/245/

28.
Fauna di Lagàmara: serpi, formiche, leoni,
leopardi, «ualdeghèssa», zibetto, pesci.

Fatta la mia digressione sui maghi, non vi ritornerò più, se non a Kafa, dove si trova una specie di magia diversamente organizzata. Per ora, avendo parlato del trasporto della casa da Tullu Danco a Tullu Leeca, al nord ovest del fiume Lagamara, e lontano circa due kilometri, voglio dare una piccola idea di questa casa, nella quale la missione stette tranquilla circa 15. anni.

[p. 433] scavi per la casa; descrizione del terreno. La nuova casa di Lagamara fu fabricata sopra un versante sud della montagna la di cui inclinazione è poco presso di un quarto verticale sopra un mettro di linea orizzontale. Sino ad un mettro di profondità è terreno rosso seminato di ciottoli di ogni dimensione; più [in] basso un’altro mettro è terreno ancora della stessa qualità, ma puro, e senza pietre. A questa profundità ho trovato un gran pezzo di cristallo di rocca, di figura quadro lunga, quasi due mettri lungo, e largo quasi un mettro, e [di] spessore irregolare da una parte, e più regolare dall’altra, ma coperto di smalto; nei luoghi dove non vi era questa specie [di] p[l]atina smaltata, si vedeva da una parte all’altra, come una lente. Questo enorme pezzo di cristallo era isolato affatto da ogni altra materia di questa natura, dimodoché io l’ho creduto un pezzo projettato da un’irruzione vulcanica, di cui avvi abundanza in quei contorni. Il terreno più basso ad una profundità incognita si direbbe di carbone e cenere indurito. Il pezzo di Cristallo con delle leve è stato trasportato ad una piccola distanza, dove si faceva un muro [a] secco per lo spianamento.

Come lo scavo è stato [praticato a] quasi quattro mettri di profondità, risultò un piano più di 15. mettri largo sul terreno solido, e qualche mettro di aggiunta guadagnata col muro rienpito di terra nello spianamento. La lunghezza di questo spianamento era [di] circa 40. mettri. /246/ descrizione della cappella. Sopra questo piano si fabricò [p. 434] una piccola chiesa o piuttosto cappella di una figura irregolare. I muri fatti di pietre e fango, ma abbastanza solidi per sostenere un piano di terra che pensava di fare sopra per garantire dal fuoco almeno il Santuario. A levante era un’abside con una piccola nicchia, dove pensava di collocare un quadro, come ancona dell’altare. Al nord dalla parte del terrapieno vi era la Sacristia, come luogo più sicuro dai ladri; al sud dell’altare una fenestra che guardava un’andito, dove sentivano la messa le donne, e facevano la loro comunione; all’ovest la porta del Santuario, che dava l’adito in un’atrio abbastanza grande per tutti i maschi iniziati ai Sacramenti. Dopo di questo un’altro atrio più grande per tutti i catecumeni, dove si faceva[no] mattina e sera le preghiere publiche, ed il catechismo. Come la porta d’ingresso era a ponente, a levante sullo stesso piano vi erano delle piccole case provisorie per i giovani, dove si faceva la scuola. Era questo un luogo come di clausura. La casa con cortile per le donne, dove si faceva il pane, era più basso vicino al piccolo villagio di cristiani.

Col tempo si fecero molti lavori. Nel terrapieno della sacristia si fece uno scavo secreto, nel quale da una parte vi erano dei loculi per la sepoltura dei preti, e dall’altra vi erano ripostigli di effetti. lavori della casa di lagamara. [Di] Più, a levante lungo il terrapieno [p. 435] si fecero altre grotte in numero di quattro corrispondenti alle quattro altre case [con] stanze coperte di terrapieno, tutte in muro, una per me, due per i giovani, ed una per la dispensa. Dalla parte opposta a ponente, all’istesso livello, si fece la porta d’ingresso con una gran stanza di ricevimento, e per albergare i forestieri. La casa di Tullu Leca non era un’alloggio per far figura all’uso del paese, ma molto commoda, e senza pericolo di fuoco. gran quantità di serpenti in Lagamara. Col tempo però si sviluppò colà una cosa molto disgustosa, perché i serpenti di diverse specie si ritirarono tutti fra quelle pietre, e la stessa cappella non era esente. I gatti s’erano abituati a far la guerra ai serpenti, distruggevano i più piccoli, ma coi più grossi non si azzardavano; un giorno un gatto che volle abbordare un serpente grosso, lo morsicò nel collo, ma il serpente l’attortigliò così fortemente che il gatto restò vittima, come vittima ne fù pure il serpente, perché il gatto lo morsicò con tanta forza, che non lo lasciò più.

