Maurizio Pistone
Da una globalizzazione all’altra
Propaganda Fide all’alba della modernità
Testo prodotto in occasione del convegno sui 400 anni di Propaganda Fide, Piovà Massaja – Asti 15 ottobre 2022
In questo documento mi sono proposto di sintetizzare alcune pietre miliari del percorso storico che portò alla fondazione della Sacra Congregatio de Propaganda Fide (1622), e i caratteri fondamentali della sua azione nel mondo, fino alla metà del ’900, quando il processo di decolonizzazione impose una revisione complessiva del progetto, sottolineata dal cambiamento di nome dell’istituzione, che nel 1967 è diventata la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli.
Ho voluto in queste brevi pagine mettere in evidenza la grande novità rappresentata da quel progetto, che considero un evento fondamentale non solo per la storia della Chiesa, ma per la storia del mondo in generale: uno sguardo complessivo sui grandi problemi dei tempi moderni, con molte importantissime anticipazioni di temi che sono dibattuti ancora oggi.
Il presente scritto è da considerarsi non come la conclusione di uno studio specifico, ma come un progetto di ricerca. Anche per questo, non viene presentata una bibliografia. Mi limito a segnalare, per chi volesse approfondire i temi qui affrontati, la fondamentale pubblicazione realizzata nel 1972 per celebrare i 350 anni di Propaganda Fide: i cinque volumi collettanei Sacrae Congregationis de Propaganda Fide memoria rerum, curati da Josef Metzler O.M.I. (1921-2012, → https://it.cathopedia.org/wiki/Josef_Metzler), che qui ricordo come ideale ispiratore di queste riflessioni.
Piovà Massaja – Asti, 15 ottobre 2022
I. Dalla prima alla seconda globalizzazione
1. Missionari e apostoli
La Chiesa nasce missionaria.
Il Massaja insiste spesso sull’analogia fra gli apostoli e i missionari dell’età moderna. Quegli uomini antichi, che si spostavano da una città all’altra, andavano per le strade e le piazze, parlavano con la gente, entravano nelle case, spesso venivano cacciati, perseguitati, allora andavano in un’altra città e ricominciavano da capo, a volte subivano il martirio – gli apostoli della Chiesa delle origini per lui erano i primi missionari. Essi seguivano il comandamento “euntes docete omnes gentes”, andate e insegnate a tutte le genti, (Mt 28,19) che divenne il motto del Collegio Urbaniano.
E i missionari dell’età moderna sono i nuovi apostoli: il Massaja spesso chiama sé stesso “uomo apostolico”, a volte si paragona a San Pietro, non per orgoglio, ma per sottolineare la continuità fra le due ere.
Vi è però una grande differenza.
Per gli apostoli, la terra di missione cominciava appena fuori dalla porta di casa.
La leggenda si è impadronita delle storie degli apostoli e ha narrato di viaggi in terre lontanissime, ma storicamente il cristianesimo si è allargato a macchia d’olio a partire dai luoghi d’origine: la Giudea, e le terre della diaspora ebraica.
Siamo nell’epoca della grande globalizzazione multietnica del mondo romano. I paesi che si affacciavano sul Mediterraneo erano abitati da una variopinta molteplicità di popolazioni, con culture, lingue, tradizioni, religioni diverse. Ma già secoli prima che si formasse l’Impero, queste popolazioni erano state a stretto contatto, e avevano avuto relazioni intense e molteplici, sia pacifiche che belliche – ma anche la guerra è un modo per avere relazioni. Queste diverse lingue e culture si intrecciavano, le merci e le religioni circolavano, le idee e le simbologie si mescolavano, i confini erano permeabili. Questi popoli potevano essere fra di loro nemici, ma non erano né sconosciuti, né misteriosi gli uni per gli altri, sia pure, ovviamente, con tutti i pregiudizi e gli stereotipi che ci sono sempre nei rapporti interetnici. Se non si capivano – spesso non si capivano – è perché non volevano capirsi, non perché non ne avessero i mezzi.
E soprattutto, tutte queste culture avevano un formidabile veicolo di comunicazione: la lingua greca.
Oggi siamo portati a considerare il greco, nel mondo antico, come una lingua specialistica, per la produzione letteraria, filosofica, scientifica. Il greco è diventato anche questo, ma il greco nel mondo antico era fondamentalmente la lingua della marineria.
Già secoli prima di Cristo, uomini come Ulisse si erano messi in mare. Un po’ pirati, un po’ mercanti, avventurieri, esploratori, esuli – e perché no, turisti! – avevano esplorato le rotte lungo le coste e in mare aperto, avevano stabilito basi commerciali, dove vendevano il loro vino, i loro tessuti, le loro ceramiche; avevano fatto conoscere il loro modo di vivere, di costruire le città, di fare la guerra, di divertirsi, di fare sport; avevano diffuso la conoscenza dei loro miti, la loro lingua, il loro alfabeto. In età ellenistica il greco era diventato la koinè, la lingua comune di scambio fra tutte le popolazioni del Mediterraneo e del vicino oriente, riducendo sempre di più lo spazio delle lingue semitiche, come il fenicio, l’aramaico. Centinaia di città erano abitate da migliaia di persone attive e intraprendenti per i quali il greco era, o sarebbe presto diventato, la prima lingua.
Per questo il cristianesimo si esprime fin dall’inizio in lingua greca. Sono in greco i libri del Nuovo Testamento, i canoni dei concili, le vite dei santi. Vi è anche una produzione fiorente nelle altre lingue, e la Bibbia è tradotta in siriaco, copto, armeno, etiopico. Ma il greco, la lingua della prima grande globalizzazione, si adatta come un guanto ad una chiesa che si definisce “cattolica”, cioè universale.
Con le scoperte geografiche del XV-XVI secolo, invece, la situazione cambia drasticamente. L’Europa cristiana si trova spersa in un mondo molto più grande, dove ci sono civiltà e lingue diversissime, fino a quel momento sconosciute agli europei, e sconosciute fra di loro. Vi sono popoli che vivono in condizioni simili a quelle della preistoria, con tecniche di sopravvivenza elementari, strutture politiche che raramente superano la dimensione tribale, lingue affidate esclusivamente all’oralità. Vi sono civiltà che richiamano gli antichi imperi dell’Egitto e della Mesopotamia; vi sono società ricchissime e raffinatissime, con una tradizione filosofica e letteraria persino più antica delle nostre civiltà classiche.
L’azione missionaria si trova di fronte a problemi enormi. L’ostacolo linguistico è pesante, ma non insormontabile; chi si stabilisce in un paese straniero, prima o poi ne padroneggia la lingua. Ma il baratro culturale è immenso. La tradizione cristiana collocava le culture non cristiane nel grande calderone del “paganesimo”, termine che indicava all’ingrosso le religioni del mondo greco e romano precristiano, a cui forzatamente si assimilavano tutte le altre culture, antiche e moderne, con cui il cristianesimo era in contatto. Ma la nuova realtà è enigmatica. Di molte di queste popolazioni, ci si chiede addirittura se hanno o no una qualche “religione”, poiché il sistema delle credenze e dei miti è così distante da quello noto da sfuggire alla stessa definizione di “pagano”. Per centinaia di anni ci si interroga su come tradurre in cinese la parola “Dio”, poiché ogni termine disponibile richiama inevitabilmente un contesto culturale completamente diverso, e quindi porterebbe ad un totale fraintendimento.
