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Fregio

Capo XIV.
Pel Goggiàm.

Memorie Vol. 1° Cap. 13 e Cap. 14.
Novembre 1849 - primi mesi del 1850
Goggiàm

1. Entrata nel Goggiàm. — 2. Grida di contadini contro soldati devastatori. — 3. Bello altipiano; arrivo a Dembecià. — 4. Un parto per istrada. — 5. Un leopardo accostumato al sangue umano. — 6. Le jene e i budda nel Goggiàm. — 7. Il santuario di Devra-Work. — 8. Giovanni Bell, avvertimenti per la visita al Râs. — 9. Campo di Râs Aly. — 10. Ritratto di Râs Aly e del suo Confessore. — 11. Buona indole di Râs Aly. — 12. Religione di Râs Aly. — 13. Mio passaggio al campo del signor Bell. — 14. Fede del Goggiàm. — 15. Origine e causa di tali sètte. — 16. Un caso pratico su tale questione. — 17. Domande fattemi da Râs Aly. — 18. Chiesa e festa di Dima Ghiorghis. — 19. I Defteri ed i preti in funzione. — 20. Ritorno al campo. — 21. Giudizio e condanna dell’uccisore della moglie. — 22. Il bene ed il male della legge del taglione. — 23. La fortezza di Tsomma; morte dell’Eccecchè Matantò. — 24. Assalto di Tsomma; morte di un fratello di Berrù. — 25. Vista dei paesi galla, notizie del P. Felicissimo. — 26. Bellissima proposta di Râs Aly alla Francia. — 27. Si risolve la mia partenza; Râs Aly e Bell apparecchiano lettere. — 28. La scimmia sfugge la prima condanna, non la seconda. — 29. Due parole all’uomo-scimmia. — 30. Partenza dal campo di Râs Aly. — 31. Vantaggi igienici degli avoltoj e delle jene in Abissinia. — 32. La giovane, che vendicò la madre, celebrata nei canti popolari. — 33. Da Devra-Work a Nazaret. — 34. Da Nazaret a Mota. — 35. Modo singolare di passare il fiume.

Capolettera I

In Abissinia non si usa dormire vicino ai grandi fiumi, perchè generalmente sviluppandovisi miasmi, è ben facile prendervi le febbri. Noi quindi, passato il Nilo ed entrati nel Goggiàm, ci affrettammo ad allontanarci da quella valle. Cento metri eravamo discesi per giungere al letto del fiume, ed altri cento bisognava salirne per uscire. La strada però era migliore, e la salita più comoda, passando per collinette, poggi e verdi ripiani. Il paese, dove entravamo, si chiamava Meccia, provincia del Damòt, nella parte orientale del Goggiàm, il quale in quel tempo era /132/ governato da Degiace Gosciò-Zaudiè, l’amico di Arnoldo d’Abbadie, fratello del nostro signor Antonio. A mano a mano che andavamo salendo, cominciavano ad apparire chiesuole e villaggi; perocchè, come già notammo altrove, i luoghi più alpestri e scoscesi sono scelti per piantarvi abitazioni; laddove i piani, essendo sovente campi di guerra, rimangono deserti.

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2. La sera verso le quattro si arrivò in una pianura, dove trovavasi acqua, erba ed alcuni terreni coltivati. Lì si fece sosta, e si piantò il campo dirimpetto ad una chiesa chiamata Devra-Neghest (1). Eravamo sulla fine di Novembre, stagione in cui le fave son ancor tenere e fresche; e quella massa di gente, appena finito il solito lavoro di formazione del campo, si gettò in mezzo a quelle fave, ed in breve ora ne fece piazza pulita. I poveri contadini ebbero bel gridare: pietà e compassione; il nostro Ghebrù-Uandiè, occupato con monacale gravità nella recita del suo Salterio, non poteva ascoltare le grida di quegli sventurati, che le avevano seminate!

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3. Il dì appresso verso mezzogiorno arrivammo ad un vasto altipiano, donde a sinistra (Sud-Est) si estendeva il Goggiàm orientale, che è il Goggiàm propriamente detto; ed a destra (Sud-Ovest) il Damòt. Che bel paese! Sì a destra come a sinistra si presentava uno spazio almeno di quindici leghe, tutto piano e leggermente ondulato di colline, coperte di verdura e di ogni sorta di mimose, di acacie e di altre specie di alberi e piante. Il Damòt apparteneva a Degiace Gosciò-Zaudiè, ed il Goggiàm a Berrù-Gosciò suo figlio. Ivi aveva piantato il campo Râs Aly, per combattere Berrù-Gosciò, che eraglisi ribellato. Ed il padre Degiace Gosciò-Zaudiè, essendo in pace col detto Râs, necessariamente doveva combattere con lui, e quindi contro suo figlio.

Noi intanto, diretti al campo di Râs Aly, dovevamo prendere la sinistra per recarci nel Goggiàm orientale, e camminare ancora altri quattro giorni per giungervi. Il dì appresso pertanto verso sera si arrivò a Dembecià, capoluogo del Damòt, e gran santuario dedicato a S. Michele, pel quale gli Abissini hanno una venerazione particolare. Questa città, come tante altre simili, sembra una fortezza, ed è un luogo di rifugio, perchè gode il privilegio dell’immunità. Fuori di questi santuarj, in tutto quel gran piano del Goggiàm e del Damòt, non si trovavano allora altri villaggi.

