Massaja
Lettere

Vol. 2

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286

Al padre Vittore Carrier des Houches OFMCap.
procuratore della missione dei Galla – Lione

[P. 1]

* Gemma Lagamara, paese galla, 20 Febbraio 1862.

Due settimane or sono ho ricevuto la sua veneratissima nella quale Ella mi pregava di autorizzarla ad esercitare il caritatevole impiego di procuratore di questa missione presso il consiglio centrale dell’Opera della Propagazione della Fede, non che di spedirle qualche relazione edificante, remissibile al consiglio suddetto e presentabile al pubblico negli annali. Trovandomi allora ammalato non ho potuto subito soddisfarla, ed ho pregato Monsignore Cocino mio coadiutore a mettere una poscritta nella lettera che già stava scritta al Padre Provinciale, nel quale faceva dire a lei di farmi credito sino a tanto che il Signore si degnasse di restituirmi la salute e le forze; eccomi perciò ora a lei disposto a compiacerla di tutto.

Prima di ogni cosa la ringrazio di avere surrogato il R. Provinciale nell’occuparsi degl’interessi della nostra missione, e la prego di volersene occupare nel senso, e col medesimo zelo, con cui si occupava lo stesso P. Provinciale, assicurandola che noi qui non mancheremo di pregare Iddio per lei, mentre la dichiariamo partecipe del poco merito che potremo procacciarci nell’apostolato di questi paesi, [p. 2] come pure la dichiariamo nostro Procuratore con tutte le facoltà espresse nella già spedita patente al sopranominato P. Provinciale medesimo, se pure egli come superiore di lei vorrà benignamente acconsentire; Ella perciò non avrà a fare altro che presentare questa mia al medesimo, ed ottenutone il dovuto consenso tutto sarà finito per parte mia.

Venendo ora alle notizie della missione che Ella desidera, comunicabili al pubblico, le dirò in generale che entrati nei paesi Galla in novembre 1851 [1852], ci facevano gola le belle apparenze di questi paesi; perchè i nomadi sono per lo più bugiardi e facili a dire quello che non pensano, dimodoché il zelante missionario arrivato di nuovo fra loro, prima ancora d’imparare la loro lingua ed i loro costumi, forma delle speranze più in là di quanto possa in realtà ottenersi, ed il suo cuore ebbro di consolazione per la ubertosa cac- /321/ cia che si è presentata all’ardente sua apostolica cupidigia non lascia di partecipare agli amici del mondo cristiano la trovata sua fortuna. Ma poi passato qualche anno, ed imparato un poco il paese, vede le cose in un’altro aspetto, e si presentano altri calcoli; il cuore corrotto dei nomadi a misura che incomincia a farsi conoscere mostra delle difficoltà che non vedevansi prima, e uno si pente di avere concepito e fatto concepire speranze. Così è avvenuto a me nella mia entrata in Gudrù nell’anno suddetto: impaziente di far conoscere il bel campo che si presentava alle mie voglie apostoliche, sospese da circa sei anni, ho scritto esagerando un tantino le disposizioni di questi popoli favorevoli al nostro apostolato, e ciò che accadde a me, accadde pure all’inclito viaggiatore e cavaliere Antoine d’Abbadie, colui il quale si può dire il primo movente di questa operazione apostolica, egualmente ingannato. Non voglio dire con ciò che in nove anni decorsi non siasi fatto nulla da noi, e che nessuna speranza affatto presentino questi paesi, ma unicamente per far vedere le cose nel loro vero senso, e far conoscere tutte le difficoltà che si incontrano nello sviluppo della missione e nell’esercizio del ministero.

Che fin qui non sia stato affatto vano il nostro ministero da ciò che esiste può argomentarsi molto bene; perciò che riguarda ai missionari europei, arrivati qui in numero di tre, abbiamo dovuto restare muti da quattro a cinque anni, nel quale tempo col mezzo di interpreti abissinesi si prepararono fin da principio i primi materiali di catechismo per l’istruzione del pubblico, e col mezzo dei medesimi si facevano le istruzioni, i catechismi e le prediche. Ma bisogna sapere che la lingua abissinese che si doveva parlare agli interpreti, era per noi una lingua nuova, alla bella meglio imparata, e lo stesso era pure della lingua galla parlata dall’interprete venuto di nuovo dall’Abissinia. Dimodoché il ministero della parola, passando per il veicolo [p. 3] di due lingue alla bella meglio parlate, non poteva essere molto forte. Ciò non ostante non si lasciò mai d’istruire, ed in quel frattempo ci siamo occupati ad allevare alcuni giovani galla per la ecclesiastica carriera; una parte dei quali sono già attualmente sacerdoti in numero di cinque, ed alcuni chierici. Il numero poi di tutti i cristiani, benché arrivi a qualche migliaio, pure i buoni cristiani sono molto pochi, cosa che non poco mi affligge, e mi fa pensare che debba attribuirsi ancor più alla durezza ed indisposizione del cuore, la quale si incontra in questi popoli molto corrotti.

