P. Reginaldo Giuliani O. P.
Croce e Spada

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Sia vivamente ringraziato Iddio che ha concesso alla nostra generazione l’ora inebriante di questa pace.

L’ora “più attesa eppure più sbalorditiva„

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La conciliazione
fra la Chiesa e lo Stato italiano

Quando l’11 febbraio scorso si divulgò la notizia dell’accordo firmato in Roma, nel palazzo Lateranese, fra la S. Sede e il Governo Italiano, parve a me di rivivere l’ora più attesa eppure più sbalorditiva della passata guerra. La notizia invero della cessazione delle ostilità e del conseguimento della vittoria finale che mi arrestò sulla pianura friulana, in piena volata con i miei battaglioni d’assalto, parve incredibile in quei primi istanti, come incredibile appare l’avveramento repentino di un sogno per lunghi anni portato in cuore. Nati dopo il venti settembre del milleottocentosettanta, cresciuti fra le schermaglie polemiche dei paladini di due campi avversi, Chiesa e Stato, edotti del fallimento di parecchi tentativi di conciliazione, stavamo abulicamente soggetti al deprecabile «statu quo», affatto compresi della imminente maturazione degli eventi, più volte profetata indarno.

Ma, ecco, come un colpo di folgore, la inaspettata novella è lanciata sull’Italia, sul mondo. Bandiere al vento! Le belle bandiere dei tre colori fasciano tutte le contrade d’Italia, danno l’assalto alle torri, ai campanili, ai vescovadi, ai templi, ed offrono al popolo la letiziante certezza che finalmente il nodo gordiano è sciolto, che la sfinge è vinta, che l’unione /46/ fra Chiesa e Stato, Religione e Patria è una raggiante realtà sul sereno cielo d’Italia. Il popolo dimenticò il carnevale, nè valsero a spegnere i suoi ardori le raffiche del gelo imperversante. Le capaci cattedrali furono invase, gremite dalle folle capeggiate da tutte le autorità, per cantare il solenne «Te Deum».

Sia vivamente ringraziato Iddio che ha concesso alla nostra generazione l’ora inebriante di questa pace.

Concorde, universale fu il coro della stampa nazionale ed estera, non turbato dalle insignificanti, ben spiegabili stonature, che ci è dato di trascurare più coscientemente dal giorno in cui furono integralmente pubblicati i tre testi, e cioè il patto di conciliazione, la convenzione finanziaria e il concordato fra la Santa Sede e lo Stato Italiano. La luce serena delle grandi cose buone e belle ha rischiarato come un sole questo punto fisso della storia contemporanea e ne balenò inaspettatamente tale sincerità e onestà, quale non suole accompagnare i normali contratti della diplomazia.

Non è adunque per ricercare spiegazioni, per rintracciare recondite causalità e prevedere facili conseguenze che ritorniamo sull’argomento: ai giuristi, agli esperti il misurare la portata di tal fatto. Ma mentre ci dichiariamo umilmente impreparati a questo studio, ci sia concesso il compenso di un atto di legittimo orgoglio: e cioè di non voler essere secondi a nessuno degli italiani nell’accogliere nell’anima la gioia traboccante dal cuore del Sommo Pontefice. Chi non fu commosso dalle espressioni, chiare e tenerissime, con cui l’undicesimo Pio ripeteva ad ogni occasione, l’altissima soddisfazione sua per la recente conciliazione? Io credo che anche i vecchi anticlericali, adusati dal malanimo e dalla prava cieca abitudine a giudicare i gesti amorevoli del vecchio Pontefice, come «ferri proprii del suo mestiere», strumenti di subdola penetrazione, questa volta furono conquistati dall’abbraccio paterno.

Queste nostre brevi considerazioni vorrebbero rendere più durevole il profumo del bacio idilliaco di pace, per quegli uomini di buona volontà che portano incisi nel cuore due cari nomi: Chiesa e Patria, Cattolicismo e Italia.