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4. Lungo quest’ultimo viaggio ci accadde vedere un fatto, non nuovo /133/ in sè stesso per le nostre parti, ma rimarchevole per le sue conseguenze. Distante da noi camminava un gruppo di donne in viaggio, cariche come bestie; e ad un tratto si fermano, si sentono voci, e si vedono tutte in faccende. Uno della nostra comitiva si stacca, per andare a vedere che cosa fosse accaduto; e ritornato, racconta che una povera donna erasi sgravata per istrada. La poveretta, sentendosi vicina al parto, voleva veramente fermarsi a Quaràta, ma costretta a continuare il viaggio, dopo essere stata alleggerita un poco dalle sue compagne del peso che portava sulle spalle, si rimise in cammino, e fatto un lungo tratto di strada, divenne felicemente madre. Dico felicemente, perchè la sera ci raccontarono che, dopo un’ora di riposo, accomodata in un canestro la sua creaturina, e toltasela sulle spalle, come se nulla fosse avvenuto, seguitò con le sue compagne il viaggio sino al campo. Qual differenza fra quelle e le donne dei nostri paesi inciviliti! Forse tra noi il clima ora freddo ed ora caldo, la varietà de’ cibi e non sempre sani, le bevande spiritose e ricercate, le storpiature della vita, ed altre delicatezze, alterando la debole costituzione delle nostre donne, rendono perciò molto difficili, e talvolta pericolosi i loro parti: laddove colà il clima sempre eguale, il nutrimento sempre semplice, e la vita laboriosa, fan sì che riesca a quelle donne così poco difficoltoso e pregiudizievole questo atto della vita umana.

“Uno della nostra comitiva si stacca...” Dalle Memorie risulta essere P. Giusto, e il racconto ha qualche piccolo particolare in più. Memorie vol. 1° Cap. 13 p. 111

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5. L’arrivo di soldati in qualche città o villaggio è sempre un cattivo augurio per quella povera gente; invece a Dembecià il nostro arrivo fu accolto con gioja da tutti. Ed eccone il motivo. Da circa due settimane in quella città mancava ogni giorno una qualche persona, divorata da qualche bestia feroce; sicchè lo spavento era generale, e nessuno osava uscir di casa. Tutta la città pregò Ghebrù-Uandiè di fermarsi qualche giorno con i suoi soldati, a fin di dar la caccia a quel molesto animale. Ed egli, per farsi un merito presso quella gente, aderì alla loro domanda. La dimani uscirono i soldati con i fucili, accompagnati da molti cittadini pure armati; e sparando di qua e di là, la povera bestia, a quelle continue fucilate, ebbe l’imprudenza di lasciare la sua tana. Appena fu veduta, le si scaricò addosso una simultanea salva di schioppettate; e tuttoché ferita mortalmente, pure ebbe la forza di slanciarsi su di uno, e renderlo malconcio. Allora, accorsi altri, con una seconda scarica la uccisero. La feroce bestia era un leopardo avvezzato al sangue umano. Questo animale, finchè non gusta il sangue dell’uomo, e non gli si dà motivo, difficilmente si avventa contro di lui; ed io stesso parecchie volte l’ho sperimentato, incontrandolo: ma guai se comincia a gustarlo! allora non vuole mangiare /134/ nè bere altro che carne e sangue umano. In città si credeva che fosse un altro animale, poichè nessuno lo aveva mai visto, ed il leopardo non si teneva in quelle parti per si avido mangiatore di uomini. Ed io, alcuni anni dopo, vidi un fatto simile in Lagàmara, dove un feroce animale si era ivi fissato a fare stragi, e proprio vicino alla casa della nostra Missione. Anche là nessuno sospettava che fosse un leopardo; ma ucciso, si trovò essere esso il molesto vicino (1). Tutta la città di Dembecià per questa vittoria fece gran festa; furono regalati alcuni bovi ai soldati, e si passarono due giorni allegramente.

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6. Finita quell’allegria, si levò il campo, e partimmo pel Goggiàm orientale, camminando ancora tre giorni per comodissime strade. In questi giorni nulla ci accadde di notevole, se non che la sera, appena si faceva notte, cominciava una musica si poco piacevole, che anche c’impediva di prender sonno. Erano gli urli spaventevoli, mandati da una gran quantità di jene. Questo animale s’incontra frequente nell’Abissinia; ma il Goggiàm può dirsi propriamente il suo paese. Esso è pauroso, nè mai si avventa contro l’uomo; assale di preferenza gli asini ed i muli, onde i viaggiatori, nelle fermate, han cura di metterli al riparo, e tenerli sempre in vista. Rispetto alla Jena, si hanno in tutta l’Abissinia strani pregiudizi, anzi superstizioni. Si crede che essa sia un budda, (là budda significa strega o maliarda) e si raccontano molte storielle ridicole a questo proposito. Per l’abbondanza poi che di questi animali vi è nel Goggiàm, i popoli che abitano quelle regioni son tenuti in tutta l’Abissinia per budda, ossia stregoni (2).

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7. Traversato quel delizioso altipiano, sparso di numeroso bestiame, gettato lì a pascolare, arrivammo in vicinanza di Devra-Work. dove, non molto lontano stava accampato Râs Aly. Essendosi fatta sera, e non /135/ volendo entrare nel campo in ora insolita, ci fermammo lì: e mentre si attendeva alla solita formazione del campo, noi andammo a visitare la città. Devra-Work è una collina rotonda, in cima della quale sorge il santuario, e tutto all’intorno, fin quasi al piano, si stende la città. Visitata la chiesa, che è una delle più belle del paese, alcuni inservienti vollero presentarci all’Alaka. Era questi il Superiore della chiesa ed il Capo di tutta quella casta sacerdotale, che in simili santuarj suol essere numerosissima. Anziché ad un prete, questa dignità si dava ad un Deftera, e stava nelle sue mani tanto il governo ecclesiastico quanto quello civile. Introdotti pertanto nella sua casa, ci ricevette in un cortile, seduto su di un tappeto, e dopo alcuni complimenti, fece sedere anche noi sopra pelli distese per terra. Parlando, ci mosse alcune questioni, alle quali avevamo poca voglia di rispondere, sia per la loro futilità, sia perchè non possedevamo ancora bene la lingua. Poscia ci domandò se nei nostri paesi vi fossero chiese belle come la sua. — No, rispondemmo, nemmeno a Roma! — E potevamo dirlo senza bugia; perchè sebbene quella fosse una delle più belle del paese, tuttavia era sempre un capannone coperto di paglia.

Panorama di Quarata
Ritratto di Ras Aly.

