta o al rezzo di albero amico, la mamma sorprende il giovane adolescente cogli occhi spalancati che nulla guardano e nulla vedono, e posandogli leggermente la mano sulla spalla gli chiede con materna tenerezza: «Che fai, figlio mio?». Egli, fatto rosso repentinamente, quasi colto in fallo, risponde: «Penso...». Pensi, ma a che pensi? Tu sogni e i tuoi sogni sono belli, letizianti e promettenti; tu nuoti mollemente immerso nell’azzurro oceano dell’avvenire, che tutto t’appartiene, tu giovane possente meraviglioso dominatore di quel mondo effimero che la tua ardente fantasia va creando a suo genio e a suo servizio.

Di questi sogni Friedrich Schiller (1759 - 1805), Don Carlos atto IV “Ditegli che, quando raggiun­gerà l’età virile, onori i sogni della gioventù...” Johann Wolfgang von Goethe (1749 - 1832)... Tommaso d’Aquino (Roccasecca FR 1225 – Fossanova fr. di Priverno LT, 7 marzo 1274) ... Schiller diceva: «Insegnate a rispettare sempre i sogni della propria infanzia», e Goethe ammoniva: «Noi dobbiamo comportarci con i giovani siccome Dio con noi, il quale pel nostro meglio ci lascia cullare fra lusinghiere illusioni».

Non sono tutte queste vane illusioni, fredda luce di pallida luna, molte sono vivifico raggio di sole. Tutto l’avvenire della società sta in questi sogni fecondi della gioventù come albero in seme. L’«Aquinate» insegnò che «i giovani sono felici per le speranze che posseggono e che perciò in essi il cuore si amplifica: e che dall’ampiezza del cuore nasce l’insorgere alle alte e grandi opere».

/25/ Adunque nei giovani un gran cuore è sempre accoppiato ad un gran fegato, al dire del massimo dei filosofi italiani. Nè la sua asserzione teme smentita dalla nostra esperienza, poichè sappiamo che tutte le audacie più sante si lanciarono dalle pedane della giovinezza, arse di delirio e di fede.

Che valsero e l’ingegno e la fredda tenacia se non congiunti allo slancio, al coraggio giovanile? L’ingegno fu reso sterile, la volontà sepolta dalla codardia, dalla pigrizia, dalla titubanza.

Lasciate adunque che il dinamismo della giovinezza fecondi le speranze, e il poeta potrà cantare nei sogni dell’adolescente questi versi: «Non sa che brami... d’aria di luce fiera sete lo strugge... Oh se disciolta gli fosse la catena, oh se potesse coll’aquila levato oltre quei monti... batter l’ala in più liberi orizzonti!».

Un altro poeta vi potrà far seguire la figura indomita del giovane alpinista che, indarno dissuaso dal contadino, dal vecchio e dalla fanciulla (nelle quali figure si impersonifica la triplice concupiscenza, nemica d’ogni eroica azione), ascenderà verso l’ardua vetta sinchè nelle recenti nevi un viaggiatore lo trova sepolto – Henry Wadsworth Longfellow (1807 – 1882) Excelsior 1841 «e ancor reggeva nelle diacciate mani – uno strano vessillo al ciel rivolto – e questo motto in esso misterioso espresso: Excelsior».

Ed è per tal ragione che la giovinezza diventa l’età della donazione, del sacrificio.

L’adulto, il vecchio è tentato dall’avarizia: egli sa di quali sudori, arti e compromessi sia frutto il suo capitale, piccolo o grande; e sa pure con quale velocità corra la vita, perciò è avaro non solo delle cose, ma pur di se stesso. Il giovane invece dalla esperienza, dalla santa ingenuità, dal suo stesso dinamismo è portato alla prodigalità, egli è l’eterno figliuol prodigo del Vangelo.

Se il cuore giovanile riesce ad emanciparsi dagli ambienti di seduzione e dall’influenza dissolvitrice della lussuria, allora il donarsi ad una gran causa diventa ebbrezza, l’eroismo anche irresistibile ed il martirio felicità; così si va all’assalto con i guanti infilati e il fiore all’occhiello e si muore cantando.

Tutte le trincee d’Italia hanno visto questi eroi giovanetti, /26/ degni di essere coronati da un novello Omero dell’aureola policroma della leggenda. La gloria di questa gioventù assurge così a gloria della Patria, poichè dal suo sacrificio sorsero i lauri della vittoria.

Chi resiste all’impeto della gioventù che tutto dà per l’ideale che le brucia l’anima? Si forza il destino; gli eventi cedono; il cielo tentenna; l’avvenire si apre; la vittoria splende; quindi la giovinezza fu detta giustamente l’età delle vittorie.

