/257/

27.
Proprietà di Lit-Marafià e «Gadàm».
Ebraismo e cristianesimo. Ualde Mariam.

lit marefia dato a[lla] missione
[possesso di Fekeriè-ghemb: 1.6.1868;
di Escia: 25.9.1874]
Qui, per non lasciare una laguna, debbo fare una piccola deviazione dalla storia principale del mio viaggio. Qualche anno prima, quando il Re esternò il suo desiderio che io mi stabilissi in Fekerie Ghemb, e che si effettuasse il monastero di Escie, non potendo più darmi il dorgò o pensione quotidiana della Corte, come già è stato detto, mi diede una quantità di vacche da latte, e di buoi da macello, per uso della mia casa. Allora mi aveva dato il pascolo di Lit Marefià, che io ho goduto circa un’anno senza vederlo. Ho mandato qualcheduno mio fido a visitare il luogo; e la mia piccola mandra, stata consegnata a certi custodi da me pagati, vedendo che io [non] ne ricavava nessun profitto, che il latte era utilizzato da altri, che di quando in quando qualche animale si fingeva caduto nel precipizio, e se lo mangiavano, contenti di consegnarmi la pelle; e che l’erba migliore era riservata agli amici mentre le nostre bestie mangiavano male. mia rinunzia a quel pascolo In vista di ciò io dissi fra me: questa gente [p. 687] finiranno per mangiarmi tutto, ed io non posso caciarli via senza farmi una quantità di nemici, perché dimorano là una quantità di antichi schiavi della corte, i quali sono più padroni dello stesso Re, ed hanno i loro amici, epperciò [è] meglio disfarmene. Così ho fatto, ed aveva rinunziato [a] Lit Marafià prima ancora che arrivasse la Spedizione geografica. Il Re acettò quella mia rinunzia, e [11.12.1876] mi diede un’altro pascolo a Devra Bran vicino a Liccèe.

progetto di darlo alla spedizione geografica
[concessione verbale: 5.12.1876;
scritta: 21.1.1877]
Un giorno il Re avendomi esternato la sua idea di stabilire i signori della [della] Spedizione in qualche luogo, io stesso gli ho suggerito di stabilirgli a Lit Marafia, per la ragione che la essi erano più liberi, per la cacia, per le corrispondenze colla costa, e per tutti gli altri bisogni. Allora gli ho fatto presente l’inconveniente che mi aveva determinato a rinunziarlo. Il Re gradì il mio consiglio, e chiamato Antinori con Chiarini si conchiuse di fare fabricare le case che occorrevano. Per questa ragione, io prima di rientrare a Fekerie Ghemb dal mio viaggio di Din- /258/ ki e di Elioamba, ho voluto passate per Lit Marefià, per conoscere meglio il luogo, e saper parlare con maggior cognizione di causa in caso di bisogno. mia visita a Litmarafia Appena arrivato colà tutta quella gente mi fecero molte feste, come al loro antico padrone, e piangevano perché io gli aveva abbandonati: oggi, dicevano, il Re ci vole mandare via tutti, per lasciare il luogo [p. 688] ai gran signori venuti; oh quanto sarebbe stato meglio per noi il servire a voi nostro Padre! Quella povera gente credendo di lodarmi, mi confessavano tutti i loro peccati, ed i rubarizii che mi hanno fatto; il padrone della casa, dove io era entrato, era un’antico schiavo del gran Re Selaselassie avo del Re Menilik, già morto da quasi trenta anni; e mentre mi preparava un poco di refezione, egli mi stava facendo gli eloggi del suo antico padrone; che bei tempi allora! Voi, invece che siete venuto oggi sotto questo giovane Re, amico delle novità, voi sareste ancora il nostro padrone, e noi saressimo felici, invece questo Re ha sentito i consigli di uomini perversi, ha tolto da voi questo bel luogo, e noi dobbiamo andarcene. Così parlando mi presentò un salame (1a), questo, disse, dovete mangiarlo tutto voi, perché è roba vostra, è stato fatto colla carne di quel bue che si disse caduto nel precipizio, voi vi siete contentato della pelle e della coda, e noi l’abbiamo mangiato (2a). Ciò basti per divertire il mio lettore, e da ciò esso potrà interpretare tutto il resto che ho sentito da quella brava gente, la quale si gloriava di essere stata al mio servizio, benché io non l’abbia dominato.

