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24.
«L’uomo dallo sputo d’oro» a Giarri e Gobbo.
Pane galla e abissino. Vaccinazioni.

partenza da Gombò; riconoscenza di questo paese. Siamo rimasti a Gombò quasi un mese; in tutto questo frattempo, oltre il battesimo dei bimbi suddetto, si amministrò pure il battesimo solenne ad alcuni ragazzi e ragazze di famiglie mercanti cristiane d’Abissinia colà stabilite. Frattanto il cognato di Avietu nostro padron di casa aveva già preso tutte le intelligenze con un suo parente di Giarri, e vennero di là persone a prenderci, e si stabilì perciò il giorno della partenza. Il paese riconoscente per le mie fatiche non volle lasciarmi partire colle mani vuote, ma quasi tutti in proporzione delle loro forze vollero portarmi qualche cosa. Tutti i capi principali del paese mi regalarono, chi un bue, chi una vacca. Gli altri poi meno ricchi, chi una pecora, e chi una capra. I più poveri medesimi non vollero lasciarmi partire senza portarmi qualche cosa, chi portò del grano, chi galline, chi sali, e chi ovi. Io mi sono trovato padrone di circa dieci bestie bovine, 50. tra pecore [p. 365] e capre, otto o dieci carichi di grani, di polli ed ovi. Il paese s’incaricò di farmi portare tutto questo sino a Lagamara. Il giorno della partenza fù un vero trionfo: tutto il paese volle accompagnarmi sino alle frontiere, dove arrivati il Bukù di Gombò mi dichiarò Padre di tutto il paese di Gombò, il quale sarà sempre amico dei miei amici, e nemico dei miei nemici, espressione di uso nella diplomazia oromo, ma in realtà non fù un semplice complimento, come si vedrà in seguito.

importante catena di monti. Questo atto solenne di cortesia, e di riconoscenza ebbe luogo sui confini del paese di Gombo, e Giarri, dove ci siamo sepaiati, e dove fui consegnato ai capi di Giarri, i quali vennero a ricevermi sui confini medesimi. Questi confini erano sulla vetta di una montagna, la quale giuoca un gran ruolo nella geografia di quei contorni. Io non mi trattengo molto, perché si trovano tutte le misure sulle carte speciali publicate dai Signor Antoine d’Abbadie; mi limito a poche cose che bastano a darne un’idea. Questa catena di monti incommincia all’Est dal Liban, /208/ tocca i confini Nord di Warra Ilù, di Danno, di Celia, di Tibiè, camminando sempre verso l’Ovest; quindi s’inclina più verso il Nord, lasciando al Sud-ovest Giarri, e Sibbu, e poi più direttamente al Nord lasciando all’est Gombò, e Hurru, dopo i quali si va abbassando a misura che si avvicina al Nilo, dove segna i confini di Hurru, e di Amurrù. Nel luogo dove passammo noi questa catena, dalla parte del Sud nasceva il fiume Ghiviè, di cui parleremo quando saremo arrivati a Lagamara, e verso il Nord le sue aque versano nel fiumicello, o lago [p. 366] di cui si è parlato descrivendo il nostro viaggio dal Gudrù a Gombò. Questa catena di monti perciò divide le aque che al Nord si gettano quasi immediatamente nel Nilo bleu, da quelle che vanno al Sud, delle quali una parte gira all’ovest e vanno a gettarsi nello stesso fiume bleu, ma molto più lontano, e verso il Fasuglu; mentre un’altra parte tengono la via Sud-Est verso Gemma-Kacca, la direzione delle quali è ancora incerta nelle nostre carte, ma che potrebbero avere una direzione verso l’oceano indico; cosa molto importante; e non ancora esaminata dai nostri geografi anche moderni.

