/111/

14.
Dimora a Sciàp: organizzazione e impianti.
Missione e clero autoctono. Abba Paolo.

Partita la carovana di Ghera, e calmato il pianto per il defunto P. Cesare, per cangiare un poco le idee di malinconia si pensò di lasciare Tadmara e di andare a Sciap Gabrièl, luogo stato preparato per me. costruzione della cappella in Sciap Tutto colà era preparato, e mancava solo la cappella. Andò il Padre Leone con Abba Jacob a questo riguardo, ed in pochi giorni tutto fu terminato. Tutti gli effetti della missione furono trasportati in Sciap nella Settimana Santa; ed io con gran accompagnamento mi sono recato colà per la Pasqua del 1860. pasqua 1860
[8.4.1860]
gran concorso.
Arrivato in Sciap [p. 883] si fece la benedizione della nuova Cappella nel Sabbato Santo. Nella Domenica di Pasqua vi fu un gran concorso di cattolici e vi furono molte confessioni e communioni. Così in tutta l’ottava, e si fecero molte cresime, e molti matrimonii. organizzazione della casa di Sciap. Dai paesi, dove aveva predicato il P. Cesare, venivano molti colle loro provisioni per completare la loro istruzione, e per ricevere il s. battesimo. Incomminciava a spiegarsi un’altro catechista di Ghera ancor molto giovane per nome Camo, antico discepolo del defunto Gabriele, e compagno del nuovo. Era una vera delizia vedere questi nuovi discepoli supplire con un gran ardore agli antichi venuti da Lagamara e dal Gudrù, i quali ancora non potevano lanciarsi al publico di Kafa per mancanza di lingua, ma dovevano limitarsi all’insegnamento della lettura latina ai loro compagni, ed al più insegnare i primi capitoli del catechismo. Io lavorava nel tradurre il catechismo ajutato dal dragomanno Negussiè, persona molto capace. Il P. Leone faceva un poco di teologia ad Abba Jacob, ed al diacono Paolo. Del resto fù stabilito in Sciap un’osservanza diurna e notturna: si recitavano, tutte le ore canoniche, eccetto il Matutino, e si cantava il vespro, dopo il quale io faceva ogni giorno un breve ragionamento coll’interprete.

Anche in Sciap si fece un piccolo villagio per i catecumeni, come era stato fatto in Tadmara. Affinché i catecumeni non restassero oziosi furono assegnate le ore di lavoro manuale anche per loro sotto la /112/ direzione [p. 884] di Abba Jacob, e di alcuni catechisti. impianto di caffè e di viti. In Sciap si piantarono da questi catecumeni circa tre mille piante di caffè da essi raccolte nei boschi. Conoscendo essi molto la coltura alternarono il caffe con alcune piante di alberi s[c]impatici al medesimo. Si fece pure colà un’impianto di qualche centinaja di viti. Una parte furono piantate secondo l’uso del paese facendo semplicemente dei buchi, i quali, appena collocato il tralcio, si riempiva[no] di terra, ed [per] un’altra metà ho fatto lunghi fossi profondi circa mezzo mettro, dentro i quali si faceva l’impianto del tralcio coperto da poca terra nel modo che io aveva veduto nel mio paese [badando che] il fosso [restasse] sotto l’influenza del sole, e riempiendolo poi di coltura e di ingrasso a misura che la vite cresceva. La mia casa di Sciap era divenuta come una piccola trappa, dove i giovani si occupavano di scuola, di preghiera, e di agricoltura, ad ore determinate. Molti giovani di Kafa, anche di grandi famiglie, incomminciavano a prendere gusto a quella vita mista d’istruzione, di preghiera, e di lavoro manovale.