paragone trà popoli e popoli Oggi mentre scrivo la mia imaginazione mi trasporta a Lit Marafià, e sto pensando a tutto quello che ho sentito da tutta quella gente, penso alla tenera riconoscenza che quella gente conservava per i padri del Re Menilik, penso al rispetto che essa [p. 689] conservava per lo stesso imperatore Teodoro, il quale aveva regnato in Scioha una decina di anni con governo ferreo, e penso finalmente al come parlavano del loro Re Menilik ancor giovane, e di me stesso, stato poco prima loro padrone di nome. Ora dopo aver tutto sentito ciò che si diceva da quei schiavi antichi della corte abissina, ed anche da tutti quei popoli che noi chiamiamo barbari, passati pochi anni, la divina previdenza avendomi richiamato da mezzo quei barbari alla nostra cara Patria oramai arrivata all’apogeo dell’odierna civiltà, andando e venendo frammezzo /259/ questi nostri popoli fratelli divenuti tutti sovrani, i quali hanno combattuto per aquistare l’emancipazione dall’antica schiavitù dei loro sovrani. Ora sento anche qui ciò che si dice dalle masse dei popoli, i quali formano sempre ancora i nove decimi del vero popolo italiano, divenuto sovrano, ma per servire a tavola quelli che regnano. Io uomo di pace, ed amico dell’ordine, non posso dire tutto quello che sento; ma come uomo accostumato all’analisi dei diversi popoli, non posso a meno che farne il paragone. Il risultato di questo paragone, tutto netto e purgato dalla scoria eccolo tale [e] quale: là fra i barbari i schiavi sono veri sovrani, mentre qui fra i popoli civili e sovrani, chi non governa è schiavo messo alla porta da madama libertà; tutto il progresso è nei libri della Crusca; ih se gli antichi sovrani mettessero fuori la testa!

il gaddam di Mentek Non molto lontano da Lit marafia esisteva un Gadam (1b) o specie di Convento di un carattere curioso, in un luogo detto Mentek. Nel paese figurano come monaci [p. 690] gli individui di quella casa o convento che si voglia dire, essi vestono come monaci, e vivono in comunità sotto l’obbedienza di uno. usi del medesimo La casa è sempre doppia, una parte per gli uomini, e l’altra per le donne. Da un canto la casa ha l’aspetto di ospedale, perché ricevono e mantengono cronici dei due sessi; dall’altro canto essi vivono lavorando, quasi come i trapisti. Posseggono terreni in proprietà come corpi morali, e gli coltivano per il bisogno della loro casa; ma oltre la coltivazione, esercitano poi ancora un’arte, cioè o di ferrai, o di tessitori, oppure altra simile. Il Convento di Mentek si occupava di stoviglie, e prevedevano anche la mia casa di piatti, di marmitte, di caffettiere, di vasi per la birra, e per l’idromele, e simili. Come artisti riconoscono per loro capo civile il ministro delle arti del regno, il quale è quello che gli governa nell’esterno, ed approva il loro abbate da essi eletto.

religione e fede sua La religione di quel monastero è stato sempre un mistero per me, e non è che dopo alcuni anni [che] ho potuto comprenderne qualche cosa. Essi stessi vivono di tradizioni, ed hanno niente di scritto, epperciò non sanno dare causa di scienza. Essi si fanno battezzare alle chiese del paese, osservano le feste ed i digiuni del paese, motivo per cui si direbbero cristiani; ma poi hanno altre tradizioni ed osservanze particolari che li distinguono, e quando muoiono sono per lo più sepolti nei /260/ loro conventi. opinioni particolari in ciò L’opinione delle persone [p. 691] più riguardevoli di Scioha pensano che simili conventi siano conventi di Ebbrei: difatti osservano il sabbato con maggior gelosia ancora della domenica, ma siccome in tutta l’Abissinia è come generale l’osservanza del sabbato, questa non sarebbe ancora una sufficiente prova per giudicarli tali. Da principio io inclinava a giudicargli eretici di qualche eresia formatasi in paese, e vivente solo di tradizioni, come sono per lo più tutte le cose d’Abissinia, la quale in materia di storia è quasi nulla. A forza di esaminare ho trovato qualche segnale nelle loro relazioni gerarchiche cogli Ebbrei di Gondar. Ma siccome anche gli ebbrei di Gondar hanno perduto la loro lingua ebraica e la loro storia particolare, anche da Gondar poco si può avere di positivo. Nel regno di Scioha esistono circa 50. di questi così detti gadam ed hanno un capo riconosciuto dagli Ebbrei di Gondar. Ecco tutto ciò che si può sapere, e si può affermare sulla fede di tutti quei conventi.

[1a metà 1876] Io dunque avendo già prima coltivato alcuni di quei monaci di Mentek, ai quali aveva amministrato i sacramenti, ho voluto cogliere la circostanza per visitargli, tanto più [che] l’abbate stesso per nome abba Walde Tsadek, uno dei miei proseliti, era venuto a Lit marefìà ad invitarmi. mia visita nel convento Recatomi da loro fecero gran festa, mi fecero vedere in detaglio tutto il loro stabilimento, quello degli uomini, e quello delle donne; ho visitato il loro piccolo ospedale, cosa affatto nuova in Abissinia. Viddi pure il loro laboratorio [p. 692] di vasi e di stoviglie; l’industria del convento il lavoro era dei più semplici ed elementari, fatto a mano di donne senza l’ajuto di macchine, anche le più semplici in uso fra noi. Ho cercato di dare loro un’idea della ruota girata col piede, che io aveva veduto in Moncalieri presso i fabbricatori di stoviglie, ma mi volle tutto a fare capire il machinismo. Confesso tuttavia che mi stupì la prestezza colla quale lavoravano, e la quantità notabile [di arnesi] che una persona faceva nel giorno. Ciò che più di tutto mi stupì era l’ordine esterno dello stabilimento; io aveva visitato alcuni monasteri eretici cristiani dell’Abissinia, confesso di non avere trovato un’ordine ed una subordinazione simile a quella del Gadam ebbreo di Mentek. la sua morale Non così però in materia di moralità, nella quale vi era molta latitudine e tolleranza. Ciò poi non è da stupire, perché in verità non è un monastero, ne gli individui dei due sessi sono monaci con qualche obligazione, ma sono persone che vivono in società, unite più dall’amore di casta che altro: essi non hanno, ne istruzioni, ne libri, ne esortazioni, ne altro ajuto che lo sviluppo del proprio cuore. In questo stato di abbandono, mi stupiva come avessero ancora tanta riserva.