Il gallo colle sue galline erano più felici nella guerra coi serpenti: si gettavano in massa sopra il serpente, ed a forza di beccarlo, lo uccidevano. Niente di più seccante come le galline vicino alle case, perché guastano tutto, ma per i serpi, ed altri insetti molto abbondanti in quei paesi [esse] erano molto utili. Fra le moltiplici specie di serpenti che si /247/ trovavano in Lagamara vi era anche l’aspide. un serpente da me creduto l’aspide. Benché io non conoscessi bene l’aspide [p. 436] dei naturalisti, io chiamo aspide un serpente nero della grossezza di un dito, e lungo quasi mezzo mettro colla coda monca, la quale appena si distingue dalla testa. Si trova la mattina dopo [essere] sortito il sole, e si trova più frequentemente sul sentiero nudo per fuggire la roggiada che si trova fra l’erba. Veduto un poco da lontano si direbbe un pezzo di legno, e passando una persona non fugge come gli altri serpenti, ma sta immobile, ma guai se si calpesta, perché allora si rivolta e morde, e la sua morsicatura è mortale, motivo per cui dagli indigeni è il più temuto. Nei circondarii di Massawah se ne trovano molti, e soventi gli arabi che vanno a raccogliere l’erba per vendere ne restano vittima; questo serpente si lascia soventi inviluppare coll’erba, e poi quando slegano l’erba, essendo irritato morde. La forma del serpente di Massawah è la stessa di quello di Lagamara, solamente quel di Lagamara è un poco più grosso. Io l’ho chiamato aspide per la sola sua insensibilità, ciò che gli da un carattere più conforme a quello della bibbia.

quantità di altri insetti cattivi.
la formica nera che morde;
In Lagamara, oltre i serpenti, vi si trovano poi altri insetti, fra gli altri lo scorpione è anche molto frequente, insetto conosciuto, e che non ha bisogno di descriverlo. Esiste la formica nera detta gondan in lingua del paese, di cui credo d’aver già parlato; come Lagamara è un paese basso, ed anche piuttosto caldetto, cammina di notte in gran famiglia ed ordine, entra in una casa, se ne impadronisce per mezz’ora circa, e non vi è altro rimedio che sortire e lasciarla padrona, solamente si deve badare che i vasi di miele, butirro, latte, siano ben chiusi; la sua morsicatura non ha conseguenze, ma in quantità è terribile [p. 437] una volta che ha morsicato non lascia più [la preda], e se si cerca di strapparla lascia a preferenza la sua testa. Del resto in casa distrugge la vermina, anche le cimici; distrugge un nido di sorci piccoli che non possono fuggire; distrugge i serpenti massime piccoli, distrugge i rospi, e così tanti altri insetti. labianca che mangia. Avvi pure in Lagamara la formica bianca, di cui credo pure di averne già parlato altrove, formica che fa del gran male, massime alle case di legno. Per se stessa la formica bianca non può mangiare che i legni o altre sostanze piantate in terra, oppure che si trovano in contatto immediato colla terra, attesocché la natura della formica bianca è tale che non può reggere al contatto dell’aria libera, e tanto meno al sole, ma trova la maniera di portarsi anche a certe altezze e farvi del gran male. Quando trova un conduttore, essa lungo il medesimo si fabrica una galleria di terra, e dentro di essa, senza esporsi al contatto dell’aria si porta ad un’altezza e vi fa [un] gran male.