Da due anni e più a questa parte incominciando a capire e parlare sufficientemente nell’istruzione, possiamo parlare anche noi stessi senza interpreti, e benché la lingua sia sempre ancora molto legata, poiché una persona di età difficilmente arriva ad impadronirsi di una lingua straniera, in modo da poterla parlare all’eguale degli indigeni, benché arrivi a capirla bene, pure è sempre meglio che dover istruire col mezzo d’interprete. Ma se la lingua non ubbidisce totalmente alle buone volontà nel parlare, abbiamo però potuto occuparci, e ci occupiamo attualmente in traduzioni utili per /322/ l’istruzione dei giovani preti, chierici e studenti, quasi tutti accostumati a leggere e scrivere in lingua galla coi caratteri europei. Oltre il catechismo per il popolo completo, abbiamo già una spiegazione dei comandamenti della legge di Dio in forma di teologia morale completa, una breve teologia sopra i sacramenti incompleta, un catechismo sopra la Storia Sacra da Adamo sino a G. C. una raccolta di preghiere di ogni genere coi misteri del Rosario, Via Crucis, e modo di sentire la S. Messa, e si sta ora lavorando la traduzione del Vangelo di S. Matteo, e degli Atti degli Apostoli. I nostri giovani incominciano a pascolarsi di queste letture, ed in tempo del pranzo e cena i medesimi ci fanno la lettura delle opere suddette. Così pure le lettere da una casa ad un’altra fra gl’indigeni e cogli indigeni sono sempre in lingua galla, la quale si scrive molto bene coi nostri caratteri, come potrà vedere da alcuni originali delle lettere suddette che le unirò, e da una copia delle preghiere in istampella, la quale servirà di modello, perchè la maggior parte degli scritti sono di tal fatta, e molti giovani sono così accostumati anche a scrivere. Da ciò ella conoscerà che fin qui non siamo stati oziosi, benché in questi paesi di nessuna società e di nessuna industria, essendo noi obbligati a fare tutti i mestieri, le occupazioni esterne di casa, e di coltivazione occupano la maggior parte del tempo, tanto di noi, che dei preti e dei chierici indigeni, coi quali dividiamo tale carico, come per l’ordinario persone più fide, e più attaccate alla casa.

P. 4 Mi fanno ridere alcuni teoristi dei nostri paesi, i quali per distruggere i sentimenti di riconoscenza che tutto il mondo deve avere per il Vangelo, come unico elemento rigeneratore e civilizzatore dell’uomo in tutti i suoi rapporti, suppongono nei selvaggi colla semplicità, una gran purità di costumi. Stolti! regna per contro in questi una corruttela tale che ci vuole tutta la forza della fede nostra per ravvisare in questa gente l’imagine di Dio, e per credere che il sangue nostro ed il sangue loro sia derivato dalla medesima fonte, da uno stesso padre.

La prepotenza dei regoli e dei grandi in questi paesi è tale che in faccia ai medesimi non esiste affatto né diritto personale, né proprietà, né onore, né altro. L’uomo non è più uomo, ma fa la stessa e medesima figura che fanno le bestie sui nostri mercati ed i vitelli nelle mani del macellaio. Alcuni fatti proveranno la verità di ciò che dico; ancora sul principio di agosto dell’anno scorso io mi trovava in Kafa come la persona più onorata e rispettata dopo il re, andato là dietro conferenze e trattati stipulati con giuramento da tutti questi principi Galla con quel re, che hanno durato due anni.

I musulmani di Kafa uniti coi grandi del paese, veduta la forza del nostro ministero sopra il cuore del popolo, per paura di dover lasciare il monopolio delle donne e degli schiavi, si riunirono in un glub per farmi partire improvvisamente ed esiliarmi. Così il 26 agosto verso mezzogiorno circa 300 cavalieri mi presero mentre stava scrivendo, mi proibirono persino di prendere carta e cala- /323/ maio, mi fecero camminare giorno e notte sempre per vie misteriose e con una sorte incerta di vita o di morte, fra un pianto universale dei miei e delle persone anche grandi di senso cristiano. Dopo avermi fatto passare otto giorni compiti in un deserto, perchè i principi vicini non volevano entrare in questa violenza che mi facevano, e quasi morto di fame e di stanchezza arrivai presso di Abba Baghibo in Ennerea la mattina del 9 settembre dove quel re m’accolse piangendo. Ma che vuole? dopo otto giorni muore questo principe, il successore al regno, fanatico musulmano, appena stabilito un poco il suo regno combinò anche egli coi focara fanatici per cacciarmi.

La mattina del 1 decembre sono chiamato dal re, accusato di aver fatto delle magie e senza altra forma di giudizio esiliato sul momento, spogliato di quel poco che aveva. Un mio prete indigeno messo alla tortura per fargli confessare ciò che non è, viene con mille violenze cacciato dal paese come un cane, cui tutti danno addosso. I tre preti indigeni rimasti in Kafa, e stati con industria da me separati la sera avanti il mio esilio, ad eccezione di uno che allora era con me, e nella mia partenza restò colà in casa custodito, gli altri due, uno per nome [p. 5] P. Giacomo Ajlù e l’altro P. Giovanni Morka, sono stati messi in prigione, custoditi gelosamente, affinchè non avessero comunicazione fra loro e con me. Lusingati nel modo più diabolico per fargli apostatare, persino con mandar loro donne, prometter loro mogli del sangue reale e ricchezze a petizione, dopo due mesi di simili violenze e tentazioni, essendo loro riuscito di fuggire, e sortire dal regno, furono inseguiti e presi già entrati sui confini di Ghera, dove furono legati unitamente a due servi, ricondotti con mille violenze dal re di Kafa, il quale intenerito dalla loro costanza e mosso a compassione gli fece slegare e permise loro di venire da me. Ma, caso veramente strano! arrivarono in Ennerea appunto la mattina del 1 decembre, mentre mi trovava esiliato, e la casa e la chiesa erano assassinate dal pubblico.

