/73/

7.
Ras Darghiè vincitore di Derrà:
festeggiamenti in Liccè.

trionfo di Ras Derghé a Derrà
[mag. 1878]
Arrivò in quel momento una gran notizia che diede un colpo alla leva. Ras Derghé zio del Re Menilik, che sopra abbiamo detto partito per Derra, egli aveva soggiogato quella fortezza, e [ne] era divenuto il padrone di tutto quel principato. Ras Derghé antico patrono di Devra Libanos (2a), dove si erano rifugiati tutti i monaci di quel santuario, quell’unico che non volle riconoscere l’imperatore, [p. 965] e la pace fatta con Menilik, egli d’accordo con Ras Govana, [dicevano,] aspettano il motto d’ordine per venire; il Re Menilik senza cannoni e senza fucili, continuavano, con gran regali, e colle sue belle maniere ha finita la causa, e tutti i figli di Dioscoro dovranno confessare le due nature [in Gesù Cristo] e dichiararsi figli di Devra Libanos. finzioni dei nemici del re Ora in un paese, dove si vive di notizie, dove il viandante che passa suole interrogarsi, cosa si dice? egli racconta, passa, e se ne va senza obbigazione di responsabilità; in un paese, dove la sera, mangiata la poca cena, nel circolo del focolare si raccontano le notizie del giorno, come la chiusa della giornata, e nessuno è obligato a provare il detto, quale rimedio [si oppone] alla corrente? Il fatto di Derrà non era una notizia volante, ma un vero trionfo stato celebrato nelle due corti dai due principi.

Giovanni publica i commizii
[apr. 1878]
In questo stato di cose, l’imperatore medesimo studiò un mezzo termine: di concerto col Re Menilik, l’imperatore fece publicare i comizii generali di tutto l’impero frà cinque mesi per giudicare le questioni religiose. Il Re Menilik per parte sua fece publicare il bisogno imponente di partire al più presto per Scioa, dove tutto il paese suo si trovava in gran feste in favore del suo zio Ras Derghé, e dove era aspettato in /74/ Liccèe per ricevere il suo zio trionfante ed i principi di Derrà prigionieri. si cangia l’apparato delle notizie Queste publicazioni cangiarono il dramma nel teatro delle notizie: per una parte quasi tutto il campo ancora in feste, e stato regalato dai due principi, e che sperava ancora di aggiungere, fù molto [p. 966] [fù molto] contrariato nel sentire che il Re Menilik tutto all’improvviso dovette risolvere di lasciare il campo imperiale per ritornarsene in Scioa, dove era aspettato per [le] nuove feste [riservate] al suo zio vincitore di Derrà. Per altra parte poi tutti i partiti religiosi rimasero sul momento come avvolti da una nube che troncava bruscamente tutti i fili e le tele ordite contro il Re Menilik, il quale se ne partiva glorioso frà un mare di evviva, da tutti desiderato ed amato. In materia poi di partito religioso la nube era talmente oscura da lasciare a tutti di che sperare e di che temere. Frattanto il ritardo dei commizii religiosi a cinque mesi seppeliva nel più profondo oblio ogni cabala antica, ed apriva un periodo di tregua per dar tempo a tesserne delle nuove. Così suole arrivare al mondo che si pasce di notizie e di giornali. Due cose sole hanno del positivo in questo gran commercio di parole, l’utile materiale e passeggiero di chi le sparge, e quindi il più importante[:] quello di concentrare le idee e l’imaginazione del publico ozioso sopra un punto aereo ed insussistente, per lasciare libero il passo a chi ha le chiavi dello scacco politico per trattenere il publico, per meglio guardarsene, e per eseguire più franco il suo giuoco e la sua operazione in diplomazia.

Menilik lascia il campo Frattanto in due altri giorni di convitto e di feste, ebbero tempo ad intendersi, e comprendersi frà loro l’imperatore ed il Re Menilik negli affari che essi soli sapevano, e congedatosi quest’ultimo dal primo se ne partiva frà le acclamazioni più grandi ancora di quelle colle quali era stato ricevuto, e se ne partiva salutato dal cannone, ed accompagnato da una gran moltitudine di amici e [di persone] riconoscenti che vollero goderlo ancora [p. 967] sino agli ultimi confini del campo. malinconia nel campo imperiale Partito che fu il Re Menilik il campo dell’imperatore diventò una vera solitudine, dove vi regna la più cupa malinconia, mi diceva un’impiegato del Re, incaricato di raccogliere le ultime reliquie della carovana, e che dovette fermarsi ancora qualche giorno di più. Finiti i miei affari, essendomi recato dall’imperatore per congedarmi, ho trovato là alcuni giovani della regina Bafana con Masciascià Workie alla loro testa, i quali instavano per avere una risposta [da riferire] alla loro padrona, ma l’imperatore rispose loro che tutto era fatto, e lasciato nelle mani del Re Menilik, e che perciò potevano partire e procurare di raggiungere la carovana del Re. Masciascià Workie che portava la parola dell’imperatore, era molto disgustato. Fin quì sono tutte parole del suddetto mio /75/ amico. Si vede da ciò che l’affare di Bafana era un’affare morto, e che l’imperatore ne era anche egli stanco. Io lasciava il campo imperiale, mi aggiungeva il suddetto, che si stavavano facendo i preparativi di partenza per Devra Tabor.