/248/ storia della formica bianca. Il seguente fatto spiega questo mistero: In Lagamara sopra la chiesa aveva fatto una stanza. Come luogo sicuro lontano dalla terra io aveva collocato un gran vaso di terra secca, che conteneva circa venti sacchi di grano; l’ho riempito, e l’ho chiuso ermeticamente impiastrandolo di fango. Dopo sei o sette mesi avendo bisogno di grano vanno ad aprire questo vaso, neanche vi era più il segnale [del grano depositato], il vaso era pieno [e] zeppo di terra, e di una terra compatta che ha bisognato il martello per romperla: rotta la crosta si trovò che il mio vaso di grano fu tutto mangiato, ed era diventato una casa, o alveario chi voglia [così] chiamare, completo di formiche bianche; allora ho potuto esaminare la gran maestria con cui costruiscono le loro case, forze molto migliore delle api. [p. 438] Se fosse stato possibile mandare quel vaso tal quale in Europa, sarebbe stato certamente un gran regalo ad un’academia di storia naturale, ma il masso era enorme, e le strade impossibili [a percorrersi]. Tuttavia non ho voluto distruggerlo subito, ma ho voluto farvi delle osservazioni. gallerie di comunicazione colla terra. Ho scoperto il luogo per dove quel gran masso di formiche bianche comunicava con la terra, ed avendo trovato un piccolo buco con una piccola galleria, o tunello l’ho seguitato, egli passava il terrapieno artificiale della chiesa, discendeva nella cappella in un’angolo del muro, e così arrivò in terra, dove aveva una piccola casa succursale, e di là non viddi più altro. Ho cercato di rompere la galleria in qualche luogo per lo spazio anche di un palmo, ma in meno di cinque minuti subito era chiusa. Ho fatto questa esperienza ancora per uno spazio più lungo, ma subito si rifaceva, da ciò era evidente che il gran masso di formiche riceveva di là il suo nutrimento. La galleria era divisa in due corridoj, per una si discendeva, e per l’altra si montava, e ciascheduna aveva la capacità che ci entrava il dito.

ho frotto la matrice in pezzi; esito. Dopo ciò ho incomminciato la distruzione del gran vaso rompendone un pezzo di sette o otto kilogramma e lo faceva portar fuori di casa, lasciando riposare il gran masso. In meno di mezz’ora il pezzo rotto era già chiuso ermeticamente nel gran masso, e la parte isolata fuori di casa fu abbandonata in pochissimo tempo, e le formiche si perdevano nella terra senz’altro. Ho rinnovato molte volte [p. 439] la stessa operazione sempre col medesimo esito, sia nella parte isolata, sia ancora nel gran masso della matrice. trovo ancora grano nella matrice. Dopo fatta dieci o dodeci volte questa operazione sempre col medesimo esito, nella matrice sono arrivato ad un punto dove si trovava ancora una quantità di grano intatto, quasi un sacco. Levato questo grano, in poco tempo lo spazio vuoto fù subito chiuso in tutta la circonferenza. Il gran vaso o matrice era già ridotto circa [del]la metà, ma l’attività vitale non diminuiva. Ho continuato la mia operazio- /249/ ne ancora cinque o sei volte distaccando dei pezzi e mettendoli a parte, sempre col medesimo risultato dei primi. Finalmente arrivo ad un luogo dove la costruzione era molto più dura e di diversa formazione cellulare.

arrivo alla casa della regina. Ho staccato un masso molto più grosso dei precedenti e l’ho fatto portare fuori in luogo a parte; in questo l’esito è stato diverso; invece che negli altri il pezzo veniva abbandonato e si lasciava vuoto disperdendosi le formiche nella terra, in questo si operava per chiuderlo in circonferenza, ma la forza vitale non era più sufficiente. Ho argomentato da ciò che in quello doveva esistere la regina. disordine al levarsi la regina. Ritorno alla matrice, e con mia sorpresa ho trovato che non si lavorava più ma regnava un disordine; le formiche inclinavano i[n]vece ad una ritirata; quelle che venivano [p. 440] da lontano, veduta la distruzione, o trasporto della regia se ne ritornavano, e così [a] poco a poco andava effettuandosi l’evacuazio[ne] di questa città capitale di quel piccolo, ma misterioso regno; forze ad una parte era già arrivata la notizia del trasporto della regia e della regina, ed i telegrafi sotterranei lavoravano per farlo conoscere a tutta l’armata dispersa. nuove costruzioni. Fatto sta ed è che nella giornata la matrice fù abbandonata affatto, ed incomminciavasi un gran lavorio intorno al blocco dove esisteva la regina. Come la formica bianca non può restare che pochissimo tempo all’aria libera, tutti i lavori si facevano dalla parte interna, e la grande attività era sul punto di contatto del blocco reale colla terra, di dove partivano piccole gallerie che in poco tempo coprirono tutto il blocco.

isolamento totale della regina. Vedendo così ho levato il blocco reale e l’ho messo sopra una gran piatta forma, dove si suole cuocere il pane, per levarla dal contatto della terra, che ne era la [sua] vita, sia per il nutrimento, sia per il materiale delle nuove costruzioni. Appena levato il blocco reale dal suo luogo è incredibile il dire il lavorio che già in quel poco tempo si era fatto, lavorio che subito venne sospeso, ritirandosi tutte le formiche. Dal momento che il blocco della regina fù isolato dal contatto della terra, allora incomminciò tutt’altro periodo di cose.

