Massaja
Lettere

Vol. 5

/388/

1231

Appunti storici sui martiri
Agatangelo da Vendôme e Cassiano da Nantes OFMCap.

[1886-1889]

F. 317r Ne[l] 1840. trovandomi lettore di Teologia nel Convento di Testona presso Moncalieri, per le mani di un missionario di passaggio colà mi fu dato di vedere una relazione di un missionario Cappuccino Francese, nella quale si parlava brevemente e come di passaggio dei due Martiri Agatangelo e Cassiano nostri Cappuccini stati martirizzati in Abissinia. In quella relazione si parlava di un libro publicato in Francia sul fine del secolo decimo sesto. Fu la prima volta che io ebbi qualche idea oscura dei martiri suddetti; Ma come la mia vocazione alle Missioni, benché fosse già come cosa stabilita nel mio interno, ma era ancora per me un fatto incerto in futuro, epperciò non ne feci gran caso, benché il fatto di questi martiri non abbia mancato di restarmi molto impresso, e posso dire anche che abbia molto influito nel rendere più ardente la mia vocazione alle missioni.

Nel 1846. all’improvviso, e per un tratto providenziale chiamato a Roma, e spedito in Etiopia come Vicario Apostolico, il fatto dei martiri suddetti, che prima, alla lontana, agiva in me come semplice esempio, diventò in me un fatto tutto mio su tutti i riguardi, tanto più che in Roma stessa aveva già potutto avere qualche idea più chiara da alcune informazioni prese alla sfuggita da alcuni impiegati della S. C. di Propaganda, e poscia arrivato in Egitto non mancai di trovare alcuni documenti che parlavano dei due martiri miei fratelli [f. 317v] suddetti, come missionarii Cappuccini, i quali avevano lasciato una memoria imperitura del loro apostolato in Oriente. In Cairo, un giorno, accompagnato da un vecchio Padre del Convento grande di Terra Santa, il quale mi condusse a vedere l’antico Convento dei Cappuccini, di cui, benché passato in mani secolari, ancor se ne parlava; il mio Compagno facendomi notare antichi segnali rimasti dell’antico nostro Convento, e principalmente della Chiesa, di cui ancora si vedevano alcuni residui, qui abitarono, /389/ mi diceva, i due venerabili Martiri Agatangelo e Cassiano, e di qui di necessità sono partiti andando in cerca del loro martirio. Appena udito queste parole, la mia imaginazione si riscaldò talmente, che in tutto il viaggio del mare rosso, pareva a me di vedere i nostri martiri camminare avanti di noi, ed in tutti i pericoli della nostra navigazione, in loro era fissa la nostra fiducia.

Arrivato all’isola di Massawa, io credeva di essere arrivato sul terreno abissino, ma alcuni giorni dopo, arrivato dall’alto piano abissino, dalle prime conferenze avute con Dejacobis sul conto dei nostri martiri, allora solamente ho potuto avere la vera catena storica sopra la strada da essi tenuta per arrivare sino alle dipendenze del governo etiopico abissinese. I due missionarii Agatangelo e Cassiano, essendo venuti dall’Egitto accompagnati e raccomandati da un Bascià musulmano diretto a Soakim, han dovuto attraversare la bassa Nubia per la via di terra, essendo in quel tempo l’unica strada possibile ai levantini, per la quale dovevano venire gli stessi Vescovi Copti eretici diretti dall’Egitto in Abissinia. L’isola di Massava in quei tempi, continuava Dejacobis, benché di diritto si pretendesse come proprietà abissina, era però come paese deserto di proprietà nullius, abitata da arabi mercanti, luogo piuttosto di contrabando.