In Kafa, come già ho notato parlando dei schiavi, la casta libera considerava come un disonore il lavoro manovale divenuto proprio dei schiavi, ed io nella mia casa di Sciap cercava di distruggere questo gran pregiudizio. sistema di pascoli e mandre Io aveva più di 40. vacche in Sciap, delle quali più di dieci avevano il latte; io prima di venire appena poteva ricevere un littro di latte al giorno da tutte quelle vacche; una volta facendo il giro ho veduto un ragazzo che succhiava il latte come un vitello. Senza dir nulla ho ordinato che i ragazzi ricevessero il vitto dalla casa, e gli ho vestiti tutti, affinché [p. 885] fossero contenti, e non avessero fame, ma poi col titolo di istruirli gli ho messo sotto la direzione di uno dei giovani, obligato a seguirli sempre; affinché le famiglie dei schiavi non si lagnassero ho dato a ciascuna famiglia una vacca col latte. latrocinio dei schiavi in Sciap. Dopo tutto questo io racapezzava ancora circa dieci littri di latte al giorno. Cari miei, dissi un giorno ai schiavi radunati, se aveste rubato un pochetto avrei avuto pazienza, ma sopra dodeci littri di latte mandarmene solamente uno, ciò è troppo. Lavorate solamente e poi non temete, se avete fame ditelo e vi ajuterò, ma pensate che io ho una gran famiglia ed ho bisogno anche io per mantenerla; che voi stiate bene, sono contento, ma che poi stiate meglio del padrone, ciò non va bene. Così la mia casa di Sciap era divenuta una piccola trappa, e contava una famiglia di 50. e più persone, senza i forestieri ed i poveri che [non] mancavano mai.

mancanza di preti nel ministero. Dopo la morte del P. Cesare io sono rimasto col solo P. Leone, ed Abba Jacob. Quest’ultimo era come l’unico che conoscesse gli usi e la lingua di Kafa. Tutti gli affari delle diverse Chiese antiche stavano nelle /113/ sue mani per l’amministrazione temporale. Egli aveva bisogno ancora di scuola per l’intiero esercizio del ministero, e non era che Prete per metà. Tanto io che il P. Leone gli facevamo scuola, ma egli era sempre in giro e non poteva guari imparare. abba Paulos; sua educazione. Bisognava perciò pensare ad aggiungere un Prete frà i giovani più anziani [p. 886] e non vi era altro che il diacono Abba Paulos. Questo giovane [era] stato comprato in Gualà nel Tigrè l’anno 1847. Dopo il mio esilio dal Tigrè [fù] portato da Pr. Pasquale a Massawah. Quindi nel [1849] 1848. portato da me in. Aden, stette colà circa sette anni sotto la disciplina del P. Luigi Sturla, dal quale imparò molto, sopratutto fece gran progressi nello pirito e nella disciplina esteriore. Era l’unico che io aveva, il quale possedesse un’idea completa del ministero sacerdotale, benché ancor mancante di teologia regolare, che non poté avere sotto il P. Sturla in Aden. Dopo la [1858] sua venuta a Lagamara non ho mancato di coltivarlo per quanto mi permettevano le mie circostanze di un ministero agitatissimo, e quasi sempre solo, come si vede in tutto il decorso di questa mia storia precedente. Questo giovane era l’unico che io aveva in pronto da poter ordinare Sacerdote nel gran bisogno in cui io mi trovava.

criterio d’operazione Prima di riferire la consacrazione di questo giovane diacono in Sacerdote veggo il bisogno di stabilire un criterio pratico che giustifichi questo mio atto di ministero episcopale. Gia ho trattato questa grave questione scrivendo [p. 887] la storia della missione in Gudrù, quando mi sono deciso di ordinare i due Sacerdoti indigeni Abba Jacob, ed Abba Joannes, con minori istruzioni ancora di Abba Paulos, e con idee meno vaste di lui, perché quest’ultimo stette sette anni in Aden, e poté avere un’idea completa della gerarchia ecclesiastica, e del suo pratico ministero, mentre ai due sullodati mancava anche questo, non essendo sortiti dall’Abissinia. ragionevolezza di questa operazione. Pure mi sono determinato di farlo, perché mi trovava nella necessità di stabilire al Sud dei punti più sicuri per l’avvenire della missione minaciata dall’Abissinia. A suo tempo si vedrà giustificata questa mia misura prudenziale, quando nel 1878. le orde abissinesi invaso il Gudrù, e Lagamara arrivarono a distruggere quelle belle missioni.