Un silenzio [dominava] ovunque per un’intiera giornata, solamente qualche apparizione di formiche bianche si faceva vedere alla matrice, [p. 441] ed al luogo dove era rimasta un poco di tempo, ma poi ritornava il silenzio. aristocrazia della corte reale. Per parte mia vedendo che la regina e la sua corte potevano soffrire della fame, ho messo un poco di grano tutto vicino al blocco reale, ed anche un mucchio di terra umida per vedere se sentivano il bisogno di mangiare, o di costruire con quel materiale qualche /250/ galleria per porsi in contatto colla terra, ma nulla di tutto questo; da ciò ho argomentato che colla regina non si trovava altro che un’aristocrazia di dame, o di signori, i quali dalla natura non avevano questo sentimento, come si può osservare nelle api esistere realmente e naturalmente questa diversa aristocrazia di api fatte per le provisioni di vitto, altre per l’aqua, altre per le costruzioni, ed altre per il buon’ordine della casa interna e della porta. Così, dissi io, quest’aristocrazia non è creata che per custodire la regina, e non sa far altro, a preferenza morirà di fame, come arrivò infatti.

terzo giorno d’isolamento. Dopo due giorni dall’isolamento della regina, occupati forze a cercarla dentro terra, incomminciò qualche formica bianca [a] sortite dalla terra girando all’aria libera cercando inutilmente, ma cosa ne avveniva? o le galline, o gli ucelli, oppure le formiche nere le [le] mangiavano, nel terzo giorno poi fù un’ebollizione universale di formiche bianche, le quali o morivano oppure erano mangiate; alla fine venne una piena di formiche nere che le hanno finite tutte. È cosa ammirabile, come in stato normale la formica nera non può vincere la formica bianca, [p. 442] perché questa ha un becco in forma di forbici curvi, poco presso come quei certi forbici stati inventati sul principio di questo secolo per potare le spaliere dei nostri giardini, con queste la formica bianca taglia subito in due la formica nera, mentre questa ha semplicemente due punte finissime, come il cervo volante, e non può far altro che pungere. In questa circostanza la povera formica bianca, sia effetto di prestigio, sia debolezza, si lascia mangiare ancor viva. Così dopo tre giorni nulla più si trova. Anche dentro terra in tutto il circondario posseduto dalla morta casta regnante non se ne trova [più], come mi consta da esperienze fatte da me, fino a tanto che un’altra casta di formiche bianche venga ad impadronirsene.

modo di studiare la formica bianca. Io ho distrutto altre volte famiglie di formiche bianche prendendo la regina, ed ho potuto constatare una parte dei fenomeni sopra narrati, come quello della morte universale, passato il terzo giorno dopo la morte della regina, ma mi mancarono sempre quasi tutte le altre osservazioni. La ragione è, perché distruggendo una casa sotterranea si distrugge poco per volta con un picco[ne], riducendo in piccoli pezzi le loro costruzioni senza poterle ben esaminare, e poi si arriva all’improvviso alla regina, presa la quale non vi è più altro che la mortalità universale, e così finisce tutta l’operazione; mentre nel caso presente ho potuto tutto vedere, per i mezzi di comunicazione; avrei anzi potuto mandare tutto in Europa, quando la cosa fosse accaduta vicino al mare, dove non si fosse trattato di altra fatica, che quella di mettere il gran /251/ vaso tutto intiero sopra una nave. quanto importi studiarla. Pensando appunto alla possibilità [p. 443] di fare osservazioni più esatte della sopra acennata i naturalisti, forniti dei molti mezzi che somministrano le diverse società, ed academie potrebbero recarsi nei luoghi dove esistono in grandi quantità le formiche bianche, sia in Africa che in America. E questo un’insetto molto nocivo, e probabilmente solamente nocivo al uomo, se pure studiandolo di più non si trovano degli elementi anche utili. Il certo si è, che è l’insetto che merita di essere studiato di più per la sua organizzazione domestica non abbastanza conosciuta, ma molto più ricca dell’ape da tutti ammirata, e che io ho studiato in modo particolare, di cui parlerò a suo tempo. Ora dico solo che l’ape non può vivere in famiglie colossali, forze cento volte maggiori, come la formica bianca, e più organizzata, da presentare una bellezza sconosciuta; Ho scritto qui osservazioni sulla formica bianca, e scriverò poi a suo tempo dell’ape più a lungo. Per studiare la formica bianca non basta analizzare una casa in terra, ma bisognerebbe procurarsi una casa movibile, come la sopra narrata, e somministrargli anche il necessario per il trasporto in Europa in luogo caldo. Posso dire che ho trovato in questo insetto molta profondità [di industriosità] da arrichirne la filosofia, ed anche la mistica, e morale quando, avessi più tempo di scrivere, e di studiarla più a fondo.