/261/ Io in quella communità aveva già qualche proselito, anche dei due sessi; ad alcuni aveva già amministrato i sacramenti, compreso il matrimonio secreto, per legittimare alcune unioni precedenti inveterate, e sufficientemente conosciute. una mia predica Era perciò mio dovere [di] aggiungere un poco di ministero della parola. Quella povera gente, che [non] aveva mai sentito una parola di spirito, [p. 693] al sentire la mia prima conferenza, nella quale ho trattato la prima delle massime eterne che è l’immortalità del uomo che deve ritornarsene a Dio per rendere conto dell’osservanza della legge sua impressa nel cuore del uomo, unitamente a pochissime altre osservazioni pratiche, essa rimase così colpita ed entusiasmata, che quando ho cessato di parlare, uno si mise a piangere, ah, esclamò, dopo averci fatto gustare il paradiso così pensa [di] lasciarci? No, risposi io, oggi non ho fatto che incomminciare, e non mancherò di ritornare, ma anche nel caso di dover ritardare troppo, col permesso dei vostri superiori, qualcheduno potrà sempre venire al mio monastero per sentirmi. Avrei ancora aggiunto qualche conferenza, ma la prudenza mi consigliò a cessare, per non sollevare troppo movimento con pericolo di disorganizzare la casa. mie visite future Io mirava più lontano, ad incomminciare cioè un movimento simpatico, che potesse propagarsi anche col tempo alle altre case lontane, senza destare qualche sospetto nei superiori loro tanto civili che religiosi; io pensava a consolidare, e non a disorganizzare tutte quelle case di ebrei, le meglio organizzate di tutto il regno di Scioha. Intanto io parto, dissi loro, ma siamo vicini di casa, io verrò da voi, e voi da me.

Io non posso lasciare in secco la questione di questi gaddam o Conventi di ebbrei nel regno di Scioha, senza dare al mio lettore in breve un’idea del criterio che io ho potuto formarmi sopra l’ebbraismo in Etiopia, dal quale egli potrà con tutta facilità ricavarne l’origine di tutte le frazioni di ebbrei sparsi [p. 694] in tutta l’Abissinia cristiana del nord, ed in specie dei contorni di Gondar, dove gli israeliti hanno conservato un’apparenza più marcata della loro fede e del loro culto; benché, anche là siano talmente decaduti, da non conoscere più ne la lingua ebraica, ne il testo della bibbia in lingua loro. incertezze nella storia abissina Niente di più oscuro che la storia in Abissinia, dove non esiste in realtà un corpo di storia scritta, ma solo tratti di storia in particolare sparsi di qua e di là, e talmente isolati tra loro, che una gran parte neanche si saprebbe a quall’epoca appartenga.

Un dotto che volesse raccogliere la storia in Abissinia sarebbe meno fortunato di un’altro che volesse raccogliere un corpo di storia dal semplice museo di antichità lapidarie in Roma.

/262/ lo stabilimento del cristianesimo Ciò non ostante esiste in Abissinia una cosa certissima, e che può servire di base per formarsi un criterio certo, è questa l’epoca dello stabilimento del cristianesimo, e l’esistenza precedente del culto mosaico in quasi tutta l’Etiopia Settentrionale, che oggi suol chiamarsi Abissinia. Di ciò parla sufficientemente la storia ecclesiastica, ed anche quando questa tacesse, parlerebbero gli usi mosaici, talmente invasi, ed ancora dominanti in tutta l’Etiopia, che, se non esistesse una larva di gerarchia ecclesiastica cristiana, ancora si potrebbe dubitare, se il popolo sia più cristiano che ebbreo. Tutto questo presupposto, ecco in breve in criterio che io ho potuto formarmi relativamente all’israelitismo, attualmente esistente nell’Abissinia cristiana, sparso in diversi luoghi, e sotto un’aspetto diverso, da presentarsi [p. 695] al publico con apparenze quasi cristiane, in certi paesi. [328]
s. Frumenzio
[2a metà 300]
Nei tempi di S. Atanasio fu ordinato primo Vescovo dell’Abissinia S. Framenzio, il quale, già prima aveva esercitato l’apostolato alla corte etiopica sotto il suo nome di Abuna Fremenatos, come semplice prete; spedito dall’imperatore in Egitto, fù ordinato Vescovo col nome di Abba Salama primo. Fin qui la storia è certissima. Ora all’arrivo del nuovo Vescovo l’imperatore con tutta la sua corte, e con tutta la sua aristocrazia, fece publica professione di Cristianesimo, e publicò una legge per la quale riconosceva la religione cristiana come unica religione dell’impero, proscrivendo l’antico culto mosaico. Anche fin qui la storia pare certissima. Il resto poi è un ragionamento, il quale viene di necessità come una naturale conseguenza. Le conseguenze sono molte, ed io le riferisco tali [e] quali sono nel mio criterio.