Menilik arriva a Warra ilù Il Re Menilik nel suo ritorno da Magdala prese la via sud-ovest per recarsi a Warra Ilù, invece della via Sud-Est che aveva fatto andando. Il suo gran codazzo di schiavi e di portatori era già partito molti giorni prima, appena fu libero; la sua carovana perciò, come più piccola e scarica, poté correre di più. In tre giorni ha potuto attraversare il paese dei Wollo, ricevuto dovunque con grandi ovazioni e feste nel suo passaggio. In Warra Ilù lo aspettavano molti venuti da Derrà, e lo aspettava anche là Ras Govana con una parte della sua armata. Erano stati fatti in Warra Ilù dei preparativi per la sua [p. 968] venuta, e dovette restarvi due giorni in feste. storia della guerra di Derrà
[mag. 1878]
Ricevute le ovazioni di quella sua città e popolazioni che dà più di un’anno non [lo] avevano più veduto, il Re Menilik volle sentire la storia della presa di Derrà. Appena arrivati a Derrà [egli mi disse] trovammo quel paese distrutto dall’armata imperiale. Una parte del popolo era stata fatta schiava, ed il rimanente si trovava ancora in pieno disordine e nell’estrema miseria. I Signori di Derrà colla loro piccola armata si erano rifugiati nella fortezza, dove solamente si trovavano ancore provviste in quantità. Il Ras nostro Signore, senza perdere tempo ordinò che fosse assediata la fortezza; si fecero alcuni attacchi in diversi luoghi, e [gli assediati] si diffesero colla massima energia. ingresso [di degiasmac Bescià] nella fortezza Dopo due giorni di battaglie con poco risultato, il Ras chiamò a consiglio tutti i suoi capi, e fù conchiuso un solo attacco nel luogo più debole: l’attacco era vivissimo[:] ci siamo battuti la mattina con qualche vantaggio: dalle due parti vi furono delle perdite; a mezzo giorno si ottenne una brecia, e l’armata poté entrare nel primo recinto; eravamo frà i cadaveri, e quando era vicina la seconda brecia per entrare il [nel] secondo recinto, allora i nemici domandarono di capitolare.

presa di possesso Fatta la capitolazione, cessarono le ostilità; entrò trionfante il Ras a prenderne il possesso; fecero la consegna delle armi e di tutte le munizioni da guerra[;] furono legati alcuni capi, i meno pacifici, e posti in custodia i Signori, i nostri, guidati dall’antico [p. 969] custode della fortezza passarono in revista tutte le diverse officine, e ricevettero la consegna e le chiavi di tutte le porte e di tutti i magazzini. L’indomani i Signori della fortezza colla maggior parte dei capi furono mandati prigionieri a Marabietiè. liberalità, ed ordini o leggi Il Ras nostro Signore intanto fece distribuire alcune provviste non solo ai soldati, ma ancora a tutti i contadini più biso- /76/ gnosi, e promulgò la legge che ciascheduno rientrasse nelle sue proprietà e diritti; raccomandò a tutti il buon ordine, e ristabilì quasi tutti i capi dei villaggi, ingiungendo loro di osservare tutte le antiche leggi del paese. Ordinò che tutti i coloni rientrassero nei loro diritti, non esclusi quelli dei Signori antichi, potendo essere che il Re Menilik, vero padrone, ristituisse loro tutti i loro dominii. Si lavorò subito indefessamente a riparare la fortezza in tutti i guasti fatti dalla guerra. Ordinò che i musulmani sepelissero le loro vittime di musulmani secondo i loro usi, e che i soldati cristiani morti fossero sepolti dai cristiani in luogo a parte. Così finì il racconto della storia di Derrà, e tutto finì con ovazioni a Ras Derghè.