altri animali esistenti in Lagamara. Oltre i qui narrati esistono poi in Lagamara altri animali, oltre li insetti narrati. Esiste [. Esiste] il leone, solamente nelle vicinanze del Ghiviè, e [non] si avvicina quasi mai all’abitato; solamente vicino al fiume suole far guasto raramente di bovi e di vacche.

Esistono tre specie di leopardi, la grossa specie, cioè, la mezzana, e la piccola. Benché queste tre specie nella storia naturale abbiano un nome particolare, io gli confondo insieme, sia perché mentre scrivo non mi ricordo dei nomi [p. 444] particolari di ciascheduna specie. storia di un leopardo detto Obbo sciamani. Io aveva comprato un vasto terreno nel sito detto Donquorò, dove vi erano parecchie famiglie. Un leopardo femina, accostumato al sangue umano si stabilì in un boschetto dentro una grotta di detto terreno, e tutti i giorni prendeva qualcheduno di quel vicinato, a segno, che obligò tutto il contorno ad emigrare. Tutto il paese messosi in armi hanno ucciso il leopardo a spese di due vittime. Furono trovati nel ventre di questo leopardo sei figli. Questa bestia feroce in paese si chiamava Obbo Sciammani, perché il publico supponeva la medesima di altra specie così chiamata, ma io ho verificato che era un leopardo; difatti, essendo pregna doveva avere il suo maschio in paese, e quello non prendeva tutti i giorni una persona: Quando viddi i sei figli, allora conobbi pure un’altra verità, ed è che il leopardo fa molti figli, ma come fanno alcuni /252/ gatti, anzi quasi tutti i gatti selvatici, appena nati gli mangiano, gran providenza di Dio! altrimenti si moltiplicherebbero tanto da distruggere la povera umanità. Lo stesso si dice dei leoni, e di altri di questa famiglia felina. L’ucciso in Donquorò era grosso come un bel vitello, co[me] altri molti che ho veduto.

due specie di leopardi più piccoli. La seconda specie di leopardi è più piccola, eguale ad una pecora ordinaria; questa è la più frequente; io ne aveva vicino alla casa di Tullu Lecca: una mattina sortendo per i miei bisogni, nel luogo stesso dove io era seduto sortì all’improvviso uno di questi leopardi che mi spaventò, avendone parlato in casa mi dissero che sempre si trovava, ma che mangiava molte leppri, e pecore, e non faceva male neanche ai ragazzi; non bisognava però irritarlo. La terza specie di leopardi è molto piccola, appena il doppio di un gatto; [p. 445] egli si pascola di piccoli animali, come lepri, galline faraone, pernici, ed altri simili; ha una velocità nei suoi movimenti che sorprende. Le sue macchie sono più marcate delle due specie precedenti. Queste due specie ultime non entrano nelle case.

il valdeghessa che scava la terra. Esiste pure in Lagamara un’animale molto comune in Africa, il quale si dice in alcuni paesi Waldeghessa; ha il muso come il majale, ed anche le gambe corte come lui, ma più piccolo, e più lungo; ha una coda con un pennachio, della quale si serve a caciare la terra fuori scavando [la terra]. Quest’animale fa dei gran buchi in terra, i quali sono piccole caverne che servono di rifugio a molti altri animali, e cerca scavando la formica bianca, per cui ha molta passione; scava i sepolcri per mangiarne i cadaveri. Questo animale è molto feroce; se amazza un’uomo, o un’altro animale, o cadavere, egli attacca a preferenza i testicoli, e nella donna le mamelle. So d’averlo veduto in Europa nei musei di storia naturale, ma non mi ricordo del nome con cui è chiamato dai nostri naturalisti.