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8. Râs Aly, avendo già inteso il nostro arrivo a Devra-Work, la mattina seguente ci mandò incontro il signor Giovanni Bell, maltese. Questi, /136/ nato da madre cattolica e da padre protestante, era di fede anfibia, e per soprappiù un po’ guastato in un collegio protestante, dove aveva ricevuto la prima educazione. Tuttavia mostravasi affezionato ai cattolici, come generalmente tutti i Maltesi. Egli venne a portarci i saluti di Râs Aly, dicendo che era impaziente di vederci: e tosto noi, lasciato il campo, partimmo con lui. Strada facendo, ci diede molti amichevoli avvertimenti rispetto alla maniera di trattare col Râs. Fra le altre cose, mi disse: — Se egli le farà domande su i nostri Re d’Europa, si guardi dal rispondere che sieno più grandi e più potenti di lui. — Mi avvertì pure che, essendo morto un suo grande amico, alcuni gli avevano dato ad intendere che un Vescovo avrebbe potuto risuscitarlo; quindi stèssi apparecchiato, poichè senza meno mi avrebbe domandato questo favore, quando fosse venuto a conoscere che io era Vescovo. Riferisco queste cose per far vedere la semplicità e l’ignoranza di quei Re, che, nella loro barbarie e rozzezza, si credevano i più grandi potenti del mondo.

Nelle Memorie conclude più semplicemente: “Riferisco ingenuamente queste cose per far conoscere la semplicità e l’ignoranza di quel principe.” Memorie Vol 1° Cap. 13 p. 114.

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9. In meno di un’ora arrivammo al gran campo del Râs, il quale si estendeva per parecchi chilometri, seminati di tende e di capanne, e suddiviso in tanti accampamenti particolari. — Quello, dicevami il Bell, è il campo di Degiace Gosciò-Zaudié; quell’altro è di Degiace Kassà, (il futuro Teodoro) principe di Dembèa; più là evvi il campo di Alygaz-Berrù, principe degli Eggiu; segue il campo di Uaksum-Ghebra-Medin ecc. — Così discorrendo, entrammo nel campo del Râs, posto nel centro. Egli già ci aspettava dentro una gran capanna di paglia, attorniata di molte altre tende e capanne, il cui insieme formava la sua Corte.

...quello è il Campo di Waksum Ghebra Medin, principe degli Agau... Memorie Vol. 1° Cap. 13 p. 114

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10. Râs Aly era in sulla quarantina: di statura ordinaria, grassotto, di forme regolari con occhio espressivo, con poca barba, e, nell’insieme, abbastanza avvenente. Amava molto i cavalli, che teneva nella stessa sua casa di ricevimento, e così anche varj altri animali, come cani, gatti, scimmie, ed era amico soprattutto dei fanciulli, i quali giravano attorno a lui senza nessuna soggezione. La sua casa presentava più semplicità e meno rigore di etichetta di quelle dei Principi suoi subalterni, ed anche nel vestito non amava particolarità e ricercatezza. Aveva anch’egli il suo Confessore, come gli altri Principi: ma a dire il vero, il Confessore dei Grandi d’Abissinia è piuttosto una persona tenuta per lusso che per altro, e si ha colà in conto di mago od indovino. Egli di fatto poco si occupa dei costumi dei suoi supposti penitenti, i quali forse non si confessano mai. Tuttavia quest’uso serve a provare il dogma della Confessione, e a far sì che il cristiano dell’Abissinia non si possa dire protestante. Ma che /137/ vale, là come in tutto l’Oriente, questo ministero è sterile, perchè l’aprimento sincero del cuore, il pentimento dei falli commessi, e tutti gli altri atti che ci ritornano nell’amicizia di Dio, sono frutti dell’insegnamento cattolico, dato da quella Chiesa, cui non è mai venuta meno la grazia dello Spirito Santo.

Ras Aly, era una persona di circa 40. anni, non molto grande, grasso ma non pingue, [di] belle fattezze, molto simpatico; la sua casa presentava molta semplicità, minore etichetta delle case dei principi suoi subalterni, uomo amico di cavalli che teneva nella stessa sua casa di ricevimento, amico di animali, come cani, gatti[,] scimmie, soprattutto amico di ragazzi, i quali gli giravano intorno senza molto temerlo (1), aveva anche egli il suo confessore, ma a dir il vero il confessore d’abissinia è piuttosto una cosa signorile che altro, è piuttosto una specie d’indovino e mezzo mago, e si occupa molto poco dei costumi essenziali dei supposti suoi penitenti, i quali forze mai si confessano, ma hanno piuttosto la missione di provare il dogma della Confessione, affinché il cristiano d’Abissinia non si possa chiamare protestante, come arriva molto anche in Oriente, essendo l’apertura del cuore al confessore frutto del ministero essenzialmente cattolico assistito dall’unzione dello Spirito Santo.

E in nota:

(1) Il povero Ras Aly sul rapporto di simili ragazzi fu molto criticato dal publico. Io ho conosciuto dei Padri di famiglia, i quali si guardavano molto gelosamente di mandare i loro figli alla corte del Ras per questa ragione. Io non ho lasciato di sgravami di un certo dovere che mi pesava, di avvertirlo; come era di un carattere molto buono, non ho che lodarmi di lui per il modo rispettoso con coi si degnò [di] ascoltarmi. Questa sua debolezza, unita alla taccia d’islamismo che gravitava sopra di lui, furono causa della sua rovina. Memorie Vol. 1° Cap. 13 p. 115 e n.

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11. La mia prima conferenza con questo Râs si raggirò sui costumi dell’Europa; poichè, per la benevolenza che portava agli Europei, discorreva volentieri delle cose nostre. Amava in modo particolare i Missionari cattolici, i quali proteggeva con verace affetto, per quanto glielo permetteva la prudenza in un paese di grande ignoranza e di non minore orgoglio. I Principi abissini sono generalmente ingordi di regali, come le loro jene, che mai si saziano; e solamente a forza di regali può l’Europeo sperare da loro qualche protezione. Râs Aly però era d’altra indole; se gli si regalava qualche cosa, la riceveva con grande cortesia, e fosse molto o poco, mostravasi sempre riconoscente: ma poi il regalo non era la misura della sua benevolenza ed amicizia, egli amava e proteggeva per sua propria inclinazione; e poichè era anche generoso, dava poscia più di quello che riceveva. Tale è il concetto che potei formarmi di quest’uomo nei due mesi, che passai presso di lui.