molte missioni nate per necessità Per ora mi basta [far] sapere la ragione di questa mia operazione. Il luogo fissato, dove l’Abissinia non poteva arrivare, era Kafa, ed anche perché quel paese presentava qualche elemento più favorevole per una operazione stabile, e con qualche mezzo di sussistenza. Ora per arrivare a Kafa bisognava fare delle stazioni di mezzo, sia perché non si poteva arrivare [p. 888] senza intervento della diplomazia galla, ed anche senza aspettare in qualche luogo l’esito della medesima. Per tutte queste ragioni naquero le missioni di Gudrù, di Lagamara, di Ennerea, missioni /114/ che non si poterono lasciare più per due ragioni: prima perché non si potevano abbandonare i cristiani fatti; seconda per mantenerci la strada aperta dietro di noi per le relazioni colla costa, e per la venuta di nuovi missionarii. L’operazione era riuscita meglio di quanto io poteva sperare; se vi fossero stati missionarii a petizione, senza il bisogno di preti indigeni così precipitatamente fatti, ogni cosa sarebbe riuscita ancor meglio, e tutte le missioni stabilite avrebbero fatto gran progresso, e molte altre potevano farsi in paesi ben disposti, come Gombò, Giarri, Leca, e Nonno. Ma quì sta la difficoltà che rovinò ogni cosa.

mi trovo senza preti Io sono partito d’Europa con soli tre missionarii, [i] Padri Giusto, Cesare, e Felicissimo. Almeno questi tre avessero tenuto fermo, meno male, perché P. Cesare aveva abbastanza abilità per sviluppare la missione di Kafa, ed il P. Giusto restando in Gudrù a continuare la scuola, e per le corrispondenze colla Costa, io aiutato dai miei indigeni, avrei bastato per tenere in movimento tutto il centro, ma avenne tutto l’opposto, [p. 889] il P. Giusto per primo [si] dichiarò di non sentirsi di passare avanti e volle restare in Abissinia. Del P. Cesare si sa cosa avvenne in Kafa, ed io me ne sono rimasto col solo Padre Felicissimo, e la porta dell’Abissinia chiusa dietro di noi. Gli indigeni perciò che avrebbero ancora aspettato anni ad essere ordinati dovettero sottentrare al ministero, deboli ancora come erano, e far fuoco colla paglia per mancanza di legno. Quando poi arrivò il momento di dover partire io stesso per Kafa per aggiustare le gambe rotte, fui costretto allora [a] lasciare tutte le belle missioni del nord consegnandole ad alcuni indigeni, se non altro, per tenerle in vita.

mi sorgono questioni Alcuni missionarii venuti dai nostri paesi [tra i quali P. Leone des Avanchers) mi sollevarono certe questioni di un’apparenza e calcolo perfettissimo: nei nostri paesi, dicevano questi, quanta pena, quanti anni di lavoro di molte persone per fare un prete, e quì si fa così a buon mercato? dove sono i seminarii? dove i stabilimenti? dove i professori dei diversi rami di scienza necessarii? Caro mio, risposi io, sono queste tutte cose che io pure bramerei trovare, ma ricordatevi che siamo in un paese, do[ve] cercando noi tutte queste cose non ci arriveremo a trovarne neanche nel 1999. e come vedeva che questi individui non faceziavano, ma erano costanti nella loro opinione, volendo ragionargli sul serio, ho fatto loro vedere alcune [p. 890] lettere di Roma, rispondo col fatto di Dejacobis. nelle quali i Superiori mi ordinavano di venire in Abissinia per ordinarvi alcuni giovani di rito etiopico che mi avrebbe presentato il Signor Dejacobis allora Prefetto della missione abissinese. Io entro in Abissinia sul fine del 1846., ed il suddetto Prefetto, persona di gran santità, la quale contava /115/ appena cinque o sei anni di ministero, mi presenta almeno una trentina di ordinandi, tutti poveri giovani mal vestiti in proporzione dei nostri paesi, e tutti giovani che io non poteva comprendere e discernere quando mi benedivano da quando mi maledivano. Mi guardo intorno, e dico a me stesso, come dite voi, dove è il Seminario, dove i professori di diverse facoltà? Eppure sono questi che io debbo ordinare per ubbidire a Roma, e debbo ordinargli senza neanche avere il diritto e la scienza per accertarmi, ne cosa sapevano, ne cosa non sapevano, ne se fossero boni, ne se fossero cattivi. Ora voi che mi sollevate tutte queste difficoltà, cosa avreste fatto colà nei miei panni?