persecuzione degli israeliti Per ciò che riguarda la dispersione degli israeliti [la causa] è stata la persecuzione. Dal momento che l’imperatore ha dichiarato la religione cristiana religione dell’impero, e bandito il mosaismo, la persecuzione prese piede a misura che il nuovo clero si moltiplicava, ed a misura che si stabilivano chiese nell’impero. S. Frumenzio, prima di essere vescovo, ancorché buono e santo, aveva fatto dei proseliti alla corte, e non ha avuto tempo e commodità per istruire la massa del popolo. Dopo fatto Vescovo, [per] il bisogno di dare un corpo al cristianesimo stabilito si è veduto in conseguenza nel bisogno di fare un clero per l’amministrazione dei sacramenti, e venne quindi il bisogno di moltiplicare le chiese per il culto. il nuovo clero Il nuovo clero non poteva essere [p. 696] ne abbastanza istruito, ne abbastanza investito dello spirito evangelico per regenerare un popolo secondo lo spirito di Gesù Cristo, un popolo, che già anticamente per decreto imperiale aveva abbraciato tutte le ceremonie mosaiche senza conoscere la legge e lo spirito della legge di Mosè, e senza rinunziare al precedente paganesimo. Tutte le questioni sostenute dagli /263/ apostoli contro le osservanze della legge antica non ebbero luogo in Abissinia, epperciò il clero medesimo ha dovuto mantenersi sotto la legge della circoncisione facendosi [un] largo più coll’appoggio del governo, che non col mezzo dell’istruzione, e della santa unzione apostolica.

gli ebrei zelanti È quindi cosa più che naturale, che si sollevasse un partito dei più zelanti osservatori della legge mosaica, il quale rifiutasse di riconoscere il nuovo clero palatino, e che, a misura che quest’ultimo si estendeva facendo nuove chiese, l’altro prendesse il largo per stabilirsi in luoghi meno osservati. Niente di più naturale anche, che quei poveri ebbrei, per declinare la persecuzione del governo imperiale si adattassero all’osservanza esteriore delle feste e dei digiuni cristiani. Coll’andare del tempo molti si fecero cristiani, e molti diventarono pagani, come i Camant al nord-Ovest del lago Dembea, e come la tribù dei Zelian pastori del Beghemeder, stando all’opinione di alcuni indigeni da me interrogati. Pochi rimasero gli ebbrei in Abissinia; furono quindi tollerati dal governo [p. 697] imperiale, come artisti, considerati dovunque come infami. stato degli israeliti attuali Quei di Gondar sono fabricatori di case e raramente di telerie; quei del regno di Scioha lavorano a preferenza nel ferro, e nei vasi di terra, oppure a tessere il cotone. Occorrendomi di parlare con qualche persona ebbrea di qualche distinzione, ho domandato sempre se esistevano relazioni cogli israeliti di oltremare, massime coi levantini, e se innoltre fra loro esistesse qualche codice ebraico [non vi fosse]; ma ho avuto sempre risposte negative. Dimodoché gli israeliti abissinesi sono perfettamente isolati da tutti gli altri israeliti del mondo, e da quanto pare prendono il calcolo pasquale dai Cristiani. In quanto al testo ebraico una persona mi assicurò che anticamente esisteva presso un loro rabino un libro detto della legge, che lo dava a baciare in alcune circostanze dell’anno, ma che nessuno sapeva leggerlo, e che poi si perdette nell’incendio. In questo stato si trovano i pochissimi israeliti dei nostri giorni in Abissinia.

antiche piaghe della Chiesa abissina Ma dal momento che si è parlato del cristianesimo dichiarato religione dello stato in tutto l’impero abissino, e dell’introduzione del primo Vescovo S. Frumenzio col nome di Salama primo, come sopra abbiamo detto, non posso tacere altre gravi conseguenze che seguirono l’innaugurazione precoce del regno di Cristo, conseguenze che furono sempre, e sono ancora per molto tempo le piaghe insanabili di quella cristianità. il vescovo incarnato coll’impero La prima piaga e l’incarnazione (mi si permetta questa parola) della gerarchia coll’impero: ho voluto spiegarmi colla parola incarnazione, perché l’unione del Vescovo coll’impero, come è stata interpretata in /264/ quel paese è tale, che non può più concepirsi un’imperatore senza il Vescovo, come non si può concepire [p. 698] un vescovo senza l’imperatore: l’idea è eccellente, direbbe a prima vista un ottimista dei nostri, perché essendo Iddio creatore e padrone dell’universo, ed essendo come l’anima del mondo, troppo bene ci sta questa incarnazione dei due poteri spirituale e temporale; certamente che l’idea sarebbe perfetta, quando i due poteri dovessero andare d’accordo, come l’anima ed il corpo di un uomo nell’operazione umana. Ma non è così nell’Abissinia, dove l’incarnazione dei due poteri, non è per operare d’accordo, ma solo per dare la vita all’impero, unico padrone dello spirituale e del temporale; ciò ottenuto, in vescovo diventa uno schiavo, anzi un semplice istromento, per servire l’imperatore, ed unicamente nelle sue mani, da non poter andare dove vuole, e da non poter fare come vuole. Così, quando noi diciamo che il principio del cristianesimo in Abissinia è stato vizioso, non è per criticare S. Framenzio, il quale avrebbe ben voluto fare diversamente, ma dovette piegare all’imperatore per fare ciò che esso voleva, e come esso voleva.