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12. In quanto a religione questo Principe aveva un misto di cristianesimo e d’islamismo; rispettava l’uno e l’altro, e si raccomandava tanto alle preghiere dei preti e monaci cristiani, quanto a quelle dei fakiri mussulmani. Sentiva parlar volentieri di cose spirituali, gustando più i racconti miracolosi, che i ragionamenti teologici (1). In tali conferenze io mi presi talvolta la libertà di dirgli certe cose, ai suoi pari poco piacevoli, concernenti principalmente la sua condotta esteriore, e sulla quale il pubblico non parlava molto bene; e confesso ch’egli non se ne mostrò mai offeso. Sgraziatamente, essendo un Principe di grandi affari, e, per la sua affabilità, circondato sempre di persone, era ben difficile averlo da solo a solo, per parlargli spesso e direttamente dei bisogni spirituali dell’anima sua; che in verità ci era da sperar molto per la sua conversione, e per il bene del suo regno. Io lo vedeva quasi tutti i giorni, ed egli /138/ stesso, avendo un momento libero, veniva a trovarmi: ma giammai solo; perchè, di cuore affettuoso e di animo mite, non sapeva distaccarsi dagli amici e dai cortigiani, che sempre lo circondavano.

fakiro

Col termine Fakiro il M. probabilmente confonde due categorie di persone. In questo caso sembra riferirsi al فقيه fāqih, che è un esperto in giurisrudenza islamica.
Altrove vuol probabilmente intendere il vero F., فقیر faqir, lett. “povero”, termine arabo che indica il seguace di una setta sufi; ma il M. solitamente lo usa in modo generico e sprezzante per qualificare il musulmano fanatico.
Altrove, e sopratutto nelle Lettere, il termine compare nella forma focara.

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13. Stetti un dieci giorni nel suo campo centrale: ma presto me ne stancai. Quella casa era un continuo andare e venire di servi, di soldati, di donne, di garzoncelli, senza disciplina e senza riguardo; e tanto di giorno quanto di notte, tenevano discorsi sì liberi ed immorali, che mi stomacavano. Perciò concertai col signor Bell di passare al suo campo, luogo chiuso, tranquillo, ed un po’ lontano dal centro. Egli n’ebbe piacere, e molto più i suoi servi e soldati; i quali, s’intende, speravano passare alcuni giorni allegramente col godere gli avanzi della nostra tavola. Io poi desiderava questo cambiamento, per essere anche più libero di pregare, dir Messa, istruire e fare qualche passeggiata. Il signor Bell pertanto si prese la premura di parlarne egli stesso al Râs; e subito il permesso fu ottenuto. I servi ed i soldati in poche ore trasportarono ed aggiustarono ogni cosa; e così noi ci trovammo più comodi, e cominciammo a trattare più liberamente con coloro, che venivano a visitarci, e si potè far loro gustare il nostro apostolico ministero.

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14. Il Goggiàm è il paese più religioso dell’Abissinia. Esso appartiene alla setta chiamata Kevàt, nome che significa unzione. Questa setta sostiene che Gesù Cristo sia stato unto; e da principio pare che abbia voluto dire di essere stato unto nella sua umanità dallo Spirito Santo. Ed in ciò converrebbe con la setta di Devra-Libanos, la quale, ammettendo che Gesù Cristo ricevette lo Spirito Santo come uomo, viene a riconoscere, se non di nome, almeno di fatto le due nature. Essa inoltre si chiama la setta delle tre generazioni, perchè conta per terza generazione la ricevuta dello Spirito Santo. Ve n’è un’altra chiamata Karra, ed è la setta de’ Copti eutichiani d’Egitto, introdotta nel Goggiàm dall’Abûna Salâma. Essa non ammette in Gesù Cristo la natura umana, ma la sola natura divina; poichè quella venne assorbita da questa. Non volendo però negare ch’egli sia stato unto, per non rigettare il nome di Kevàt (il che sarebbe stato troppo odioso), insegna che Gesù Cristo fu unto nella sua divinità dalla divinità medesima, cioè ch’egli unse sè stesso. La qual cosa neppur essi comprendono.

Questo brevissimo cenno basta a far conoscere la specifica diversità delle tre sètte, che dominano in Abissinia. Quella di Devra-Libanos, detta delle tre generazioni, è la più prossima al vero, perchè riconosce in Gesù Cristo due nature; e benchè non voglia proferire le parole, tuttavia crede /139/ che egli è vero Dio e vero uomo, e che solamente come uomo ricevette lo Spinto Santo. Il che non ammettono le altre sètte.

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15. Tutte siffatte questioni, se dipendono oggidì dalla grande ignoranza di quei popoli, nel non saper distinguere e stabilire il valore delle voci natura e persona; da principio ebbero origine da fina malizia. Noi sappiamo che Dioscoro, fuggito dal Concilio di Calcedonia, e ritornato in Alessandria prima che il Concilio si chiudesse, per iscusarsi in faccia al clero ed al popolo di questa sua condotta, accusò S. Leone di eresia, dicendo che aveva abbracciato l’errore di Nestorio, ammettendo in Gesù Cristo, come lui, due persone. Una tale calunnia si ripete ancora dai Copti contro S. Leone e contro di noi. Ed è questo il motivo, onde noi in pratica incontriamo grandissima difficoltà, per indurre certa gente a dire, che in Gesù Cristo vi sieno due nature; e ciò sempre per mancanza di un’adequata idea della differenza che passa tra natura e persona. Spiegando inoltre praticamente questa differenza, siamo costretti entrare in certe idee, che da quelle popolazioni non si arrivano a comprendere; e quindi, anche convertite, rimane sempre il pericolo che ritornino al vomito, spintevi sgraziatamente dai loro consettarj, e massime dall’accusa di nestorianesimo, lanciata dai Copti contro noi cattolici.