Veda, Padre mio, che bei paesi! affinchè Ella poi non creda queste prepotenze fatte solo a me, porterò un’altro fatto avvenuto in Ghera a persone che attualmente sono nostre. Nel mese di giugno dell’anno scorso un buon paesano di Ghera nella raccolta del miele ha nascosto un piccolo vaso di una specie di miele che è riservata al re, detta ebiccia, di una specie di pianta colla foglia amara, e che produce un miele molto aromatico; che cosa vuole! un vicino, suo nemico, avendo fatto la spia, detto paesano con tutti i suoi figli e parenti furono presi, sequestrati loro i beni, ed essi furono tutti venduti schiavi a noi.

In Kafa poi fu peggio. Nell’anno scorso furono fatte schiave quattro mila case, ed in Ennerea dalla morte di Abba Baghibo fino al mio esilio in due mesi furono prese più di 500 case. Era una compassione vedere continuamente un mercato di gente, ogni giorno dati in paga di cavalli che il nuovo re comprava dai concorrenti da ogni parte, dando anche tre, quattro, ed anche cinque schiavi per un bel cavallo! Tale è il rispetto della povera umanità. E l’essermi /324/ guadagnato due esilii in due mesi è stato appunto, perchè i musulmani hanno sparso la voce che io aveva fatto proibire in Abissinia il commercio degli schiavi, e che lo scopo della mia venuta nei paesi galla era appunto di fare proibire detto commercio. Però nei paesi galla repubblicani questa brutale prepotenza non è tanto grave, non si fa schiavo, se non colui che è preso in guerra, e la proprietà non è così facilmente violata. Ma anche qui la ragione vale poco contro la forza, ed il povero è sempre oppresso dal ricco e dal potente in tutte le quistioni. L’aristocrazia poi di questi paesi è ancor più terribile. In Europa si è gridato contro i privilegi dei nobili, e la preferenza dei cristiani sopra la casta degli ebrei. Ma che erano tali cose appetto di ciò che si vede qui?

In Kafa la casta detta Mangio (in paese galla detta Wata, ed in Abissinia detta Woito, che io credo la casta più nobile di tutte, perchè [p. 6] la suppongo l’antica padrona del suolo, stata soggiogata prima dalla casta straniera Amara, e poi sopra questa dalla casta Galla venuta dall’Arabia) è talmente avvilita che entrando un individuo di essa in un recinto di persone civili resterebbe immondo quel recinto, ed immonda la persona che si mettesse in contatto con un Mangio. Noi non possiamo evangelizzare questa casta per non essere immondi, e dobbiamo colà guardarci bene dal dire che sono nostri fratelli in Adamo. Meno grave però è il loro avvilimento nei paesi galla dei re, e minimo nei paesi retti a popolo. Lo stesso si dica della casta dei conciatori di pelli, e degli artisti in generale, infami in quasi tutti i paesi, senza parlare degli schiavi dei quali il dire che sono nostri fratelli sarebbe un’ingiuria. Le donne relativamente all’uomo nella successione ed in tutto sono considerate per nulla.

Il maggiorasco poi dei primogeniti non consiste solo in una certa parte destinata per il decoro del primogenito, ma bisogna dire che questi è come l’unico erede universale, e non dà ai fratelli maschi che una menoma parte e questa quasi come arbitraria. A questo proposito ecco il fatto che accadde attualmente qui al proprietario del terreno dove è piantata la nostra chiesa: egli è un buon vecchio cadente, il quale ha quattro figli. Il suo secondogenito che è uomo maturo, era stato appena nato, gettato alle jene per un dubbio della sua legittimità, quindi preso da qualche vicino ed allevato, non è contato nel numero dei figli. Questo buon vecchio, nostro padrone, vorrebbe lasciare un piccolo terreno di poche stara ad uno dei piccoli figli che è il suo beniamino; cosa che sarebbe un nulla in confronto dei vasti terreni che ha; eppure non può per l’opposizione del primogenito. Io ho fatto del tutto per combinarli e pacificarli; ma non ho potuto riuscirvi, e temo che finiranno per battersi. Le donne poi non hanno numero affatto nella successione, dimodoché chi muore senza maschi la sua eredità passa in pieno al più prossimo parente. La figlia senza nessun suo consenso è data in matrimonio, o meglio venduta come schiava, e il suo matrimonio è solubile per parte del marito ed indissolubile per parte di lei. Parlando finalmente della corruttela dei Galla, e più ancora dei Sidama /325/ si trovano delle cose che non si trovano, come credo, in tutti gli altri paesi nomadi, massime in Kafa, dove il figlio per atto pubblico eredita le mogli del suo padre, ed il padre quelle del suo figlio, e le primizie nelle nozze del figlio sono di diritto al padre... ciò sia detto per segnale, e poi viene di seguito una storia orrida.