persistono nella loro opinione. Io credeva di aver persuaso con ciò questi individui, perché restarono mutoli e [non] mi diedero nessuna risposta. Ma pure niente affatto esse erano ferme nella loro opinione, e dieci anni dopo, queste medesime persone [p. 891] esortate sempre da me di crearsi un circondario di giovani e farseli secondo il loro spirito, non ne vollero sapere affatto. Eppure erano persone di un buonissima condotta in tutto il resto, ed anche ferventi, le quali si occupavano in esercizii di pietà, e cercavano di eriggere compagnie del carmine, e del sacro cuore, e simili.

convinti col fatto, non persuasi. Queste stesse persone 15. anni dopo non avevano ancora un chierico da servir loro la S. Messa. Mi domandavano un Prete indigeno per confessarsi. Caro mio, risposi, perché non l’avete fatto? perché io l’avrei ordinato. [† 2.8.1879] Uno di questi missionarii [p. Leone des Avanchers] morì 20. anni dopo assistito da un’indigeno Sacerdote che gli ho dato, di quelli fatti da me da principio, e morì senza un discepolo, e morì da buon prete, come suppongo, perché separato da lui per molti anni.

sistema del clero indigeno. Nel momento in cui scrivo, [la coscienza] mi impone un dovere di rispondere un poco più categoricamente alla questione da lui sollevatami molti anni prima. Non è mio scopo di trattare quì la questione, se sia o non sia conveniente e lodevole la pratica di fare un clero indigeno nelle missioni, essendo questa una questione trattata da scrittori, i quali hanno potuto farne uno studio in grande, sia nel lato del campo dogmatico, dove ha la sua origine, nelle stesse epoche eroiche dell’apostolato evangelico; sia ancora nel campo [p. 892] della storia di questi ultimi secoli, essendo cosa certa che certe missioni, anche già ben avviate sono state perdute per mancanza di clero indigeno, il quale, nelle crisi che non mancano, ha maggiori mezzi per conservarsi, di quello che abbia l’europeo, e cœteris paribus, anche maggiori mezzi per far valere la sua parola. Tanto meno poi io intendo di eriggermi nella Chiesa di Dio in Dottore per imporre agli altri la mia opinione; intendo solamente di /116/ rispondere alla oppostami difficoltà, e nel tempo stesso giustificare il mio operato.

il prete fatto in missione ha minore scienza. Ciò posto, confesso prima di tutto candidamente, che un chierico o sacerdote fatto così sulla brecia, come in altro senso, Napoleone primo aveva creato molti dei suoi officiali senza una preveniente educazione avuta nelle accademie, e nelle scuole, a norma dei tempi che hanno preceduto la stessa vita cenobitica, non potrà mai essere un sacerdote o chierico fornito di tutte le scienze, e di un’educazione, divenute cose come necessarie per una rappresentanza civile dei nostri paesi; l’educazione in particolare, come si sa, essendo una cosa che non s’impara tanto da lezioni pedagogiche, ma piuttosto si assorbisce dal contatto di una società civile, con cui si convive. [p. 893] Tuttavia bisogna convenire che nei paesi barbari può bastare [una] scienza minore, perché vi sono minori bisogni di essa. mancano le idee e termini per esprimersi Lo stesso missionario europeo con un gran capitale di scienza, se vuol fare il vero missionario sarà costretto a lasciare da una parte tutta la sua scienza sublime per consacrarsi all’istruzione popolare nelle cose più elementari della religione, perché per tutto il resto neanche troverà i termini, anche i più semplici per esprimersi. Negli stessi ragionati catechismi da principio il missionario deve [at]tenersi alle materie di prima necessità, e più elementari aventi una qualche radice nella legge naturale, come materie più facili a capirsi per il riscontro della legge naturale medesima; altrimenti, pare incredibile, pure è così[:] in quelle lingue non si trova neanche l’idea ed il termine delle cose più essenziali, come giustizia, virtù, volontario, conscienza e simili per spiegarsi. Non è che dopo qualche tempo, e coi soli giovani più intelligenti ed abituati coi quali può spaziarsi un poco di più.