Per meglio misurare il beneficio della conciliazione, non v’è /47/ che ricordare quali fossero i dolorosi rapporti fra Chiesa e Stato, fra cattolici e demoliberali imperanti, prima di questo ultimo settennio fascista. Gioverà ricordare tutto ciò non certo per turbare la serenità della presente pace con acide recriminazioni, ma per stabilire i giusti rilievi. Mentre invano il Cantù, il Balbo, il Tommaseo e pochi altri sognavano cattolico il nostro Risorgimento, indarno battezzato dal sangue sacerdotale dei martiri di Belfiore, trionfava invece l’ideale pagano di un completo ritorno all’impero de’ Cesari, dimentico di tutti i secoli di Roma medioevale e di Roma della rinascenza. I pontefici venivano proclamati «grette parodie de’ Cesari» e su di loro si rovesciavano tutte le folgori de’ moderni restauratori: Giosue Carducci (Valdicastello di Pietrasanta LU 1835 – Bologna 1907) Rime e Ritmi 1898 Ferrara, II
Quando stringe la man...: id. Giambi ed Epodi 1871-1882 Via Ugo Bassi
Il primo verso nell'originale fa Quando porge la man...
«Maledetta tu, vecchia vaticana lupa cruenta». L’ira carducciana giunse a tali escandescenze da formulare ne’ seguenti versi la irreconciliabilità assoluta fra i due poteri:

Quando stringe la man Cesare a Piero
Da quella stretta sangue umano stilla:
Quando il bacio si dan Chiesa e Impero,
Un astro di martirio in ciel sfavilla.

Le trepide autorità, impegnate nell’equilibrismo politico, si accodavano ai corifei dell’anticlericalismo, e mentre tirannicamente tentavano imporre al Pontefice le condizioni della pace con la legge delle guarentigie – immemori che al Pontefice, spogliato de’ domini terreni, rimaneva una dignità sovrana universalmente riconosciuta – per altra parte favorivano, seguivano o permettevano la gazzarra anticlericale, antipapale che per cinquant’anni mise in delirio le piazze d’Italia e rese famosi, per massonica ed irreligiosa briacatura, i vespri del venti settembre fin nelle lontane colonie delle tre Americhe. Un prete spretato era sempre un eroe, che poteva anche finire su una cattedra universitaria. Un raglio dell’Asino (famoso periodico anticlericale), aizzava la canea de’ trivi per la penisola, contro inermi e benemeriti sacerdoti, come nei famosi scandali di Varazze: nell’estate del 1907 alcuni sacerdoti del collegio salesiano di Varazze furono accusati di “messe nere” e abusi sessuali sugli studenti. il Capo del governo: Giovanni Giolitti (Mondovì CN 1842 – Cavour TO 1928) noi troppo odiammo ecc. tre citazioni da Giosuè Carducci Il canto dell’Amore 1878 scandali di Varazze; mentre il Capo del governo, Amleto della politica, Pilato della viltà, cercava agnosticamente l’alibi della villeggiatura di Bardonecchia.

L’ubriacatura anticlericale trascese a tali eccessi che nau- /48/ seò perfino uno dei primi suoi padri, il Carducci stesso, che, consapevole e pentito, non solo proclamò, nel canto dell’amore: «Noi troppo odiammo», ma soggiunse:

Io maledissi al Papa or son dieci anni,
Oggi col Papa mi concilierei!

Ma il vecchio Papa, «quel di se stesso antico prigionier», non ritrasse giammai il suo gesto di benedizione da quel popolo in cui, fra tanti bestemmiatori, gemevano figli devoti, oranti, pazienti e combattenti, che con Lui attesero a lungo l’ora della Provvidenza.