nostro arrivo a Giarri; inoculazione. Lasciando ora questa questione al di là delle viste di un semplice missionario, io, accompagnato da molte persone che portavano tutti i miei animali a Lagamara, e da alcuni capi che mi vennero all’incontro, discendo la montagna, e vado a stabilirmi nella casa di un parente del padron di casa di Gombò. Gli abitantì di Giarri, già prevenuti, emulando le storie del paese di dove venivamo furono più pronti ancora a riceverci, e non tardarono a spiegare il loro gran desiderio per l’inoculazione del vaïvolo. Appena ci lasciarono il tempo materiale per un poco di ristoro, perché della stessa sera abbiamo fatto l’operazione a tutte le persone di casa e vicini, lavorando sino a notte, ad inoculare e battezzare i bimbi, come si fece in Gombò. Lascio di descrivere [ciò] per non ripetere poco presso le stesse storie, dirò solamente che qui fummo più felici nella nostra operazione, perché abbiamo incontrato minore ripugnanza, [p. 367] invece che in Gombò la gran calca per l’inoculazione non incomminciò che dopo i dieci giorni dopo il nostro arrivo, qui incomminciò subito l’indomani, e nei dieci giorni quasi stava per finire. Siccome la cosa si passava più con calma, e gli stessi indigeni si presentavano meglio preparati, invece di cento al giorno ben soventi si arrivava a cento venti ogni giorno. Lo stesso battesimo fatto da Abba Joannes era da loro una cosa molto desiderata e preparata.

il popolo simpatizza, e si avvicina. Per questa ragione, arrivati i quindeci giorni già quasi tutti erano guariti. Anche qui vi furono molti casi d’inoculazione sterile che ho dovuto ripetere; così pure, in minor numero però vi furono casi di vaivolo /209/ come in Gombò, dai quali ho potuto fare raccogliere del virus in quantità. Crescendo la simpatia publica nei grandi incomminciava [a] passare nei piccoli, i quali venivano spontaneamente a noi per far vedere le loro piaghette; a segno che diveniva ogni giorno più facile anche ai miei giovani raccoglire il virus. A misura che cessarono le domande d’inoculazione, e gli inoculati erano presso che tutti guariti tutto il paese era nella più viva emozione, epperciò arrivò il momento di parlare [di parlare] di partenza per Gobbo, ultima stazione nostra vicina a Lagamara. Già erano venu[te] ad incontrarci molte [persone] di Gobbo e di Lagamara, epperciò era per noi facilissimo combinare la partenza, ma gli abitanti non volevano [p. 368] essere inferiori a quelli di Gombò, volevano anzi superargli. festa, e liberalità. Difatti, non contenti di [offrirci] regali in bestiami, sali, grani, galline, ed ovi, avevano preparato un’invito di tutti i grandi del paese, e bisognava aspettare quello per partire. La festa non fu solo in casa nostra, ma tutti i paesani, ciascheduno in casa loro fece gran festa. Tutti vollero farci gustare qualche cosa, e nel giorno della gran festa fù una processione continua di gente che portava casa nostra pane, birra, idromele, ed anche pietanze preparate ad uso del paese. Le due case che occupavamo furono piene di simili regali, oltre i regali di bestie, sali, grani summentovati.

spedisco pane a Lagamara. Siccome poi la mia casa non avrebbe potuto consummare tutte quelle provisioni, ho fatto partire subito circa dieci carichi di pane per Lagamara, ordinando che si facesse seccare, e seccato si pestasse per l’uso della casa, massime per le provisioni di viaggio. Per tutto il resto ho ordinato che fosse distribuito ai poveri del paese, ed anche questi non furono sufficienti per la consummazione della birra e delle pietanze. forno abissini, forno galla. Posto che ho [ho] parlato di pane, voglio dare qui un’idea del pane, tanto abissinese che galla. Il pane abissino conviene nella sostanza col pane galla, e l’uno, e l’altro essendo [p. 369] fermentato; tutta la differenza sta nel modo di cuocerlo. In tutti quei paesi non essendovi forno, come fra noi europei, per cuocere il loro pane si servono di una piatta forma rotonda fatta di terra cotta con un coperchio a campana; questa però ha una forma diversa in Abissinia dai paesi galla. Quella dell’Abissinia è quasi piana, come sarebbe un sotto coppa per i bicchieri e per le tazze fra noi; quella dei galla invece è molto più profunda, con un fundo quasi acuto. Il forno abissino non ha che due pezzi, il recipiente cioè ed il suo coperchio; il forno galla invece ha tre pezzi distinti; il recipiente essendo più profondo, circa la metà della sua profondità ha un secondo pezzo in forma di tondo rivoltato che lo divide in due piani distinti; quindi il coperchio [è] poco presso come l’abissinese.

