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5.
Conversione di P. Cesare da Castelfranco.
La corte sconfitta. A Tadmara.

P. Cesare in blanda custodia. Come già dissi, il Re si era impadronito della persona del P. Cesare, non per salvarlo dalle mie violenze, ben sapendo che io come straniero non aveva forze sufficienti per imporre la mia legge al delinquente certamente più armato e più forte di me, ma piuttosto per tutelare le pretenzioni del partito contrario alla missione contro certe spontanee tendenze del povero delinquente di volarsene al suo centro dove lo chiamava il rimorso di conscienza, come poi difatti avvenne. Il Re contro tutti i giuramenti fatti si era impadronito di lui, e lo teneva in corte presso la Ghebrecio sua madre, non legato ma sorvegliato, potendo bensì sortite con cene cautele.

[p. 752] Ora cosa [ne] avvenne? Ogni sera dell’ottavario [di S. Francesco], vicino a notte, [l’apostata] sortiva dalla corte con un suo fido inteso colla padrona di fare una visita alla propria casa e moglie non molto lontana; invece di andare, o se pur vi andava anticipando l’ora, mentre si stava facendo le preghiere in casa nostra, egli secretissimamente soleva portarsi vicino alla stessa nostra gran casa dentro un bosco di Cociò ogni sera, incomminciando dal primo giorno del nostro ingresso, e di là sentiva le preghiere che noi facevamo e la mia conferenza. ottava di s. Francesco;
ultima conferenza
[10.10.1859]
La sera dello stesso ottavo giorno in cui tutti noi speravamo un certo miracolo, attese alcune rivelazioni che si dicevano aver avuto luogo trà il defunto Gabriele ed il mussulmano convertito e battezzato col nome pure di Gabriele, rivelazioni già citate avanti, ma manifestate solamente a me [avvenne quanto segue].

mia apostrofe Mentre io faceva la conferenza con un gran calore e trasporto, feci un’apostrofe a Dio, alla Madonna, ed a S. Francesco: Dio mio, Vergine Santissima, Padre Santo, ecco dieci giorni di pianto e di espiazione vanno [a] compirsi, ed il mio povero figlio prodigo ancor [non] si trova, se non mi è dato di baciar Lui pentito, chiamatemi al vostro am- /40/ plesso, perche mi pesa il vivere, e sta di mezzo la mia parola data a tutta questa mia famiglia. [p. 753] La terra dunque non è più per me, e così dicendo io mi metto a piangere, e si solleva un pianto generale nell’uditorio. entra inosservato come uno spettro In mezzo a questo disordine o crisi di pianto, entra in casa una realtà oppure un’umbra di persona coperta di una tela dalla testa ai piedi con una pietra al collo, e senza nulla dire mi stringe i piedi come la Maddalena a Gesù... chi è[?] egli non parla, ed io nol so, ed interrotto da gemiti.. oh Padre, [mormora,] consolatevi, sono io il vostro apostata Cesare... Ancora io non credeva a me stesso! tutta l’udienza in quella gran casacia mezzo illuminata da fioca luce, nulla aveva veduto, pensava invece ad un mio svanimento per mancanza di forze, cosa è, cosa è, cosa è, si alza un grido, tutto corrono atterriti, è invece il padre Cesare. è invece il Cesare venuto[:] è Lazzaro risorto, è il trabocco della consolazione che tronca la parola a tutti [e] due...

Lasciamo ora per un momento gli sfoghi troppo naturali e giusti, per sentire cosa è arrivato in corte dopo la [di]sparizione del P. Cesare. Soleva mangiare egli la sua cena preparata ad una cert’ora, e non arrivando, dopo aver aspettato molto tempo inutilmente, la persona di servizio va [d]alla Madre del Re, [d]alla Ghebrecio padrona della casa [per dirle] [p. 754] che il P. Cesare non è venuto; si cerca e non si trova; è coll’Abuna. la Ghebrecio domanda da tutte le parti, e risulta che egli era andato a vedere la casa sua verso sera; forze cena in casa sua [andava] dicendo, manda a vedere: è venuto dicono, ma poi è subito sortito; mandano dal Guccirascià, e dai parenti della moglie, ed in nessun luogo si trova; incommincia nella corte il disordine e l’inquietudine; si viene alla casa nostra e si trova con noi, e manda a dire che egli era venuto a farmi una visita, e che sarebbe venuto l’indomani. La parola va al Re; questi dice[:] cosa farci? La questione è finita, le preghiere e le penitenze dell’Abuna hanno vinta la nostra furberia, la causa è terminata, cosa farci? [non resta che] lasciarlo stare.