Ora della Provvidenza fu la guerra. Di questa si può ripetere la massima che, forse a torto, Aulo Gellio (Roma, 125 circa – 180 circa) fu in realtà un o scrittore latino, anche se molto subì molto l'influenza della cultura greca. La frase sul “male necessario”, divenuta proverbiale, è una sintesi un po’ grezza di quanto detto in Notti Attiche I 6 il greco filosofo affermò d’un altro soggetto: «La donna è un male, ma è un male necessario», disse egli. Noi potremmo volgere la massima così: «La guerra è un male, ma è un male necessario». Necessario pure come sono necessari i salassi, a suscitare in un corpo malato, cadaverico, salutari reazioni. Quando «il popolo de’ morti surse cantando a chiedere la guerra» lanciava la parte di sè più viva, più dinamica contro due ostacoli, rivelatori di inusitati eppur fondamentali veri. Il combattente fu messo a contatto con due grandi cose: la natura e la morte. La prima gli insegnò a ripudiare le convenzioni, le menzogne per respirare l’azzurra atmosfera di sentita, passionale realtà; la seconda gli fece sentire la necessità del divino, di quella religione i sacerdoti della quale egli aveva imparato a disprezzare sui banchi della scuola atea. Perciò la massa grigio-verde che innervava le trincee dallo Stelvio al mare venne presto pervasa da uno spirito nuovo, riallacciato alle millenarie tradizioni di fede, ribelle a tutto il barocchismo anticlericale. E come il nostro Generalissimo Luigi Cadorna ebbe talvolta a reazionare con un imbelle governo precaporettistico, così le masse de’ combattenti, pur vòlte al secolare nemico le mitraglie e i cannoni, furono iniziate sul campo a quelle salutari reazioni di /49/ cui portarono poi il lievito possente in Patria, al domani della vittoria.

Il mio antico reggimento, il 55° Fanteria, fu onorato dal valore di due uomini: Guido Negri, l’uno, il capitano santo, il crociato del Papa e dell’Eucaristia, che diè poi eroicamente il suo sangue per l’Italia. L’altro non nomino: egli rappresentava allora quell’ardire garibaldino, anticlericale, irreligioso, sventolato come una bandiera sul grande quotidiano dell’interventismo d’Italia. La stessa divisa copriva due uomini così diversi: ma fra le loro inconciliate divergenze s’ergeva, uguale in essi, l’amore della Patria.

Una sera del settembre del millenovecentoquindici, tornando dalla trincea dopo un infernale combattimento, il vecchio soldato anticlericale reggeva per i sentieri del Monte Piana il passo vacillante del Capitano Negri: in una sosta solitaria di riposo, il capitano abbracciò il vecchio volontario esclamando: «A te che non credi, Ottavio, il bacio in nome di Dio. Le nostre anime sono tuttavia sorelle, perchè crediamo assieme, buoni, in un infinito amore, in una radiosa giustizia».

Nel vespro del combattimento, mentre la montagna fumava ancora del sangue de’ nostri eroi, nel bacio, ardente di comprensione, del cattolico combattente d’Italia, in quel bacio, posato sulla fronte garibaldina, brilla, in germoglio e in essenza, tutta la concilazione fra la Chiesa e lo Stato.

Il Fascismo, integrazione perfetta della duplice vittoria italiana, contro il secolare nemico e poi contro il bolscevismo, si propose la ricostruzione della Patria. Questa formidabile potenza ricostruttrice, più che una idea o una teoria, ci appare come una forza, un dinamismo irresistibile: il Fascismo, armato di un singolare senso di onestà umana – che non poteva certo ingenerarsi fra la vecchia politica camorrista – sbarazzò il campo dalla massoneria, dalla mafia, dal settarismo, covi tradizionali dell’anticlericalismo mondiale! Nel restaurare il concetto di autorità, nel risanare la famiglia, cellula prima /50/ dello Stato, nel ridare l’anima alla scuola, un infallibile senso pratico guidò il Fascismo verso i cieli sereni della sociologia cristiana. E così, ribellandosi alle astruse sottigliezze del razionalismo, il Fascismo si orientò verso la nostra fede millenaria. Le proteste del professore siciliano dalla logica tedesca furono acquetate dalle zampate leonine del Duce, che con un supremo tuziorismo dichiarò solennemente, nell’archiginnasio di Bologna, che lo spirito umano «sulla zona di mistero, sulla parete chiusa deve scrivere una sola parola: Dio».