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16. Dopo quello che ho detto, resta a vedere se in pratica il Missionario, quando avrà ottenuto con certezza, che uno riconosce Gesù Cristo vero Dio e vero uomo, possa passare sopra a questa confessione esplicita delle due nature. La questione è un po’ difficile, ma il caso è frequente; e mi trovai più volte in impiccio. A mio avviso bisogna distinguere la verità dogmatica dalla parola che la esprime. La verità è eterna ed immutabile, e chi non la crede, deve ritenersi per eretico. Ma la parola è variabile per pronunzia, inflessione, e mutazioni di luogo, di tempi e di applicazioni; sicchè il suo valore dipende dalle idee, che esprime, e che si trovano nell’uomo in particolare, non dalla varia maniera, con cui si possono esprimere. Ora, se in certe menti non entra la verità espressa con alcune parole, ma con altre, purché la verità vi sia, sembra che possa bastare. La Chiesa di fatto, obbligando ad una confessione esterna con formola determinata, intende che sia riconosciuta e professata soprattutto la verità, non la parola materiale, che in taluni potrebbe significare anche un errore. Questo però sia detto per eccezione, non per regola.

La frase “Questo però sia detto per eccezione, non per regola” non compare nel manoscritto Memorie Vol 1° Cap. 13 p. 117

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17. A proposito di queste tre sètte dominanti in Abissinia, un giorno Râs Aly mi domandò qual fosse la vera.

— Tutte e tre son fuori di strada, risposi io, perchè fuori della vera /140/ Chiesa, che è la gran famiglia dei credenti, stabilita da Gesù Cristo, con a capo il Sommo Pontefice successore di S. Pietro. — Tuttavia, soggiunsi, i meno lontani dalla buona strada, o i più prossimi ad entrare nella vera Chiesa, sono quelli di Devra-Libanos; perchè credono e confessano Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo. —

— Dunque amate voi più delle altre i Devra-Libanos? —

— Io amo tutti, purché sieno disposti ad abbracciare la verità. —

— Quand’è così, noi abbiamo qua vicino la più grande chiesa del Goggiàm, la quale dice come voi, e professa la fede di Devra-Libanos. Fra qualche giorno vi si celebrerà la festa di Abba Tekla-Alfa, che fu un gran santo, nativo di Dima Ghiorghis: in quel giorno vi farò dare una casa in Dima vicino alla chiesa, e così potrete assistere a quella gran festa. —

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18. Di fatto, giunto il giorno, Râs Aly ordinò al signor Bell di condurmi là, e di farmi dare alloggio e vitto per un giorno. Si partì la sera avanti, per assistere ai primi vespri ed alla funzione di notte. Arrivati, rimasi veramente meravigliato nel vedere una graziosa cittadetta, situata in bell’ordine sull’orlo del precipizio, che guarda il Nilo; ed ancor più nell’entrare in una gran chiesa a padiglione rotondo, con muri abbastanza solidi, e con intorno una galleria ben costruita, che sembrava lavoro di Europei. Nel mezzo s’inalzava il Sancta Sanctorum, isolato dal resto e tutto chiuso d’intorno. Volli misurare la circonferenza interna della chiesa, e contai quattrocento passi di lunghezza ordinaria. Ivi trovai radunata una popolazione immensa, venuta da lontano per la festa.

Avendo intenzione di passare la notte in chiesa, per vedere la funzione, che protraevasi sino a giorno, rientrammo in casa per cenare; e dopo, accompagnato da Abba Emnàtu, vi ritornai. Mi fu steso un tappeto in luogo appartato, e là mi sedetti per fare un po’ di orazione: ma fu impossibile. Eravamo in piena taverna: chi andava, chi veniva, chi gridava, chi mangiava, chi litigava, insomma un baccano da piazza. Poco discosto da me vi era un leggio, dinanzi al quale uno leggeva la vita di Tekla-Alfa in lingua gheez, che nessuno forse capiva. Di qua e di là alcuni, sdrajati per terra, dormivano saporitamente; mentre altri o seduti ciarlavano, o girando facevano all’amore, e anche peggio. Basti dire che, molte donne vanno di lontano a quel santuario con la speranza di avere figliuoli, non certamente per effetto di fede! Inoltre in quella confusione non si bada a divisione di sesso, di età e di condizione; tutti vi stanno frammischiati per l’intiera notte, e la chiesa non è punto illuminata, nè a gas, nè a petrolio!

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/142/ 19. Circa le tre dopo mezzanotte si diede principio alla Messa; ed il Sancta Sanctorum essendo chiuso, non potevamo vedere ciò che facevasi dentro. Poco lungi da noi eravi il coro dei Defteri cantori (la gente più corrotta dell’Abissinia), in numero di quasi cinquanta, vestiti di gran lusso e con grandi turbanti in capo. Dinanzi a loro una turba di giovani donne, attillate a festa, che, con gesti e con parole, facevano ai cantori segni di lode e di approvazione. Un vero teatro! Si aprì poi il Sancta Sanctorum, e ne uscirono i preti, vestiti di velluto broccato d’oro, e con in testa corone imperiali di argento dorato (regali di antichi Principi e Re), e fatto il triplice giro all’esterno del medesimo, andavano incensando con gran prosopopea. Ci era da ridere al vedere quei poveri tapini, coperti di stracci fuori della chiesa, pavoneggiarsi là dentro tronfj e pettoruti con quelle vesti preziose. Anche qui le donne facevano spreco di civetterie impertinenti e sfacciate. A vedere quella scandalosa profanazione, se io avessi secondato l’indignazione che internamente provava, non mi sarei contentato di face un flagellum de funiculis, per cacciare dalla casa di Dio quei buffoni, ma avrei dato fuoco alla chiesa stessa. O catolicismo, veramente santo e sublime, solo nelle tue chiese si trova il vero culto, e l’espressione di tutti i più teneri e santi affetti; esse sono in verità anticamere del paradiso, dove a Dio s’inalza il pianto dei pubblicani, il gemito dei convertiti, i sospiri dei giusti, e gli ardori dei terreni Serafini!

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20. Finì la Messa quando era quasi giorno, ed io lasciai la chiesa, e rientrai in casa per dormire un poco: ma non mi fu possibile chiudere gli occhi; era sempre agitato, in parte dalla stizza per le sfacciate profanazioni commesse e tollerate da quei gabbamondo di preti eretici, ed in parte dalla compassione per quelle povere anime ingannate. Verso le nove venne anche Râs Aly con tutti i suoi Generali, e con gran seguito di persone e sfoggio di lusso. Io però non uscii a vederlo. Egli, dopo aver visitato la chiesa, se ne ritornò al campo; ed io partii da Dima Ghiorghis dopo mezzogiorno, senza neppure voler visitare la famosa grotta di S. Giorgio, detta la grotta dei miracoli.