più ristretto l’orizzonte del male, e della morale La stessa morale del paese ha confini molto ristretti, e benche il popolo sia corrotto, la stessa corruzione ha dei confini meno vasti dei nostri paesi, dove la malizia ha un’invenzione ed un calcolo affatto straniero [p. 894] [affatto straniero] ai barbari. Se noi esaminiamo le nostre lingue medesime più colte e ricche di voci troveremo che le radici delle medesime spaziano in un’orizzonto molto ristretto, come facere, sentire, scire, di dove sono nate le voci di scienza, conscienza, consenso, e simili. Se ciò si può dire delle nostre lingue stesse nate frà la richezza dell’educazione e delle idee, cosa non si dovrà dire dei popoli barbari? Dove le idee sono più ristrette è anche più ristretta la malizia e la morale. Se ciò si può dire delle materie più communi de rebus agendis, tanto più poi si potrà dire delle scienze positive, sì naturali che rivelate. Il missionario restando in un paese barbaro, dopo qualche anno esaurisce il poco capitale d’idee esistenti nel paese per potersi spiegare, e lo /117/ stesso indigeno più abile e più colto a misura che resta coi missionario, e monta più [in] alto nell’educazione, aquista anche nuove idee per imparare e per insegnare [a]i suoi fratelli producendo nova et vetera.

differenza tra la scuola speculativa e la pratica. Per il totale sviluppo delle scienze anche solamente scolastiche desiderabili in un Sacerdote fatto nel paese non basta l’età di un missionario, dovendo prima dilatarsi l’orizzonte delle idee, dei termini, e della lingua che ne sono il veicolo di trasmissione. Il missionario nel breve corso del suo apostolato non arriverà certamente a poter dare al suo clero indigeno [p. 895] trattati completi di scienze speculative a modo europeo, ma se egli sarà un missionario attivo e zelante che comprenda la sua posizione apostolica, per poco che aggiunga di lezioni speculative, nel suo ministero apostolico procurando di trovarsi sempre circondato dai suoi giovani chierici, otterrà certamente quella [scienza pratica] che ottiene un professore di clinica al letto degli ammalati negli ospedali, circondato da una quantità di alumni, perché la pratica vale più della speculativa; la speculativa agisce sull’orizzonte delle idee del medico per ragionarvi, ma la diagnosi pratica del professore gli guida il passo nell’esercizio, e gli insegna il da farsi nel caso pratico. Il ministero prattico di un missionario zelante, a cui giornalmente assistono i chierici equivale, anzi sorpassa due scuole di speculativa, colla differenza che questa infiamma i cuori dei giovani e gli spinge all’azione apostolica, mentre la semplice scuola speculativa gli innalza alle nubi, e suscita le pazioncelle scientifiche a dividersi il campo del cuore giovanile col sacro dovere dell’apostolato.

difficoltà del ministero d’Europa e dei paesi oromo. Chi ha letto le piccole storielle da me riferite in queste mie memorie storiche quando ho parlato della missione di Ghera, di Lagamara, di Gudrù sull’ammirabile zelo di alcuni nostri giovani, direi quasi ancora catecumeni, i quali, prevenuti dalla grazia dello Spirito Santo, hanno esercitato [p. 896] un ministero ammirabile, ed eccitato un vero entusiasmo, col fatto alla mano potrà decidere la presente questione, perché dove parla la storia con segni quasi evidenti del concorso di Dio, non vi è più luogo a ripetere. Per parte mia, quando penso a certi fatti arrivati nel mio stesso apostolato, e facio il paragone cogli stabilimenti di educazione della nostra Europa, dove io ho esercitato il sacro ministero, stabilimenti di ogni genere, seminarii ecclesiastici, collegii civili e militari, e case di educazione dei due sessi, la differenza che vi passa è per me un vero mistero; questo mistero mi obliga a ripetere le parole del Sacerdote che sollevò la questione, anche egli stupito, come in Europa tante pene per fare un prete, e quì si ordina così a buon mercato! e rispondo a me stesso: quì è l’apostolato primitivo povero di tutto, e /118/ persino di lingua per parlare, epperciò ci supplisce Iddio colle sue richezze; mentre in Europa, tutto all’opposto, le troppe richezze in tutti i generi affoga il cuore dei nostri giovani in un mare di infiniti bisogni, e di infinite passioni.