Menilik in Warra Ilù, in Ennawari, in Haman. Il Re Menilik passò due giorni in feste a Warra ilù invitando tutti i suoi antichi servi fedeli e distribuendo anche loro regali. Congedati i messaggieri di Derrà, e spedite alcune lettere di congratulazione al suo zio Ras Derghé, il Re lasciò Warra Ilù e prese la via diretta per Ennawari, dove pure passò un giorno in quella sua città o fortezza, e di là partì per Haman, dove pure fece sosta [p. 970] perché aveva là incontrato una certa parentela secreta con quella famiglia (1a) L’indomani era il giorno fisso, nel quale il Re doveva fare il suo ingresso a Liccèe; là già erano radunate tutte le truppe per il ricevimento, e là già erano in ordine tutti i preparativi per il banchetto. Di buon mattino perciò, lasciato Hamàn appena sortito il sole, alle otto passava il fiume Ciaccia, ed alle nove già si trovava in Angololà, dove lo aspettava Ato Naddò, colui che gli fece sempre da Padre nella sua gioventù, il quale gli teneva preparata una collazione solenne. Terminato il rinfresco lasciò Angololà prima ancora delle dieci, e prima di mezzo giorno visitava la Chiesa di Devra Bran, dove lo stava aspettando tutta la sua truppa particolare, con tutto l’apparato detto del nagarit. (2b) Fu ricevuto in Devra Bran collo sparo dei fucili, ed a[l] suono dei tamburri reali. Fu al sortire dal recinto della Chiesa di Devra Bran che il Re Menilik, alla presenza di tutti disse: Sentite, Devra Bran è stata sempre la città favorita dei miei Padri, e da quì un’anno cesserà la città di Liccèe, e sarà in suo luogo Devra Bran [la capitale]. Da questo momento tutti i terreni dell’antico /77/ recinto della città stati ceduti ad altri, devono rientrare a me. (3a) arrivo del re a Liccè
[4.7.1878]
Ciò detto, a suon di trombe, ed al battere del nagarit il Re si avviò verso la città di Liccèe, dove arrivò in venti minuti, e fù ricevuto collo sparo dei cannoni, e dei fucili di tutta la truppa.

[dal 15.7.1878 il re trascorre in Ankober la stagione delle piogge senza incontrare M.
Prob. udienza 4-15.7.1878]
Il mio lettore per formarsi un’idea della crisi che produsse in tutto il regno di Scioa l’improvviso arrivo del Re Menilik dal campo imperiale al suo paese sano e salvo, non deve dimenticare tutto ciò che è stato detto, prima ancora che egli partisse sopra le difficoltà da lui incontrate, per le notizie, che precedettero (il seguito [a] Pag. 1. vol. 5:) [p. 1] [che precedettero], e per tutto ciò che si disse in seguito. Prima ancora che il Re partisse, essendo io ritornato alla mie occupazioni di Fekerie Ghemb, e di Escia, stando a quanto si diceva, la sua partenza doveva dirsi a preferenza una finzione. In seguito poi, sappiamo quanto non si disse nel campo medesimo, dove le stesse generosità sue, e le stesse ovazioni del campo imperiale, dal partito nemico erano prese come capi d’accusa. Ora al sentirsi in Scioa tante notizie pro e contro del povero Re Menilik, era per noi una continua agitazione. Fino agli ultimi giorni, quando il Re era già in via di ritorno trionfante, ancora non era creduto da noi, ed in Scioa si diceva piuttosto una finta. Quando si seppe l’arrivo del nostro Re in Warra Ilù, allora solamente riposò il cuore dei [dei] regnicoli di Scioa. grandi feste nel regno [per l’incoronazione di Menelik e il trionfo di ras Darghiè; 13.10.1878] Arrivarono dunque a noi due notizie come improvvise, quella dei trionfi di Ras Derghè in Derrà, e poscia l’altra[:] quella dell’arrivo dello stesso nostro Re trionfante sul cuore dell’imperatore. Da ciò argomenti il mio lettore le feste sincere che si stavano preparando in Liccè. Quando il Re partiva per il campo imperiale, aveva lasciato due piaghe, una era quella di aver spogliato la sua casa ed il suo paese per pagare il tributo; l’altra era quella di esporre la sua persona stessa al pericolo. Il suo arrivo improvviso, e l’annunzio dei trionfi di Ras Derghè in Derrà, hanno guarito le due piaghe.