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21. Arrivai al campo quando Râs Aly stava giudicando la causa di quel disgraziato, che aveva ucciso la propria donna incinta. Le formalità furono molte e solenni; ma non così lunghe come in Europa. La stessa sera fu data la sentenza, e lo si condannò a morte, cioè, ad avere schiacciata la testa dalla figlia: concedendo però tre giorni di tempo ai parenti del condannato, per presentare la somma necessaria al riscatto, se la figlia l’avesse voluto accettare. I parenti non essendo guari facoltosi, ricorsero /143/ alla pubblica beneficenza, ed il giorno appresso vennero anche da me: ed io, ricordandomi delle grida supplichevoli, con cui quel disgravato mi si era raccomandato, mi segnai per due talleri. In due giorni i parenti avevano già raccolto sottoscrizioni per trecento talleri, cento di più di quanto richiedeva l’uso del paese. Si presentarono pertanto alla giovane con questo prezzo del sangue, accompagnati dal clero di una chiesa vicina con la croce in mano: ma ella rifiutò, dicendo che voleva sangue, non prezzo di sangue. Le promisero di accrescere la somma; poichè restava ancora un altro giorno per raccogliere: ma ella sempre ferma ed irremovibile, rispondeva di volere schiacciare la testa con un sasso a chi l’aveva schiacciata a sua madre. Al domani dunque tutta la popolazione del campo era spettatrice di quella barbara scena, in cui una giovane quindicenne dava crudele morte a chi per tre anni le aveva fatto da padre. Molti, pervertiti dall’uso inveterato e dallo spettacolo di tali brutte scene, la lodavano; altri però stupivano come una giovane, che con quella somma in Abissinia avrebbe potuto divenire una signora, prescegliesse d’incrudelire ferocemente contro quello, di cui per tre anni aveva mangiato il pane. Intanto il supplizio fu compito: ma la disgraziata per questo atto crudele rovinò sè stessa.

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22. Che dirò io di questa legge? Certamente in quei paesi barbari, dove la Religione, per correggere questa smania di sangue, non ha sufficiente impero sui cuori, e dove i Governi non sono abbastanza forti, nè bene ordinati, per poter fare argine alla mala corrente, la legge del taglione, introdottasi colà quasi naturalmente, e poi dalle leggi confermata e stabilita, è stata sempre ed è ancora per quei barbari un efficace ritegno ad incrudelire contro i proprj simili. Essa però è sempre contraria alla legge di Gesù Cristo, che comanda l’amore dello stesso nemico. E da ciò appunto si vede come il Vangelo, pur mantenendo illesi i dritti della giustizia, seppe incatenare lo sfogo iracondo delle passioni private di tanti Caini contro innocenti Abeli (1).

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23. Râs Aly, come dicemmo, dal giu. 1849 A.Rosso aveva mosso guerra a Berrù-Gosciò, perchè eraglisi ribellato e voleva rendersi indipendente; ed era venuto in /144/ Goggiàm per sottometterlo e farla finita. Tra questi due vi era un odio antico, odio fomentato dal vescovo eretico Salâma, per ragioni, che sarebbe lungo narrare, ma che dall’indole di lui, già descritta, si possono indovinare (1). Berrù-Gosciò, vedendosi a mal partito, si ritirò su di una montagna inaccessibile, detta Tsomma, sul pendio verso il Nilo, non lontana di Dima Ghiorghis, ed ivi si trincerò, portando seco provvisioni per tre anni. Râs Aly aveva piantato il suo campo lì vicino, e faceva custodire tutti i passi, per impedirgli qualunque comunicazione col paese. Berrù-Gosciò avea condotto seco prigioniero sulla montagna l’Eccecchè Matantò, ossia il Capo dei monaci, cattolico segreto, e possiam dire martire della fede, per le persecuzioni ch’ebbe a soffrire quando fu conosciuta la sua conversione. Questi, inteso che io mi trovava in quelle parti, ne fu consolato, e gli riuscì di farmi chiedere segretamente un soccorso in denaro, e potei mandargli qualche cosa. Desiderava confessarsi; ma non fu possibile: e non potendo in altro modo ajutarlo, gli feci giungere una affettuosa lettera, con la quale lo confortava e gli dava coraggio. Morì un anno dopo la mia partenza dal Goggiàm: e Berrù-Gosciò, riputandolo eretico (secondo lui era eretico perchè cattolico), non permise che fosse seppellito nel recinto della fortezza, ma lo fece gettare fuori di essa. Allora i suoi amici ne trasportarono il cadavere a Dima Ghiorghis, ed ivi con gran solennità lo seppellirono.

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24. Râs Aly, annojato dal lungo assedio, volle tentare un colpo decisivo; ed un giorno ordinò un improvviso assalto con tutte le sue forze contro quel luogo inespugnabile: ma non riuscì ad altro che ad un gran macello. Morirono molti degli assediati; ma, com’era d’aspettarsi, assai più dalla parte degli assalitori, fra i quali cadde colpito da una freccia Degiace Lemma, fratello minore dello stesso Berrù-Gosciò, e poco mancò che non restasse sul campo anche Degiace Gosciò, padre di ambidue. Così accade in Abissinia: il padre fa guerra al figlio, ed il fratello al fratello.

Oggetti ed armi abissini

Oggetti ed armi abissini.

1. Giubba di pelle di pantera, con filettatura d’argento. – 2. Zucchetta da polvere. – 3. Poggia testa, e guanciale. – 4. Stella di onorificenza. – 5. Sigillo reale. – 6. Lancie. – 7. Collane di rame. – 8. Scudo di pelle d’ippopotamo, con ornamenti d’argento. – 9. Spada nobile con fodero di pelle, ornato d’argento – 10. Sciabole e pugnale. – 11. Mazza da guerra, arma primitiva. – 12. Briglia. – 13. Testiera. – 14. Braccialetto da guerra d’argento o di rame. – 15. Cartucciera.