la stessa questione presso di noi La questione presente non è solo questione dell’Abissinia, ma è la medesima questione eterna tra l’impero ed il sacerdozio, la quale, incominciando da Costantino sino a Guglielmo di Prussia, ed Alessandro di Russia ha sempre tormentata la Chiesa di Cristo, ed è arrivata a distruggerla in molti luoghi. il fatto di san Frumenzio Nei tempi di S. Frumenzio, l’imperatore abissino, avendo sentito che tutto il mondo aveva lasciato il paganesimo e si era fatto cristiano, si riputò [p. 699] fortunato di ricevere S. Frumenzio, e lo ajutò anche sino ad un certo punto nei suo apostolato; arrivò sino al punto di presentarlo al Patriarca dell’Egitto per farlo fare vescovo, perché nella sua politica ciò era divenuto necessario a lui per sortire dall’infamia di essere considerato come un Re pagano in facia alla diplomazia del mondo cristiano. Ma il furbo abissino, vedendo come l’apostolo di Cristo entrava nel midollo dei cuori e prendeva un potere che egli non aveva sopra l’intimo sentimento dei popoli suoi sudditi, egli ha pensato d’impadronirsene onorandolo, per poterlo dominare a suo talento. Il povero San Frumenzio che veniva dall’oriente, dove la lebbra dell’impero si era già impadronita della Chiesa, e dove questa aveva già perduta la sua autonomia per le diverse crisi dell’arianesimo fomentato dall’impero per dominarla; così S. Frumenzio si lasciò prendere nel lacio, credendo di servirsi dell’impero per fare l’Abissinia cristiana. Così riuscì al furbo imperatore abissino di formare un cristianesimo a suo modo, e piantarvi una gerarchia ecclesiastica sua schiava: che valse lo stesso che piantarvi da principio il germe del scisma e dell’eresia.

/265/ la mia storia ne sia la prova Il sacerdote deve essere libero nel suo ministero da ogni vincolo di potere; è difficile che possa ottenere tutta la sua libertà alle corti non solo dei monarchi, ma degli uomini di stato di qualunque genere. Lascio ai sacerdoti dei nostri paesi [di] giudicare alla pratica questa mia asserzione [p. 700] bastando per me ciò che ho veduto, e provato nel mio apostolato dell’Africa nei 35. anni di ministero apostolico. prova di fatti In queste mie memorie storiche stanno scritti i fatti principali che ebbero luogo in Abissinia, dove per ordine dei superiori ho dovuto rimanere alcuni anni in soccorso di Monsignore Dejacobis, dove la divina Previdenza mi chiamava alla scuola del grande apostolo dell’Etiopia settentrionale.

Più tardi stanno anche registrati i fatti del mio apostolato fra i galla liberi, dove per otto e più anni l’odore della corte e della diplomazia non si sentiva più; io là faceva da medico, da Prete, e da Vescovo; là io entrava, e sortiva da un paese e l’altro senza che [alcuna] persona si occupasse di me. Naque quindi il bisogno di andare a Kafa per liberare un povero figlio caduto nel laccio teso dai cortigiani; per arrivarvi ho pianto due anni, e vi sono arrivato giuocando due anni allo scacco della diplomazia indigena, fui ricevuto con grandi apparati di lusinghe, e vinta la causa coi cannoni della fortezza celeste, ho potuto avere una tregua di due anni per esercitare un ministero miracoloso da stordire quel paese. La diplomazia, che prima mi negò la sortita, spaventata dall’efficacia del mio ministero mi aprì le porte coll’esiglio del 1861.

Alcuni anni dopo l’esilio di, Kafa, recatomi in Europa per prendere missionarii; nel mio ritorno, le circostanze della guerra inglese coll’imperatore Teodoro obligandomi e rientrare alla missione per la via di Zeïla e di Scioha, di cui mi trovo attualmente in via di scrivere la storia. il fatto di re Menilik Fra i moltissimi principi da me conosciuti in Abissinia, nessuno mi fù [p. 701] cortese, e più generoso del Re Menilik, come già abbiamo veduto, e come si vedrà in seguito, ma pure nella questione presente del missionario alla corte, io sono costretto a confessare, che, arrivato appena in Scioha, ho dovuto convincermi, della gran massima in questione, toccata la corte, e perduta la libertà è come una necessità. Lo stesso Re Menilik, che mi aveva giurato di lasciarmi passare alle missioni antiche, non fu di parola, ed io mi sono trovato di nuovo nelle catene della diplomazia, come già si è veduto, costretto a lasciare le antiche missioni per incomminciarne delle nuove, e come si vedrà poi in seguito, quando queste arrivarono ad uno sviluppo da raccoglierne frutto abbondante, allora fu che la falce inesorabile della politica ci passò destramente sotto i piedi, ed un’esilio mascherato obligò i miei /266/ missionarii ad incomminciare altrove nuovi lavori, lasciando me vecchio ed impotente in Roma, dove mi trovo a raccontare i miei sogni passati.