Al tempo della sua permanenza presso le popolazioni dell’Etiopia meridionale, il Massaja affronta il problema con l’aiuto di quelli che lui chiama i suoi “dragomanni”, cioè interpreti. Si tratta di giovani catechisti, non ancora condizionati da legami famigliari, i quali pur avendo un’istruzione religiosa ancora sommaria, sono capaci di tradurla nelle forme e nelle immagini della loro cultura. Il Massaja, che pure ormai conosce abbastanza bene le lingue locali, tanto da poter compilare una grammatica delle lingue oromica ed amharica, affida volentieri a loro la predicazione, rendendosi conto della necessità di avere dei “mediatori culturali” nati sul posto.
Falliscono invece i suoi tentativi di realizzare dei catechismi nelle lingue lingua oromica e kafa. I testi inviati a Propaganda Fide, ovviamente retrotradotti in latino, vengono sistematicamente bocciati in quanto ritenuti scorretti dal punto di vista dottrinale. Inutilmente cerca di spiegare la necessità di trovare le forme per avvicinare alla fede cristiana popolazioni con culture radicalmente diverse, e l’impossibilità di tradurre alla lettera in quelle lingue l’astrazione della teologia.
2. L’Impero cristiano e la Chiesa imperiale
Col IV secolo il cristianesimo esce definitivamente allo scoperto.
Il cristianesimo in questo periodo è essenzialmente un fenomeno urbano; ed è diffuso soprattutto nella parte orientale, dove l’urbanizzazione è più forte. Ci sono migliaia di città, costruite più o meno con lo stesso schema urbanistico, collegate da una fittissima rete di comunicazioni, terrestri e navali. Al di sopra di tutto c’è uno Stato onnipresente, incarnato nell’Imperatore, che regola ogni aspetto della vita sociale. Uno stato efficiente, con un sistema giuridico avanzatissimo, ma decisamente soffocante.
La Chiesa si era data già da tempo un’organizzazione stabile, ma ora fa un balzo significativo. In ogni città c’è un vescovo, che ha giurisdizione su una diocesi. I due termini derivano dal linguaggio dell’amministrazione civile: epìscopos significa “sovrintendente”, “ispettore”; diòikesis significa “distretto amministrativo”. Per esprimerci in termini moderni, il vescovo sta alla diocesi come il prefetto sta alla provincia.
I vescovi non hanno solo responsabilità pastorali, ma anche enormi disponibilità economiche, e vaste competenze giudiziarie e amministrative anche in campo civile.
I vescovi sono organizzati gerarchicamente. Più diocesi sono organizzate in arcidiocesi, guidate da arcivescovi; più su ci sono i metropoliti, infine i patriarchi. I più importanti patriarcati in Oriente sono quelli di Costantinopoli, Antiochia, Alessandria d’Egitto. In Occidente per lungo tempo c’è solo il patriarcato di Roma.
La chiesa non ha un proprio vertice unico. Al vertice della Chiesa c’è l’Imperatore. È lui che convoca i Concili, ne proclama le deliberazioni. È l’imperatore che decide cos’è “ortodossia”, cos’è “eresia”. Quando l’imperatore segue la dottrina ariana, i vescovi cattolici sono rimossi, e sostituiti da vescovi ariani. Quando l’imperatore è cattolico, i vescovi ariani sono rimossi, e sostituiti da vescovi cattolici.
È l’inizio di quel fenomeno che i libri di storia chiamano “alleanza tra il trono e l’altare”. È un’alleanza che raramente si risolve in un matrimonio d’amore, è quasi sempre un matrimonio d’interesse. “Alleanza tra trono ed altare” significa pesanti interferenze della Chiesa nella vita dello Stato, ed altrettanto pesanti, ed altrettanto mal sopportate, interferenze dello Stato nella vita della Chiesa.
Ma per ora, è un matrimonio indissolubile. Abbiamo dunque un Impero cristiano, e una Chiesa imperiale.
Ormai quasi tutta la popolazione dell’Impero è cristiana; per lo meno sono quasi interamente cristiane le città. I residui delle passate religioni rimangono diffusi e radicati nelle campagne; da qui il termine paganus, cioè abitante del pagus, il villaggio agricolo. È la stessa origine di pagensis, da cui i nostri “paese” e “paesano”, ad indicare uomini rozzi, ignoranti, seguaci di culti arretrati.
Ora lo sguardo della Chiesa (e dell’Impero) si rivolge in modo più intenso al di fuori dei confini. Vi sono movimenti di popoli che destano preoccupazione. Il termine barbari già in greco indicava in modo derisorio coloro che non sapevano parlare le lingue civili, ma emettevano suoni che sembravano un confuso borbottio. Ma non tutti i barbari sono uguali. Vi sono parecchi popoli di stirpe germanica, che si muovono ai confini. Sono popoli senza patria, che cercano una casa. Vorrebbero entrare nell’Impero romano, non per distruggerlo, ma per avere una sede stabile, un futuro. Sono popoli “pagani”, ma a questo si può rimediare.
Dal punto di vista romano, convertire i barbari significa iniziare un processo di assimilazione culturale, che permetta di trattare con loro, di capirsi e di farsi capire. Dal punto di vista dei barbari, la conversione è la prima fase della sperata integrazione. Essi sono confusamente consapevoli che la loro cultura tradizionale li colloca in una condizione di inferiorità, che il cristianesimo, la religione del mondo più avanzato dell’epoca, darebbe una spinta alle loro aspirazioni. Il cristianesimo, come una specie di passaporto per l’Impero cristiano.
Però a questo punto succede un incidente.
Il successore di Costantino, Costanzo, è di fede ariana; di conseguenza è ariano il patriarca di Costantinopoli, Eusebio. Costui dà a un suo fidato collaboratore, Wulfila, l’incarico di diffondere il cristianesimo tra i Goti, il più importante fra i popoli germanici del nord-est.
Sappiamo ben poco della vita e dell’opera di questo Wulfila. La sua appartenenza alla corrente ariana gli è costata la quasi totale rimozione dalla memoria storica, che è stata recuperata con difficoltà solo nell’età moderna. Il nome Wulfila è germanico; letteralmente significa “lupacchiotto” (Wolf in tedesco, wulf in inglese significano “lupo”, -ila è una desinenza del diminutivo). È quindi l’esponente di una famiglia di origine germanica, radicatasi non si sa bene come nel mondo greco cristiano. Wulfila raggiunge i Goti nelle terre in cui all’epoca erano stanziati, a nord del Mar Nero, nell’attuale Ukraina e Crimea. Qui compie un lavoro formidabile di acculturazione; non solo converte i Goti, ma realizza una traduzione della Bibbia in lingua gotica. Di fatto, deve inventare un alfabeto per una lingua che fino ad allora, a parte un uso sporadico delle “rune”, era stata esclusivamente una lingua parlata; e deve quasi inventare una lingua, per tradurre il più possibile alla lettera il resto sacro in una lingua che aveva parametri culturali completamente diversi.
I Goti poi trasmettono il cristianesimo ariano ad altri popoli, tra cui i Longobardi, con le conseguenze sulla storia d’Italia che ben conosciamo.