il gran banchetto del figlio prodigo. Io intanto, che da dieci e più giorni non mi sedeva più a tavola, e mangiava appena qualche pezzo [di pane] per non morire, per quella sera ho voluto che [il convertito] mangiasse a tavola con tutti noi, ed ho ordinato che si uccidesse qualche animale e si preparasse tutto quello che si poteva, impegnando anche i nostri giovani già accostumati alla cucina di preparare qualche cosa per riparare le forze di tutta la famiglia. Solamente negli atti di religione il P. Cesare, come personalmente scomunicato, doveva restarsene da se fino alla publica assoluzione delle censure. Benché si fosse preparata una cena sufficientemente ricca di viveri, pure l’emozione nostra, [p. 755] e degli stessi ragazzi era tale, /41/ che poco si mangiò. p. Cesare vuole parlare, ma non può. Sul fine della cena il P. Cesare, vorrei dire, disse, qualche parola per esprimere la mia gratitudine a questa famiglia per le preghiere e penitenze fatte per me, ma sono incapace, e le lacrime diffatti, ad ogni momento interrompevano le sue parole, motivo [per cui] ho dovuto proibir[glie]lo. Dopo io con lui ci siamo ritirati nella piccola capanna per passarvi la notte insieme, ma poco dopo venne Abba Hajlù a separarci, perché altrimenti non avremmo dormito. Ho lasciato Abba Hajlù col P. Cesare, ed io sono andato altrove, a dormire con Gabriele. Questo ragazzo, appena mi ebbe un momento da solo mi saltò al collo, ma dalla gran consolazione non poté parlare, come non ho potuto parlare io per lo stesso motivo. Vado per abbraciare uno per uno i giovani per il grande interessamento che presero in questo affare; avrei voluto dire molte cose, ma ho dovuto fargli passare senza dir nulla, perché le lacrime mi colavano a fiume. Gabriele mi condusse in un’angolo appartato della casa, dove egli mi aveva preparato un buon letto per riposare.

il re chiama i consiglieri. L’indomani il Re fece chiamare i sette consiglieri, e passò un’ora con loro onde conferire sopra questo affare, il quale all’improvviso cangiò d’aspetto. Cosa si sia detto in consiglio io non posso saperlo, perché ciò che si passa in consiglio è un mistero mai svelato sotto pena di morte; ma si può argomentare, perché dopo qualche ora venne un messaggiere a chiamare il P. Cesare coll’ordine del Re. Invece di mandare il P. Cesare ho mandato i due Preti Abba Hajlù ed abba Jacob colle mie istruzioni. Andate, dissi, [p. 756] se il Re vorrà ad ogni costo il P. Cesare, io sono disposto a mandarlo, ma vengano i due Lemy di Ghera a prenderlo col salva condotto, perché è venuto liberamente, e deve ritornare liberamente a me. Così fù[;] poco dopo vennero i Lemy suddetti a prenderlo colla promessa a nome del Re che l’avrebbero riportato. Ho rinnovato le istruzioni già date, che nessuna cosa si conchiudesse senza di me; nel caso, dissi, il Re potrà mandare quì le persone che vorrà, si scioglieranno le difficoltà, e poi si deciderà. Arrivato il P. Cesare alla presenza del Re fece una confessione alla presenza del medesimo, e tutti i grandi della corte[:] una confessione tale che era un vero capo d’opera, a cui nulla mancava sotto tutti i riguardi.