contentezza e liberalità nel popolo Le case del re di Liccè e di Ankober state spogliate dal tributo non erano in stato di fare gran sfarzo di feste: ciò non ostante il paese di Scioa era abbastanza felice per il ritorno del suo Re, e per i trionfi della dinastia reale [p. 2] che non avrebbe mancato di contribuire. Di fatti, appena Ato Waldeghiorghis si fece sentire per il bisogno dei preparativi, la sola provincia vicina di Tegulet rispose subito ad Ato Walde /78/ Ghiorghis, che per la tavola essa [ci] avrebbe pensato, ed appena arrivato il Re innondò di pane e di birra. Dalle altre provincie poi arrivò miele e carne in quantità. Gli stessi musulmani vollero far vedere la loro generosità. Anche la nostra missione, la quale aveva provato grandi agitazioni e timori per i temuti cangiamenti politici, in tutto il tempo che il Re fù lontano, e che era stata come il bersaglio secreto delle chiacchiare dei nemici, godette una tregua, provisoria bensì, ma sufficiente per incoraggire tutto il nostro mondo. Più di tutti poi i figli dell’abuna Tekla Haj̈manot di Devra Libanos viddero un momento di trionfo, non tanto per l’arrivo del Re, quanto per la vittoria riportata da Ras Derghé loro patrono, e per la caduta apparente di Bafana presso l’imperatore Giovanni.

il re mi chiama a Liccè
[inizio ott. 1878]
Crebbe poi a dismisura il contento non solo dei nostri cattolici, ma di quasi tutto il paese di Scioa, quasi nella sua totalità figlio di Abuna Tekla Haj̈manot, ed appartenente alla fede di Devra Libanos; in conseguenza presero parte a questo contento quasi tutti i grandi del regno, quando il Re, passato appena un giorno di riposo dopo il suo arrivo, con gran premura mi spediva un cavaliere con lettera, colla quale mi chiamava a Liccè. Tutti allora si aspettavano che il Re con me avrebbe aperto il gran libro misterioso, tenuto secreto agli stessi suoi più fidi, [p. 3] [del]le secrete conversazioni avute da lui coll’imperatore Giovanni. mi costrinsero a partire Tutti i nostri erano talmente dominati da una tale persuasione, che non mi lasciarono più vivere, e mi trovai come costretto [ad] interrompere bruscamente tutte le serie occupazioni mie, per partire quasi sull’istante alla volta di Liccè, come feci subito l’indomani di buon mattino. Sortire dalla fortezza, discendere al torrente, e salire la vetta opposta di Emmavret e di Condì, per me, solito [a] fare tutti quei precipizii a piedi, mi [ci] volle tutta la mattina sino a mezzo giorno. pranzo al fiume Passata la Chiesa e la città di Condì, ed arrivati con pena al piccolo torrente che discende d[a] Gurrabela, eravamo seduti per prendere un poco di ristoro, quando non molto lontani ci venivano incontro alcuni a cavallo di muli, i quali erano partiti la mattina di Liccè: presto, dicevano, perché il Re lo aspetta, e gli occhj di tutti sono rivolti a Lei; essi mi facevano premura, e volevano ad ogni costo che io montassi il loro mulo per fare più presto. E forze il Re che vi ha mandato? dissi loro. No, risposero, ma è l’opinione ed il cuore di tutti che ci obligò a venire. Cari miei, risposi io, voi siete sempre in corte, e non conoscete l’uso di corte; in corte non si corre mai, e si va sempre adaggio per aver tempo di respirare; altrimenti si fanno delle cadute irreparabili; in corte ciò che si cerca non si vuole, e ciò che si vuole non si cerca, ma si attende che venga.

/79/ Come però era già abbastanza tardi, ed io bramava di arrivare per tempo ho voluto acettare il partito offertomi di fare qualche pezzo [di strada] a mulo; quei giovani, appena mi viddero a cavallo del mulo, sapevano con tanto garbo spronarlo per farlo correre (1b) che essi avevano [a] che fare per tenermi il passo a galoppo. Io ho potuto resistere poco più di mezz’ora, che mi sentiva stanco e bramava [p. 4] discendere, ma essi non mi ascoltarono, e mi obligarono a continuare qualche ora in modo che si fece molto viaggio, forze più della metà, per arrivare a Liccè. Nei miei viaggi non amava di andare a cavallo, ma la persona di gran rispetto non può andare a piedi senza obligare anche gli altri a discendere, essendo questa [l’]educazione del paese. Disceso io, discesero tutti, e continuammo tutti a piedi; così, secondo il mio solito, ho potuto utilizzare il mio viaggio con qualche trattenimento religioso, oppure scientifico sino alle vicinanze di Liccè, dove molti altri si aggiunsero venutimi all’incontro. arrivo a Liccè
[11.10.1878]
Così siamo arrivati alla città reale a tempo per prendere possesso della casa, e per ricevere ancora molte visite di amici. Ho mandato a salutare il Re, il quale mi spedì subito il solito trattamento.