In Occidente, invece, il popolo germanico più importante, quello dei Franchi, era stanziato sulle due sponde della media e bassa valle del Reno. Alla fine del V secolo un capo tribù, Clodoveo, viene riconosciuto come re da tutte le tribù franche. Nel 496 viene battezzato da Remigio, vescovo di Reims. Poiché siamo nell’area di competenza del vescovo di Roma, questa volta la conversione è al cattolicesimo romano.
Indipendentemente dalle convinzioni personali del re, è chiaro che l’operazione ha un evidente risvolto politico. Quest’importante sovrano ha bisogno di essere riconosciuto dalle autorità imperiali, di poter trattare da pari a pari con un Impero che, per quanto in gravi difficoltà, è ancora il più importante centro di potere del mondo conosciuto.
Ora che il re dei Franchi è cristiano, si dà per scontato che il regno dei Franchi sia un regno cristiano. E poiché il regno dei Franchi è un regno cristiano, si dà per scontato che il popolo dei Franchi sia un popolo cristiano. Naturalmente l’effettiva penetrazione della fede e della dottrina cristiana nella massa popolare richiederà parecchio tempo e lavoro, ma l’operazione politica si è conclusa con successo. Se oggi una grande nazione europea si chiama Francia, lo dobbiamo anche a quella lontana immersione di Clodoveo nell’acqua del battesimo.
3. Monaci missionari
Appena un accenno, per brevità, su questo tema che è però importantissimo.
Wulfila e Remigio erano due vescovi, impegnati in attività missionaria ai confini dell’Impero.
Ma nelle regioni più lontane, al nord, la Chiesa dei vescovi, nata e formatasi sul modello di una società di densa urbanizzazione, si trovava del tutto spaesata. Intervennero allora nuovi soggetti: i monaci.
In Oriente, fin dai primi tempi del cristianesimo, degli uomini fuggivano dall’ambiente claustrofobico delle grandi città, si ritiravano nel deserto (la Tebaide, nell’Alto Egitto, aveva una particolare attrattiva) e dedicavano la vita alla penitenza e alla preghiera. Si trattava di un’esperienza importantissima dal punto di vista spirituale, ma una scelta del tutto marginale dal punto di vista sociale.
In Occidente, nell’Alto Medioevo, non c’era bisogno di cercare il deserto. Il deserto era dappertutto: bastava allontanarsi un pochino dalla tutela della famiglia, del gruppo. E dove si formava una piccola comunità di monaci, questa cominciava ad avere una forza attrattiva anche sul resto della popolazione, che non aveva altri punti di riferimento. Questa forza di attrazione non era prevista dai primi monaci, e spesso veniva subita con un vero fastidio, come è chiaro per esempio nella vita di San Benedetto. Ma tale era la necessità storica.
Al di là dell’ispirazione originaria della vita monastica, queste comunità divennero quindi dei centri di aggregazione sociale, economica, anche politica. Nella carenza di un’organizzazione ecclesiastica strutturata gerarchicamente, si trovarono a dover svolgere una vera funzione di supplenza per attività diverse, fra cui quella missionaria. Nel Nord Europa l’evangelizzazione partì solitamente dall’azione dei monaci; e solo dopo un certo tempo arrivarono i vescovi.
4. La Croce e la Spada
Un popolo fino a quel momento del tutto marginale rispetto al mondo romano, improvvisamente, tra VII e VIII secolo, si mise in movimento, e in breve tempo mutò radicalmente e definitivamente la carta politico-culturale del Mediterraneo.
A differenza dei barbari del nord, gli Arabi non erano interessati a farsi assimilare dalla società romana, al contrario, erano portatori di un messaggio religioso, politico, anche linguistico, del tutto alternativo.
Senza stare a toccare complessi temi teologici, mi limito a notare che Maometto è l’unico fondatore di religione che sia stato contemporaneamente profeta, capo politico e capo militare. L’inizio dell’era musulmana si fa risalire all’Egira, il momento in cui Maometto, con un piccolo gruppo di seguaci, lasciò la Mecca, dove era a rischio di persecuzione, occupò la città di Yatrib (Medina) e fondò una comunità che era contemporaneamente chiesa, stato ed esercito. O per meglio dire, che riuniva in sé quelle funzioni che secondo la cultura di derivazione romana appartengono a tre istituzioni ben distinte, anche se fra di loro intimamente connesse, mentre nell’Ummah islamica sono aspetti di un’unica “nazione” fondata dal Profeta.
L’Ummah è tendenzialmente universale, quindi il primo dovere del buon musulmano è quello di impegnarsi per la diffusione della propria fede. Ed è, fondamentalmente, un’espansione armata.
Per lungo tempo il modo romano-cristiano non comprese quello che stava succedendo, e reagì in modo debole e confuso. L’espansione islamica appariva come una nuova invasione tumultuosa da parte di “pagani”, ed anche dal punto di vista militare, sia l’Impero bizantino, sia i regni romano-germanici dell’Occidente opposero una resistenza debole e non coordinata. Anche i grandi condottieri franchi, Carlo Martello e Carlo Magno, si limitarono ad una messa in sicurezza del confine occidentale.
La ripresa si ebbe solo a partire dall’XI secolo, ed ebbe come protagonisti la classe emergente del mondo feudale che allora era in formazione: i cavalieri.
Il cavaliere, nell’ideologia dell’epoca, non è solo un forte e coraggioso combattente, è un modello di virtù cristiana. Il manifesto ideologico della cavalleria medievale, la Chanson de Roland, ne sacralizza la figura. La morte di Orlando è la sublimazione del martirio. Tutto questo, nel quadro di uno “scontro di civiltà” che ai tempi storici di Carlo Magno e Orlando non esisteva ancora, ma che alla fine dell’XI secolo diventa la ragion d’essere identitaria della società feudale:
Païen unt tort, e chrestien unt dreit
(i pagani hanno torto, i cristiani hanno ragione).
Nasce a quest’epoca un binomio che avrà grande fortuna nei secoli successivi, e sarà ricordato ancora nella prima metà del ’900 da personaggi a volte inattesi: la Croce e la Spada. Non si tratta solo del fine e del mezzo: la guerra come strumento per far trionfare la religione. È una vera unione ideale: La Spada difende la Croce e apre la strada alla Croce; la Croce santifica la Spada. La guerra come suprema espressione di una vita votata a Dio. È in questo contesto che nasce un fenomeno per noi oggi addirittura paradossale, quello degli Ordini monastici combattenti.
È quindi il cavaliere cristiano che si carica del compito di propagare la fede. E la Crociata, il “pellegrinaggio armato”, è la più sublime forma di devozione
L’impresa si sviluppò, come sappiamo, in due direzioni. Quella verso Oriente fu un fallimento clamoroso, per motivi che non è il caso qui di analizzare.
Ebbe invece successo l’azione in Occidente: l’espulsione dei musulmani dall’Italia meridionale e dalle isole, e soprattutto dalla Spagna, dove la Reconquista cristiana portò alla formazione di grandi Stati che furono protagonisti della storia successiva.
5. Gli ordini mendicanti, primi esploratori del mondo nuovo
Qui devo purtroppo di nuovo appena accennare di sfuggita un altro tema storico molto importante.
Come capita regolarmente, di fronte a nuove sfide che la Chiesa non sa come affrontare, l’avanguardia del nuovo è rappresentata dagli ordini religiosi.