pubblica confessione, e ritrattazione del p. Cesare. Io, arrivato in Kafa, [dichiarò apertamente,] maritandomi ho commesso una stravaganza da traditore, e da assassino, la quale meritava di finire colla stravaganza della fuga di jeri. Io poteva maritarmi se voleva, come possono tutti gli altri uomini, ma io volendo esser monaco e Prete di mia pura volontà ho rinunziato a questo diritto, ed ho giurato a Dio la mia rinunzia per essere più libero nel servizio di Dio. In vista di questa /42/ mia rinunzia giurata Iddio mi ha mandato qui per istruire il paese di Kafa, e distribuirvi i tesori della sua divina misericordia. Arrivando quì, quando voi mi facevate proposte di matrimonio, io doveva dire assolutamente [di] no, come ha fatto l’abuna, ed han fatto altri preti miei fratelli, perché avendo io rinunziato e giurato di non farlo, non era più padrone di me, e facendolo io tradiva il mio giuramento. Io invece dominato da una passione cieca, ho tradito la fede giurata a Dio, ho tradito più ancora il mio sacro dovere verso questo paese di Kafa a me affidato, ho dato invece un grave scandalo al medesimo confermando [p. 757] colla mia condotta tutti gli scandali a voi dati dai Sacerdoti antecessori. Non solo perciò io [non] ho nessun diritto da ripetere contro l’Abuna, ma anzi io mi confesso reo di mille morti. Da questo momento dichiaro che la donna creduta fin qui mia moglie essa non è mia moglie, ma è perfettamente libera; domando ad essa perdono d’averla ingannata, come domando perdono a tutto il paese del gran male fatto e del gran scandalo dato. La donna che stava con me prenda tutto ciò che è suo, eccettuati i vasi sacri. P[p]er tutto il rimanente poi sappiate che io sono figlio dell’Abuna, egli tratterà con voi per ciò che riguarda l’educazione dei figli da me generati, e [la gestione] delle proprietà che vi sono a mio nome, dichiarandomi da questo momento di [non] possedere nulla se non [dei] debiti [rispetto] al paese, che colla grazia di Dio spero di riparare.

si ammutolirono tutti; interrogazione del Re. Risposta. Una confessione così schietta ammutolì Il Re, [il] quale domandò solamente al P. Cesare, se la fuga dalla corte, fu di sua spontanea elezione, oppure consigliata da qualcheduno. Non solo spontanea, rispose il P. Cesare, ma sospirata da otto giorni. Nella sera del primo giorno, il solo veder l’Abuna mio Padre mi risvegliò tanta simpatia, disse, che in quello stesso momento sarei caduto ai suoi piedi pentito, ma ho avuto pazienza otto giorni recandomi ogni sera secretamente ad ascoltare le preghiere, le penitenze, che si facevano per me, le lacrime che colà si versavano sul mio conto, mi facevano piangere; jeri poi certe espressioni e certe lacrime del mio Padre turbarono talmente il mio cuore, che senza altro riflesso, come fossi trasportato da una forza invisibile [p. 758] mi sono recato ai suoi piedi, dai quali non mi dipartirò più, disposto e risoluto di morire. Quando il Re sentì tutto questo, da quanto mi narrò Negussiè, sia il Re che tutti i grandi furono commossi. Ritornate tutti [d]all’abuna, [sentenziò il sovrano,] ed intanto io di quest’oggi combinerò le decisioni, e manderò a lui persone di confidenza per averne le sue osservazioni, prima che siano publicate.

/43/ articoli di pace presentati dal re al vescovo. Difatti non tardò il Re di mandare alcuni dei suoi consiglieri a me con alcuni progetti di articoli, rapporto alla donna se dicente moglie del P. Cesare. 1. Essa lascii la casa di Tadmara, e ritorni ai suoi parenti. 2. I schiavi che io ho dato ad essa nel matrimonio, ed altre proprietà muliebri tutto vada con essa; i schiavi poi che aveva P. Cesare prima, e quelli addetti al servizio della terra suddetta, restino coi bestiami necessarii alla coltura della medesima. 3. Quando la casa di Tadmara sarà evacuata dalla donna l’abuna potrà restare a Tadmara con tutta la sua famiglia, come luogo più spazioso e sufficiente alla medesima. 4. Quando la casa di Sap sarà terminata, allora l’Abuna volendo potrà restare in Sap. 5. Rapporto ai figli del P. Cesare potranno fare la loro educazione presso l’Abuna, frattanto si proved[e]rà per i medesimi quando saranno più grandi. 6. La Ghebrecio penserà a mandare del pane, della birra, e dell’idromele [p. 759] alla numerosa famiglia dell’abuna fino ai nuovi raccolti di Tadmara e di Sap. 7. Tutta la casta detta dei Preti sarà sotto il governo dell’abuna, e lo seguirà, quando esso sarà in viaggio; così l’abuna deciderà tutte le questioni che vi saranno fra i medesimi. 8. Tutte le Chiese antiche riconosciute saranno sotto la dominazione dell’Abuna con tutte le famiglie addette alle medesime. Con ciò il Re dichiara che tutti gli articoli da lui giurati sia ad Abba-Baghibo, sia ancora ad Abba Magal essere stati tutti realizzati in favore dell’abuna.