/210/ pasta per il pane abbissino, e galla. Ciò posto, invece che frà [di] noi si fa una pasta dura, e poi si lascia fermentare, la donna abissinese e galla scioglie la farina nell’aqua un poco calda nei paesi più freschi, ed anche fredda nei paesi caldi, onde favorire la fermentazione, e ciò dentro un vaso; fin qui l’operazione è la stessa tanto in Abissinia, che fra i galla; solamente che in Abissinia la pasta è molto più liquida, poco presso come la nostra pasta per le ostie, mentre fra i galla la pasta deve essere molto più consistente. La donna abissina prende la pasta con una specie di tazza [p. 370] di una capacità determinata, la versa sopra la piatta forma, la distende colla sua mano leggermente, e copertala, in cinque minuti di fuoco è cotta. La donna galla invece, quando il suo forno è caldo, vi versa una piccola quantità di pasta nel fondo del forno, la copre col piccolo piatto, e sopra questo versa il resto della pasta, che riempie quasi il forno, e messovi il coperto, sopra questo mette ancora dei carboni accesi, ed in meno di mezz’ora sorte un grosso pane dello spessore di due dita. Il pane abissino, detto tavita, è molto sottile, del peso poco più di mezza libbra, quantità sufficiente per una persona, mentre il pane galla pesa circa due kilò, e basta per cinque o sei persone, e presenta l’aspetto di una torta.

bontà relativa del pane abissino, e galla. La tavita abissina ancora calda è buonissima, ma a misura che si raffredda perde molto della sua bontà, e dopo che ha passato un giorno, secca subito, ed appena si può mangiare se non è bagnata nel brodo o nel latte, mentre il pane galla sostiene di più la sua bontà anche per qualche giorno. Il primo ha respirato cuocendo, mentre il secondo, chiuso ermeticamente con fango, e cotto con doppio fuoco si avvicina di più al pane nostro. Tutto questo pane non potendo reggersi molti giorni, quando avvanza in quantità, come suole accedere nei grandi inviti, allora si fa seccare al sole, e seccato si pesta nel mortaio, e questa specie di farina si conserva [p. 371] per le provisioni di viaggio; si mangia ben soventi ridotto in pasta con aqua semplice, oppure con un poco di latte se si trova; se poi si trova il necessario, se ne fa una specie di polenta al fuoco, anche condita, secondo [che] si può trovare. Così ha finito tutta la gran quantità di pane stato avvanzato in Giarri, e che io ho mandato a Lagamara.

complimenti e proteste del Bukù a nome del paese. Ritornando alla festa di Giarri. Nel primo giorno ognuno mangiò in casa sua. L’indomani tutti i grandi e capi del paese vennero da me portando un bue, il quale venne scannato sul momento dai miei giovani. Si fece un pranzo pro forma, nel quale, dopo aver mangiato un poco di brondò, si distribuì dell’idromele, e mentre si stava bevendo, incomminciarono i racconti gloriosi sul risultato dell’inoculazione, e sa- /211/ rebbe una storia troppo lunga il raccontar[ne] tutti i complimenti che mi fecero.

Dopo tutti questi complimenti alzatosi in piedi il Bukù, e sventolando in aria la sua allenga (staffile, [usato] fra loro come scettro), passati in rassegna principali oracoli del paese secondo l’uso, = Senti o Giarri, disse, quest’uomo è stato mandato da Dio, e persino il suo sputo di oro; egli vuole partire, e noi non possiamo trattenerlo, ma dove va non è lontano da noi, e noi saremo sempre al suo comando, come al comando del nostro Padre. [p. 372] da quì avanti i suoi amici saranno nostri amici, ed i suoi nemici saranno i nostri nemici = Ciò detto mi condussero sulla porta della casa, dove stavano schierati tutti i regali in bestie, in sali, in grani, poco presso come quelli di Gombò. Gli ho ringraziati, e gli ho pregati di farmi pervenire a Lagamara tutti quegli animali, grani, e sali. mia risposta a tutto il paese di Giarri. = Sentite, dissi loro, voi avete detto che io sono stato mandato da Dio, ed avete detto una gran verità; veramente io sono stato mandato da Dio, ma non credete che la mia missione sia stata quella sola di guarirvi dal vajvolo, perché questa sarebbe stata una missione troppo bassa, e non abbastanza degna di Dio; oggi non posso dirvi tutto quello che Iddio mi ha ordinato di dirvi, e ve lo dirò immancabilmente poco per volta a misura che ci conosceremo più da vicino; più della mia saliva, sarà oro puro la mia parola quando la sentirete, se sarete docili a tutto quello che Iddio vi ordinerà; Iddio intanto vi benedica, prosperi il vostro paese, e facia crescere la nostra amicizia, perché troverete in essa cose molto più grandi ed ammirabili = Ciò detto ho fissato per l’indomani la mia partenza per Gobbo.