Nomi etiopici.

1. Lemd. – 2. Bairutt bièt. – 3. Buràtti. – 4. Quakèb. – 5. Mahetèm negùs. – 6. Toor. – 7. Iekitàb enghèt. – 8. Gascià. – 9. e 10. Guràdie. – 11. Ie Uattader bettèr. – 12. Lugudum. – 13. Lukò. – 14. Bittàu. – 15. Kartùs bièt.

Vedi illustrazioni nella nota 4.ª in fine del volume.

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25. Dal punto dove noi ci trovavamo accampati, gettando lo sguardo di là del Nilo, si vedeva una grande estensione dei paesi galla; ed ogni volta che io usciva a passeggio, non sapeva saziarmi di contemplarli. E tanta commozione eccitava tal vista nell’animo mio, che più volte fui /145/ tentato di lasciare andare gl’impegni che aveva alla costa, in Aden, ed in Europa, per volarmene in quelle parti. Ma Râs Aly, per quanto io ne lo importunassi, non volle mai permettermelo; non perchè si opponesse ad evangelizzare i Galla, ma perchè non voleva procurare a sè qualche disturbo, ed a me qualche cattivo incontro. sicchè fui costretto studiare altra via.

Intanto ad accrescere la mia impazienza di volare fra i Galla, dopo un mese dal mio arrivo presso Râs Aly, venne una deputazione del Re di Scioa, portando cavalli al Râs, e lettera del P. Felicissimo a me. In essa mi diceva che il Re di Scioa era indignato contro Râs Aly, perchè mi aveva fatto ritornare indietro, ed impedito di recarmi nel suo regno. Scrivevami inoltre che gl’inviati avevano istruzioni di condurmi colà al loro ritorno, e che quindi egli non si sarebbe mosso dallo Scioa sino al mio arrivo. Ma Râs Aly non se ne diede per inteso, e perciò fui costretto rispondere al P. Felicissimo che, essendo impedito di partire, pensasse egli piuttosto a ritornarsene. Tanto più che, come egli mi scriveva, il Re di Scioa non sapeva risolversi a seguire il mio disegno di aprire la strada di Zeila, adduccndo per motivo che tutto il paese era contrario.

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26. Stando così le cose, un giorno dissi a Râs Aly che volentieri accettava il partito da lui propostomi, cioè di recarmi in Europa, per presentarmi al Governo francese, e comunicargli alcune sue idee rispetto all’Abissinia. Questo Principe sarebbe stato favorevole alla Missione cattolica, ma desiderava che il Governo francese in qualche modo l’avesse ajutato. — Noi in Abissinia, mi diceva, siamo schiavi dell’Egitto, e sono i Vescovi copti che in parte ci procurano questa schiavitù. Ora, bramerei di farla finita con l’Egitto, e lascerei di domandare anche un Vescovo copto. Da parte mia inoltre, qualora vi fosse mandato, non gli impedirei l’entrala nel mio regno: ma però dovrebbe stare e vivere da sè, senza che il Governo se ne immischiasse. Fu il vescovo Salâma che mi spinse a movere due volte la guerra a Degiace Ubiè; e per cagion sua oggi sono in guerra con Berrù-Gosciò. Io adunque sono stanco di tali Abûna, e voglio emanciparmene: ma per far ciò ho bisogno dell’appoggio di una Potenza come la Francia. — Questo disegno di Râs Aly mi piacque, e gli promisi di farlo conoscere al Governo francese, senza però dargli grande speranza di buon esito. Dappoiché sapeva benissimo che la Francia sgraziatamente allora reggevasi a Repubblica, e con un Governo agitatissimo e precario, per gli sforzi e le mene di Luigi Napoleone, il quale agognava a tutt’altro, che al bene dell’Abissinia. Ed anche /146/ nel campo stesso di Râs Aly trovavasi un simile pretendente, il famoso Teodoro, il quale non tardò a mandare in aria lo stesso suo regno.

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27. Fu dunque risoluta la mia partenza, al più lungo fra otto giorni, per dar tempo ad apparecchiare le lettere e quant’altro occorreva. Râs Aly, oltre alle lettere, doveva pensare a farmi accompagnare, per salvarmi dai ribelli, che, trincerati sulla montagna, scendevano tutti i giorni al piano, facevano scorrerie, e molestavano principalmente chi viaggiava pel Beghemèder. Il signor Bell colse quest’occasione per iscrivere a tutti i suoi parenti ed amici; e trovandosi senza carta, come accade agli Europei, che dimorano qualche anno in Africa, gli diedi io tutto il necessario. Il poveretto passò cinque giorni scrivendo a questo ed a quello; ed ogni sera mi parlava del suo lavoro, al quale dava molta importanza. La sera precedente la mia partenza, venne con premura ad annunziarmi che finalmente aveva terminato il gran piego. Oh non avesse avuta tanta premura!

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28. Il signor Bell teneva in casa una scimmia, che chiamava Berèntu, dal luogo dov’era stata presa, e se l’aveva cara per la sua domestichezza. Ora, mentre egli andava facendo il piego, la scimmia guardava ed osservava attentamente quel mettere una lettera dentro l’altra, ed apporvi i sigilli. Quando Bell l’ebbe compito, corse tutto contento alla mia capanna per dirmi che non gli restava altro a fare. Berèntu, sapendo forse che in Europa trattavasi d’inalzarla all’onore di progenitrice dell’uomo, volle fare uso del suo alto dominio, e preso quel piego, lo racconciò a modo suo, facendolo tutto in pezzi; e poi con alcuni di quei brandelli in mano venne nel cortile a baloccarsi vicino a noi. Il povero signor Bell mutò colore, corse, volò alla tenda per vedere l’accaduto, e trovò che di dieci o dodici lunghe lettere, neppur una era rimasta intiera.