Il Giacomo Zanella (Chiampo VI 1820 – Cavazzale di Monticello Conte Otto VI 17 maggio 1888) Sopra una conchiglia fossile 1864 Giambattista Vico (Napoli 1668 – Napoli 1744); la frase cit. è in De mente heroica 1732 poeta cantava: «Se schiavi se lacrime – ancora rinserra – è giovin la terra!». Quasi inducendo dalla gravità del pericolo l’esistenza necessaria di quelle reazioni di forza e quindi di giovinezza, provvidenzialmente suscitate da Dio nel mondo. Alla canzone del poeta fa eco la dichiarazione del filosofo italico G. B. Vico: «Mundus iuvenescit adhuc».

Ma se è giovine la terra, e se ringiovanisce il mondo, più giovine ci appare oggi questa bella generazione che fiorisce nelle rinnovate schiere della nuova Italia.

Date dunque a lei fiori e palme!

1929.

/27/

Il santo atleta

La popolarità, l’aureola che in tutti i tempi, ma oggi specialmente, grazie ai possenti mezzi di diffusione delle idee, circonda il capo di molti Santi, ritenuti universalmente, dai nostri e dagli avversari, come benefattori dell’umanità, la popolarità non è data al nostro Santo. Si studiò il fenomeno della moderna indifferenza verso il Patriarca domenicano e se ne scoprirono le cause «nella poco conoscenza della sua personalità, nei vecchi pregiudizi o avvenimenti storici, mal compresi o svisati», ma io credo che niente forse ha più fatalmente aiutato a stendere foschi veli sulla grande figura di La trattazione della vita del Santo è in gran parte ricavata dall’opera di Henri-Dominique Lacordaire (1802-1861) Vie de Saint Dominique Paris 1841, con l’aggiunta di ampie citazioni dalla Divina Commedia S. Domenico, che l’odio settario dei nemici della Chiesa. La missione di carità esercitata da Francesco d’Assisi ha strappato la simpatia anche dei più ardenti nemici del Cristianesimo, che ne esaltarono non le virtù soprannaturali, ma la dolcissima umanità. Ma Domenico, il fiero combattente, il nemico implacabile dell’eresia, il difensore pugnace del dogma e delle prerogative della Chiesa romana, non può riuscire simpatico alla mandra dei pennaioli del romanzo e del giornale, che non si stancarono ancora di sbrancare quotidianamente per correre all’assalto della Chiesa.

Ecco tutto: alla volpe non è simpatico un cane; e meglio assai: non ricordare la corda in casa dell’appiccato. Ma, per carità, teniamo esclusivamente il proverbio nel senso metaforico, poichè altrimenti potremmo correre il rischio di rinforzare gli avversari, che si stillarono il cervello per tramandare alla storia le fiabe di crudeltà, di squartamenti, di macellazioni di cui fecero protagonista Domenico di Guzman.

La storia vera, quella che si fa dagli scienziati, ha dimostrato con argomenti irrefutabili che S. Domenico nè fondò l’Inquisizione, nè fu mai inquisitore nel senso esatto della parola, e che egli non prese alcuna parte militare alla battaglia di Muret. La scienza ha messo in luce la sua anima di combattente eroico, non della spada, nè della giustizia umana, ma della verità, il cavaliere armato di fede e di dottrina.

Tutte le circostanze della sua vita formano attorno a Lui un ambiente che non si può meglio definire che dicendolo un /28/ campo di battaglie dottrinali. La sua forte intelligenza si era affilata in quelle università spagnuole, dove gli arabi facevano risorgere, ora timide ora già ardite, le obbiezioni dell’antico paganesimo ellenico: lo studio assiduo e la preghiera nella comunità dei canonici di Osma lo prepararono immediatamente all’apostolato fra gli albigesi. Mentre accompagnava il suo vescovo in missione politica, osservò le devastazioni compiute nel centro dell’eresia, presso Tolosa, e provò subito un irresistibile impulso a rimanere in quella infelice regione per riconquistarla a Cristo. E vi dimorò per circa dieci anni (fino al 1216), i più belli della sua vita, lieto, lavorando e preparando a tutte le eresie del tempo e dell’avvenire il più terribile avversario colla sua milizia dei Frati Predicatori. E come fanciullo

spesse fiate fu tacito e desto
trovato in terra dalla sua nutrice
come dicesse: Io son venuto a questo.
(Dante, «Par.», XII)

così fu trovato con maggior frequenza nelle località più infette dall’errore, e a chi se ne meravigliava rispondeva: «E che! si avranno a temere i nemici di Dio?». Il carattere adunque del «santo atleta» fu tale quale Dante lo scolpì nella meravigliosa terzina:

e negli sterpi eretici percosse
l’impeto suo, più vivamente quivi
dove le resistenze eran più grosse.
(Dante, «Par.», XII).