Il selvaggio non solo non dice mai la verità, ma si serve della parola per nascondere quello che tiene nel cuore, e quando esce in qualche [p. 7] discorso che lo interessi, se dice nero bisogna pensare bianco. Nelle cose poi indifferenti è semplice esageratore; nelle cose infine che interessano una persona amata o temuta, suole prevenire o secondare la passione di chi sente; dimodoché è affatto nulla la parola del selvaggio, anzi sempre ingannevole più che altro, ed è per questa ragione che noi da principio siamo stati ingannati, ed abbiamo concepito e dato speranze un poco esagerate sull’esito futuro di questa missione. Per esempio, tre anni fa nella mia entrata in Kafa ho creduto momentaneamente di potere in pochi anni creare una diocesi colà sul sistema di Europa. A prima vista il sommo rispetto dei preti e del Vescovo, il re ed i grandi caduti ai piedi che si battono il petto come chi si confessa, ed accordano con parole non solamente tutto ciò che si domanda, ma al di là di ciò che si domanda, che bramate di più [?] eppure tutto questo è puro inganno; ed ho saputo dopo che tutto ciò si faceva, sperando che io stesso avrei preso moglie, e sarei diventato un sacerdote degli idoli, come gli antichi preti del paese.

In materia di lussuria poi io credo che non vi sia in tutto il mondo paese più corrotto di Kafa. I paesi Galla hanno qualche riserva; ma in Kafa non si conosce rossore. La libidine regna pubblicamente e senza nessuna riserva affatto, e la verginità stessa e l’onestà non sono onorate; dimodoché una persona di qualsivoglia grado non ha rossore affatto ad avanzare discorsi i più nauseanti avanti qualsiasi persona ed in pubblico. Per questa ragione i preti in quel paese sono in grandissimo pericolo, ed io ho dovuto passare due anni con tutti i miei preti indigeni, in una osservanza come di convento, tenendo i miei chierici e sacerdoti in un continuo esercizio spirituale. Quando gli mandava fuori, li faceva sempre accompagnare in modo particolare, benché fossi come sicuro della loro condotta. Del resto non nascondo che io tremava continuamente, quando si trovavano fuori i giovani o i sacerdoti, io passava il giorno avanti l’altare a pregare per paura. Nei paesi Galla poi avvi molta riserva almeno all’esterno, e nei luoghi meno frequentati dai mercanti e dai musulmani è affatto cosa sconosciuta la turpitudine contro natura. In prova della riserva che si trova nei paesi Galla, la donzella è sempre conservata vergine, e se non fosse trovata tale in matrimonio, si dà azione al nuovo sposo contro i parenti per una soddisfazione, o per restituire la donzella, cosa che non si trova né in Abissinia, né in Kafa. Il paese Galla si può dire l’unico da queste parti, in cui non si vedono scandali pubblici, benché vi sieno poi certe corruttele secrete in modo che nessuno se ne accorge.

/326/ In materia di giustizia poi tutti questi paesi sono eguali, benché vi [p. 8] sia in Abissinia una certa legge conosciuta, ed anche bellina, massime nei paesi liberi dei Galla. Nell’esecuzione la prepotenza fa spavento, massime nei paesi dei re, colla pecunia si vince ogni questione, dimodoché l’oppressione del povero è comune. Già in questi paesi non si parla di carità fraterna nel senso evangelico, affatto sconosciuta, né di filantropia; tutto è egoismo puro, e neanche i legami di parentela e di vicinanza valgono qualche cosa, perchè per un menomo motivo si fa la guerra dai vicini coi vicini, dai parenti coi parenti, e dagli stessi figli coi rispettivi padri. Nei paesi dei re i parenti fra di loro si tradiscono, e fanno anche la spia falsa per uno sperato guadagno.

Dirò ancor due parole della religione di questi paesi, la quale non credasi che sia nulla, essa forma, possiamo dire, la base di ogni movimento fra i selvaggi. Se quei certi speculatori dei nostri paesi, i quali vorrebbero togliere all’Europa il cristianesimo, quasi fosse un fardello inutile, qua venissero; vedrebbero dove vanno a finire i popoli fuori della religione cristiana. Siccome gli idoli di Roma pagana erano innumerabili, così io da dieci anni che sono qui non sono ancora capace di fare una relazione esatta delle superstizioni del paese. Se non erro nell’anno 1858, ho scritto a cotesto consiglio centrale un calcolo di paragone fra i tributi che paga l’europeo cristiano cattolico alla sua religione, e quelli che paga il galla alla sua superstizione, il qual calcolo ignoro ancora, se sia giunto al suo destino. In esso potrà vedersi ancora quanto maggiore è il tributo di questi, eppure allora io non calcolava altro se non che i maghi, i serenatori, i medici, le cui medicine qui sono superstiziose, così che è più stimato un talismano che qualsiasi medicina reale anche sperimentata.