osservazioni presentate in risposta. Io ho ricevuto tutti questi articoli, e mi sono riservato di esaminarli d’accordo coi miei preti e clero, dicendo, che, esaminati che saranno saranno portati al Re dal mio clero medesimo colle osservazioni che si faranno. Ciò fatto ritornarono i consiglieri al Re. Si esaminarono difatti attentamente da noi i suddetti articoli, e furono trovati mancanti sopra tre punti. 1. Il Re non parlava affatto dell’articolo importantissimo e gravissimo messo per base delle nostre trattative incomminciate da Abba Baghibo, quello cioè della libertà completa di sortire dal regno e ritornarvi, sia per il Vescovo, sia per i suoi Preti, e sia ancora per tutti gli altri individui appartenenti alla missione tanto europei che galla, siano essi schiavi in facia al paese; sia che siano liberi. L’Abuna intenderebbe riservare esclusivamente a se questo articolo, come troppo essenziale all’amministrazione [p. 760] delle sue case e chiese che vi sono nei paesi galla. Avendo egli Chiese e case anche fuori di Kafa potrebbe arrivare il caso di andare o mandare in fretta qualcheduno, per causa di malattia senza poter aspettare il permesso. In secondo luogo si bramerebbe che tutte le proprietà di terreni dati dal Re al prete non siano del prete, ma della missione: la ragione di questo è che il prete non è /44/ stabile, e potrebbe essere mandato a reggere un’altra chiesa o in Ghera, o in Ennerea, o in Lagamara, oppure in Gudrù dove già si trovano; come potrebbe darsi di mandarli in altri luoghi, dove ancora non ve ne sono. La proprietà individuale del prete è un fomento pericoloso per lui, ed un vincolo di più che lo lega al paese, ed uno di meno che lo leghi alla missione per il bisogno internazionale della medesima. Colla proprietà [concessa] al Vescovo ed alla missione, questa essendo obligata a pensare di provvedere i Preti, il governo non è più aggravato di questo obligo, e diviene senza risponsabilità. In terzo luogo osservasi che la proprietà del terreno di Tadmara già appartenente al P. Cesare, dovrebbe avere dei caratteri più chiari relativamente ai diritti futuri che potrebbero presentare i figlii. In tutto il resto si acettano gli articoli del Re.

mala fede del governo di Kafa. Il governo di Kafa sempre misterioso nelle sue operazioni fece una risposta provisoria promettendo in futuro anche di più di quello che si domandava. Egli per quel momento non mirava ad altro, se non che a far partire i Lemy di Ghera con un’apparenza esteriore di aggiustamento con me da tranquillizzare il Re di Ghera, e col mezzo di questi, [p. 761] anche Abba Baghibo, il quale molto si era occupato di questo affare, e del quale ancor più si temeva, come oracolo della diplomazia galla da lui dominata. Io poi vittorioso per il momento, per un vero miracolo della provvidenza, più che per l’equità e giustizia del governo medesimo, mi vedeva obligato ad un sistema più di conciliazione che altro. Sperando di rendermi più potente in avvenire per difendere i diritti della missione coi progressi dell’apostolato, ho dovuto aquietarmi per quel momento alle promesse sperticate, benché poco [ne] sperassi di vederne la realtà, più importando a me di stabilire la missione, che non importasse al governo di vederla stabilita e fiorente. Il governo quindi fù liberale nell’accordare alla missione le cose di pura necessità creata dalla posizione del momento, fattasi colla miracolosa conversione del P. Cesare, trovandosi così, come fuori della questione, essendo tutti i preti nelle mie mani. In tutte le cose toccanti l’avvenire volle sempre avere tutte le chiavi per esercitare tutte le violenze colla missione quando avesse guadagnato terreno sul cuore dei miei preti.