Per la prima volta, nella storia delle umane evoluzioni, fu smentito l’aforisma di Tommaso Campanella, che «le parole precedono le spade». I vecchi professori che con l’Enciclopedia avevano suscitata la rivoluzione francese, con la «kultur» tedesca avevano attizzato la guerra mondiale, e che conservavano il dissidio fra scienza e fede, fra Stato e Chiesa, erano sorpassati e vinti da questa bella, dinamica giovinezza italica che alle parole aveva fatto precedere le spade e affissava le sue pupille ardenti negli eterni veri, nelle idealità italiche di libertà e di religione.

Quando l’Onorevole Mussolini, non ancor assurto al timone politico d’Italia, levò il suo sguardo sulle folle raccolte nella tazza del colonnato berniniano, nell’attesa di un grande evento, sentì la verità dell’affermazione di Dostoiewski: «Per duemila anni l’Italia ha coltivato nel suo grembo un’idea universale, capace di unire l’universo, non in un modo astratto, ma reale, organico, frutto della vita nazionale e insieme della vita universale. Era l’unificazione del mondo intero, prima sotto l’antica Roma, quindi sotto il papato» (“Journal d’un écrivain”).

Il Duce chiuse forse allora per un istante i suoi occhi capaci, ed ebbe una visione repentina, sintetica. Vide l’Italia tutta; la vide raccolta nel bacino del Mediterraneo, nel centro della civiltà europea, come una nave nel mare nostro. La vela di Enea le aveva apportato le perfezioni classiche di pensiero e di arte dell’Eliade antica: la vela di Pietro l’eredità spirituale cristiana del mondo universale. Beata la terra che accolse questa duplice eredità! Beata Roma, cuore d’Italia, cuore del mondo!

Il Duce sentì l’eterna città: il cielo, le pietre, le acque gli /51/ han cantato la sovranità spirituale de’ suoi pontefici. Sentì questa Italia benedetta, dove ogni zolla si cambia in fiore, dove ogni fiore è sacro all’idealità, dove vi è dell’anima anche nel fischio del monello, dove cantando si offre in olocausto a Dio e all’umanità l’anima epica di Carlo Delprete!

Riaprì gli occhi, il Duce, e la sua visione divenne forza del braccio indomito per spingere la nave d’Italia verso i suoi superni destini.

Riconoscenza e gloria a Lui, all’Uomo della Provvidenza.

Se passi fece l’Italia, in questo settennio fascista, verso la Chiesa, non rimase certo immobile il cuore dei Pontefici Romani che si succedettero sulla cattedra del maggior Piero.

A noi piace ricordare che un atto decisivo per la soluzione della questione romana fu compiuto dall’altissimo senno politico di Benedetto XV, quando dichiarò che questa spettava ai due contendenti, alle due parti interessate, e non ad altri, e che Egli l’attendeva «dal buon senso del popolo italiano». Con tale dichiarazione si tenevano lontane tutte le possibili inframmettenze di quegli stranieri, che furono sempre pronti a calare per mangiar le ciliege di ogni primavera italica, e per alleggerire ai contadini le fatiche delle nostre vendemmie.

Maturavansi così i destini: ma «ci voleva un Papa alpinista» a sciogliere il nodo intricato. Un poeta d’Italia, sul limitare del presente secolo, dinanzi alla sublimità raggiante di Leone XIII, aveva cantato: «Ai tremuli ginocchi, date il guanciale dell’ultima preghiera». Ma non vacillarono i ginocchi dell’undicesimo Pio: il suo passo spedito eppur misurato, quale di perfetto alpino, ascensionale sempre, lo portò in alto, in alto, nelle regioni di una inarrivabile spiritualità. Avevano parlato di rivendicazioni territoriali, di sbocchi al mare, di città leonina, di Villa Pamfili. Nulla di tutto ciò Egli volle: la sua rinuncia in questo senso fu completa. Volle essere libero da ogni preoccupazione materiale e strettamente politica. Gli /52/ bastò la rocca vaticana, che è una vetta, solo una vetta, ma più alta di ogni cima. Quale ascensione del Papa alpinista!