Ma quanto lontano dal vero calcolo io fossi allora, incomincio a conoscerlo oggi e lo conoscerò ogni giorno più. Essi tutto temono, tutto adorano, ed a tutto pagano tributo. I sogni, i fiumi, le spelunche, i corvi di un’aspetto nuovo, una fisionomia sconosciuta, un’essere straordinario qualunque, un segno nell’atmosfera, nel cielo, nella vegetazione, nella prole, nelle malattie, nei casi fortuiti, tutto li mette in grande sconcerto, e subito pensano a pagare il loro tributo con ammazzare qualche pecora o vacca, oppure fare qualche offerta, una parte delle loro fortune si può dire mangiata dalle loro superstizioni.

Un gran signore che domina la casta del luogo dove siamo noi, è circa un’anno che ci tormenta per avere da noi un’anello magico con cui a suo avviso si conoscono tutti i nemici, si vincono i medesimi, come pure si conoscono i buda, ossia malefici, gente molto temuta in questo paese, ed a cui si attribuiscono la più parte delle morti, con esso salvo si va dai loro malefizii. Quali pregiudizii abbiano questi galla [p. 9] circa tale anello, donde sia venuto, io non lo so ancora; solamente so che al suddetto signore noi abbiamo bel dire che quello non esiste, che noi non possiamo acconsentire a simili menzogne, tutto è inutile, egli attribuisce la fermezza della /327/ nostra negativa al disegno di ottenere un prezzo maggiore dell’anello o per altra indisposizione del nostro cuore. Non è possibile persuaderlo affatto della verità, esso propone persino di dare alla missione terreni vistosissimi con stipulazione, se noi vogliamo acconsentire alle sue brame. Ma se quei nostri spregiudicati che gridano alla superstizione, alla bottega dei preti, venissero qui, forse sarebbero meno scrupolosi di noi, e non rinunzierebbero a sì belle proposizioni per timore di insegnare la superstizione.

Dalla superstizione dell’anello passiamo a quella che hanno questi nomadi relativamente al libro che serve pel mestiere dell’indovino. Essi pensano che chi conosce il libro, sappia non solo il passato ed il presente, ma anche l’avvenire ed i misteri più occulti del cuore dell’uomo, e ben sovente accade che si presentano da noi con vistosi regali per farci leggere il libro, cioè per farci fare l’indovino; e l’assicuro, caro P. Vittore, che se noi non temessimo Iddio, potremmo vivere ben lautamente in questi paesi, di superstizione e di impostura, come fanno i focara musulmani. Ma noi andiamo in cerca di anime, non di ricchezze. Da principio ho creduto di poter prendere tale occasione per istruire coloro che si presentavano per sentire il libro; ma poi ho dovuto lasciare, perchè questi schiocchi, mentre non badano alle grandi verità che loro annunziamo, si attaccano a qualche nostro gesto o parola per argomentare in loro senso; io temetti di confermare la massima superstiziosa col fatto materiale, benché fossi solito protestare sempre intorno alla follia del loro libro.

Dal poco che ho scritto, caro Padre, potrà avere un’idea della corruzione dei popoli affidati a noi dalla provvidenza. Serva ciò per far conoscere agli europei cristiani la grandezza e dignità che loro dà la religione di Gesù Cristo sopra gl’infedeli, per renderli a questa riconoscenti. Servirà ancora per far conoscere le dure spine fra cui noi ci troviamo e le difficoltà di questa missione, la quale io non nascondo che per ora non può fare di grandi meraviglie; e non sarà che a forza di pazienza e di tempo che si potrà disboscare questo terreno dagli sterpi che ora l’ingombrano, e piantarvi il vangelo. Debbo però dire che il terreno è buono, cioè che il cuore del galla, quando ha preso, è molto sodo, a differenza degli abissinesi e dei kafini che sono molto leggieri; laonde fra i Galla ho riposto le mie maggiori speranze per l’avvenire. In Kafa esiste ancora un nostro prete, il quale coltiva i pochi cristiani da noi fatti nei due anni di dimora colà; dico cristiani da noi [p. 10] fatti; perché i cristiani indigeni sono cristiani di nome, ma di fatti sono peggiori dei Galla, con superstizioni ancor più madornali. Vedremo col tempo che cosa si raccoglierà in Kafa da ciò che si è seminato. Presentemente Kafa conosce tutto, ed i buoni sono stati molto afflitti del mio esilio, e tre generali cristiani che mi accompagnarono nel viaggio, piangevano nel loro cuore, camminavano di notte fra le spine e nel fango per darmi il braccio sopra il mulo, ed uno camminava avanti con un fanale. Avvi perfino chi dice che si tratta di fare una rivoluzione per questa ragione.

/328/ Queste sono, o Padre, le osservazioni che ho giudicato d’inviarle. Non so se piaceranno al consiglio centrale dell’Opera; in caso affermativo ella mi avverta, perchè negli anni seguenti, penso fare una continuazione di relazione sopra tanti altri generi ancora non toccati, come leggi, giudizii, agricoltura, geografia di questi paesi.

Passo ora a farle alcune note sulla copia in stampella delle preghiere che troverà unite a questa mia per darle un poco d’idea sulla grammatica galla, riservandomi per l’anno venturo di mandarle quella della lingua sidama, che già tengo come finita. Noti che nel tenore di questa copia sono tutti i libri delle nostre traduzioni accennate, quali, potendo, l’anno venturo penso mandare in Europa per fargli stampare colla dedica al consiglio centrale.