Questo spirito aggressivo, questo bearsi nelle lotte per la fede, questi spontanei e quasi voluttuosi atteggiamenti di sfida contro l’errore sono i gesti più belli d’una santa gioventù. Quando nel cuore ribolle un vulcano di sangue, non nasce forse quel coraggio leonino che fa sprezzare e fiaccare le rinascenti idee acattoliche? Quanta giovinezza nell’ardire di questo Santo! La giovinezza nella sua essenza è attività, è coraggio, è audacia.

L’educazione odierna vorrebbe spoltrire la gioventù nelle battaglie ginniche delle gare di foot-ball e di boxe; ma ricor- /29/ dino i giovani che non basta assecondare l’irrequietezza e l’ondeggiamento delle membra per vivere da giovani, poichè i muscoli si sviluppano ed ingrossano anche quando le anime striminziscono ed invecchiano. Aspirazioni di pugne più alte, preparazioni più dense d’intellettualità e di religiosità debbono dare sfogo nobilmente proporzionato alla intensa vitalità dell’anima.

Un’alba nuova di rinnovamento cristiano illumina i nostri già cupi orizzonti, e la nostra gioventù che vuole spargere i primi fiori sul sentiero del sole cristiano che sta per nascere, deve deporre l’apatia, la vigliaccheria, la volgare materialità dell’ormai tramontata società anticlericale, e deve rivestirsi delle armi della luce. Giovani, mano alle spade..., che non devono essere di ferro materiale e pesante, che devono invece essere gli argomenti per la difesa spirituale della nostra santa religione!

Per riconquistare il mondo, per diventare i nuovi atleti della fede, come Domenico, che

in picciol tempo gran dottor si feo,

appassionatevi allo studio delle questioni religiose e avrete sempre le armi affilate e lucenti che illuminano le anime e confondono l’errore.

I segni della perenne giovinezza

La combattività intellettuale di S. Domenico venne alimentata da forte fede nei suoi ideali di conquista cattolica, e dall’amore ardente di cui arse il suo cuore.

Egli credeva non solo ai dogmi cristiani, ma ancora alla bontà della natura umana. Era altamente persuaso che un saggio insegnamento, un lucido apostolato avrebbe vinto finalmente e sradicata l’eresia manichea. E questa certezza, secondo che la storia ci attesta, egli non l’attingeva ad altre rivelazioni del Cielo, ma la sentiva nascere nelle profondità del cuore.

La giovinezza ha i suoi sogni. I vecchi scettici, i freddi calcolatori li dicono illusioni; lo spirito di Dio, che parlò di queste intuizioni giovanili, le ha semplicemente definite «vi- /30/ sioni». Sono alle volte placide contemplazioni; altre volte, lampi, che illuminano gli occhi dell’adolescente e lo spingono verso ignoti lidi. Il giovane è un perpetuo sognatore; ma ad uno ad uno gli anni si getteranno contro quelle visioni, e, quando ne avranno dissipata l’ultima, si assideranno trionfanti sulle rovine, certi che la giovinezza vi è seppellita per sempre. La vecchiaia comincia quando tramontano i sogni. Ma il cuore di Domenico non conobbe questa disfatta. Nel suo sguardo dolcissimo languiva perennemente una nostalgia fervida di sogni, presso a compiersi. Come dai Versi 1868 «L’adolescente», descritto dallo Zanella, veniva combattuto da «un incessante affollar di fervide brame» e nell’anima gli sonava perpetuamente una voce

Che ad alti mondi lo solleva, e questo
Pur gli fa benedir dove dimora.

Prima sognò gli ardori sacerdotali, e poi la conversione dei Manichei, e poi la fondazione d’un Ordine di apostoli, e poi, a cinquantanni, si lasciava crescere la barba onde esser pronto a partire per le missioni fra gl’infedeli... L’ingenuità celestiale del suo spirito gli dimostrava effettuabili e facili tutte le più ardite imprese: come un getto possente di fuoco gli scaturivano nell’anima il coraggio e l’audacia delle più sante conquiste.

Dobbiamo, adunque, imparare a sognare. V’hanno dei farneticamenti giovanili che S. Paolo ha detestato, quando scriveva a Timoteo: «Fuggi i deliri giovanili» (lettera II, cap. II). Ma ve ne hanno degli altri che Iddio ha promesso al popolo eletto nel giorno del premio. Sono questi i desideri dei santi, i sogni ingenui, puri ed ardenti, nei quali stan riposte, come nella semenza, le speranze della Chiesa e dell’umanità. Chi volesse sopprimere questi sogni distruggerebbe d’un tratto ogni più bell’avvenire. Non debbono isterilirsi i sogni che oggi illuminano la gioventù cattolica della nostra Italia. Non lasciamoci spoetizzare dalla fredda prosa di questo vecchio mondo che nulla valorizza all’infuori del lucro, che di nulla altro gode che della sensualità. In alto, o giovani, guardate in alto, di dove viene la luce, dove brillano ideali sfolgoranti e perenni /31/ più del sole. Dovete vedere quello che i profani non vedono, ed amare quello che gli uomini bestiali non amano.