F. 318r Non solamente Massawah, ma prima di quell’epoca, tutto il mare rosso, anzi si può dire che tutte le coste Sud-Est dell’Asia e dell’Africa con una gran parte di quell’Oceano potevano chiamarsi una vera proprietà araba, dove solo potevano girare grandi navi ben armate, allora rarissime, prima dell’affrancamento del Capo; le navi di poca tirata erano tutte navi di pellegrini, o di pirati colla bandiera della mezza luna araba della Mecca. In tutti quei luoghi, non solo i Cristiani tanto europei che levantini, ma gli stessi turchi musulmani erano in pericolo della vita, se non erano muniti di passaporti e di accompagnamenti loro rilasciati nei porti autorizzati dal governo della Mecca, cioè da Gedda, da Moca, da Aden, da Zeiila, e da alcuni altri porti dipendenti dal governo Scierif della Mecca, che allora dominava tutte quelle coste.

In quanto a Massawa, continuò Dejacobis, fu sempre deserta prima del dominio arabo di Gragn in Abissinia. Dopo la venuta dei Portoghesi e la disfatta degli Arabi, sotto l’imperatore imperatore Claudio: ገላውዴዎስ Gälāwdēwōs († 1559) fu il protagonista della lotta contro la ğihād lanciata dal somalo Aḥmad b. Ibrāhīm al-Ġāzī detto Grāñ, che si proponeva di distruggere la presenza cristiana in Etiopia. Claudio, molti musulmani per ripararsi dal furore dei Cristiani trionfanti scapparono verso il mare, ed occuparono Massawah ed alcuni posti della Costa verso il Sud, dove si sostennero coll’ajuto degli arabi della costa opposta del mare. In quanto all’occupazione di Massawah, essa fu sempre ancora provisoria ed abusiva per qualche tempo, ma il governo dell’Abissinia soffriva nel suo commercio per le frequenti guerriglie tra i Cristiani e mussulmani, epperciò i cristiani d’Abissina, coll’oracolo del Barnegaz (1) fece la pace cogli arabi, cedendo ad essi la [f. 318v] sola isola di Massawah, e per mancanza totale di marina, anche il dominio del mare, /390/ ma ritenendosi quello di tutte le coste (1). Il Barnegaz in quell’epoca teneva un procuratore plenipotente in Arkeko, ma egli dimorava abitualmente coll’imperatore a Gondar, e qualche mese in Toconda, dove aveva il suo campo con un vice gerente, il quale sorvegliava la costa di Massawah, e spediva gli ordini del suo padrone in Arkeko.

Per tutte queste ragioni i nostri due missionarii francesi Agatangelo e Cassiano, partiti dall’Egitto col Bascia, arrivati in Soakim, non poterono prendere la via del Mare per arrivare direttamente in Massawah, come nei nostri giorni, ma dovettero lambire la costa Sud di esso, ed arrivati, dopo circa un mese [circa] di penoso viaggio, arrivati in vista di quell’isola girarono al Sud-Ovest per presentarsi in Arkeko al primo rappresentante abissino del Barnegaz, e di là montare le altezze etiopiche di Tokonda al suo Campo, come sospetti dei cattolici in Prigione sino all’arrivo degli ordini imperiali da Gondar. Così mi proseguiva il Signor Don Giustino Dejacobis. Io intanto, arrivato in Massawa, partito con esso, in una piccola giornata di viaggio, arrivato in Arkeko nel 1846. più di due secoli dopo, colla mia carovana (2), mi sono presentato al Naïb (3), vero successore dell’antico Procuratore del Barnegaz, [f. 319r] al quale, pagato un certo tributo di uso, ho ricevuto da lui la guida ed accompagnamento che ci autorizzava ad attraversare il deserto abitato dalle tribù nomadi dei Soho, e così poter salire la Taranta che presenta la prima barriera dell’alto piano etiopico. La sera avendo pernottato in Arkeko, il Signor Dejacobis nella serata mi parlò dei due martiri, qui essi, diceva, dovettero fermarsi qualche tempo, perché in quei tempi il Procuratore del[l’] Barnegaz, non lasciava partire le carovane, se prima egli non spediva al suo Campo di Toconda e non riceveva la risposta, secondo i detagli spediti. Da questo loro ritardo in Arkeko si deve credere aver avuto luogo l’opinione invalsa in alcuni luoghi d’Oriente che detti martiri fossero stati uccisi qui, ma questa opinione è apertamente falsa, e contraria alla tradizione indigena da me trovata, e contraria ancora a molti documenti stati publicati in Francia in un libro, che io ho sempre cercato, ma inutilmente; io crederei piuttosto che una tale opinione sia stata publicata dai Copti eretici, o per salvare l’onore proprio, oppure dell’imperatore stesso, attribuendo l’uccisione ai musulmani della Costa per salvare se stessi, in facia all’opinione generale lasciata dai due missionarii creduti da tutti due santi missionarii. Accompagnati sempre da Dejacobis il quinto giorno fummo in Hallai, dove fummo ricevuti dai nostri Cattolici, e di là in una piccola giornata arrivammo a Toconda, dove il suddetto ci fece vedere il luogo dove era l’antico campo del Barnegaz, dove i nostri martiri dovettero fermarsi molti giorni per aspettare gli ordini imperiali. Sotto Tokonda /391/ a piccola distanza Dejacobis mi fece vedere un luogo dove si vedevano alcune antichità, cioè alcuni pezzi di colonne ed alcuni capitelli (1).