[Preghiere]

Ganamaf1 galgala tsaluo’ta

Wakaiokò2 kàlbi3 na kennite4 sif ènsagada5 si èngialada, sceitana kessa6 kan7 nabaste kristian kanna gote harra kanna olcite halkan kanna bulcite galatàke8 si galfadda jadako, dubbiko, hugiko, namumako9 hariduma, kanke haitau atis10 harras gafa haridumas hama11 aka engonnef12 ango na kenni.

Oratio Dominicalis

Abba kegna13 kan samai kessa girtu14 makanke aolfatu15 motumanke aadufu, samai kessa akatae, lafarra16 iadake haitau. Kan17 gafa buddenakegna harra nu kenni, nutis kan sitti iakkine ati nu ararem (perdona) kannu (noi) iakke, aka nu araremnu: gara hamat18 kan ghessu nu ènghessin19 hama kessa nu olcì male. Amin.

P. 11

Salutatio Angelica

Nagake Mariam barakenni20 kan si gute, Wakaio si waggin21 nadden erra ati ebifamte22 ìgìa garaketi Iesus ebifame. Ia kedest Mariam hada Wakaio, nuti ciubumtuf23 ati nu kaddu, ammafès, io dunnes. Amin.

Sjmbolum Apostolorum

Kan (qui) hunduma (omnia) dendau (potest) Wakaio Abba samaif lafa kan nume ani nanamana; Iesus Kristos elmassà24 tokici af Goita kegna kan ango Manfeskedussit kudamame; Mariam durba kessa kan dalatè, abomè25 Pontio Pilato kan dippatè; kan maskalarratti rarafamè; kan dues, awalame; gàra siol26 gadi buè, hadu sadafa kan duè kessa kaè; gàra samait olbaè kan hunduma dendau Wakaio Abba gàra mèrga taà, acci dufa kan èndunnetis kan duetis iakkamurufi. Manfeskedussinès kedest Ecclesia catolika kan kedusan tokicia itaan kan ciubuhika, kan duè kau kan gafà unduma giregna ani nanamana. Amin.

/329/

Actus Fidei

Wakaioko, wakumaketì toko, daghneti abba, èlma, Manfeskedus kan gedanu, saditauke nanamana; daghna27 lamafa èlma kangedan nuf gede aka nama taé, aka maskalattì rarafame, aka dues nanamana; hènnìs garidaf motuma samai aka kennut, cìubumtu dafès ibidda halleia28 aka kennut nanamana; tokittì kedest Ecclesia catolica, kan awrati kan Romas, issein kan amantuf, kan amansiftu hunduma nanamana; haìmano kanat amma ènduut ittì engiabada. Amin.

Actus Spei

Wakaioko kan amante, kan hunduma dendessus, ati sonanga rìdaf, gàraketì ènabdadda bua Iesus kristosit cìùbunko aka na ìrra badut, demsaketin aka èngìràddut, gìalalaketin aka ènduut; kana unduma na gota gedé, olfina motuma sama aka na kennitut abdì kaba. Amin.

P. 12

Actus Charitatis

Wakaioko, kan gari na gotè, egakan gari na gotti kopa miti, garumanke kan èndumne, kanafan si gialla malè, gialalaketifan nama hunduma aka nefsekotì èngialada. Amin.

Actus Contritionis

Wakaioko hamegniko maka motuma samai na dorwatè, ibidda halleiat na ghessisse, kanaf èngadda duwa mitì, lamu kan cialus garumanke kan ènsigomisìsse, èngadda malè; egakan ensikaddu ango io na kennite, utu hama sitin olin duaf, giregnakotif duako, mestira Ecclesiae fudaciun murera. Amin.

Note grammaticali.

1. Ganamaf Galgala (mattina e sera) la lettera f che si trova frammèzzo alle due parole suddette è congiunzione che ha luogo solamente fra due nomi che hanno qualche relazione fra loro, come cielo e terra, Pietro e Paolo. Torna al testo ↑

2. Wakajoko (Dio mio) il ko dopo la parola Wakajo è il pronome possessivo, il quale è sempre unito al nome sul fine. Torna al testo ↑

3. Kàlbi (cuore) il puntino sopra la lettera à significa che detta lettera non è a puro, ma piega verso e. Torna al testo ↑

4. Na kennite (mi hai dato). Torna al testo ↑

5. Sif ènsagada (ti adoro) si è pronome, l’f è segnale del caso dativo che vuole questo verbo, a differenza si èngialada; il sagadagialada sono radicali, èn sarebbe l’ego; il puntino sopra l’è vuol dire che questo e non è largo, ma volge verso l’i. Torna al testo ↑

6. Kessa (intra-ab) in questa lingua l’ablativo di luogo e di derivazione non si distinguono. Torna al testo ↑

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7. Kan (che) questa particella frequentissima serve per formare gli aggettivi, i participii, come Kan Roma per romano. Torna al testo ↑