l’educazione dei chierici in Europa Caro Padre, risposi al missionario oppositore, prima di sentenziare bisogna esaminare e conoscere la causa in tutti i suoi lati, e da cima a fondo. Nei nostri paesi la Chiesa cammina sopra le ceneri di 18. secoli cristiani, nei quali la società è arrivata ad un’altezza [p. 897] colossale, cresciuta forze più in civiltà che in fede; la Chiesa obligata a preparare un clero a livello di questa società civile cristiana per l’adempimento del suo sacro ministero, i due terzi dei suoi sacrifizii e delle sue fatiche sono assorbiti dall’istruzione puramente civile divenuta necessaria, ma questo non è ancora il più gran male; a misura che il seminarista incommincia [ad] avere un’idea della sfera civile, a cui si avvicina, diventa questa una gran passione circondata da molti satelliti di pazioncelle anche innocenti. La scienza pasce l’orgoglio, questo produce il prorito di comparire, ed a questo succede la voglia di far passi nella gerarchia, e quindi alcune altre [passioni] ancor più basse che quì non nomino, perché più indegne. Supponendo ancora che queste passioni stiano nei limiti della stretta morale, epperciò innocenti, allontaneranno sempre il cuore del Sacerdote dalla sua divina missione dell’apostolato, ed in questo senso [sono] di gran danno alla Chiesa di Dio. Se questi chierici nei rispettivi Seminarii avranno avuto la singolare fortuna di trovare santi professori e direttori proprio di quelli mandati da Dio con potere di cangiare la creta in uomini angelici inspirando loro lo priracolo [= spiracolo] della vita spirituale ed apostolica, allora molto bene, almeno di dieci uno saranno apostoli, come S. Filippo, il Ven. Viennei, ed il Derossi, ma...

difficoltà per avere missionarii Ora, caro P.[adre] mio, veniamo a noi, e conchiudiamo la questione. Sacerdoti istruiti ed allevati per la nostra Europa nel modo sopra descritto anderanno alle missioni? [p. 898] alcuni vi anderanno, ma dove? in America, dove esiste una società civile quasi eguale alla nostra Europa, e dove anche possono fare dei gran servizii alla Chiesa coi loro studi sulle scienze positivi; per la stessa ragione anderanno in oriente, dove esistono colonie europee, ed una società indigena, la quale presenta minori speranze per l’avvenire della Chiesa; così in altri luoghi simili; ma in queste lande affricane chi penserà [di] venire a seppelirsi, dopo tante difficoltà per arrivarvi, quasi senza speranza di rivedere la patria? Quando in Europa si saprà la vita che siamo obligati a condurre quì, vita di sacrifizii di ogni genere, chi ancora avrà coraggio di venire? Non /119/ mancano certamente in Europa dei cuori generosi, epperciò alcuni verranno, ed altri moriranno in strada; succederà uno scoraggiamento, e con tutto ciò alcuni arriveranno anche sino a noi, ma saranno molto pochi.

Tuttavia anche. supponendo che alcuni arrivino. Questi pochi che arriveranno sin quì, non arriveranno che dopo alcuni anni, ed arrivati avranno bisogno di alcuni anni per [ap]prendere le lingue, e noi intanto aspetteremo che arrivi questo bel giorno per pascolare i cristiani già fatti dei Sacramenti, e farne degli altri?

[p. 899] venuti [i] missionarii europei, basteranno poi? Dopo tutto ciò io voglio supporre che Iddio facia miracoli, e che ci arrivino anche missionarii d’Europa in numero sufficiente, credete voi che otterremo noi migliori missionarii in detaglio di questi giovani portentosi che Iddio ci diede fin quì? Noi, benché figli del chiostro, educati fuori del mondo, pure abbiamo assorbito l’aria di un’orizzonte ideale [con idee] molto vaste, molto grandiose, e, diciamolo pure, nel nostro senso molto nobili, benché di un’ordine molto inferiore al nostro ministero apostolico, anzi angelico, da noi forze mai abbastanza compreso. Noi siamo sortiti d’Europa ed abbiamo lasciato quel gran mondo pieno di idee e di bisogni in gran parte esaggerati, ma quel gran mondo non ci ha lasciati, egli è venuto con noi, e si trova quì; io stesso l’ho provato nei [nei] primi anni delle mie pellegrinazioni.