Il cuore è un’altra gran forza della gioventù: solo le anime veramente giovani sono capaci d’intensi affetti. L’espansione, il bisogno di donarsi, l’accendersi sino all’entusiasmo, ecco le prove della giovinezza.

Ma non ama profondamente chi non è pronto ad odiare altrettanto profondamente. Nessuno più di Gesù, focolaio d’ogni più forte affetto, ha odiato il peccato. Di S. Domenico il Padre Lacordaire ha scritto che fu «tenero come una madre, e più forte del diamante»; e il nostro sommo poeta, con un verso meraviglioso per contrasto di forma e di concetto, lo disse

benigno a’ suoi, ed a’ nemici crudo.

S’innamorò di Dio sin dalla prima età, e come sposò la fede al fonte battesimale, così sul letto di morte potè rendere ai suoi figli la rara testimonianza di aver fatto ogni cosa per la gloria del Signore. Il nome stesso di Domenico, che etimologicamente significa «del Signore», all’Alighieri parve la bandiera e tutto il programma della vita «del possessivo di cui era tutto». Dall’amor divino nacque in Lui l’amore umano: cercò le anime coll’ansia del buon pastore che rintraccia la pecorella smarrita, e ne cacciò i lupi con un’intrepidezza che la storia della Chiesa raramente conobbe.

Egli parve un’incarnazione perfetta della massima di Agostino: «Amate gli uomini e odiate gli errori». E il suo zelo era fiammeggiante fino all’entusiasmo. I prudenti del secolo, I “galantuomini del ne quid nimisAlessandro Manzoni (Milano 1785-1873) I Promessi Sposi cap. XXII i signori del «ne quid nimis», che non mancavano neppure allora, nell’oscuro medioevo, lo giudicarono spesso imprudente ed intemperante. Ma essi ignoravano che la gioventù è impetuosa, anche santamente impetuosa, e che quando lo spirito di Dio accende il cuore, allora facilmente si agisce come l’Atleta della fede, che

Con dottrina e con volere insieme,
Con l’ufficio apostolico si mosse,
Quasi torrente ch’alta vena preme.

/32/ Le acque sorgive, le correnti giovani non hanno la placidità del fiume, che lambe quetamente le sponde erbose, ma sono «quasi torrente ch’alta vena preme». Il giovane odia le acque morte e vuole precipitarsi al pari del torrente impetuoso, vorticoso, balzante in spumeggianti cascate. Solo così la selvaggia forza della natura potrà cambiarsi nella luce e nel calore che vivifica la nostra miserabile società.

La fonte di giovinezza

La figura del santo di Callaroga non rimase fissa nel suo secolo, solamente come esempio, sia pur sublime, di ardente giovinezza: essa fu soprattutto una forza suscitatrice di perpetue primavere cristiane, in tutti questi ultimi sette secoli. Si potrebbe dire che il bollente sangue del Santo spagnuolo è colato con alterna vicenda nelle carni viventi delle successive generazioni, lo ricorderò solamente due dei più ardenti apostoli della gioventù che vibrarono nella piena passione di Domenico: Fra Girolamo Savonarola (Ferrara 1452 - Firenze 1498), predicatore, protagonista della Repubblica di Firenze rinata dopo la cacciata dei Medici, nel 1497 fu scomunicato da Alessandro VI; nel 1498 fu condannato come eretico e arso sul rogo. Il già citato H.-D. Lacordaire nel 1839 ricostituì in Francia l’ordine domenicano soppresso dalla Rivoluzione; sostenitore del cd. “cattolicesimo liberale” rimase però sempre fedele al Papa Benedetto XV, Giacomo della Chiesa (Pegli di Genova 1854 – Roma 1922) eletto papa il 3 settembre 1914. Enciclica Fausto Appetente Die 29 giugno 1921 Girolamo Savonarola ed Enrico Lacordaire. Il primo, nel fuoco d’un entusiasmo che forse mai più l’umanità ritrovò, fece struggere fin le radici del risorgente paganesimo, e agitando gli stendardi su cui il Beato Angelico aveva dipinto «Viva Cristo e la Chiesa Romana», faceva proclamare legalmente Gesù Cristo re e Maria SS. regina di Firenze. Il secondo, tra le rovine atterrate dalla rivoluzione francese e dal moderno spirito laicizzatore, seminò i più bei fiori delle rinnovate generazioni cristiane e preparò il trionfo della gioventù cattolica francese. Ambedue erano figli di S. Domenico; avevano il suo sangue nelle vene, il suo cuore nel petto, il suo spirito, la sua anima.