8. Galatake (grazia, riconoscenza tua). Torna al testo ↑

9. Nama mako (umanità mia, per persona mia) la radicale del nome uomo è nama per formare il nome astratto si aggiugne questa uma o meglio ma; così Wak (Dio) Wakuma (divinità). In questa parola Dio però debbo far notare che nel caso retto si dice per lo più Wak, nei casi obliqui si dice Wakajo: così Wak gedé (Dio ha detto) Wak sifia tola (Dio ti sia propizio), il caso retto non sempre poi, ma solo quando introduce Iddio come operante, o parlante, o conoscente. Torna al testo ↑

10. Atis (tu te) abbiamo detto sopra che il si vale te, così è questo [p. 13] pronome in tutti i casi obliqui, nel caso retto solamente si dice ati, la lettera s che si aggiunge dopo l’ati è una congiunzione, la quale ha luogo solamente quando vi è una specie di congerie di cose non relative, perchè altrimenti sarebbe l’f, come fu detto sopra. Torna al testo ↑

11. Hama (malizia) scritto senza h vorrebbe dire usque. Torna al testo ↑

12. Èngonnef (faccia non affinchè), i due nn formano il verbo negativo, l’f finale è particella soggiuntiva; én da principio della parola sarebbe pronome indicante la prima persona. Torna al testo ↑

13. Kegna (noster). Torna al testo ↑

14. Girtu (es) questo è uno dei verbi ausiliarii non sostantivo, dimodoché il girtu suddetto vorrebbe piuttosto dire qui habitas. Questo verbo al presente si conjuga così ani girà (io vi sono) ati girtu, hiunni girù, nu giranna, ìssin girtan, ìssan gira; all’imperfetto girà ture, (io vi era) girà turte, girà ture, girà turne, girtu turtani, girà turani, questo verbo non ha altri tempi. Torna al testo ↑

15. Aolfatu (glorificetur) questa lingua non avendo l’ottativo, si serve dell’imperativo, segnato colla lettera a iniziale, il tu finale ha per lo più del passivo nei verbi. Torna al testo ↑

16. Lafarra (la terra sopra), propriamente irra vuole dire sopra, ma suole sempre unirsi alla fine della parola predicata: così lafa vuole dire terra, lafarrâ sopra la terra, come gàvarrà (verso sopra). Torna al testo ↑

17. Kan qui sarebbe per il genitivo, se pure, come sopra, non è per formare l’aggettivo; kan gafa (del giorno) oppure quotidiano. Torna al testo ↑

18. Gàra hamat (ad malum) il gàra coll’accento sopra il primo a vuol dire ad; coll’accento sopra il secondo a vorrebbe dire ventre; la lettera t finale è per lo più segno dei casi obliqui, massime nei casi di moto, oppure di luogo; non avendo questa lingua la parola tentazione, nella traduzione del Pater abbiamo dovuto fare un giro e dire ad malum quod nos provocat ne conducas nos. Torna al testo ↑

19. Ènghessin (non condurci); nell’imperativo questa èn iniziale coll’n finale è segno di verbo negativo. Torna al testo ↑

20. Barakenni (grafia) non trovandosi in lingua galla la parola grazia, ci siamo serviti di questa parola più abissinese che galla, che significherebbe dono o regalo. Torna al testo ↑

21. Si waggin (tecum) questa parola equivale piuttosto all’insieme che al con. Torna al testo ↑

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22. Ebifamte (benedicta) ebba vuole dire benedizione, l’aggiunta dell’m è per il passivo, ed il te per il femminile. Torna al testo ↑

23. Nuti ciubumtuf (noi peccatori per) il ti al pronome è per il caso obliquo, l’f finale è per il per. Torna al testo ↑

24. Élmassà (figlio suo) il sa finale è pronome possessivo di terza persona, come il ko è della prima, il ke è per la seconda; il kagna per la prima del plurale, il kessani per la seconda, il sani per la terza, semper uniti in fine. Torna al testo ↑

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25. Abomé Pontio Pilato kan dippatè (per comando di Ponzio Pilato che patì) il sotto nel senso che vuole il testo non essendovi, abbiamo dovuto mettere per comando; come pure non essendovi che una sola parola in lingua per patire ed essere infermo di malattia che sarebbe dukubsate, abbiamo dovuto servirci del dippaté che vuol dire trovarsi nelle strettezze ed angustie per persecuzioni e simili. Torna al testo ↑

26. Gàra siol gadi buè (ad inferos infra descendit) per gli inferi la parola siol è abissinese; come il buè ha anche qualche altro significato per discendere si unisce il gadi che significa abasso. Torna al testo ↑

27. Daghna lamafa (persona seconda) questa parola persona in tutte le lingue limitrofe è sempre mal espressa; così il daghna vuol dire indistintamente persona e membro civile tanto in Abissinia che in Kafa: credo che l’indeterminazione di tali parole ha aiutato in queste parti l’eresia orientale sulla natura e persona di Cristo; il lamafa è il numero secondo aggettivato, come ladafa per terzo, così arpafa, scianafa, giafa, torbafa, sadetafa, sulgafa, cornafa. Torna al testo ↑