F. 319v Ora qui facio punto nella parte storica della questione che ci occupa. Per ora tutto ciò che si può fare fino a tanto che non si scoprono basi scritte non era che tradizione indigena. Per questa tradizione la mia persona nel primo anno, nel 1847. in Decembre stata esiliata ho dovuto vagare fuori dell’Etiopia, ed in essa, divenuto come ladro e persona sospetta, poco ho potuto fare. Dopo le prime conferenze con Dejacobis già sopra riferite, non mi rimaneva ad esaminare [che] il mio Sacerdote indigeno P. Hailù Michele, chiamato Deftera Abebaju prima della sua conversione, il quale unitamente al suo Maestro, chiamato Deftera Assegai divenuto egli pure Cattolico, erano due persone che sentivano la febbre storica del loro paese, ed avevano seguito sempre il Signore Antoine d’Abbadie in tutte le sue visite dei monasteri abissini in cerca di libri; molte cose mi sapevano dire in proposito di martiri cattolici, ma siccome essi non distinguevano fra i diversi Ordini religiosi, mi lasciavano sempre ancora delle incertezze sopra la personalità dei nostri Cappuccini Padri Agatangelo e Cassiano.

A misura che questi due neofiti facevano progressi nella fede cattolica, e stava manifestandosi loro il mistero della croce la febbre storica della Patria loro andava trasformandosi in storia della Chiesa di Cristo e l’amore dei veri eroi della medesima incomminciavano a manifestarsi; mentre la nostra carovana apostolica camminava per l’Ennerea, per Gomma, e per Ghera, essi incomminciavano ad enumerare [f. 320r] certi classici trionfi di alcuni dei nostri giovani catechisti divenuti ammirabili nell’apostolato, in una tentazione principalmente calpestando certe turpi proposte di un principe regnante invaghito di loro con certe espressioni degne di un vero apostolo (1), hai sentito la bella risposta data da un giovanetto di 15. anni? dicevano fra loro i due dottori abissini, oh quanto la grazia dello Spirito Santo è potente per trasformare il cuore di un ragazzo per se bollente d’immonde passioni! Se nel verde dell’età si vedono questi portenti fra i popoli pagani, è poi da stupire ciò che i nostri Padri ci narrano dei due martiri fatti impiccare da Ati Fassilidas, e fatti lapidare dal nostro Vescovo Arminio, e dal suo Blata Pietro Leone? Io intanto al sentire questi e simili discorsi, soleva prendere certi appunti nel mio giornale, benché di fatti a me affatto nuovi, e non lasciava d’interessare il discorso per fargli parlare, pensando così di arrichire /392/ sempre più il mio diario (blata in abissino vale fattore o comandante generale di casa in lingua nostra) o camerlengo nell’attuale lingua prelatizia di Roma.