Egli è salito alla vertiginosa vetta di gloria de’ grandi pontefici: lassù dove la storia ha collocato Gregorio Magno, Leone I, Alessandro III, Pio V, Leone XIII, fari a tutta un’epoca.

Un’era nuova si apre oggi all’Italia. Un Orazio novello potrebbe oggi intonare uno novello Carmen Saeculare.

Noi possiamo ripetere la frase moderna in cui Alfredo Oriani sintetizzò tutta la sua passione di “Rivolta ideale”: «Nessuno può dire che cosa prepari alla storia la magnifica vitalità cristiana».

Ecco: dalla rocca vaticana il pontefice ripete: «Abbiamo ridato l’Italia a Dio e Dio all’Italia!»; e con l’Italia è il mondo intero che riprenderà la via verso il cristianesimo. Poichè non alle torri del Kremlino, non a Chicago fumosa, non alla Parigi delle mode, ma a Roma ha sempre guardato e guarderà con maggior attenzione il mondo spirituale. L’umanità si agita e Dio – e per Dio Roma, Roma – la conduce.

Tu régere imperio populos, romane memento!

Ricordati, o romano, che tu sei la luce del mondo! Come l’anima umana è naturalmente cristiana, così il mondo politico è tendenzialmente cattolico. Dai giorni in cui le aquile romane presero a nidificare ai confini del mondo, e più ancora da quando Remigio, Bonifacio e Colombano portarono la fede tra i barbari delle Gallie, della Germania, dell’Inghilterra e innumeri missionari partirono da questa Italia che, come dice Ambrogio – con latino orgoglio – operarios mittere solet, il mondo non cessò di guardare all’Italia, di apprendere da lei, di amare questa terra benedetta, poichè, come afferma Sienkievicz: «Ogni uomo ha due patrie: una è quella in cui è nato, l’altra è Roma».

Un nuovo meriggio si alza sul cielo d’Italia. Una pace profonda si prepara nelle nostre città e ne’ borghi. Trono e altare, croce e spada sono oggi tornati all’amplesso spezzato da circa /53/ un secolo. Abbiamo oggi la consolazione insperata di sentir consertati i due grandi nostri ideali di religione e patria, e di vedere spenta – e speriamo per sempre – la lotta che frazionava l’Italia fin sotto gli ultimi campanili dell’Alpe in comico duello fra il curato e il segretario comunale.

Nel 1920, quando il sottoscritto venne difeso, in una polemica giornalistica, dal foglio di battaglia che serviva di trincea quotidiana all’On. Mussolini, fu affermato su quel foglio che un bivio poteva aprirsi inevitabile, dinnanzi ad ogni prete, ad ogni cattolico d’Italia: il bivio di Chiesa e Patria.

No, io scrissi allora; dinnanzi a me sacerdote, frate in tutto me stesso, da’ piedi a’ capelli – dinanzi a me, guida spirituale di fanti, di arditi, di legionari, no, dinnanzi a me non v’è, non si aprirà mai il bivio fatale.

No, ripetiamo ora più fortemente, no, amatissimo Duce d’Italia! Per la vostra opera, per il vostro genio, non più bivii, non più scissioni, ma una sola via regale, ampia, luminosa, ascendente, si apre a tutti, a tutti gli italiani. Gloria a Voi, o Duce invitto! Grazie a S. M. il Re Vittorio Emanuele III e grazie al cuore dell’Undecimo Pio! Lode a Dio che ha posto l’Italia alla testa della civiltà.