conversazioni con ato Welde ghiorghis Ho passato la sera con Ato Waldeghiorghis, il quale mi raccontò molte cose utili, fra le altre, l’affare di Devra Bran, già raccontato sopra: i lavori della nuova città dovevano subito incomminciarsi; il terreno della missione già era stato preso, e tutti gli animali nostri già col loro guardiano, erano passati ad altri pascoli vicini del Re. voi vedrete, mi disse, che alla fine una parte dei vostri beni passerà provisoriamente nelle mani del famoso frammassone, l’autore di tutte queste novità. L’indomani mattina io mi trovava preso da una lombaggine da non poter restare in piedi, effetto della stanchezza e della cavalcatura, a cui io non era molto accostumato, ma il Re era impaziente di vedermi, e fu forza di andare alla corte. mi trovo col re.
suoi racconti
Il Re mi ricevette con tutta la sua solita cortesia, ma in presenza di molta [p. 5] gente, impaziente di raccontarmi la storia del suo ricevimento al campo imperiale, e quella delle publiche feste ricevute, ma [non svelò] nessun mistero secreto: anzi nulla mi disse dei miei regali, e dell’esito della lettera mia all’imperatore. Quando il Re fu sazio di parlare di tutte le cose indifferenti e publiche, egli stesso, e senza che io cercassi di parlare in secreto, licenziò tutta la /80/ comitiva, ed ebbe luogo una conferenza sopra le cose nostre. Prima di tutto mi parlò di Devra Bran, dicendomi essere stata una cosa accordata collo stesso imperatore la ricostruzione di quella città, portando come ragione che il suo incoronamento di Re è stato fatto col titolo di Re di Ankober e di Devra Bran. Questa determinazione, disse [il Re,] ha portato con se di riprendervi il terreno datovi; ma ciò non diminuisce la mia antica affezione, e per il pascolo degli animali vostri sarà mio impegno di pensare altrimenti; voi avete dato, e voi per una gran ragione potete prenderlo [conclusi io].

mi trovo da solo con lui Ma io [ci] teneva molto di entrare più nella sostanza delle conferenze secrete tenute coll’imperatore, per sapere l’avvenire della missione, ma il Re accondiscese sino ad un certo punto ai miei desiderii, ma con una certa riserva che poco mi soddisfece. Prima di tutto il Re mi parlò dei regali, e della lettera all’imperatore: mi disse che i regali furono molto amati, e gli fece subito portare nel suo oratorio privato, dove furono visitati ed esaminati col massimo interessamento; solamente, disse, nel nostro paese la croce si usa senza il crocifisso [p. 6] epperciò l’imperatore fece togliere l’immagine di Cristo dalla croce. una mia risposta al re Voi sapete che io conosco tutti gli usi del vostro paese, risposi io al Re, perché io sono qui in Etiopia prima di voi, e dell’imperatore Giovanni; voi mi parlate di cose, alle quali io ho già risposto le mille volte ai pochi che nel vostro paese conoscono il libro santo del vangelo. S. Paolo predicava Gesù crocifisso agli ebbrei e se ne scandalizzavano, lo predicava ai pagani, e questi gli davano del pazzo. Ora siete voi ebbrei? siete voi pagani? cosa vuole dire adunque questo vostro non voler vedere Cristo in croce? Se voi non lo sapete ve lo dirò io, e voi sentitelo da me. La croce è grande con Cristo e per Cristo, perché Cristo in Croce ha vinto il diavolo, e l’ha svergognato; il diavolo trema al solo nome di Cristo. Ora voi per far piacere al diavolo, il quale vuole comandare nel vostro paese, ed in tutti i paesi eretici e pagani, voi non volete Cristo in croce; voi non siete i soli; anche i protestanti non vogliono vedere la croce con Cristo. Poveri ignoranti che siete!

il crocifisso in Abissinia Io so già prima di voi la vostra risposta: voi dite che non amate la croce con sopra il Cristo crocifisso per l’onore di Cristo stesso, perché, come voi dite, Cristo Dio non sta bene in croce, e sarebbe un disonore per lui. Ora ditemi in grazia vostra, credete voi che Cristo è stato crocifisso in Gerusalemme per noi e per i nostri peccati? Per forza voi dovete crederlo, perché tutta quella dolorosa storia sta scritta tutta a lungo da tutti [e] quattro gli evangelisti che voi avete e [ai quali] credete. il preteso disonore Ora ditemi per fede vostra, se Cristo Dio e uomo quando ancora era in /81/ questo mondo non si è creduto disonorato nel lasciarsi crocifiggere, [p. 7] anzi egli con ciò ha creduto di onorare il mondo e di vincere il diavolo appunto lasciandosi crocifiggere e morendo, perché noi crederemo di disonorarlo adorando la sua croce col crocifisso? La croce prima ancora di Cristo crocifisso già esisteva come un’infame suplizio per i giustiziati, ed aveva nessuna forza, ed era senza onore, e tutto l’onore e tutto il suo prestigio l’ha guadagnato in Gesù crocifisso. A cosa serve la croce sola senza Gesù crocifisso, e senza la fede in lui[?]. Vi ripeto adunque che la croce senza il crocifisso [non] serve a nulla? Col crocifisso in mano io nei paesi galla ho fatto dei prodiggi, ed ho vinto il diavolo; non solo io, ma gli stessi miei discepoli galla fatti cristiani, col crocifisso in mano facevano miracoli e caciavano il diavolo. Qui con questa croce senza crocifisso [non] si fa nulla, ed il paese cristiano è ritornato al paganesimo. Avrei ancora altre ragioni ad aggiungervi, ma [ma] temerei [di] scandalizzare il vostro paese, il quale ancor crede al crocifisso ed ha molta confidenza in Lui (1c); altrimenti io vi domanderei, a cosa serve la Settimana Santa tanto venerata da voi, senza il crocifisso? A cosa serve la fede nella risurrezione senza la fede in Gesù Cristo crocifisso e morto? Adorate voi forze la croce dei due ladri crocifissi con Gesù? Forze che Gesù Cristo è risorto senza morire?