Intanto avvicinandosi il tempo della nostra partenza da Ghera per Kafa, da tutti i discorsi sentiti ho potuto convincermi essere arrivato il momento di fare gli ultimi sforzi per raccogliere tutte le notizie possibili sulle antiche tradizioni risguardanti la storia dei martiri Agatangelo e Cassiano, l’occasione era propizia, perché il Deftera Assegai antico maestro del mio Sacerdote Hailù Michele, doveva ripartire per Gondar. Avendone passato parola [f. 320v] a tutti due venne conchiuso, che essi di comune accordo avrebbero lavorato a tale proposito secondo le istruzioni che loro avrei dato; io poi, appena gli affari di Kafa saranno arrivati a buon porto, mi obligava a spedire a Gondar il P. Hailù Michele con tutte le istruzioni e facoltà necessarie, e munito del mio stesso sigillo, per dare un valore legale a qualunque atto che sarebbe stato giudicato a proposito. Tutte le cose erano bene organizzate da sperarne ottimi risultati, per quanto permettevano le circostanze di un fatto storico consummato da due e più secoli, ed in un paese dove la missione era perseguitata. Tanto era l’impegno mio, che ad ogni costo non avrei lasciato di adempire alla mia promessa, sperando sempre, se non altro, di trovare qualche cognizione di più nella causa di questi martiri miei fratelli. Frattanto io sperava sempre nella protezione degli stessi martiri che io nel mio cuore teneva sempre presenti nella celebrazione della S. Messa.

Entrato in Kafa, contro tutte le belle apparenze delle trattative politiche, tutte fallite, Iddio e forze l’intercessione dei due apostoli che io già calcolava in Cielo da secoli, per vie tutte straordinarie mi rese padrone della gran questione che mi aveva condotto a Kafa; il diavolo si ruppe le corna, quando si credeva padrone, la rubata pecorella per impulso tutto divino mi cadde ai piedi, e divenne un fido apostolo. La missione che io credeva perduta, in poco tempo spiegò tanta vita [f. 321r] che si sarebbe detto volere Iddio con vero miracolo tirarmi ai piedi tutto il paese di Kafa, ed il movimento della grazia, fu tale, che in meno di due anni mise come in disordine tutto il regno di Kafa, facendo credere al Re ed ai potenti una vera rivoluzione, e mentre io mi trovava come padrone del campo, come raccogliendo gli osanna, mi sono trovato al crucifige; il 25. Agosto 1861. io mi trovava già in via di esilio: il P. Hajlù Micaele, il quale già si stava preparando per il viaggio di Gondar, dovette rimanere in Kafa alla testa dell’apostolato per mietere la messe, e dopo quasi dieci anni di un glorioso apostolato, quasi all’improvviso fu chiamato da Dio a raccogliere in cielo il premio delle sue fatiche.

Così andata a male la missione del P. Hajlù Michele, già destinato a Gondar per dissotterrare la memoria dei due nostri martiri dal sepolcro della polvere di due secoli di persecuzione, senza neanche poter scrivere, come mi aveva promesso, nella nostra separazione (essendo stato chiamato da Dio a ricevere il premio delle /393/ fatiche apostoliche), la mia ultima speranza di trenta cinque anni, onde si facesse giorno per me dei nostri martiri, fu quella di trovare alla fine il libro tanto cercato da me, stato publicato in Francia sopra la storia del loro martirio. Per questo, nei miei ultimi viaggi in Europa non ho lasciato di cercare, sia in Francia, e sia ancora in Roma; non contento di cercare io, mi sono raccomandato agli amici, e non vi è impegno che non abbia fatto, ma sempre inutilmente; neanche [f. 321v] ho potuto venire in chiaro del luogo e della tipografia, dove fu stampato, causa i tempi tempestosi, nemici principalmente della storia, la quale suole essere l’ultimo giudice inapelabile in favore della Chiesa nell’eterno conflitto di essa coll’errore, e col progresso della bugia. Le ultime crisi politiche del secolo andato, come ognun sa, furono il piccone di quel tempo, quello stesso che oggi distruggono i gran monumenti delle grandezze della Roma del mondo civile dei Papi, e dei pagani. Gli stessi archivi della Chiesa e delle Congregazioni furono condannati ai sorci dei solai del Vaticano.