Ma ricordiamo queste passate vittorie, non tanto per tributare un elogio di parole al grande patriarca, quanto per convincere i nostri giovani che, attingendo a questa sorgente, facilmente riempiremo i nostri cuori di ardimento, di idealità e di entusiasmo.

Purtroppo vi sono molti giovani di anni, ma pochi di spi- /33/ rito! Molti cattolici di nome e pochi di azione! La vocazione ai santi ardimenti, alla difesa intelligente e strenua del cattolicismo è poco sentita! Sappiano i giovani cattolici che lo spirito combattivo di S. Domenico, che (come asserì Benedetto XV nell’enciclica inviata al mondo intero per incitarlo a celebrare degnamente il settimo centenario Domenicano), è l’arma della difesa eroica della Chiesa cattolica, deve infiammare soprattutto la santa milizia della nostra gioventù.

Battaglioni della vita vera, e della morte, arditi bianchi delle nuove vittorie, lanciatevi all’assalto «come torrente ch’alta vena preme». Tra i vostri duci non manca il Santo Atleta. Ricordatelo, guardate a Lui, sempre: e se a qualcuno di voi venisse il desiderio d’unire il binomio Giovane Cattolico in una sol voce, ma espressiva e potente, dica pure senza timore, chiaramente: Domenico! che significa: tutto del Signore!

/34/

Gloria!

La gloria, che per i piccoli superuomini, per le false grandezze terrene, si spegne collo spegnersi della loro vita, per i Santi invece prende lo slancio dei voli magnifici dalla pietra del loro sepolcro.

Già un’affermazione dell’immortalità delle opere di S. Tommaso d’Aquino (v. sopra) fu oggetto di una rivalutazione tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX da parte della cd. corrente “neotomista” o “neoscolastica” Tommaso d’Aquino si era avuta sin dal primo rivelarsi di questo sommo ingegno: ma egli, prima di essere un dotto, fu un santo: la sua scienza stessa è inesplicabile se la si separa da quella virtù che dette le ali alla sua mente perchè potesse attingere alla sorgente della luce purissima.

Iddio stesso annunziò il premio celeste concesso al suo servo. Pel monastero di Fossanova, che era tutto in attesa attorno al letto dell’agonizzante, non s’era ancora diffusa la notizia del transito beato, che un religioso cistercense, assopitosi un momento nella chiesa, vide in sogno alcune stelle scendere sul suo convento e risalire con un nuovo astro sorto dalla casa stessa. Svegliatosi dopo questa visione udì tosto la campana che annunziava la morte del santo dottore: e comprese che quella stella nuova altro non rappresentava che l’anima di Tommaso, che, uscita dalla spoglia mortale, ritornava nella dimora degli spiriti santi.

Ma più singolare è il fatto seguente. Nell’ora stessa in cui a Fossanova spirava S. Tommaso, il Beato Alberto Magno se ne stava a Colonia e si intratteneva in conversazione col suo priore e con fra’ Alberto da Brescia. D’un tratto il vecchio maestro si arresta e scoppia in pianto: «Ohimè, egli esclama, fra’ Tommaso, il mio figlio in Cristo, la luce della Chiesa è morto!». I religiosi di Colonia segnarono il giorno e l’ora di questa rivelazione e poche settimane dopo riscontrarono che essa coincideva perfettamente col giorno e l’ora del glorioso trapasso.

La luce della Chiesa s’era spenta! La notizia della morte del santo attraversò l’Europa e gettò la costernazione in tutti quelli che si ripromettevano ancora dal suo ingegno benefici sommi per la Santa Chiesa. Per tutte le grandi strade, percorse dai prelati, dagli abati e dai dottori che si recavano al /35/ Concilio di Lione, si dava e si riceveva ad ogni incontro la triste novella. Il Pontefice stesso ne fu atterrito.

A testimonianza dell’universale cordoglio, non abbiamo che a citare un brano della lettera indirizzata al Capitolo generale dei Domenicani dai professori della Facoltà di Arti e dal Rettore stesso dell’Università di Parigi, che, dimenticando i passati rancori, per la gravità della perdita, scrivevano: «Abbiamo perso la stella del mattino, la luce del secolo, il sole dell’universo. Ci pare di essere rimasti nella notte, dopo che tutta la Cristianità e stata privata della luce del suo dottore!».

E ampliando queste espressioni di grande dolore i professori, a nome di tutta l’Università, chiedono ai Padri del Capitolo generale il sommo beneficio di ricevere a Parigi, per darvi onorata sepoltura, i suoi resti mortali.

Ma la più solenne esaltazione dell’Angelico dottore si ebbe nel 1323 quando il pontefice Giovanni XXII lo inscrisse nel catalogo dei santi.