Il re risponde scusandosi A questa mia predichina il Re nulla seppe rispondere direttamente, come ognuno deve supporre. Cosa volete? rispose il Re, noi parliamo col linguagio dei deftari che hanno studiato, e col linguagio dell’uso e delle tradizioni. Io ho sempre avuto tutta la confidenza, e la fiducia nella vostra dottrina, ed ancor presentemente rispetto tutto ciò che voi mi dite. Voi non avete dimenticato ciò che ho fatto [p. 8] da principio quando è arrivato [richiesto: 5.4.1868;
esposto: 10.4.1868]
il gran crocifisso che voi tenete ancora nella cappella di Fekerie ghemb, come io l’ho fatto aggiustare, come io l’ho fatto esporre publicamente nella Chiesa del Salvatore in Ankober nel Venerdi Santo (1d); voi sapete questo e tanti altri fatti simili, e non potete dubitare del mio cuore, ma cosa volete? il Re non è sempre padrone di /82/ se, e qualche volta la pace lo strascina anche al di là di ciò che pure vorrebbe. In tutte queste sue espressioni troppo misurate, e che hanno una certa apparenza di scusa, con un certo bisogno di farsi compatire, io ho interrotto il suo discorso, e l’ho portato sul terreno di fatto più pratico. Ditemi in buona sostanza, [domandai,] l’imperatore ha gradito i miei regali? Molto, disse Menilik, ma quel crocifisso non piaque all’Ecciecchè (2c), e mi assicurarono che l’abbia fatto togliere. In quanto poi alla fede l’imperatore è indifferente, egli è disposto a dichiararsi in favore di Devralibanos, oppure dei Karra. Egli solamente sta fermo sul terreno dell’unità di fede. Egli ha deciso di convocare tutti i dotti della nostra Etiopia, se la vedranno essi, disse, in materia di fede da abbraciarsi, ma voglio che tutta l’Etiopia, non esclusi i musulmani e turchi, tutti professino una fede sola; ecco tutto detto.

si noti qui il tranello Sentito questo io non ho voluto spingere più in là le mie domande; ho lasciato cadere la questione del crocifisso, e dei miei regali; ho veduto chiaro che spuntava fuori la testa di una questione ancor più grave, quella cioè della fede, la quale avrebbe potuto prendere delle proporzioni molto gravi in politica da compromettere la pace generale di tutto il paese. Il Re Menilik nelle [p. 9] sue conferenze spirituali e secrete avute coll’imperatore è stato vinto da quelle certe espressioni, colle quali egli si dichiarava disposto di stare alla risoluzione del concilio dei dotti abissini, pronto anche a dichiararsi in favore della fede di Devra Libanos. Menilik caduto nel tranello Come imperatore si lasciò vincere o finse di lasciarsi vincere dalle generosità di Menilik; Così questi si lasciò vincere dalle belle espressioni suddette in materia religiosa, ma non stentai a vedere subito il gran tranello al Re Menilik teso. L’imperatore Giovanni, uomo di carattere calmo, ma fermo, aveva formato il suo piano d’impadronirsi del cuore del Re Menilik ad ogni costo, per riuscire nel suo piano settario in materia di fede. Avrei dovuto fare ogni sforzo per convincere il Re del pericolo evidente, a cui si era esposto, con pericolo di non riuscirvi, e più ancora di gettarmi in una lotta direttamente politica ed incendiaria troppo lontana dal mio carattere puramente apostolico. Presi quindi il partito più prudente di aspettare la Providenza, e pregare Iddio.