Io, vittima dell’ultimo mio esilio, arrivato in Roma il primo settembre 1880., vecchio quasi decrepito, e pieno di acciacchi, come un povero soldato sortito dalle rovine del campo, e con tutta la malinconia delle perdute conquiste, dei miei cari soldati dispersi, abbatuto dal pensiero delle mie perdite, il pensiero delle mie campagne era per me un naturale compenso, come a quello il parlare delle sue antiche glorie, non raccogliendo in ciò che lagrime il pensare agli eroi del mio tempo, ritornava in Roma la gloria degli antichi martiri stati di me più fortunati, così ritornò vivissimo pensare dei due vittoriosi fratelli Agatangelo e Cassiano, e di occuparmi della causa della loro beatificazione, ma mi mancava la tanto desiderata storia, oh dove poter io trovare il tanto bramato libro dei due martiri Agatangelo e Cassiano, era questo il mio sogno, la mia prima lettera dell’alfabeto nei miei discorsi in Roma; ed eccomi di nuovo alla ricerca, bramoso di occuparmi della causa della loro beatificazione! Così pensando e così dicendo ritornai alle mie ricerche, ma sempre inutilmente; quando un bel giorno il P. Egidio da Milano, il quale era incaricato di riformare l’archivio nostro generalizio viene a trovarmi, portando in mano un vecchio libro [f. 322r] colla pergamena tutta mangiata dai tarli, scritta in vecchio francese: non sarebbe forze questo il tanto da Lei bramato libro, disse; appena lo viddi, appunto, risposi. Vi passai sopra due giorni e due notti; la mia immaginazione non finiva di saziarsi leggendo la gloriosa lotta dei due campioni di Cristo, e mi pareva davvero che essi sorgessero dal loro sepolcro a confermarmi tutte le tradizioni già prima raccontatemi da Monsignor Dejacobis; Poscia dal Sacerdote nostro indigeno Abba Hajlù Michele, e dal suo antico maestro Detterà Assegai con tutti i loro detagli. Io intanto ho spedito subito detto libro monumentale al Signor Antoine d’Abbadie, affinché lo facesse ristampare nel suo stile del seicento francese, senza miglioramento di sorta, per quanto era possibile. Sortirono 600. esemplari, dei quali furono rimessi 300. al P. Provinciale di Parigi, ed altri 300. /394/ furono spediti a me per essere distribuiti in Roma ai Cardinali ed altri Prelati. Se ne fece quindi una traduzione da M. R. Padre Isidoro da Guarcino Segretario Generale, della quale se ne tirarono altre 600. in buono italiano, quali, parte furono distribuite ai Conventi nostri italiani, e parte furono distribuiti a Roma, onde rilevare la memoria dei nostri martiri, come martiri della S. C. di Propaganda, dell’epoca di Urbano VIII., il quale si può dire come il fondatore di essa Congr.[egazione].