Compiuti gli esami dei testimoni, le discussioni dei prodigi, i sopraluoghi nelle diverse località ove il Santo aveva dimorato, e tutti gli atti che la Chiesa prudentemente fa sempre precedere alle canonizzazioni dei suoi figli, il 17 luglio il Papa, che allora risiedeva in Avignone, si portò al tempio dei Frati Predicatori ove assistè ad una solenne tornata accademica in elogio all’Angelico dottore. Fra gli altri oratori parlò Roberto re di Sicilia, principe prode e cultore insigne della letteratura, il quale provò che Tommaso aveva meritato gli onori tributatigli dalla Chiesa: 1° perchè aveva edificato il mondo col profumo delle sue virtù; 2° perchè continuerebbe nei secoli venturi ad illuminarlo con lo splendore della sua dottrina.

Il giorno successivo (18 luglio 1323) nella solenne Messa papale celebrata nella cattedrale avignonese, Giovanni XXII lo ascriveva solennemente nell’albo dei santi e dava sfogo alla sua esultanza esclamando: «Si rallegri pertanto la Chiesa madre, esulti l’Italia, vada superba la Campania che l’ha veduto nascere, prorompa in cantici di giubilo il sacro Ordine /36/ dei Predicatori, l’entusiasmo dei fedeli si sprigioni possente, porga il suo plauso lo stuolo dei dottori, e i giovani più e più prendano vigore nei loro studi».

Nè allori meno smaglianti doveva mietere il grande Maestro nei campi contenziosi delle scuole.

La rivoluzione scientifica che S. Tommaso ha portato nel secolo decimoterzo non poteva imporsi se non colla lotta: giacchè le cose nuove, per quanto ottime, hanno suscitato in tutti i tempi le ire di coloro che stimano eresia ogni innovazione. A San Tommaso non potevano mancare questi inquisitori senza missione, che un contemporaneo e suo superiore (il B. Umberto, maestro generale dei Predicatori) paragonava «a quelle teste di pietra che servono da grondaie e che sentendosi sicure alle spalle perchè attaccate ai contrafforti delle antiche cattedrali non si mischiano al movimento della via che per far smorfie e sputare sui passanti». Il grande dottore dovette trovarsi più volte di fronte a certi visi gialli d’invidia che gli proponevano obbiezioni capziose, morsi di vipera. Ma la sua bella serenità abituale non si scompose, e non lasciò nelle sue opere che qualche traccia delle lotte meno personali che dovette subire: sinchè egli visse bastò a proteggerlo il suo genio e la sua virtù.

Ma nel giorno in cui scoccava appunto il terzo anniversario della sua morte, il Vescovo di Parigi, pressato dagli avversari, condannò un certo numero di tesi di S. Tommaso. Fu allora che il suo maestro Alberto Magno, vecchio di ottantaquattro anni, venne a piedi da Colonia a Parigi, e richiamò nelle scuole il suo immenso uditorio, per difendervi gloriosamente una dopo l’altra tutte le tesi condannate del suo grande discepolo.

Le lotte storiche del tomismo finirono tutte, come questa, in un trionfo del Grande Maestro perchè ai suoi scritti pare che il Cielo abbia concesso quasi prodigiosamente una singolare prerogativa di indefettibilità.

Sarebbe cosa interminabile il riportare gli elogi che le uni- /37/ versità, i sommi ingegni, i concilii ecclesiastici e i pontefici tributarono alla dottrina architettata dal nostro dottore. I soli Domenicani, furono chiamati ad insegnare in più di ottanta Università. Il Papa che lo elevò alla dignità degli altari, dopo d’aver enumerato alcuni prodigi operati ad intercessione del Santo, disse:

«Ogni articolo delle sue opere è un miracolo».

Il Concilio di Trento pose la Somma Teologica a lato della Bibbia, affinchè fosse consultata dai Padri come una irrefragabile autorità. Leone XIII lo proclamò patrono universale delle scuole.

Ma nell’Italia nostra e nella civiltà latina Tommaso non poteva conoscere più alto onore di quello che si ebbe nel diventare Maestro di Dante Alighieri. Il massimo autore della nostra stirpe, che giovinetto frequentava le scuole domenicane di Santa Maria Novella in Firenze, aveva quivi appreso dal labbro di Fra’ Remigio Girolami, discepolo immediato di San Tommaso, la genuina filosofia tomista di cui è impregnato a tal segno il divino poema della sua Commedia da lasciar intravedere nel disegno stesso dei gironi dell’inferno o dei cieli paradisiaci il lucido ordine degli articoli della Somma Teologica. Ed è senza dubbio una magnifica benemerenza che l’ingegno dell’Aquinate si è acquistato verso la Chiesa e verso l’Italia affascinando colla sua scienza il meraviglioso poeta nostro, sì da mantenerlo nella perfetta ortodossia religiosa e da offerire una solida ossatura filosofica alla policroma e splendida veste delle sue terzine.