28. Ibidda halleja (fuoco di precipizio, per l’inferno). Non essendovi la parola inferno nella lingua; un galla, al principio del nostro ingresso, venne a raccontarci un sogno nel quale ha veduto un gran precipizio pieno di fuoco alla bocca del quale stavano sacerdoti bianchi a rispingere una folla di persone, che come ciechi cadevano nel precipizio. Così e per questa ragione all’inferno è stato dato tale nome, il quale, grazie a Dio, può dirsi conosciuto in tutti i paesi galla, nome il più proprio che si possa immaginare. Torna al testo ↑

P. S. Nella festa dell’Invenzione di Santa Croce ebbe luogo la consecrazione del coadiutore nella persona del P. Felicissimo da Cortemiglia, nostro confratello della provincia di Piemonte col titolo di Vescovo di Marocco, in partibus. Che bella funzione! Un europeo avrebbe trovato di che ammirare e rimanere intenerito forse fino alle lagrime! Nella sua semplicità aveva tutta la gravità desiderabile. Il bastone pastorale dei due vescovi, il consecrante cioè ed il consecrato, era una semplice canna: la loro mitra era di cuoio, cucito alla meglio dagli indigeni: gli abiti pontificali poi fatti di pezzi di tela di colore che si trovarono nel paese. Vi assistevano quattro preti indigeni con buon numero di chierici del paese, qualche pezzetto di canto alla bella meglio imparato, tutto frutto del nostro apostolato. La chiesa benché tutta formata di paglia di Limu, pure faceva sua bella figurina, come sposa novella e vergine, epperciò più avvenente /332/ di un’imperatrice romana. A motivo delle difficoltà delle strade non mi era riuscito ancora di far pervenire dalla costa il pontificale, né anche i libri necessari pel [p. 15] ministero e per la scuola, obbligato a scrivere tutto in instampella. Si aggiugne che i miei occhi cominciano ad indebolirsi, la mia povera vista ormai distrutta abbisognerebbe di occhiali, pure mi mancano: supplisca il Signore nella sua inesausta bontà!

Ella intanto conti tutti noi e questa missione come pupilli, perchè in realtà siamo tali, essa nulla può fare da sé. Se la medesima farà del bene in questi paesi gli europei ne avranno tutto il merito e noi staremo qui nel campo per batterci ed ella solamente pensi a noi come Mosè, perchè di qui noi possiamo far ben poco di ciò che concerne i nostri interessi.

Per darle poi un po’ di alettamento, e farle conoscere che le di lei speranze di partecipare al nostro apostolato non saranno affatto sterili, Le dirò che dalla mia partenza da Ennerea a questa parte si è fatto del bene, anche non calcolando il poco fatto precedentemente. Venuto in Ghera ho amministrato il santo battesimo presso a duecento individui, ed a più di cento la cresima: presso a cento sono già in grado di confessarsi e comunicarsi, e non pochi si misero in regola in linea di matrimonio, che non è tanto facil cosa in questi luoghi. Tutto ciò fu ottenuto colà nello spazio di tre mesi, da giugno a tutto settembre. Partendo di quel luogo io ho lasciato un prete il quale continua a battezzare. Arrivato in questo luogo, benché la traduzione del catechismo non sia ancor finita, pure abbiamo già battezzato circa sessanta ragazzi, ed alcuni adulti: e fra poco potremo battezzarne anche di migliaia, come vedrà dalla relazione che manderò nel seguito.

Così Ella ci aiuti in tutti i modi che potrà, preghi e ci raccomandi alle preghiere degli uomini, perchè le mie più forti speranze sono sulle preghiere. Posso ben dirle ad onor del vero, tutti i pericoli dai quali la Dio mercè sono scampato, fummi sempre frutto delle preghiere dei buoni religiosi miei confratelli che in convento esercitano l’apostolato di Mosè: in ispecie poi degli associati alla propagazione della fede, i quali sono con noi generosi di limosine e di preghiere. Oh quante volte vedendomi sortito mirabilmente da certi pericoli, e da certe difficoltà, che mi opprimevano il cuore, ho dovuto ammirare e confessare l’effetto visibile delle preghiere degli amici! perchè per lo più in simili strettezze il cuore si sente debole per pregare.

Faccia il piacere di raccomandarmi alle orazioni dei divoti di Notre Dame des Victoires di Parigi: Oh quanto sarei tenuto a chi volesse celebrare a quell’altare una messa in ringraziamento per la conversione di un’anima, che tanto mi premeva, e che anni sono, ho raccomandato colà, anzi l’ho posta ai piedi di Maria Santissima, se si può venir che si ce- [p. 16] lebrasse il giorno 1 8.bre anniversario della grazia ottenuta. Io cambierò ben volentieri l’intenzione e celebrerò qui per quel sacerdote che avrà la bontà di celebrare per me: chi poi celebra, per carità raccomandi ben di cuore alla Vergine /333/ questi poveri popoli a me affidati, i quali incominciano a muoversi è vero, ma hanno gran bisogno dell’aiuto del Cielo. Rese poi le dovute grazie alla sovrana dell’universo per la conversione suddetta, si metta ai piedi della Madonna un’altra anima, essa pure molto bisognosa, che parimente consegno alla nostra Madre Santissima.

† F. G. Massaia Vesc. Vic. Apost.

Al M. Rev. Padre Vittore / Procuratore delle Miss. Estere / dei PP. Cappuccini //.