Stava per arrivare in Liccè Ras Derghè per le feste della presa di Derrà. Tutto il suo seguito apparteneva alla fede di Devra Libanos; dovevano /83/ venire anche con lui alcuni monaci di quel santuario, i quali si trovavano quasi tutti rifugiati presso il medesimo, dopo la visita a quel santuario dell’imperatore Giovanni già prima narrata. Io sarei stato assalito immancabilmente, non solo dai miei cattolici, ma ancor più da tutto quel partito non ancora [p. 10] cattolico, ma molto favorevole al cattolicismo, e di essere compromesso nelle conferenze politico religiose. io lascio le feste di Liccè Licenziatomi perciò dal Re, prima ancora che incomminciassero le feste della vittoria di Derrà, io ho abbandonato il campo di Menilik, e sono ritornato alle mie occupazioni di Fekeriè ghemb. Io qui non mi trattengo nel descrivere le feste che ebbero luogo in Liccè [13.10.1878] all’arrivo di Ras Derghè, come cose semplicemente militari, alle quali non ho creduto bene di assistere, anche per altri motivi sopra esposti. Anche nel caso di volerle descrivere non avrei fatto altro che ripetere ciò che già è stato detto in altre circostanze simili. Lasciati perciò a parte i trattamenti del mangiare e del bere, che a quest’ora il mio lettore può con facilità imaginarseli, noterò solo alcune circostanze speciali, le quali resero quella grande adunanza di mondo più critica e difficile.

questione dell’onor militare Prima di tutto è da notarsi la circostanza, che la campagna di Derrà è stata tentata inutilmente molte volti prima ancora del regno di Menilik, poscia parecchie volte dal Re Menilik stesso: ultimamente fu tentata dall’imperatore Giovanni nel suo ritorno dal regno di Scioa dopo la pace famosa, dopo la crisi di Devra Libanos, e dopo aver fatto gustare ad alcune provincie di quel regno il famoso pigliaggio. il volo poetico La vittoria di Ras Derghè con un’armata senza cannoni, e molto inferiore alle precedenti del Re, e dell’imperatore faceva nel publico un’eco simile a quella del pastorello Davidde sopra il gigante dei filistei, ed i canti popolari, per rilevare il valore del Ras vincitore, entravano in detagli di confronto con dare a Saulle [p. 11] mille [vinti] solamente, mentre davano dieci mille al pastorello vincitore, questione molto delicata, perché i regnanti devono sempre essere vincitori, anche quando la vittoria sarebbe [una] proprietà di un genio subalterno. Il volo poetico in simili circostanze solito a montar più [in] alto sopra tutte le altezze, illustrato da un raggio di giustizia che è Dio stesso, suole lasciare nel basso anche le grandi cime fra le nubi e fra il lezzo della mondane passioni, a saziarsi di menzogniere apparenze, fra il bujo completo delle vere richezze vero patrimonio dei figli coeredi di Cristo da lui rigenerati.

l’onore cavalleresco del re Menilik Il Re Menilik non lasciava di essere ferito nell’intimo del suo amor proprio nel dover celebrare le vittorie riportate dal suo zio Ras Derghè in Derrà, dove egli prima [era stato] vinto per [ben] due volte [e] dovette abbandonare quella fortezza; tuttavia egli se la passava ancora /84/ apparentemente glorioso, perché alla fine, quella vittoria era una gloria della sua dinastia, un’aquisto per il suo regno, una vittoria di un suo generale, e per altra parte poi in dieci anni di contatto colla missione cattolica, se non era divenuto cattolico a vantaggio dell’anima sua, non mancava di avere aquistato lumi cristiani per rendersi superiore nella perdita del suo onore militare cavalleresco, tanto più che la vittoria, era anche vittoria [anche] sua. quello dell’imperatore Non così era la questione dell’imperatore Giovanni: questi doveva sentirne molto più vivo il punto di onore, perché la vittoria di Ras Derghè in Derrà, da lui poco prima abbandonato [p. 12] toccava lui più direttamente, come imperatore armato di cannoni e di armi di precisione. Per altra parte, essendo egli lontano i slanci poetici dei celebranti contro di lui era più libero e meno riservato. Ma sopratutto era egli preso più direttamente per la gran ragione, che egli in quel momento esercitava una pressione sopra la fede di Devra Libanos, fede stata sempre sacra per il regno di Scioa, e per la dinastia di quei Re. Era questo un punto delicatissimo per il Re Menilik in facia al suo paese, perché la pace fatta da lui coll’imperatore contro il sentimento quasi universale, lo rendeva in certo modo sospetto e complice. Tutto il brio poetico dei festanti, in quel momento era per Ras Derghè, e come vittorioso di preferenza, e come fedele protettore della fede dei suoi Padri. Le cose che si dicevano di lui, il mio lettore può immaginarsele, e confesso che non sarebbe tanto facile per me il descriverle, perché esse hanno in certo modo dell’incredibile.