Ogni mente profonda che si fermi a considerare l’azzurro cielo della nostra civiltà vi distingue a prima vista una magnifica costellazione di primissimo ordine, di smagliantissima luce, che accoppia i nomi dell’Alighieri e di Tommaso d’Aquino.

All’Italia la gloria di questi due geni superni!

Ma questa mente ineguagliabile che si impose ai secoli passati, potrà avere anche nel nostro il suo tempio, il suo altare? /38/ Noi non parliamo dei filosofi cattolici che non troveranno il più razionale appoggio della fede che nella professione sincera del tomismo: ci domandiamo solo se sia lecito sperare un rifiorimento universale della filosofia peripatetico-tomista. E perchè no? Forse che la verità non ha tanti diritti e tanti argomenti da rivaleggiare, se non superare, la faraggine di ubbie tedesche che ingombrano le scuole e turbano le intelligenze? Basterebbe citare alcune frasi di Ausonio Franchi, del Genovesi e dei viventi Hiering, Huxley, Picavet, Pierson, noti filosofi di università straniere, per comprendere quale entusiasmo susciti anche tra i più avversi una lettura sia pur superficiale delle opere di S. Tommaso.

Non è molto che un professore francese, l’Hernshein, date le dimissioni dalla cattedra di filosofia dell’università, entrava in un convento per ricevervi l’abito domenicano. Di là egli scriveva:

«Ho trovato un vero filosofo, che non è sotto il vento di tutti i sistemi, e che è la tradizione di questi miei confratelli. Mio caro amico, io non ne ho ancor letto che mezzo volume, ma il rossore mi sale al viso, e io sono vergognoso del nostro secolo quando penso che esso non si occupa più di simili opere, che rifiuta gli insegnamenti che vi sono contenuti, e li rifiuta senza conoscerli».

Noi attendiamo l’ora in cui gli studi aristotelici, che già si iniziano timidamente nelle università europee, abbiano a crescere tanto da sentire il bisogno della voce del grande commentatore dello Stagirita.

Allora si comprenderà quanta forza di verità, quanta armonia di linee reggano il grandioso edificio elevato da San Tommaso. La densità metallica del suo stile non sarà più una barriera ma un monumento di gloria: la sua antichità sarà garanzia della sua verità.

Il giorno in cui i nostri filosofi, stanchi, come gli antichi alchimisti, di cercar colla pietra filosofale l’oro della verità, si volgeranno a questa vera miniera, comprenderanno che la filosofia ha un solo re, e che, «per quanto da sei secoli stia assiso sul trono della scienza, la Provvidenza non gli ha ancora inviato alcun successore o rivale» (P. Lacordaire).

/39/ O giovani, che avete seguito con amore queste povere pagine, sono tutte per voi le ultime parole.

Non dimenticatele, e non deponete il libro senza prima aver fatto davanti a Dio un ferreo proposito a cui non verrete mai meno: se leggendolo avete imparato ad amare la «gloriosa vita di Tommaso» (Dante, «Par.», 14, 6) promettetegli di imitarlo. Il soggetto sublime che ha affascinato l’anima superba dell’Alighieri, anche se lo avete intraveduto appena nella brevità inadeguata e difettosa di questa modestissima narrazione, aiuterà anche voi, esalterà anche voi nell’amore eroico della virtù, nella resistenza alle attrattive, alle seduzioni del male.

Del resto, gli occhi ardenti della giovinezza sono istintivamente diretti a cercarsi un modello: un impulso interiore la spinge a ricercare tra i personaggi rivestiti di umana carne il tipo perfetto, il tipo ideale della vita. Oggi noi siamo stanchi e nauseati dei bellimbusti, dei decadenti, degli acrobati, che si offrono alla pubblica ammirazione della gioventù inquieta e si proclamano col verso del Alphonse de Lamartine (1790 – 1869) Confidences 1849: “Je ressem­blais à une statue de l’Adolescence enlevée un moment de l’abri des autels pour être offerte en modèle aux jeunes hommes.” Lamartine: «Una statua dell’adolescenza eretta a modello dei giovani» («Confidences»). Oggi le ali degli aquilastri starnazzano invano in cerca di proseliti, per trascinarli nel fango della bassezza, per ucciderli nei loro ideali più onesti. La gioventù sana, ardita, si è levata con un grido dignitoso, si è destata con un atto energico, e vuole mettersi in contatto con le anime grandi e pure: nulla di meglio che avvicinarla a questo santo che la Chiesa cattolica ha proclamato protettore della gioventù, e soprattutto della gioventù studiosa.

Vi sono due virtù che risplendono con particolare luce dall’anima e le conservano l’incanto della giovinezza: la santa e perfetta dedizione allo studio e la purezza immacolata della vita.