mia conversione all’apostolato. Iddio mi fece conoscere un modello di apostolato nella persona di Monsignore Giustino Dejacobis Vescovo di Nilopoli e primo Vicario apostolico dell’Abissinia, subito nei primi anni del mio ministero apostolico come missionario; questo modello sublime mi innamorò nella massima, ma non bastò a staccarmi totalmente dal mondo delle idee, e dalla passione della scienza. Più tardi nel 1852. trovandomi in Iffagh, volendo fare un’escursione frà le tribù dei Zellaù, o pastori pagani sulle sponde del lago, condottovi per occultarmi [p. 900] nel tempo delle pioggie, dalla mia situazione di esiliato, direi quasi a caso, Iddio, nelle sue vedute misericordiose sulla missione a me affidata, mi fece gustare tutto il sapore del ministero frà i barbari e selvaggi, come si trova narrato più a lungo a suo luogo; fu là che io ho risolto poten[ten]temente di dare un calcio a tutte le lusinghe della passione scientifica per dedicarmi totalmente al ministero dell’apostolato; caro mio, dissi, senza di questo sino al giorno d’oggi nulla ancora si sarebbe fatto, e tutto il frutto della mia missione si ridurrebbe in un sacco di carte scritte, memorie di ogni genere, ed un’altro sacco di rimorsi che avrei portato sino alla morte, nascosto nel deposito o arsenale della mia conscienza, il /120/ quale mi avrebbe perseguitato sempre sino al giorno del fatale giudizio dopo morte.

le consolazioni vere Caro Padre Leone mio, così arrivò a me, ed io non vi nascondo le mie vergogne, come non vi nascondo le mie grandi consolazioni provate nel ministero, anzi veri piaceri che innundano il cuore, perché la generazione spirituale di nuovi figli a Cristo, anche materialmente, arriva così potentemente ad impadronirsi del cuore, che se questo gran mistero, o dirò meglio tesoro di consolazioni, per un’ordine economico della divina Providenza [p. 901] non rimanesse nascosto ai figli del mondo non vi sarebbero più pazzi per la generazione carnale, e caderebbe nella polvere il brio del talamo nuziale, perché tutti vorrebbero essere apostoli di Cristo. Un solo rimorso mi travaglia su questo punto, ed è che la consolazione provata da me nel ministero non sia per privarmi affatto del merito nel giorno del mio rendiconto al padrone della mistica vigna.

ragionamento al padre Leone Caro Padre Leone, se io vi ho fatta la mia confessione genuina di quanto mi acadde è per aprirmi la via a parlare di voi e dei pochi missionarii che ancora potremo sperare di avere dalla nostra Europa, epperciò ciò che dico di voi intendo dirlo di quelli che verranno, onde persuadervi del gran dovere, non solo di far cristiani, ma di preparare giovani al Sacerdozio. Noi abbiamo già una quantità di Cristiani in Gudrù, in Lagamara, in Nonno Bilò, in Ennerea, in Ghera, e quì in Kafa. Supponete ancora che da quì a qualche anno ci arrivi qualche missionario, vi vorranno alcuni altri anni per imparare le lingue; chi frattanto potrà amministrare tutti questi cristiani? in caso di qualche altra morte o esilio, chi avrà cura di loro? Se poi questi missionarii che noi speriamo di ricevere col tempo, dopo aver superato tutte le tentazioni e le difficoltà in Europa; dopo avere attraversati tutti i mari che dalla medesima ci separano; dopo tanti penosi viaggi di terra che voi conoscete, e tanti pericoli di morte, portati, come per miracolo [p. 902] sulle ali degli angeli come voi, avessero la bella fortuna di arrivate; certamente che sarebbe per noi allora una gran festa, ed una grande avventura per la missione.