Sono alcuni appartenenti agli ordini mendicanti, che cominciano ad avvertire l’inadeguatezza delle risposte ai problemi di un mondo che sta cambiando. Alla fine del medioevo, alcuni francescani e domenicani sperimentano nuovi percorsi, sia geografici, sia culturali. In Cina vediamo i francescani Giovanni Pian del Carpine (ca.1185-1252) e Giovanni da Montecorvino (1247-1328). I domenicani fecero diversi tentativi, non tutti andati a bon fine, per entrare in Etiopia, quel misterioso paese cristiano che alcuni identificavano con il “regno del Prete Gianni” (vedi oltre). Ma si deve citare anche l’opera pionieristica di un laico, Ramon Llull (Palma di Maiorca, 1232-1316) che dedicò la sua vita alla preghiera, alla penitenza e alla predicazione presso ebrei e musulmani, e comprese che per fare questo bisogna prima di tutto studiare approfonditamente le lingue e le culture di quelle comunità.
Sono iniziative che per ora non lasciano un’eredità duratura, ma testimoniano il germogliare di una nuova mentalità.
6. L’espansione coloniale e la spartizione del mondo
Fu un piccolo regno nato dalla Reconquista che diede inizio alla grande rivoluzione dell’età moderna.
Il Portogallo, per la sua posizione geografica, era naturalmente portato a rivolgere la sua attenzione sul mare, anche se aveva difficoltà a farsi spazio in un Mediterraneo piuttosto affollato.
La grande spinta espansiva si ebbe a partire dal regno di Giovanni I (1385-1433), assistito dal figlio secondogenito Enrico “il Navigatore” (1394-1460, detto l’Infante, cioè figlio non destinato alla successione), e proseguì sotto Edoardo (1433-1438), Alfonso V (1438-1481) e Giovanni II (1481-1495).
Essi poterono servirsi di alcune importanti innovazione tecniche nella navigazione, con navi (prima la caravella, poi la più grande caracca) che potevano montare vele quadre, adatte ai venti costanti della navigazione oceanica, e soprattutto di progressi significativi nella cartografia, nell’astronomia nautica, nello studio delle correnti marine.
Un primo grande risultato si ebbe con la conquista di Ceuta (1414-15), la punta estrema del promontorio africano di fronte alla rocca di Gibilterra. La fortezza, che in seguito passò alla Spagna, era una base navale e commerciale di importanza strategica. All’epoca sembrò preludere ad una reconquista cristiana del nord africa, ma la cosa non ebbe seguito.
In seguito cominciò l’esplorazione sistematica della costa africana, fino all’attuale Sierra Leone. Questo permetteva di importare dall’Africa oro, materie prime e schiavi aggirando le insicure piste del Sahara. Ma poi si concepì un progetto assai più ambizioso: tentare la circumnavigazione dell’Africa, e arrivare in Asia senza dover dipendere dalle vie carovaniere controllate dalle potenze islamiche.
Questo piano viene espresso con la massima chiarezza in un documento che oggi suscita grande scalpore, ma che bisogna collocare nel contesto dell’epoca: la bolla → Romanus Pontifex di Niccolò V, datata 8 gennaio 1454, pochi mesi dopo la conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi (29 maggio 1453).
Il Papa loda il fervore e l’energia con cui i Portoghesi combattono contro l’espansionismo “saraceno”, e ricorda con grande risalto la conquista di Ceuta. Poi parla dell’esplorazione di terre fino a quel momento sconosciute o mal conosciute nell’Africa: le isole Azzorre (scoperte nel 1432), capo Bojador (raggiunto nel 1434), il fiume Senegal (all’epoca erroneamente indicato come Nilo) e la Guinea (1446). Riconosce il possesso di quelle terre ai portoghesi, con esclusione delle altre potenze cristiane, ed autorizza che vengano catturati e ridotti in schiavitù degli indigeni, per essere portati in Portogallo, per essere istruiti nella fede cristiana, e a far tutto ciò che è necessario affinché quelle terre non cadano nelle mani degli “infedeli”. I sovrani portoghesi sono anche autorizzati a costruirvi chiese, e trasferirvi ecclesiastici, sia secolari che regolari, per la cura delle anime. Si auspica infine che l’espansione portoghese arrivi fino a raggiungere quegli “... Indiani, che si dice venerino il nome di Cristo, così da negoziare con loro e poterli coinvolgere come aiuto ai Cristiani contro i Saraceni e altri simili nemici della fede...”
Quest’ultima osservazione richiama una leggenda assai diffusa: si diceva che da qualche parte dell’Asia esistesse una popolazione di fede cristiana, governata da un misterioso “prete Gianni”; e quindi si pensava che il coordinamento fra i cristiani d’Occidente e questi lontani cristiani d’Oriente avrebbe potuto dare un vantaggio strategico nella lotta contro gli infedeli.
La presenza di cristiani nell’estremo Oriente, riferita da Marco Polo, ha probabilmente un certo fondamento storico: potrebbe trattarsi di tribù mongole convertite alla chiesa cristiana nestoriana, abbastanza diffusa nel mondo persiano, dopo che la condanna del nestorianesimo da parte del concilio di Efeso (431) l’aveva esclusa dall’Impero romano.
Insomma, il Papa assegna al Portogallo, di fatto escluso dai grandi giochi del Mediterraneo, un’operazione contemporaneamente religiosa, politica ed economica: creare un blocco fra cristiani occidentali e cristiani orientali, in modo da aggirare e assediare il nemico islamico, allora in piena espansione.
Come giudicare questo testo? Niccolò V, come spesso capita, affronta una nuova situazione con categorie mentali vecchie. Tutto il documento riflette la cultura dell’epoca delle Crociate, resa nuovamente d’attualità a causa della tumultuosa espansione turca: la contrapposizione fra cristiani e musulmani era un conflitto irriducibile, che veniva affrontato con la guerra. Ancora la Croce e la Spada. E la guerra veniva condotta con le modalità dell’epoca, per cui veniva considerato lecito che il vincitore si impadronisse dei beni, delle terre e delle persone del nemico sconfitto.
Non era ancora maturata la consapevolezza che si era ormai fuori dal vecchio mondo mediterraneo, con la sua secolare contrapposizione fra cristiani e musulmani. Eravamo ormai entrati in un mondo nuovo.
È appena il caso di ricordare le vicende che portarono alla successiva divisione del mondo fra Spagna e Portogallo, sancito dal trattato di Tordesillas (1494) e ratificato da papa Giulio II con la bolla Ea quae pro bono pacis (1506), vicenda che già all’epoca perfino nel mondo cattolico provocò malumori e proteste. Qui non vi fu altro che l’acquiescenza alle pretese delle grandi potenze coloniali, senza nessuna riflessione di interesse generale.
Dal punto di vista delle potenze coloniali, fu l’inaugurazione del padroado, il “patronato”, cioè la delega ai sovrani dell’evangelizzazione delle terre coloniali: di fatto, il controllo assoluto dei grandi Stati sulla vita religiosa del mondo extaeuropeo.
L’espansione mondiale del colonialismo, e il progetto di Propaganda Fide
1. Il primo sguardo complessivo su un mondo più vasto
Col XVI e XVII secolo l’immagine del mondo conosciuto cambia in modo drammatico. Le grandi esplorazioni via mare avevano rivoluzionato completamente il quadro delle conoscenze geografiche dell’Europa. L’evento emblematico è la circumnavigazione del globo (1519-1522), che in un’unica navigazione attraversò i tre grandi oceani, Atlantico, Pacifico e Indiano, e toccò i quattro continenti alloca conosciuti: Europa, Africa, Asia, America. Della meraviglia di quest’epoca sono ancora oggi testimonianza i planisferi pubblicati all’epoca, che con crescente dettaglio permettevano di abbracciare in un unico sguardo un mondo di cui fino a pochi decenni prima si ignorava del tutto l’esistenza.