Ras Derghè, e suo merito
[n. c. 1830-† l900]
[rientrato in Scioa dalla prigione di Magdala: 2.5.1868]
Ras Derghè era una persona di un valore militare tale, che nel suo paese non si trovava altro eguale, ma poi era di una moralità sì politica che religiosa da renderlo modello degno d’immitazione, non solo in Abissinia, ma nella stessa nostra Europa. Egli terzo figlio del gran Re di Scioa Sela Salassie, avo del Re Menilik, epperciò suo zio, padre egli stesso di tre figli già guerrieri nell’armata del Re, e forze di una moralità politica meno schietta, professava un rispetto, ed una delicatezza tale per il maggiore della loro dinastia, cioè [p. 13] per il Re Menilik suo nipote, figlio del suo fratello Hajlù Malacot suo maggiore, oppure per l’altro suo nipote Masciascià figlio del secondo suo fratello maggiore Sciaifu, e vero erede del Re Menilik in caso di successione regolare, per mancanza di figli maschi, che, in caso di pretenzione irregolare, egli si sarebbe certamente battuto coi suoi proprii figli medesimi, per sostenere il suo legittimo Re.


(2a) Ras Derghé in verità non si trovò nella circostanza della pace conchiusa tra Menilik e Giovanni, perché da alcune settimane era ammalato e teneva il letto. Quando fugirono i monaci da Devra Libanos una gran parte si ripararono in casa di Ras Derghé, come antico patrono di quel santuario. [Torna al testo ]

(1a) [20.5.-30.7.1877] Quando la regina Bafana si trovava in rivolta sopra la fortezza di Tammo, allora il Re aveva contratto qualche obbigazione con una figlia ancora nubile di Ras Govana, la quale ebbe qualche relazione col Re; ma ritornata Bafana, la figlia ritornò al suo Padre, perché precedentemente si riconobbe desiderata come sposa da altri amici del Re. [Torna al testo ]

(2b) Il Nagarit [consiste] in una quantità di tamburri di diverso calibro, i quali si battono con una certa armonia. E questo in Etiopia un distintivi di principe indipendente. Questo onore è stato accordato dal Re Menilik a Ras Govana, ed a Ras Derghè. [Torna al testo ]

(3a) In virtù delle citate parole del Re la missione perdette i terreni e pascoli di Devra Bran. Le parole suddette del Re furono sentite molto tempo prima dalla bocca di Masciascià Workiè detto il frammassone; quindi Ato Waldeghiorghis le sentì dalla bocca dell’imperatore Giovanni prima della pace col Re. È stato questo il primo colpo tirato contro la missione cattolica. [Torna al testo ]

(1b) Il mulo abissino educato [non] galoppa mai, ma è classico per il suo passo detto sagar, cioè passo dell’asino, conosciuto in oriente. Gli abissini che fanno da paggio gli tengono dietro, e posseggono un secreto per farlo correre: con uno stimolo lo pungono nel luogo più sensibile, cosa che da all’animale una gran vivacità ed accortezza; prende un passo equivalente al galoppo, ma dolce. [Torna al testo ]

(1c) Bisogna confessare che i popoli non solo abissinesi, ma anche levantini, hanno conservato e conservano tutta la loro fede in Gesù crocifisso, e ne sentono parlare anche molto con piacere. Bisogna perciò convenire, che l’uso della semplice croce senza crocifisso è una pura invenzione del diavolo per allontanare l’idea di Gesù crocifisso, anche come maestro docente. Con ciò il diavolo indebolisce la fede nel mistero della croce, ma più ancora ne distrugge la dottrina che contiene sopra la mortificazione della carne. [Torna al testo ]

(1d) Tutto vero ciò che dice quì il Re Menilik, ed io aggiungo ancora, che egli stesso andò publicamente a fare l’adorazione del crocifisso suddetto. Qualche anno dopo lo stesso crocifisso fù portato in processione in Fekerie ghemb nella gran festa di San Giorgio con gran entusiasmo del popolo, del che il Re mi fece gran complimenti per lettera. [Torna al testo ]

(2c) Questo Ecciecchè è l’abbate generale di tutti i monaci abissini. Prima di essere tale era un semplice eremita di nome Teofilo uomo metà copto di nascita. Per avere profetizzato l’impero a Giovanni, allora [Besbes] Kassà, fu da lui sollevato alla prima dignità ecclesiastica, ed oggi [è] il più ricco di tutti; questi come indovino domina l’imperatore Giovanni. [Torna al testo ]