Dopo ciò, ecco una cosa già fatta, io pensava fra me stesso, ma come l’opera è tutta di Dio e della sua Chiesa, aspettiamo che esso si spieghi con qualche segnale, oppure con qualche ordine Superiore, perché allora, guidato dal Signore, potrò fare un’altro lavoro per incarnare la storia di questi nostri martiri colla storia religiosa dell’Etiopia, lavoro molto più in grande, e di un’interesse più generale, per il quale io mi sarei cimentato, col tempo, colle forze, e con studii proporzionati al caso, per interessare [f. 322v] sempre più la causa della loro beatificazione presso la S. C. dei riti, e rilevare nel tempo stesso la fede e la divozione dei Cristiani verso i medesimi. Così io stava pensando ed occupandomi quasi tutto l’anno 1881, anno da me passato, quasi intieramente a rifarmi dei sbilanci fisico morali cagionatimi dal mio esilio e dai viaggi disastrosi del mio doloroso ritorno a Roma. Correva il mese di Decembre 1881. vicino alle feste del S. Natale; le mie forze incomminciando a spiegarsi, la convenienza perciò voleva di mettermi in contatto col gran mondo ecclesiastico, dal quale rimasi sino allora come isolato; ho fatto la prima volta le visite del S. Natale alla maggior parte dei Cardinali, ed ai prelati principali delle Congregazioni: fu appunto in quelle visite, tanto attive che passive, che la volontà di Dio si manifestò più chiaramente; Ella ci pensi seriamente, mi dissero quasi tutti d’accordo; il S. Padre non domanderà da Lei altri lavori, ma Ella deve pensare a scrivere qualche cosa in servizio della Chiesa di Dio. Ella dopo 35. e più anni di ministero in Etiopia, sia fra gli eretici, e sia ancora fra i pagani ha dovuto aquistare molta esperienza, la quale sarebbe un vero tesoro per la scienza e per l’apostolato. In facia a tante raccomandazioni di uomini vecchj e venerandi: Signori miei, io soleva rispondere, l’esperienza non è solo un cumulo di fatti materiali da raccontarsi comunque, ma piuttosto una manifestazione delle verità in essi contenute, e per questo è necessaria non solo una lingua meritevole di essere sentita dal publico, e di una filosofia non comune, tutte qualità che non si trovano in Africa, dove invece sogliono perdersi ed indebolirsi.

Intanto in facia a tante raccomandazioni, equivalenti ad un precetto, per chi teme Iddio ed ama la sua Chiesa, naque in me il bisogno di scrivere: da una parte, ecco venuto il momento di accingermi a scrivere, [f. 323r] diceva fra me stesso, sono risoluto di scrivere qualche cosa, ma quale dovrà essere il materiale e l’argomento del mio lavoro? Sarebbe venuto il momento di scrivere la tanto desiderata storia dei due martiri Agatangelo e Cassiano, ma /395/ l’argomento per una parte è troppo ristretto, e per l’altra di positivo non esiste gran cosa di più di quanto sta scritto nel prezioso nostro libro, già publicato in Francia ed in Italia. Cosa potrei io aggiungere a quel caro libro? eloquenza, stile, e parole? Ma si sa da tutti che la Chiesa di Dio in queste cose non domanda ne eloquenza, ne stile, ne parole, ma fatti reali. Ora restando noi sempre nel campo del fatto storico dei due martiri sopra nominati, e tenendo conto, come unico testimonio, il libro stato reso di publica ragione secondo le leggi della Chiesa, nell’epoca tutta vicina alla storia di cui è questione, cosa potrei io dire di più di quello che si dice nel libro suddetto, stato ultimamente riprodotto dal Signor D’Abbadie in lingua francese, e dopo da noi tradotto in lingua nostra?