Quando Dante aveva immaginato il viaggio di Ulisse, ne parlava come di un viaggio verso un altro mondo: dall’ecumene, il mondo abitato, al “mondo sanza gente”, un mondo deserto. Ancora di più, esso si rivela alla fine come un viaggio dal mondo dei vivi al mondo dei morti: la montagna del Purgatorio.
Ora di fronte agli europei si apre un “altro mondo” che è anch’esso ecumene, mondo abitato; abitato da genti con cui si può addirittura commerciare.
Le esplorazioni oceaniche erano state progettate e finanziate per finalità commerciali, sostenute da alcuni grandi sovrani dell’epoca in funzione del controllo di nuove rotte di traffico. La seconda globalizzazione si presenta quindi come il tentativo da parte di alcuni Stati europei di sottomettere al loro potere il mondo intero. Estendere al mondo intero, con una gigantesca azione di conquista, il modello politico, culturale ed economico dell’Europa: un’impresa che all’epoca sembrava alla portata. Per il momento, l’arrivo sulla scena dell’impero spagnolo, con la massiccia importazione di metalli preziosi dall’America, ebbe conseguenze importantissime sull’economia europea. Allo stesso tempo, un lunghissimo periodo di guerre di religione si intrecciò con la ridefinizione degli equilibri fra le grandi potenze, in un’esplosione di violenza che può essere paragonata solo ai conflitti della prima metà del XX secolo.
È in questo complicato contesto che si arriva alla fondazione di Propaganda Fide.
2. Un parto assai travagliato
La Chiesa si riconosceva non più adeguata alle sfide dell’epoca, e con la cosiddetta “Controriforma” superava definitivamente gli schemi del Medioevo, ponendo le basi per un Cristianesimo dell’età moderna – con alcuni aspetti anche negativi dell’età moderna, fra cui un fortissimo centralismo autoritario.
Si sentiva vivissima la necessità di un nuovo atteggiamento culturale verso un modo che era completamente cambiato rispetto ai parametri dell’età medievale. Il colonialismo di rapina delle potenze cattoliche dell’epoca, Spagna e Portogallo, creava una grave crisi di coscienza nelle figure più illuminate del tempo, fra cui alcuni esponenti dei nuovi ordini religiosi sorti con intenti di rinnovamento: Cappuccini, Gesuiti, a cui in seguito si aggiunse la Congregazione della Missione fondata da San Vincenzo de’ Paoli.
La formazione della nuova istituzione passò attraverso un percorso lungo e travagliato, soprattutto per l’opposizione da parte dei sovrani cattolici, i quali non volevano rinunciare al padroado, che dava loro il controllo della vita religiosa non solo nelle colonie vere e proprie, ma anche nelle terre fuori d’Europa che consideravano appartenere alle loro zone di influenza.
Già nel 1568 Pio V aveva abbozzato un primo tentativo di congregazione cardinalizia, che però non ebbe seguito. Nel 1599 Clemente VIII istituì una congregazione de Propagatione Fidei o de Propaganda Fide, che nonostante le difficoltà incontrate, e il sostanziale fallimento, è da considerarsi la vera anticipazione dell’istituzione di Gregorio XV. Entrambi questi tentativi risentivano molto dei problemi contingenti del momento; vi era una grande attenzione al tema della predicazione cattolica nei paesi protestanti, e, soprattutto la seconda istituzione, puntava ad un riavvicinamento fra la Chiesa romana e quella greca, in funzione del contrasto all’espansionismo ottomano.
Solo il 22 giugno 1622 Gregorio XV poté emanare la bolla → Inscrutabili divinae 1, preceduta già nel mese di gennaio da una comunicazione ai nunzi apostolici che ne anticipava il contenuto.
La nuova iniziativa si propone di riconsiderare l’intera questione delle missioni e dare ad essa una sistemazione che avrebbe dovuto essere definitiva, secondo alcuni capisaldi teorici e organizzativi. Riassumo qui brevemente i punti fondamentali, prendendoli non solo dalla citata Bolla, ma anche da altri documenti pubblicati nell’arco di qualche decennio, fra cui l’importantissima Istruzione del 1659, alla cui genesi accennerò poco più avanti.
3. Un nuovo dicastero
Tutta l’attività missionaria, che dagli ultimi secoli del medioevo fino a quel momento era stata esercitata in modo “creativo”, ma anche molto dispersivo, per iniziativa di singoli Ordini o singoli ecclesiastici, deve essere sottoposta all’autorità di un unico dicastero: una Congregazione di cardinali presieduta dal Papa. Solo gli ecclesiastici autorizzati dalla Congregazione possono esercitare l’attività missionaria, sempre sotto stretto controllo e con l’obbligo di inviare periodiche e dettagliate relazioni sull’attività svolta.
Per sottolineare l’importanza di questa nuova organizzazione, si dice esplicitamente che essa ha, nel suo campo, lo stesso rango del Santo Uffizio. Certo, non solo oggi, ma già allora, quest’ultima istituzione non godeva di buona fama. Ma così come il Santo Uffizio aveva competenze vastissime nel campo della difesa della fede nei paesi cattolici, si sottolineava che la Congregazione doveva avere competenze altrettanto vaste nel campo della predicazione presso i non cattolici. Alla Chiesa sono stati affidati da Cristo due compiti fondamentali, ed egualmente importanti: diffondere il Vangelo, e difenderlo da nemici e corruttori. In questo modo si dimostra anche che le due istituzioni hanno modalità d’azione specularmente opposte. Mentre il Santo Uffizio gode di una giurisdizione che esercita un’attività di controllo e di repressione, Propaganda Fide deve usare, nei confronti dei popoli stranieri, esclusivamente un’attività di “dolce persuasione”, rinunciando non solo a ogni forma di conversione forzata, ma anche a quegli atteggiamenti di condanna delle culture estranee che potrebbero urtare la sensibilità dei popoli e far percepire il cattolicesimo come un nemico, un invasore, un censore. Inoltre, quando la nuova istituzione viene annunciata ai governi dei paesi europei ed extraeuropei, si sottolinea che Propaganda Fide non si occuperà di politica, non punterà ad avere una giurisdizione, e non avrà atteggiamenti che possano suggerire la disubbidienza alla legittima autorità dello Stato, sia essa un’autorità cattolica oppure no.
In realtà i rapporti fra Propaganda Fide e il Santo Uffizio saranno, fin dall’inizio, molto complessi. Nonostante la distinzione di competenze, rimane il fatto che i missionari, in quanto ecclesiastici, ricadono sotto la sorveglianza di quest’ultimo dicastero. La questione viene a lungo dibattuta, sotto diversi Papi, ma la conclusione è sfavorevole a Propaganda. All’atto pratico, quando un missionario manda ai suoi superiori romani richieste di chiarimento e indirizzo a proposito dell’attività concreta di predicazione presso popoli con culture diverse (il termine “dubbi” presto assume quasi il carattere di un termine tecnico), queste richieste vengono obbligatoriamente girate al Santo Uffizio, il quale spesso non risponde, o risponde dopo anni, e sempre in base a considerazioni che non tengono minimamente conto dei problemi che deve affrontare il missionario sul campo.