Secondo gli ordini dati, il mio Abba Joannes già aveva battezzato in quel paese più di 50. bimbi. Oltre a ciò l’istruzione non cessò [di essere impartita] alla gioventù in tutto il tempo che [vi] siamo rimasti; alcuni un tantino più disposti non sono stati battezzati, perché Lagamara era già abbastanza vicina per potervi ritornare qualche volta, [p. 373] a continuare l’operazione incomminciata, come era anche vicino ai neofiti meglio disposti per venire a noi. Fra questi popoli molto sospettosi non è prudenza prendere la cosa troppo direttamente, perché altrimenti, prima ancora che la parola abbia potuto fare sentire la sua forza lo spirito di contradizione sorgerà ad impedire il suo stesso principio.

nostra partenza da Giarri; entusiasmo. L’indomani giorno fisso per la nostra partenza, appena levato il sole una gran quantità di mondo si stava radunando per darci l’addio. Mentre i giovani [stavano] prendendo un poco di cibo furono chiamati tutti quelli che stavano fuori per finire il poco di carne, di pane, e di birra /212/ che ancora vi rimaneva. Ciò fatto andarono avanti tutti i bestiami, ed i carichi nostri guidati dalle persone del paese, gloriose di raccontare a tutti la nostra storia prodigiosa, e la liberalità del paese in favor nostro. Il numeroso popolo che ci seguiva, appena ci lasciava libero il passo.

Dopo un poco di cammino abbiamo fatto alto, e dissi ai capi del paese di far ritornare il popolo, il quale per forza ci lasciò, col negan gala [= arrivi bene], e noi gli lasciammo dicendo loro negan taa [= state bene]. Chi avesse veduto tutta quella moltitudine di barbari, che in altra circostanza sogliono spaventare i forestieri, tutti commossi, non esclusi gli stessi piccoli ragazzi, avrebbe certamente detto che io ho fatto un miracolo, tanto vale l’entusiasmo di un popolo qualunque, anche barbaro, anzi molto più di un popolo bar- [p. 374] baro, quando è dominato da un sentimento di gratitudine. chi sono i veri barbari, e dove sono. Noi anticamente eravamo soliti [a] chiamar barbari quelli che si supponevano da noi senza una cognizione di Dio, e di Cristo, epperciò non ancora entrati nella vera lega del diritto delle genti stabilito dalla società internazionale cristiana. Oggi poi che la nostra società, detta civilizzata, cammina verso l’ateismo positivo ed assoluto, ed incommincia publicamente [a] professarsi seguace dell’anticristo, e dar prove di una totale perdita di bon senso colle più nere ingratitudini contro Cristo, contro la Chiesa, e contro tanti eroi che hanno educato la nostra società; [di] più, dopo che la nostra società incommincia [a] violare colla forza il diritto delle genti consacrato da tanti secoli, oggi, dico, non saprei più pronunziare dove siano i veri popoli barbari. Fra i barbari, di cui è questione qui, benché si ignorino molte cose sulla divinità, pure ancora esiste il vero sentimento della divinità, ed ancora vi esiste un fondo di bon senso naturale. Non dico una Setta, ma un’uomo solo, il quale nulla voglia saper di Dio, che dica bene il male, e male il bene, e che non presenti qualche segnale di legge naturale, e di buon senso, non l’ho veduto mai.

Lasciata quella moltitudine fra l’entusiasmo di riconoscenza ci siamo incamminati verso Sud-Est, lasciando a nostra diritta in certa lontananza il fiume Ghiviè che abbiamo veduto [p. 375] nascere due settimane prima sopra la montagna, e che stava raccogliendo aque in quel basso piano trà Sibu e Giarri-Nunnu. un bel panorama ci incanta. Che bel basso piano fra un’anfiteatro di montagnette in luntananza si andava scoprendo a misura che noi progredivamo più verso levante, sulle sponde del novello Ghiviè! era per noi un vero incantesimo. Appena il sole incomminciava [a] toccare il nostro zenit, e l’umbra non lasciava più tracia intorno a noi, l’orologio primitivo di quei paesi, il quale ci avvertiva del mezzo giorno, che già i nostri compagni ci mostravano a dito il piccolo villagio di Gobbo, ap- /213/ pena lontano pochi kilometri, e più verso l’est sull’orizzonte, ecco la nostra Lagamara, gridavano alcuni. Girando quindi l’occhio al Sud, al di là del nostro fiume Ghiviè, ecco il gran mercato di Leeca, mi faceva vedere un’altro; più lontano nella stessa direzione una catena di montagne fermava l’occhio nostro, e chiudeva il nostro orizzonte, è quella la montagna di Roghiè, dove incommincia il paese di Nonno Bilò, paese in cui i nostri missionarii di Ennerea hanno già fatto alcuni proseliti nostri fratelli, in Cristo, [così dicevano,] mentre colà passavamo.