partenza per Tadmara. Il governo, appena ottenne il nostro consenso sulla maggior parte degli articoli convenuti, fece subito publicare la convenzione, ed ordinò subito lo sgombro della casa di Tadmara, la quale in meno di due giorni fu affatto compiuta. Premendogli quindi di lasciar libera la casa Provisoria appartenente al Catama-rascia ci invitò a recarci colà, ove si sarebbero /45/ fatte fare le operazioni opportune da noi desiderate. Il 15. Ottobre perciò abbiamo lasciata la casa provisoria, e la nostra carovana, [p. 762] ritornando per la medesima via che eravamo venuti, passammo di nuovo avanti [al]la gran porta della regia, benché meno solennemente adobbati, ma sempre in corpo come prima; abbiamo salito la montagna detta di Ghiddi Ghiorghis, la Chiesa più vicina alla nostra, dove eravamo diretti, dove ci siamo arrestati, antica parrochia del P. Cesare, egli ci introdusse, l’abbiamo visitata; entrando anche nel Sancta Sanctorum, e visitando il tabbot (pietra sacra, o meglio, legno sacro, ancor meglio idolo sacro, per le grandi superstizioni che vi si attaccano dal popolo), il quale è un pezzo di legno quadrato della larghezza e forma poco presso come le nostre pietre sacre delle più piccole, con alcuni lavori molto semplici, col nome del Santo scritto in etiopico in mezzo, e poi l’epoca in cui è stato fatto; quello [in, questione] si avvicinava ai tre secoli.

descrizione di Tadmara. Terminata la visita alla Chiesa, abbiamo salito ancora un piccolo pezzo [di strada], e siamo arrivati alla casa nostra. La casa nostra di Tadmara è [situata su] una delle più belle posizioni che si possano immaginare ad una altezza media, come era quella in discorso. A levante colline che si sollevano una dopo l’altra sino alla catena di montagne che si disputano il vanto colle maggiori sommità di tutto l’alto piano etiopico, forze la più interessante di tutto quell’angolo Sud-Est dell’Africa, altezza che credo non [sia stata] misurata ancora perché l’unico [esploratore] d’Abbadiè ebbe un tempo troppo misurato per arrivarvi. A ponente poi, tutto vicino [si spiega] il bell’anfiteatro di Bonga, [il quale] a collinette, che vanno abbassandosi sino alla valle del Goggieb, già descritta, mentre in lontananza l’occhio [p. 763] si spazia quasi libero sino ad Afallo, e Ciala di Ghera. Il terreno poi è abbastanza grande, e la casa con bellissimo recinto, era abbastanza grande e commoda. costruzione della cappella; preparativi per la messa. Mancava solo di una cappella molto sospirata da tutti, perché l’intiera famiglia da Ghera non aveva più sentita la Messa, e fatta la S. Communione. Negussié nostro dragomanno e Procuratore, aveva ricevuto dal Re ordini premurosi, e subito si radunarono i contadini, ed in due giorni costruirono una sufficiente cappella per celebrarvi. Il Gabriele, il quale fu battezzato secretamente in Afallo due giorni prima della nostra partenza, sognava ogni giorno le nozze della S. Communione, ah! dunque [si celebrerà] la Messa, dunque avrò finalmente la fortuna di ricevere il Signore, diceva, ed il solo pensarvi gli aveva dato una vita tutta nuova. Lo stesso P. Cesare era divenuto di un’attività indicibile, oh Padre mio! mi disse una volta lavorando, chi avrebbe detto che questa mia casa /46/ stessa, luogo di scandali, e di peccati per me, dovesse divenire il mio Eden di pace!

La cappella fu ben presto terminata, e vicino alla cappella i giovani fecero alcune altre piccole capanne per le confessioni, e per le speciali conferenze che io soleva fare in particolare; il Gabriele [p. 764] poi ne fece una tutta particolare per me, ed un’altra per se, di modo che in pochi giorni sortì, come per incanto un piccolo romitagio. ornamenti della cappella. Sarebbe stato l’affare di un sol giorno intonacare di fango la cappella e tutte quelle capanne per renderle un poco più colte, a uso di quei paesi, perché tutto quel mondo tutto bollente d’impegno e di attività non trovava più difficoltà di sorta, ma le pioggie, ancora continue, avrebbero impedito di asciugarsi per molto tempo, epperciò si vestirono al di fuori di erba cucita a modo galla, e così in breve il tutto si terminò. L’interno poi della Cappella fu tutta vestita di tela bianca con degli ornati, o meglio quadrature di tela nera di mercato, e sopra ornati bianchi rossi e neri. Sopra l’altare si fece un baldachino sufficiente che coprisse tutto l’altare per impedire che sopra il medesimo non cadesse qualche cosa dal tetto di paglia.