O giovani, coltivate sempre con amore il lavoro intellettuale che solo può farvi artefici d’un avvenire denso di frutti buoni! E poichè Tommaso amò soprattutto lo studio delle verità cristiane, e a quelle consacrò tutta la sua vita, creando una filosofia solida e potente, vogliate anche voi addestrare la mente a quegli studi profondi, che formano la cultura non /40/ dei dilettanti, ma dei forti credenti allestiti alla difesa del più grande tesoro della vita, la vostra santa cattolica fede! Qualche tempo fa un uomo politico ammoniva così la gioventù della sua infelice nazione: «Rosicchiate il granito della scienza!». Vorremmo ripetere a voi, giovani cattolici, a voi giovani tutti, l’ammonimento, edotti dalla storia che la cultura rifa il mondo e che le idee preparano e generano infallibilmente gli eventi. Un’era più cristiana quale tutti i buoni la desiderano per questo vecchio mondo, non potrà sorgere mai da una generazione abbandonata alla supina ignoranza religiosa. Ricordatelo.

Oh, potessero anche queste pagine aver diffuso nelle anime tenere il profumo immortale dei gigli che esse han tentato di ritrarre!

O giovani, siate casti come il vostro angelico protettore Tommaso d’Aquino! Lo vuole la salvezza dell’anima vostra che è chiamata a volare coi puri spiriti in cielo. Lo vuole la salute del vostro corpo che non deve prematuramente avvizzire nella corruzione e nel vizio. Lo richiede il vostro avvenire che deve integralmente consacrarsi agli ideali di un lavoro forte e sano. Lo impone il vostro onore, non l’onore fatuo che si fa consistere solo nelle parvenze esteriori, ma l’onore santo, l’onore immacolato, la dignità interiore che brilla agli occhi di Dio, il quale vi ama come una madre ama i suoi figli, e vi guarda come un capitano guarda i suoi soldati in mezzo alla battaglia. Poichè, o giovani, la castità è una virtù da combattente che non si possiede se non al suono delle armi.

Tommaso d’Aquino, che, pressato da un tremendo assalto giovanile, respinse e debellò per sempre ogni passione impura, deve capeggiare tutte le battaglie che muovono allo sfacelo della depravazione e alla vittoria della purezza. Da lui imparate il coraggio leonino, la forza dell’eroe, il prezzo della virtù. Ed egli irradierà sulla vostra fronte la luce sovrannaturale che trasforma le creature della terra in eterei spiriti, e la giovinezza fugace nella giovinezza perenne.

/41/ Ricordatelo, o giovani, che ogni anima pura porta sempre con sè il sorriso divino della primavera.

Voi vi estasiate ogni anno al ritorno della primavera, davanti ai mille fiori ansiosi che risbocciano dai teneri virgulti, e gettano al sole festosità di colori, incanti di freschezza, aliti di fragranza. La primavera è un’esplosione di bellezza, un’esplosione di canti, un’esplosione di giovinezza, che prorompe da tutto il Creato, da ogni atomo di terra, da ogni fremito di vento.

La primavera vi dà un’illusione di gioia che vi penetra fino in fondo all’anima; ma è una gioia di breve durata. Voi vi domandate tosto quanto tempo vivano i fiori sotto quelle parvenze leggiadre, quanto tempo rida la natura nel suo manto di festa.

François de Malherbe (1555 - 1628) Consolation à M. du Périer ca. 1600 «Lo spazio di un mattino» vi risponde il poeta.

La brevità della primavera rispecchia la brevità della vostra giovinezza. In poche ore i fiori si reclinano sui loro steli, come piccole cose avvizzite, e muoiono disseccati dal sole, calpestati dall’uomo, riassorbiti dalla terra che riassorbe tutto ciò che è materia, anche se materia di bellezza.

Ma così non sia per voi, o giovani, che volete essere i fiori eterni che adornano l’altare di Dio. La bellezza fisica avvizzisce e tramonta presto, e il vizio la uccide prima del tempo. La giovinezza non è fatta soltanto di corolle rosee, ma di invisibili energie che si propagano dalle radici sane. Badate di curare le radici, o giovani. Ricordatevi di curare quella bellezza che è tutta intima della virtù, che palpita nell’anima e vive nello spirito, quella bellezza di forze pure che conservano la vigorìa del corpo e la vivacità operosa dell’intelletto.

Voi dovete avere una giovinezza perenne che non passi nè col passare degli anni nè con le tempeste della vita, quella che canta le glorie di Dio su questa terra, che Lo esalta nell’eternità con gli spiriti casti.

Per conquistarla affisatevi sempre nel cielo. Affisatevi in Tommaso d’Aquino, angelo domenicano. Egli vi parla con l’esempio della sua vita senza macchia: ricordatevi che la giovinezza è eterna se giovinezza pura.