nostro arrivo a Gobbo. Mentre noi eravamo quasi incantati nel contemplare il bel panoramma del basso piano del Ghiviè, e di tutto il suo orizzonte in circuito, un trillo di evviva si faceva sentire in lontananza sul pendio della montagna a nostra sinistra[:] [p. 376] gli evviva di Gobbo. era la popolazione di Gobbo, che avendo inteso le cose mirabili avvenute in Giarri, vedendoci arrivare esternavano la loro contentezza col così detto lelta, ossia segnale di publico giubilo al primo annunzio, oppure arrivo di qualche personagio, o avvenimento desiderato. Difatti a misura che noi ci avvicinavamo da tutte le parti correva gente a darci il benvenuto. domanda per l’inoculazione. Non tardarono quindi a sollevare la questione dell’inoculazione del vaivolo. Io avrei potuto declinare una terza stazione di molti giorni in Gobbo, adducendo per ragione, che quel paese era molto vicino di Lagamara, e che potevano con tutto loro commodo venire colà per essere inoculati, ma poi riflettendo bene ho creduto meglio [di] acconsentire alle loro domande, perché una terza crisi di entusiasmo tutta vicina al paese, dove io andava a stabilirmi, avrebbe certamente esercitato un prestigio sopra il medesimo, come difatti accadde. Senza perdere tempo perciò io incomminciai subito ad esercitare il mio mestiere di chirurgo, mentre i miei giovani mi rappresentavano nel ministero della parola.

inoculazione del vaivolo. Non mi trattengo a descrivere ne la storia dell’inoculazione, ne quella delle liberalità di Gobbo, perché non farei altro che ripetere tutto quello che acadde in Gombò, e più particolarmente in Giarri. Dirò solamente che l’operazione divenne sempre più popolare, e la confidenza del publico sul risultato dell’operazione, essendo divenuta completa non fu più [p. 377] necessario far violenza a molti; quindi l’operazione diventò a me molto più facile, e meno faticosa, [e] mentre in Gombò stentava [ad] arrivare ai cento ogni giorno, in Gobbo, senza stancarmi tanto poteva arrivare a 120. ed anche più. Anche le famiglie avendo compreso il bisogno di non farsi inoculare che in parte per non cadere tutti contemporaneamente infermi, senza tante raccomandazioni per parte nostra, seppero prendere le loro precauzioni, e si presentavano pochi per volta. Per questa ragione sono stato obligato a passare in /214/ Gobbo quasi due settimane, mentre avrei potuto terminare commodamente in dieci giorni al più. Avrei potuto continuare anche altre due settimane, perché essendosi sparsa la notizia nei contorni incomminciavano a venire da lontano, come dal Tibiè, e da Leeca, anzi alcuni da Lagamara stessa, ma io ho fatto spargere [la voce] di non venire più, perché potevano a loro bell’agio venire a Lagamara.

Terminate che furono le inoculazioni, il paese di Gobbo, non fosse stato altro che [per] l’emulazione, volle fare anch’egli la sua festa, ed i suoi regali. partenza da Gabbo. Non fu perciò che dopo i 15. giorni dal nostro arrivo, che mi riuscì di poter partire per Lagamara. Non parlo dei complimenti che mi hanno fatto i capi di Gobbo, e dei regali, come cose già abbastanza dette. Gobbo non è lontano più di due o tre ore da Lagarnara, strada tutta piana. Appena congedati dalla popolazione [p. 378] entusiasmata, il nostro [cuore] vagheggiava il paese di nostra futura dimora, ed alcuni mi facevano vedere il luogo stesso della nostra casa che mi dicevano situata ai piedi di una piccola montagnetta visibile detta Tullu Danco (montagne gemelle). Camminavamo sempre verso levante seguendo il corso del Ghiviè, lontano circa cinque kilometri da noi al Sud. Il paese presentava un’aspetto che incantava.