una supposizione Ora se l’apostolato di S. Frumenzio avesse incomminciato dalle masse del popolo, e non dalla corte, avrebbe certamente costato molte fatiche di più agli apostoli, perché avrebbe sollevato una crisi tra il mosaismo ed il cristianesimo, e tra questi col paganesimo, sarebbero passati secoli, e forze avrebbe costato molto sangue, ma intanto venendo la vittoria sarebbe stata compita, ed oggi vi sarebbe un cristianesimo puro da ogni [p. 702] macchia di mosaïsmo e di paganesimo; cristianesimo abissino di oggi ed invece il povero missionario cattolico oggi ancora si trova [ancora] alle prese colla stessa circoncisione e con ogni specie di magia, o superstizione pagana, e dopo tanti secoli di regno cristiano noi siamo immondi ancora perché incirconcisi, e nel Santuario stesso regna ancora la circoncisione della carne invece di quella del cuore, ed il sangue delle vittime si vede scorrere nelle chiese stesse cristiane e per le mani del Sacerdozio, a preferenza del Sangue di Cristo; dopo tanti secoli di Cristianesimo David compra ancora la moglie coi prepuzii dei filistei, ed il povero Paolo, dopo aver tanto gridato contro la circoncisione, è obligato ancora a fare circoncidere Timoteo propter judæos; e si noti che, dicendo noi propter judæos, non intendiamo di parlare dei giudei che professano da fede di Mosè e dei profeti, ma dei giudei riconosciuti da tutti come cristiani, e di quelli stessi che abitano il Santuario degli eretici in Abissinia; di quelli medesimi, i quali col nome di Sacerdoti di Cristo perseguitano i miei poveri giudei di Mentek, dai quali ha preso motivo questa mia digressione, forze meno giudei dei loro persecutori. Io che scrivo, avrei passato volontieri almeno otto giorni nel gaddam di Mentek suddetto per evangelizzarli, ma ho dovuto usar prudenza, perché i miei cattolici temevano che io [non] fossi chiamato come infame giudaizzante dalla gerarchia eretica medesima.

partenza da Mentek Ma basti per ora la digressione fuori del mio diario storico, tanto più che dovrò ritornarvi più di proposito sopra questo argomento che tocca troppo da vicino la vita stessa dell’apostolato. A Mentek perciò [ritornerò] di nuovo, dove il mio cuore tu commosso, perché [p. 703] ho trovato colà fra i così detti ebbrei una carità, una disciplina, una semplicità, e certe altre virtù cristiane, che d’ordinario non vi sono nell’Abissinia cristiana. la grotta di abba Walde Mariam Da una certa prudenza obligato a lasciar Mentek, prima di montare la fortezza di Fekerie ghemb, ho voluto visitare un certo monaco per nome Abba Walde Mariam, il quale conduceva una vita quasi eremitica nella foresta tra Mentek e Fekerie ghemb. Egli se ne stava dentro una grotta scavata nella rocca stessa perpendicolare quasi /267/ ai piedi della fortezza suddetta ad una certa altezza. Arrivati ai piedi della rocca trovammo che il monaco non si trovava, e la sua grotta era chiusa a chiave. Io non voleva salire per rispetto della proprietà, ma la nostra guida volle salire, e trovò la maniera di aprirne la porta, come amico del monaco che conosceva il secreto della chiave. La grotta era all’altezza di circa dieci o dodeci mettri, e ci volle tutta la pena per arrivarvi; i miei compagni vi salirono, perché più abituati a simili passi, ma io non avrei osato, se dalla porta della grotta non mi avessero sporto una corda che mi assicurava.

bellezza della grotta Arrivato al ripiano della [della] grotta mi stupì al vedere un lavoro fatto con una certa maestria. La porta della grotta, che dal basso figuravacome una semplice finestra, da entrarvi una persona con pena, ho trovato [p. 704] che era un gran porta tagliata nella rocca viva, e chiusa con una tavola in forma, con un certo spessore, con tutta l’industria del paese; è questo un lavoro stato fatto d’ordine del gran Re Selasalassie, avo di Menilik, il quale soleva mettervi qui in punizione qualcheduna delle sue donne stata trovata infedele, mi disse la nostra guida. Entrati dentro, abbiamo trovato una sala quadrata della larghezza di circa quattro mettri, ed alta circa tre, tutta intagliata nella rocca pura, e levigata sufficientemente da sembrare in alcuni luoghi quasi come i nostri marmi. A mano diritta entrando vi era una specie di camino per il fuoco, e quindi una porta che conduceva in altro compartimento che io non ho visitato, perché oscuro. Il monaco aveva lasciato qualche provista, e vi trovammo la cafettiera con del caffè macinato, e la guida fece bollire un buon caffè. Tutto andava bene dentro la grotta, ma appena acceso il fuoco fummo costretti dal fumo a sortire fuori della porta, dove abbiamo bevuto il caffè sopra il ripiano. Preso il nostro caffè siamo discesi. Lasciammo la bella grotta ed il bel gattino domestico, che ne era il solo padrone, il quale aveva molto amato la nostra visita. I miei giovani avevano con loro un poco di carne secca, glie ne diedero un pugno, che molto gradì.