4. Indagine sulla situazione esistente
All’inizio dell’attività di Propaganda si considera indispensabile avere un quadro chiaro della situazione dei vari paesi, quindi una delle prime iniziative è quella di chiedere a vescovi, nunzi apostolici e personalità note nell’ambito missionario di mandare relazioni dettagliate sulla situazione dei vari paesi. Si tratta di relazioni quasi sempre sconfortanti, in cui si mette in evidenza la totale inadeguatezza del personale ecclesiastico, soprattutto nei paesi soggetti al “patronato”, cioè le colonie spagnole e portoghesi. Gli ecclesiastici sono spesso inadatti al loro compito, molto più interessati all’arricchimento e alla carriera che alla predicazione. Commettono gravi abusi, sono proprietari di schiavi, e soprattutto commerciano vino, che mina la salute e lo spirito degli indigeni, i quali non ne conoscono gli effetti e ne abusano. Propaganda emana severe norme per reprimere tali abusi, ma non coglie a sufficienza la causa di questa situazione: nelle colonie, gli ecclesiasti provengono dallo stesso ambiente sociale e dalle famiglie dei dominatori europei, ne condividono quindi la visione e gli interessi.
Si evidenziano anche le rivalità fra i diversi Ordini, e fra il clero secolare e il clero regolare, con conflitti che sono causa di scandalo. Il rimedio proposto è la netta separazione territoriale delle competenze dei vari ordini, e soprattutto l’orientamento a impegnare prevalentemente personale proveniente dal clero secolare, che non è animato da spirito identitario e da partigianeria di gruppo, ed è più direttamente controllabile dalla gerarchia.
Una lamentela frequente riguarda l’ignoranza delle lingue degli indigeni. A questo proposito Propaganda sottolinea la necessità di una formazione specifica dei missionari, attraverso corsi di studio dedicati alle lingue e alle culture extraeuropee. Si richiede inoltre una formazione in quella che all’epoca si chiamava “teologia dialettica”, cioè la capacità di confrontarsi con persone di cultura e religione diverse, che presuppone la conoscenza approfondita di quelle culture.
Per tutti questi scopi è indispensabile una vasta produzione libraria; è necessario quindi istituire delle tipografie specializzate in opere relative alle culture dei paesi stranieri: sia opere finalizzate alla predicazione nelle diverse regioni, sia opere di documentazione sulle lingue e le culture locali.
5. Missione e colonialismo
Una questione capitale è ovviamente quella relativa al rapporto tra l’attività missionaria e la politica di espansione e di dominio delle potenze colonizzatrici, in primo luogo Spagna e Portogallo. Qui naturalmente la Chiesa si trova stretta fra due esigenze contrapposte: non può rischiare la rottura con le grandi potenze cattoliche, in un’Europa dilaniata dalle guerre di religione; ma d’altra parte è evidente che la predicazione cristiana non deve presentarsi come uno strumento di dominio straniero.
Spagna e Portogallo hanno fin dall’inizio espresso un’aperta contrarietà verso la fondazione e l’azione di Propaganda Fide: la considerano una violazione del principio del “patronato”, che nell’interpretazione restrittiva da loro sostenuta dà ai sovrani cattolici il controllo assoluto sulla vita religiosa nelle colonie, a partire dalla nomina dei vescovi e degli altri ecclesiastici, l’istituzione delle diocesi, la regolamentazione dei rapporti fra Stato e Chiesa ecc. Si tratta di un caso estremo dei conflitti di interesse e delle sovrapposizioni di competenze che, dall’età costantiniana fino al XIX secolo, hanno caratterizzato la storia dell’Europa cristiana.
L’equilibrio fra missioni nelle colonie spagnole e portoghesi rimane sempre molto complesso, fino all’evento estremo della soppressione della Compagnia di Gesù nel XVIII secolo. Ma un problema altrettanto importante era la pretesa dei governi di Spagna e Portogallo di estendere il padroado anche in aree che consideravano di loro competenza e interesse, pur non avendone un controllo diretto. Questo per esempio riguardava vaste zone dell’Asia sud-orientale.
Per dare una regolamentazione a questo problema, nell’attività missionaria si fece ricorso ad un espediente che era già stato usato in passato, ma che ora divenne sistematico: quello dei vescovi “titolari”, o in partibus infidelium (“nelle terre degli infedeli”).
Anticamente, vi erano migliaia di diocesi, ritagliate sulla geografia della fittissima rete urbana che costituiva la parte orientale dell’Impero romano. Con l’invasione musulmana queste diocesi rimasero deserte, ma la loro titolarità era stata conservata in modo puramente nominale. Era quindi possibile nominare dei vescovi “titolari” di località spesso scomparse: in questo modo l’ordinazione vescovile conservava la sua validità sacramentale, ma il vescovo era spogliato di tutte quelle competenze di tipo economico, civile, giudiziario ecc. che, con termine derivato dal linguaggio feudale, erano chiamate “benefici”. Risultavano quindi ridotte, se non del tutto escluse, le possibilità di conflitto con i poteri dello Stato – per lo meno, con gli Stati cristiani, poiché nei paesi non cristiani il vescovo solitamente non godeva di nessun riconoscimento.
È relativamente a quest’area che abbiamo un documento molto importante, l’Istruzione per i vicari apostolici della Cocincina, del Tonchino e della Cina (1659)2 dedicata alla spedizione di tre vescovi (ridotti in seguito a due) verso la Cina meridionale e l’Indocina. È questa l’occasione per una serie di considerazioni di carattere dottrinario e metodologico molto generale che possono essere estese a tutta l’attività missionaria progettata all’epoca.
Una parte rilevante di quest’Istruzione riguarda appunto il comportamento che i vescovi missionari devono tenere, sia durante il viaggio (che durava mesi, a volte anni) verso la loro destinazione, sia nella loro sede di missione. A tutti i missionari, ma soprattutto ai vescovi, viene raccomandato un comportamento il più possibile di basso profilo: non mettersi in mostra con uno stile di vita diverso da quello delle persone comuni, vestirsi e vivere secondo il costume del paese, evitare ogni contesa e atteggiamento considerato, nel luogo, sconveniente; non dare l’impressione di disporre di grandi ricchezze, di ambire a posizioni di prestigio... Durante il viaggio, evitare di qualificarsi come vescovi, ma presentarsi come persone comuni, mercanti o viaggiatori di altro genere, noi diremmo: turisti (“...adducete come pretesto di così lunghi viaggi o il commercio o la curiosità, innata negli Europei, di visitare e conoscere paesi stranieri...”). Soprattutto evitare, se possibile, di viaggiare con navi spagnole, per il rischio di essere arrestati in quanto ecclesiastici non autorizzati dal governo (eventualità che effettivamente si verificò). Arrivati a destinazione, dovevano mantenere un atteggiamento il più possibile sobrio e morigerato, non dare mai occasione di scandalo, evitare ogni conflitto. Dovevano rispettare tutte le leggi e le costumanze del paese, purché non fossero in aperto conflitto con la morale e il buon costume; non dovevano mettersi in contrasto con l’autorità politica, ma neanche accettare cariche e onori.