Nella questione che ci occupa adunque sopra la storia dei due martiri Agatangelo e Cassiano per la loro canonizzazione io non trovo altro documento positivo da esaminare che il libro suddetto. In questo libro si parla della nascita loro, della loro professione religiosa nella Congregazione dei Cappuccini di Francia, della loro condotta edificante come figli della medesima. Si parla quindi della loro destinazione alle missioni di Siria e di Egitto, del loro eroico apostolato in detti paesi da non potersene desiderare di più. [F. 323v] Si parla in esso libro del loro gran desiderio di volare in soccorso dei poveri cattolici abissini, disposti, anzi desiderosi di spargere il loro sangue per la fede, a fronte dei riclami dei loro cattolici orientali. Si parla quindi della loro destinazione per parte dei Superiori dell’Ordine, e della stessa S. C. di Propaganda. Si parla poscia della loro partenza [da tutti] compianta da tutti, e del loro viaggio scortato da un Bascià musulmano, e del loro arrivo in Abissinia. Si trovano quindi in questo medesimo libro preziosi detagli sopra il loro ricevimento, e sopra la loro prigionia presso le prime autorità abissine della frontiera. Quindi, dopo l’arrivo degli ordini imperiali, altri preziosissimi detagli sopra il barbaro modo che furono condotti alla Capitale di Gondar nel Dembea. Poscia maggiori, e più preziosi detagli sul giudizio e seguita sentenza a morte avuta dell’imperatore, da[l] Vescovo eretico, e da altri magistrati nemici, istigati dal famoso Luterano Pietro Leone. Si trova finalmente descritta l’esecuzione della sentenza, e la consummazione del martirio veramente eroico, mentre sino all’ultimo respiro non cessarono di confessare la fede cattolica, esortando ancora gli altri ad abbraciarla, come unica ancora di salute. Si trovano in esso anche narrati alcuni fenomeni creduti universalmente miracoli. Cosa si può pretendere di più?

Essendo tuttavia il libro più volte indicato l’unico documento dove si trovano registrati tanti preziosi detagli, della causa in discorso, non resterebbe altro all’oracolo della S. C. dei riti, che esaminare l’autenticità del libro medesimo, e dei pochi documenti che in esso si contengono. A questo riguardo, essendo conosciuto l’autore del libro, la città, la diocesi, e la provincia dell’Ordine, dove è stato publicato, come pure i Superiori [f. 324r] ecclesiatici, tanto dal canto dell’amministrazione diocesana, quanto da quello dell’Ordine /396/ nostro cappuccino, si può fare appello ai rigori disciplinari della Chiesa sopra tale materia in quei tempi, molto più forti, che non nei tempi nostri, come ognun sa. Ora il libro di antica stampa in lingua francese stato trovato negli archivi nostri generalizii, trovasi sempre in suo luogo come prima, e la riproduzione del medesimo, tanto in lingua francese, editore Signor Antoine d’Abbadie, quanto la sua traduzione, stata ordinata dal Padre Generale nostro R.mo P. Egidio da Cortona, si trovano visibili a tutti, per un’opportuna revisione.

Note del M.

Ho preferito mettere in calce le note autografe che nell’ed. A. Rosso sono inserite nel testo.

Nota al f. 318r

(1) Barnegaz era come ministro degli esteri, il quale possedeva alcune provincie all’Est del Tigrè sopra Massawah; questo nome significa Re dei mari, esistè questo impiego sino alla totale caduta degli imperatori. Torna al testo ↑

Note al f. 318v

(1) Chi vuole istruzione maggiore su questo, legga il primo i miei 35. anni stampato in Milano sopra la discesa dell’armata abissina alla costa di Massawah. Torna al testo ↑

(2) legga sopra la mia partenza da Massawah nello stesso. Torna al testo ↑

(3) Il Naïb, oggi di razza Soho, al mio arrivo prendeva ancora l’investitura dal governo Abissino, benché musulmano. Torna al testo ↑

Nota al f. 319r

(1) Queste antichità, che alcuni mi dissero di ordine jonico, sono quasi gli unici residui di lavori europei che si trovino in tutto l’alto piano etiopico; il poco resto che si trova, ad eccezione dei lavori portoghesi in Gondar, sono cose o egiziane, oppure arabe. Torna al testo ↑

Nota al f. 320r

(1) È questione qui del principe Re di Gôma, e del nostro giovane Gabriele, di cui si parla nella storia... le classiche espressioni delle quali è questione sono poco presso queste = Il mio cuore è a Dio: il resto è carne da macello corrotta, il cui odore mi fa venire il vomito... Torna al testo ↑