fine della mia visita Io aveva visitato quella grotta con doppio fine; un bel giorno, diceva fra me stesso, stanco dalle troppe fatiche, ed anche divagato, mi servirà per nascondermi qualche giorno, onde pensare più seriamente a me stesso, come soleva fare in Gudrù nei primi anni del mio apostolato fra i Galla, [p. 705] e nel tempo stesso guarderò se posso salvare l’anima del povero eremita Walde Mariam. Ma mi sono sbagliato, la grotta non faceva per me allo scopo inteso, perché troppo vicina all’abitato, ed il nostro eremita Walde Mariam ne aveva fatto un mercato, dove veniva ogni sorta di mondo per consultarlo, come un classico indovino, e per- /268/ sone di ogni genere vi passavano anche la notte. Non avendo trovato il monaco, andò anche fallito lo scopo di catechizzarlo, epperciò lascio di parlare del medesimo, riservandomi di parlarne quando sarà venuto il tempo di riferire la sua conversione al cattolicismo, e la sua morte, come martire in favore della missione. l’eremita Dirò per ora solamente, [che] egli era un valoroso soldato nativo di Marabietie, nei paesi bassi verso il Nilo, e verso if Gogiam. Quando [19.11.1855] Teodoro s’impadronì di Scioha egli non volle riconoscerlo, e prese il partito di battere campagna facendosi capo banda. Fu preso da un altro rivoltoso che governava quella Provincia, e lo condusse a Tammo, montagna e fortezza innacessibile, dove aveva la sede quel pricipe. Là dal medesimo gli fu tagliata la mano destra, epperciò, appena guarito, vestì l’abito da monaco, ritenendo sempre il suo cuore tutto fresco di passioni, e l’animo suo sempre feroce, per il quale non vi era altro rimedio che Cristo, che doveva venire a suo tempo, come a Paolo in Damasco.

la sua venuta, e prime impressioni Di fatti, appena fui di ritorno a Fekeriè ghemb, la sera mentre stava facendo il catechismo, ecco arriva il nostra eremita Walde Mariam, e preso che ebbe il suo posto, volle sentire la preghiera, il catechismo, e la conferenza consueta; fù quella la prima [p. 706] volta che questo originale sentì la parola di Dio dalla mia bocca; io teneva gli occhi fissi sopra di lui per vedere la diversa impressione [che faceva] la pilola all’ammalato, ma il povero Walde Mariam aveva il gusto depravato, ed il suo stommaco non era ancora preparato per ricevere il cibo celeste; io vedendo il suo atteggiamento di uomo inquieto, non ho voluto affaticarlo troppo, e dette alcune cose edificanti, mi affrettai a terminare la mia conferenza. Egli era venuto unicamente per farmi un complimento, si parlò della sua grotta, del suo gatto, e del suo caffè; mi fece una finta lagnanza di aver violato il suo domicilio, si questionò, si rise, e per fare che abbia fatto dei tentativi per diriggergli qualche parola diretta che gli arrivasse al cuore, egli in ciò posso dire [che] francamente, che quasi avrei perduta la speranza di poterlo guadagnare, perché mi metteva tutto in ridicolo, da crederlo come energumeno, e posseduto dal demonio; bevette due corni di birra, e si congedò rifiutando di passare la notte con noi; io l’ho accompagnato un momento recitandogli secretamente il mio solito piccolo esorcismo.

questioni sopra di lui Partito che fu Walde Mariam, i miei giovani, che conoscevano il fondo del mio cuore, ed il modo di trattare simili pezzi d’ira di Dio, intavolarono subito la questione sopra di lui, voi perdete la spesa e la fatica, mi dissero, e [non] ne farete nulla; in particolare Deftera Sahelie che mi aveva accompagnato in tutto [p. 707] il viaggio: io conosco, diceva, /269/ questo originale, e l’assicuro che [non] ho nessuna speranza di buona riuscita; anzi temo che Ella non si esponga ad offenderlo, ed allora l’assicuro che è un naturale tale che [non] la perdona neanche allo stesso Re. mie risposte ai giovani Molto bene, risposi io, S. Paolo era uno dei grandi pezzi fra i nemici di Cristo, e della sua Chiesa nei tempi apostolici, e nella causa di S. Stefano, ebbene voi già sapete come fu l’unico colpito da una grazia che lo prostrò, e lo cangiò in un grande apostolo; tutti voi chi più chi meno avete presa da me la medicina che fa vomitare (emetico), e conoscete molto bene che effetto fa (1c); più la persona ha lo stommaco ammalato, più lo disturba, ed arriva anche a farne concepire una ripugnanza tale da rigettarlo (2b), oppure qualche volta arriva ad impadronirsi dell’imaginazione per farla ricusare, a fronte del bisogno conosciuto. Ora sappiate che la parola di Dio (3a) produce lo stesso effetto nel cuore del uomo: voi avete notato il volto di Abba Walde Mariam, molto agitato nel sentire certe mie sentenze, e quasi temevate che non facesse qualche scappatina impolita o scandalosa; ebbene sappiate che io ne ho argomentato tutt’altro: Segno, dissi, che il povero peccatore non è stato insensibile, e che la medicina l’ha toccato sul vivo; una mia predizione ebbene sappiate, che, se Iddio non ha ancora abbandonato questo uomo per un’abuso straordinario di grazie, come spero, perché è un cuore ancora vergine che nulla ha sentito, voi lo vedrete immancabilmente convertito.