6. La formazione del clero locale
La prima e la principale occupazione dei missionari doveva essere quella di scegliere fra i convertiti le persone idonee per diventare preti. È questo il motivo principale per cui nella missione è necessaria la presenza di un vescovo.
La formazione di un clero locale era ritenuta necessaria per due motivi fondamentali.
In primo luogo, un prete nato nel paese può rivolgersi in modo assai più efficace alla popolazione locale: conoscendo la lingua, i costumi, la mentalità, può trovare le forme idonee per farsi comprendere senza destare diffidenza e ostilità. In secondo luogo, il missionario europeo vive a discrezione delle autorità locali, e può, da un momento all’altro, essere cacciato, o peggio. Il prete nato nel paese può più facilmente garantire la continuità dell’azione evangelizzatrice anche in caso di persecuzione.
Il fine ultimo dell’azione missionaria deve essere quello di creare delle Chiese locali completamente autonome e autosufficienti, attraverso la consacrazione di vescovi locali, scelti da Roma in base alle segnalazioni dei missionari. A questo punto, le varie Chiese non dipenderanno più dalla presenza di missionari europei.
Un problema fondamentale era però il percorso di formazione di questi preti locali. In primo luogo, era difficile fondare delle scuole, spesso in situazioni in cui la sopravvivenza stessa della chiesa locale era problematica. Per garantire la serietà degli studi e l’uniformità della preparazione, la scelta inevitabile sembrava quella di trasferire gli aspiranti nelle scuole europee; ma, a parte le difficoltà del viaggio, e le spese conseguenti per questa formazione, c’era il fondato timore che l’entusiasta neofita restasse scandalizzato o corrotto dall’ambiente troppo diverso delle città europee, dove perfino il clero non sempre dava garanzie di moralità e coerenza con gli ideali evangelici. Accenno qui solo al fatto che in varie situazioni, nel XIX secolo, si tentò di trasferire nei collegi europei dei giovani e giovanissimi per la loro formazione. I risultati furono quasi sempre disastrosi; non solo questi giovani vivevano questo trasferimento come un vero sradicamento, per cui alla fine risultavano emarginati non solo in Europa, ma nello stesso paese d’origine, col quale avevano perso ogni contatto; ma spesso le condizioni ambientali, alimentari e igieniche delle città e dei collegi europei erano così insoddisfacenti che pochi sopravvivevano.
7. Il rifiuto del razzismo
L’azione missionaria, l’esistenza stessa di una Chiesa “cattolica”, cioè universale, si fonda sul principio dell’unicità del genere umano. Alla base c’è il famoso passo della Lettera ai Galati, 3:28: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”, dove per “greci” Paolo intende tutte le diverse etnie presenti nell’Impero romano, che usavano il greco come lingua veicolare.
Già nel 1537 Paolo III aveva, con il breve Pastorale Officium, condannato la riduzione in schiavitù degli amerindi, con un’esplicita motivazione di rifiuto della discriminazione razziale:
Noi dunque prestiamo attenzione a che gli stessi Indiani, anche se sono al di fuori del grembo della Chiesa, non siano privati o non stiano per essere privati della loro libertà o del dominio sulle loro cose, poiché sono uomini e per questo capaci di fede e di salvezza, non siano abbattuti con la servitù, ma siano invitati alla vita con la predicazione e l’esempio e cose simili.
Non dobbiamo scandalizzarci se tale principio appariva, in un mondo in cui le diversità culturali fra i vari continenti erano ancora fortissime, contrario all’evidenza dei fatti. Fino a tempi recentissimi, l’esistenza delle “razze” umane (qualunque cosa si intendesse, nelle varie epoche, con questo termine), veniva considerata un dato oggettivo, sia nel senso comune, sia nel pensiero scientifico. È sicuramente questo il punto in cui l’azione innovativa intrapresa da Propaganda Fide incontrò le maggiori difficoltà, anche all’interno della Chiesa stessa. Dovunque, soprattutto nei territori coloniali, era fortissimo il pregiudizio sull’inadeguatezza dei “selvaggi” al sacerdozio. D’altra parte, là dove gli ecclesiastici godevano di posizioni di privilegio, la concorrenza da parte di preti indigeni appariva una minaccia intollerabile. La questione, come sappiamo, ha attraversato tutta la storia di Propaganda Fide, fino al ’900.
8. La condanna dello schiavismo
Lo schiavismo era, in tutte le epoche antiche, un’istituzione considerata non solo lecita, ma fondamentale per il buon ordinamento delle società. Si dava per scontato che i lavori più umili, faticosi, pericolosi, degradanti, dovevano essere assegnati ad una massa di persone costrette a rimanere nella loro condizione con la forza. La liberazione degli schiavi appariva come la più radicale delle misure eversive, qualcosa che avrebbe potuto minare le basi stesse della società. Tale convinzione passa alle età successive, e solo con estrema difficoltà viene superata, sia nel mondo laico, sia nelle Chiese. Alla fine dell’antichità, non solo in ambito cristiano, si cominciò a mettere in dubbio che fosse corrispondente al diritto naturale. Ma fu con grande fatica che questa consapevolezza non solo conquistò le coscienze, ma portò a iniziative concrete per lo sradicamento di tale istituto, che oggi consideriamo una mostruosità – anche se è ancora tragicamente presente, in tante situazioni.
Dobbiamo sempre avere molta cautela nell’esprimere giudizi netti su idee e comportamenti comuni nelle epoche passate, retrodatando le nostre convinzioni attuali. Oggi appare sconcertante che tra la già citata condanna della schiavitù degli amerindi, pronunciata da Paolo III, e la condanna della tratta dei neri, contenuta nell’enciclica → In supremo Apostolatus di Gregorio XVI (1839) siano passati più di trecento anni. E per di più, si trattava di una condanna della tratta, non espressamente della schiavitù in quanto tale.
In entrambi i casi, tali condanne sono legate a considerazioni relative all’azione missionaria. La condanna della schiavitù degli indios, pronunciata da Paolo III, viene esplicitamente motivata col fatto che essa entra in contrasto con le prospettive dell’evangelizzazione. Quanto alla condanna della tratta (non esplicitamente della schiavitù) dei neri, pronunciata nel 1839, il tema è da vedere non solo in relazione alla situazione delle Americhe, ma dell’apertura di Gregorio XVI (che ricordiamo, era stato Prefetto di Propaganda Fide) alle missioni in Africa, con alcune importanti iniziative:
- Missione “esplorativa” di Giuseppe Sapeto C. M. nell’Abissina del nord (in seguito chiamata Eritrea): 1837;
- Prefettura Apostolica dell’Abissinia: 1839;
- Vicariato Apostolico dell’Africa Centrale (cioè l’attuale Sudan): 1846;
- Vicariato Apostolico dei Galla: 1846.
La tratta degli schiavi era sempre un’attività distruttiva: i mercanti, quando irrompevano in un villaggio, non solo prelevavano i soggetti di maggior interesse commerciale (in genere giovani e giovanissimi), ma devastavano l’intero abitato e sterminavano la restante popolazione. Mentre la tratta dall’Africa occidentale, destinata alle Americhe, era già in declino, fortemente contrastata dall’azione della marina britannica, che dal 1808 dava la caccia alle navi negriere, numerosi esploratori avevano da tempo segnalato come invece, nell’Africa centrale e orientale, la cattura e il commercio degli schiavi, destinati ai paesi dell’Impero ottomano, fossero in forte espansione. La denuncia di quest’attività era funzionale sia ai tentativi di contrasto dell’espansionismo musulmano, sia agli sforzi di evangelizzazione delle popolazioni ancora “pagane”.