il porco spino, e sua strage. Si trova in grandi quantità il porco spino, animale molto nocivo alle campagne. Io aveva introdotto in Lagamara le nostre patate, le quali facevano molto bene, ed il paese le amava molto, ma avevano un gran nemico nel porco [p. 446] spino; distruggeva generalmente i prodotti dell’orto, ed i grani grossi, come fave, ceci, fagioli, piselli, e simili. valdeghessa, jene, volpe e sciakal. Il porco spino abita nelle caverne scavate dal Waldeghessa, di cui ho parlato sopra. Gli indigeni quando sanno dove si trova empiono la caverna di sterco di bue secco e pestato, e poi gli danno il fuoco. Nei luoghi piani, dove non vi sono grotte o caverne naturali, anche le jene molto frequenti in Lagamara abitano queste caverne del Waldeghessa, e gli /253/ distruggono coi fuoco. Anche la nostra volpe si trova colà, ed abita queste caverne nei luoghi piani. Il sciakal molto numeroso colà entra egli pure in queste caverne.

gatto del muschio. Esiste in Lagamara il così detto gatto che produce il muschio, ma non si usa [di] coltivarlo, epperciò parlerò di questo altrove, dove si coltiva, come in Ennerea, Ghera, e Kafa. In Lagamara ho trovato molte volte del muschio sui branchi di piccoli arbusti, o sull’erba stessa, dove quest’animale usa frottarsi, quando il muschio gli da fastidio; si trova facilmente, perché se ne sente l’odore, ma raramente si può raccogliere, e gli indigeni sogliono rompere il pezzo di legno dove si è frottato l’animale, perché conserva l’odore.

e le faïne. Esiste pure una gran quantità di faïne sia nostrali, sia africane dette in alcuni luoghi muscate, non perché abbiano il vero muschio, ma [perché] quando entrano in casa di notte a cercare le galline, butirro, o latte, se [quest’animale] lo lasciate tranquillo [p. 447] non si sente il suo odore, ma se lo caciate, oppure che facia questione col gatto della casa manda allora un’odore insoffribile come di muschio molto ingrato. [Non] Ho mai potuto sapere in che luogo esista questa specie di muschio nelle faïne affricane. molte volte è stato ucciso dai nostri cani, oppure dai giovani, voleva esaminano, ma mandava un’odore così perfido che mi ributtava. Probabilmente lo ha nelle parti secrete, come il vero gatto del muschio, essendo una sola famiglia. Come nei nostri paesi la faïna è il gran nemico delle galline, ma in quei paesi non è il solo; oltre la volpe che pure esiste, vi sono molte specie di falchi che le prendono, epperciò è molto difficile la coltivazione delle galline, animale tanto utile.

«ola bisan» o pecora aquatica; pesci. È celebre in Lagamara la così detta ola bissan (pecora aquatica), di cui mentre scivo non mi ricordo il nome dato dai naturalisti, e dai negozianti, perché è [rivestita di] una pelle molto conosciuta in commercio, ed anche preziosa. Si trova questa nel fiume Lagamara, ma solamente nei luoghi dove il fiume è molto incassato e circondato di boscaglie; io credo che venga dal Ghiviè, dove è la sua vera sede, come fiume più grande, e più lontano dall’abitato. Tanto il Ghiviè, quanto il suo confluente Lagamara sono richissimi di eccellenti pesci, ma sgraziatamente il paese non ha l’uso di pescare, epperciò è caso raro poterne trovare. la pesca dei pesci che prende uomini. Il sistema di prendere i pesci in quei paesi, è quello di avvelenarli; [p. 448] Si uniscono molti, portano con loro farina del frutto di un’albero, la gettano in uno spazio del fiume, e sul momento tutti i pesci ubriacchi vengono sull’acqua, e allora gli prendono con facilità. Se non fanno /254/ presto il pesce ritorna in salute e non lo trovano più. Questo sistema di pescare mi somministrava una bella parità predicando a quei barbari: figli miei, diceva, l’aqua e l’aria sono due fluidi uno più denso dell’altro, noi siamo nell’aria come i pesci nell’aqua: noi gettiamo un poco di veleno nell’aqua ed i pesci sul momento sono tutti avvelenati. Iddio padrone di questo gran mare del mondo, quando è in collera contro di noi, senza gettare un veleno, permette solo un disequilibrio nei fluidi componenti quest’aria, e tanto basta per vederci assaliti da malatie anche mortali,... Con ciò mi riusciva qualche volta di seminare fra loro, un’antidoto alle malatie riconducendoli allo stato normale dei costumi.