Rivolto quindi a Deftera Sahelie, le prime volte che tu sei venuto da me, sia in Liccèe, che a Gilogov, non eri anche tu un mezzo energumeno al sentire da me certe spiegazioni [p. 708] contrarie alle vostre tradizioni abissine, oppure copte? mio caro, in ciò vi sono tre cose da distinguersi: altro sentire, altro rissentirsi Sentire è un’operazione naturale al cuore sensibile e delicato: chi sente è vivo, chi non sente è morto: un cuore [cuore] insensibile è la sua morte morale. Ma altro è sentire semplicemente, altro è risentirsi; questo nel caso nostro morale significa rifiuto, e stando nella similitudine della medicina che fa vomitare, il sentirsi male dopo averla presa, è un segnale evidente che è stato da essa scosso l’organo digestivo e vita- /270/ le, e che ha incomminciata la sua operazione, la quale finisce col caciare da se la causa del male vomitando. azione della grazia Così la parola di [di] Dio che arriva sopra un cuore dominato [dominato] da passioni, il sentirsi punto dalla parola è buon segno, cioè segno che incommincia l’operazione della grazia, la quale deve concorrere per la parte sua meritoria, e sopranaturale; questa è necessaria per elevare l’operazione al dissopra della semplice sua natura materiale; questa è la terza cosa che bisogna ancora riconoscere nel caso nostro; quella cioè che nel linguagio spirituale e mistico, sogliamo chiamare operazione dello Spirito Santo, la quale non distrugge l’atto naturale, ma lo perfeziona, e gli impone un carattere, per il quale diventa un’operazione cristiana che piace a Dio, epperciò meritoria.

Ciò posto, caro mio, io non mi spavento di un cuore che sente la puntura della parola di Dio; all’opposto mi spavento quando veggo che non la sente, cioè la sente materialmente, ma non spiritualmente, e nel sentirla, o la disprezza ridendone, oppure la rigetta con un risentimento da nemico; è segno allora dell’abbandono di Dio. [p. 709] Segno cioè che Iddio, veduta la non curanza, oppure il formale disprezzo delle sue grazie, non solo interne, le quali agiscono immediatamente sopra il cuore e sopra la mente del peccatore dolcemente movendolo ed illuminandolo, ma ancora esterne, come la parola che suona all’orecchio, e l’esempio che gli parla agli occhi; Iddio, in cui la misericordia e la verità, la giustizia e la pace con ammirabile armonia guidano i destini del uomo suole allontanarsi dal peccatore, sottraendo da lui certe grazie, o per punirlo, oppure per risparmiargli nuovi peccati. effetti mirabili di essa Ora il nostro Abba Walde Mariam ha sentito, forze la prima volta in vita sua, la voce del Signore, si è trovato punto nel suo modo di pensare, e nelle sue abitudini inveterate, ma non ha dato segni ostili alla grazia che l’ha toccato nel vivo; egli perciò non mancherà di ritornare, e vi ritornerà tante volte, che alla fine si dichiarerà vinto, e si metterà nelle mani di Dio. Caro Deftera mio, tu lo vedrai. Difatti la storia fu lunga, ma [Walde Mariam] non lasciò più di venire di quando in quando, come non lasciò di trasformarsi a misura che prendeva piede la grazia, ed [in] meno di due anni sentì il bisogno si lasciare la grotta per restarsene con noi, ed alla fine passare alle nozze cattoliche della cena eucaristica.


(1a) In Scioha si usa [di] fare salami, però con carne di bove, perché il majale è un’animale immondo. Come già è stato notato l’Abissinia cristiana ha molti usi mosaici. [Torna al testo ]

(2a) I custodi delle mandre per provare la morte di qualche animale, usano [di] portare la pelle al padrone. Se l’animale è un’asino, oppure [un] cavallo, usano [di] portare la coda, perché gli animali cavallini si lasciano ai corvi colla pelle. [Torna al testo ]

(1b) Questa parola Gaddam ha diverso senso; qualche volta significa convento di monaci; qualche altra volta significa semplicemente luogo d’immunità; significato che dinota [la] esistenza di [un] antico convento che godeva [di] immunità. Qualche volta la stes[sa] parola vuol dire anche Città, perché ebbe origine da un convento, e mantenne il privilegio dell’immunità. [Torna al testo ]

(1c) L’emetico è stata in Abissinia la medicina più simpatica a quel paese; con questa io feci delle grandi cure. L’abissino è potente nel soffrire la fame, e nel mangiare, se ne trova: egli per lo lo [più] ha sempre un capitale d’indigestione. [Torna al testo ]

(2b) La parola cuore detto leb ha molti significati, esso significa cuore, nel senso medesimo nostro, cioè [come] sia come organo centrale delle affezioni, e sia ancora meno propriamente delle sensazioni. Egli vuole anche dire stommaco, come centro digestivo, e generalmente di tutte le operazioni interne. [Torna al testo ]

(3a) Parola kal ha anche molti significati: significa idea, significa termine esterno di essa, significa fatto, significa anche ordine, o altro. È questa una proprietà delle lingue semitiche e primitive. [Torna al testo ]