Dobbiamo comunque sottolineare come anche in questo campo alcuni si siano mossi coraggiosamente nell’affermazione di principi morali superiori, in contrasto con convinzioni all’epoca universalmente condivise; e abbiano saputo, sia pure in modo sofferto e faticoso, anticipare principi che oggi consideriamo indiscutibili.
9. Il superamento dell’eurocentrismo
Nei documenti dell’epoca, in primo luogo nella citata Istruzione del 1659, si insiste sul punto che la conversione al cristianesimo non implica necessariamente la cancellazione delle culture locali e l’imposizione degli stili di vita europei:
Non compite nessun sforzo, non usate alcun mezzo di persuasione per indurre quei popoli a mutare i loro riti, le loro consuetudini e i loro costumi, a meno che non siano apertamente contrari alla religione e ai buoni costumi.
Che cosa c’è infatti di più assurdo che trapiantare in Cina la Francia, la Spagna, l’Italia o qualche altro paese d’Europa? Non è questo che voi dovete introdurre, ma la fede, che non respinge né lede i riti e le consuetudini di alcun popolo, purché non siano cattivi, ma vuole piuttosto salvaguardarli e consolidarli.
Ovviamente, decidere quali di questi caratteri culturali non siano in contrasto con il cristianesimo, è tutto da valutare. È noto che dal ‘600 inizia una polemica terribilmente tormentata a proposito dei cosiddetti “riti cinesi”, cioè aspetti morali e rituali del confucianesimo, di cui si deve stabilire quanto siano compatibili con la fede e la morale cristiana. La risposta, per lungo tempo, fu di forte chiusura, con conseguenze pesanti per l’azione missionaria in Estremo Oriente.
III. Il lungo viaggio verso la terza globalizzazione
Nel breve resoconto delle pagine precedenti, mi sono sforzato di illustrare come la fondazione e i primi decenni di vita di Propaganda Fide siano un periodo caratterizzato da una fortissima spinta ideale, e da enormi difficoltà nel mettere in atto questo programma così ampio e ardito. Spero che sia stato chiaro che non ho voluto minimamente sminuire il carattere innovatore, diciamo pure, profetico, della nuova istituzione e dei suoi fondatori, ma al contrario, sottolineare come proprio l’arditezza e la complessità del progetto dovessero apparire una stonatura rispetto al contesto storico e culturale dell’epoca, e quindi doversi continuamente confrontare con difficoltà e contraddizioni.
Da un punto di vista oggettivo, ho già evidenziato la complessa situazione storica dell’epoca. Ma forse più ancora dei legami tra la Chiesa e le forze politiche dell’epoca, legami che in alcuni casi degeneravano in vera e propria subordinazione dell’azione della gerarchia agli interessi delle grandi potenze coloniali, pesava il clima culturale dell’epoca, che, al di là della fascinazione per i mondi esotici da poco scoperti, vedeva nel mondo al di fuori dell’Europa soltanto terre da conquistare, abitate da popolazioni “selvagge”, “barbare”, “pagane”, a cui si dava come prospettiva unicamente la subordinazione alle nazioni “civili”, cioè europee.
Esistevano già da epoche antiche menti illuminate che scorgevano i limiti di convinzioni del senso comune, ma sappiamo tutti quanto sia forte l’attrazione che l’esistente può esercitare sulle coscienze. E dobbiamo essere anche cauti nel formulare a posteriori giudizi di condanna che oggi sono fin troppo facili. Per usare un’espressione manzoniana, chissà come saremo giudicati noi fra duecento anni!
Quello che colpisce nella storia dei missionari moderni, è il periodico riemergere, al di là e al di sopra delle opinioni comunemente accettate, di quella stessa sensibilità, di quello stesso spirito profetico che era stato all’origine del processo creativo di Propaganda Fide. Avverto che uso questo termine in senso strettamente laico, indicando come “profetica” la capacità di scorgere, nel presente, i germi che, in un futuro più o meno lontano, daranno origine ad una nuova realtà, e a una nuova sensibilità culturale e morale.
Se mi è permessa una confessione personale, è stato questo il movente che mi ha spinto a interessarmi all’argomento di cui parlo in queste pagine. Nella lettura delle Memorie del Massaja, spesso mi trovavo di fronte a situazioni, a scelte di quel grande missionario che mi lasciavano perplesso. È stato proprio nella lettura dei documenti originali di Propaganda Fide che ho trovato la radice di quelle prese di posizione, spesso molto difficili e tormentate.
È evidente, che quanto più si è “profeti” in questo senso, tanto più si è in disaccordo con il proprio tempo. Entrando nel concreto, sembra quasi che ogni generazione di missionari, ed ogni grande missionario, abbia dovuto reinventarsi da sé, a proprie spese, il proprio mestiere, costruirsi da capo una metodologia d’azione, riconsiderare quegli stessi temi chiave che erano stati alla base della fondazione della Congregazione, in una sorta di déja vu eternamente ricorrente.
E questo, per tutta la storia di Propaganda Fide. Mauro Forno, nel suo studio sulle missioni nell’epoca della decolonizzazione3, ha evidenziato come, a partire dagli anni ‘40 del secolo scorso, fino alla svolta del Vaticano II, e oltre, i grandi temi su cui si discuteva (e ci si scontrava) in ambito missionario erano: 1. i rapporti fra azione missionaria e colonialismo; 2. il razzismo; 3. l’eurocentrismo; 4. la formazione del clero locale.
Sono esattamente i temi centrali della riflessione che aveva portato, oltre trecento anni prima, alla fondazione di Propaganda!
Siamo così giunti alla terza globalizzazione. La decolonizzazione, seguita a breve distanza dalla fine della Guerra Fredda, ha portato ad un nuovo assetto del mondo, assai instabile, come possiamo vedere anche in questo momento, ma che è caratterizzato dal passaggio da un mondo prima eurocentrico, poi bipolare, ad un mondo multicentrico, in cui rischiamo di sentirci spaesati, essendo venuti a mancare molti degli antichi punti di riferimento.
Senza voler anticipare temi che saranno trattati da altri relatori, è in questo contesto che Propaganda Fide cambia non solo struttura, ma anche nome, divenendo la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli.
Questo mutamento di nome forse è dovuto in parte alla difficoltà insita in un termine che, nel linguaggio moderno, ha assunto una connotazione sgradevole; ma soprattutto si è voluto togliere quel propagare che dà sempre l’idea di qualcosa che si espande da un unico centro, da un’unica radice.
La storia ci dirà se questo passaggio ad un’azione missionaria multipolare avrà successo.
1. Per i documenti della S. C. si fa riferimento ai due volumi della Collectanea S. Congregationis de Propaganda Fide, Roma 1907. Torna al testo ↑
2. Testo originale e trad. italiana in: Massimo Marcocchi, Colonialismo, cristianesimo e culture extraeuropee. La istruzione di Propaganda Fide ai vicari apostolici dell’Asia Centrale (1659), Jaca Book 1981. Vedi, su questo sito, → link . Torna al testo ↑
3. Mauro Forno, La cultura degli altri. Il mondo delle missioni e la decolonizzazione. Carocci ed. 2015 Torna al testo ↑