abba Leone è convinto col fatto. La circostanza dell’arrivo del missionario è una grand’epoca che segna l’avvenire del suo ministero nella missione. Per esempio voi P. Leone siete arrivato in Lagamara, missione fioritissima che io per forza aveva abbandonato per i gravissimi affari di Kafa, lasciando[la] ad Abba Joannes di visitarla per turnum con quelle del Gudrù, di Cobbo, e di Loja. Nel partire aveva detto a quei cristiani che frà poco sareste arriva- /121/ to voi, e con questa speranza mi lasciarono partire con minore dispiacere. Appena partito io, ogni giorno che nasceva il sole il loro occhio guardava al nord sperando di vedervi arrivare. Il giorno poi del vostro arrivo colà fù una vera festa per tutto quel paese, ed i cattolici andarono a gara per darvi una dimostrazione sperando che voi avreste dato un nuovo eccitamento alla missione, ma fu vana la loro speranza, perché voi non vi siete dimostrato contento. sistema da osservarsi coi barbari Voi invece vi siete lagnato per aver trovato un’antro invece di una Chiesa, ed avete preso un contegno di uomo freddo ed indifferente, mentre dovevate invece sedervi fra [di] loro e saziarli di congratulazioni, gettando inviti teneri, atti a risvegliate una nuova crisi di fervore novello, servendovi del poco linguagio [p. 903] che avevate, e di dragomanni, che non mancavano; caro mio, non bisogna credere di poter andare con questa povera gente come si va colla vite sempre col coltello a tagliare; col uomo affinché nasca s’incommincia cogli amoretti, dopo vengono le consolazioni del concepimento, quindi i dolori del parto, poscia le carezze dell’infanzia, in seguito i rimbrotti alla pubertà, e dopo tutto ciò verrà appresso anche il bastone nell’età adulta. Per rilevate queste povere creature dobbiamo abbassarci, dar la mano, ed anche stringerla affinché non fuggano; il sussieguo, l’isolamento, il disprezzo sono gravi difetti nel missionario fra i barbari. è un grande errore il credere che questi popoli non abbiano amor proprio e non siano superbi. È poi un massimo errore venire da lontano per civilizzare i barbari, e poi arrivato quì occuparsi di scienze, di scritti per gli europei. Voi siete partito da Lagamara senza guadagnarvi il cuore di quella gente, e neanche dei chierici che abbiamo, lasciato colà per tener viva quella cristianità. Siete venuto in Ennerea e passato a Ghera ritenendo la vostra durezza dovunque. Ora se così faranno i pochi missionarii che verranno, dove andiamo noi? Con questo sistema [pensiamo] ancora all’ordinazione del nostro Abba Paolo?

qualità di abba Paulos. Il nostro Paolo è un giovane migliore di quello che pare a vederlo; entrato in casa [p. 904] nostra nel 1847. avanti l’età critica, egli passò più di sette anni alla scuota di quel gran tipo [di] missionario nostro Padre Luigi Sturla in Aden, dove fu l’ammirazione degli stessi protestanti; per me in favore di questo giovane ordinando basterebbe la scuola di sette anni del Padre Sturla, dal quale ha preso una fede molto viva, ed una pietà la più esemplare. Venuto di Aden, oltre la mia scuola ordinaria che sapete, ha aggiunto tre anni di scuola pratica, sempre presente ed attentissimo a tutte le mie parole ed operazioni. Abba Paolos è di un naturale flemmatico, epperciò la sua parola è più tarda e meno viva dei due compagni Gabriele e Kamo, più giovani di cinque /122/ anni di lui, e meno istruiti, perché contano appena 15. mesi dalla loro conversione, ma col dono di una parola, la quale è come un fulmine che prostra i cuori al primo attacco, motivo per cui attirano a se tutto il mondo e danno vita ai nostri catechismi; tuttavia sono certo che il nostro Paolo farà un buon Sacerdote, epperciò ho deciso di ordinario. Se non moriva il P. Cesare avrei aspettato ancora un’anno a fare questo passo, ma dopo questa perdita credo [di] doverlo fare.

sidecide l’ordinazione
[22.9.1860].
Ciò sentito il P. Leone nulla ebbe più a ripetere e venne decisa l’ordinazione. Eravamo, se non erro, sul fine del nostro Agosto, si fece una specie di ritiro in famiglia, dopo il quale nel Sabbato [delle] quattro tempora dopo la Croce [p. 905] ebbe luogo l’ordinazione, nella quale ho dato la tonsura e qualche Ordine minore ad alcuni chierici, e fù Ordinato Sacerdote il nostro diacono Abba Paulos. Una gran quantità di proseliti assisteva alla sacra funzione, e fù una delle più belle solennità avvenute in Kafa, dove ancora non si conoscevano le ordinazioni. apparizione in tempo della funzione. Sia un’illusione, sia in realtà un fatto, non mancò in quella circostanza un segno dal cielo: un ragazzino ancor giovane si sforzava [di] far vedere ai compagni una quantità di gente che soprastava nella cappella in tempo delle litanie dei Santi, quando l’ordinando corricato supino se ne stava facendo l’invocazione. La convinzione colla quale questo ragazzino si sforzava di far vedere lo spettacolo miracoloso ai suoi compagni, e ne parlava poi dopo non lasciava dubbio sulla realtà, benché nessun altro abbia veduto. Il ragazzino passava appena l’età di otto anni.