Furiosamente adirato, ritornò dove era la scimmia, risoluto di ammazzarla. Ma allora tutte le persone presenti, forse sapendo anch’essi che in Europa la scimmia era stata acclamata cittadina, e quindi come tale non doveva essere sentenziata a morte così precipitosamente, presero le sue difese, e furono tanto valevoli, che il signor Bell desistette dal suo proposito: ma non volle più vederla. Se la prese pertanto uno del mio seguito, e così fu salva. Ma trista fine l’aspettava. I miei servi, avendola portata seco, strada facendo, videro che Berèntu non aveva punto educazione, si prendeva troppe libertà, e spesso facevasi lecito scherzi poco onesti. Il capo della compagnia, per non dar dispiacere ad alcuni che l’accarezzavano, dissimulò qualche giorno: ma intanto andava studiando il modo di disfarsene segretamente. In verità la fece un po’ da barbaro: /147/ ma egli, quantunque Europeo, non conosceva le dottrine animalesche, che già si cominciavano ad insegnare in Europa, e non sapeva qual delitto veniva a commettere! Fatto sta, che l’aspettò di notte, quando sarebbe tornata ad inquietarlo, e con un ago da imballaggio le fece una carezza, che le andò sino al cuore. Berèntu, non sospettando la gravità del male, fattole con uno strumento così piccolo, si ritirò in silenzio, ed il giorno appresso gonfiò e morì.

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29. Ritornato in Europa, e sentite le mostruose teorie che si vanno spargendo intorno all’origine dell’uomo, facendolo derivare dalla scimmia, con tanto disprezzo della Bibbia e del Vangelo, che sino a quest’oggi ci hanno educati ed onorati, mi è venuto a mente quel sacro testo: Homo cum in honore esset, non intellexit, comparatus est jumentis; ed ho detto fra me stesso che simile gente, se non lo era in realtà, meritava davvero il titolo di scimmia; ed incessantemente ho pregato il Signore a toccare i loro cuori, farli rinsavire e convertirli. Sembra incredibile che l’uomo, tanto onorato da Dio, e fatto a sua immagine e somiglianza, per un insano orgoglio di non volere riconoscere il suo padrone ed il suo Creatore, giunga ad abbassarsi sino al rango dell’animale più stupido, più inetto, più sporco, e più ributtante di tutti gli altri, solo perchè riscontra tra esso e l’umana struttura una certa conformità in alcuni organi materiali. /148/ Ma che il Signore v’illumini! Il rame fu e sarà sempre rame, nè mai diventerà oro per quanto si lustri, e gli si dia un’apparente rassomiglianza. La nostra Berèntu è stata ab initio Berèntu, incapace sempre, non solo di perfezione ulteriore, ma ancora di apprendere la centesima parte di educazione, che imparano tanti altri animali; e se non altro, basti a provare la sua stupidità questo fatto solo, che, laddove tutti gli animali, ed anche gl’insetti, sanno costruirsi una casa od un giaciglio; essa non sa neppure trovarsi una tana od un rifugio: ma dove si posa, dorme, e lì fa le sue immondezze, vi si sdraja sopra, e vi si ravvolge. Son certo che i professori di queste dottrine animalesche non han veduto altre scimmie, che quelle portate dai ciarlatani e dai conduttori di serragli. Che se, come me, fossero stati in mezzo a quegli animali, e ne avessero studiato la natura e gl’istinti, non solo riderebbero di tali frenesie, ma avrebbero vergogna pure a leggerle. Ed il signor Bell, dopo aver faticato tre anni per educare la sua Berèntu, conchiuse con dire che era sempre Berèntu, senza smettere alcun suo vizio, e senza apprendere nulla di buono, tranne le naturali smorfie, cui è portata per istinto. Ma la causa di queste umane stravaganze è sempre l’orgoglio, e lo spirito d’indipendenza al Creatore ed alla sua legge; l’ispiratore poi, non occorre dirlo, è sempre il diavolo. Questi dal principio del mondo, vedendo l’uomo dotato di qualità superiori a tutti gli altri esseri terreni, lo fece ribellare al Creatore, dandogli a credere che si sarebbe trasformato in Dio. Oggi invece tiene la via opposta, gli fa dimenticare la sua grandezza, e cerca persuaderlo che è una derivazione di bruti, un’evoluzione di scimmie. Ma noi lasciamo le scimmie ed i loro discendenti a concertare genealogie, e torniamo fra gli uomini.

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30. Giunto il giorno stabilito, ed apparecchiato tutto per la partenza, in compagnia del P. Giusto e del buon fratello Filippini, che si trovava con noi in luogo del P. Stella, ritornato a Gondar, mi recai a far visita di commiato al Râs; ed usciti di là, andammo a raggiungere il nostro piccolo campo, dove Fitoràri Ciukal (1), capo di duecento soldati, ci attendeva per accompagnarci: e già ci aveva fatto apparecchiare la tenda. Il signor Bell era con noi, e volle tenerci compagnia per pochi giorni, anche per rimediare in qualche modo al danno fatto da Berèntu.

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31. Usciti dal campo, c’incontrammo in un asino morto quella mattina stessa, attorno al quale svolazzava un nuvolo di avoltoi, che in meno di un’ora l’avevano già divorato. — Che flagello, dissi io, son questi animali! —

/149/ — Non dica così, Monsignore, replicò il signor Bell, dica piuttosto, che fortuna! Perocché, non pensando qua gli uomini all’igiene pubblica, ci pensa Iddio. Nel campo del Râs mojono giornalmente centinaja di animali, e centinaja se ne scannano pel cibo quotidiano: ma non tutto da questi popoli si mangia; gl’intestini ed altre parti, per pregiudizi e superstizioni, si lascian cadere a terra e non si toccano. Ora, se non vi fossero di giorno gli avoltoi, e di notte le jene, che ci sbarazzassero di tante carogne, i miasmi ci distruggerebbero tutti quanti: ma loro mercè si gode buona salute. Quando si parte per qualche spedizione militare, ci accompagnano sempre e dovunque nuvoli di avoltoj, e nel tempo del combattimento ci svolazzano sopra, aspettando che cada una vittima; ed appena i soldati fanno largo, si slanciano su di essa, le cavano per primo gli occhi, e poi in un quarto d’ora se la divorano. E si gettano pure su i poveri soldati caduti, ma non ancora morti, i quali, se non hanno forza abbastanza per difendersi da quei carnivori, sono fatti in pezzi e divorati. —

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32. Dissi più sopra che quella giovane, la quale schiacciò la testa all’uccisore di sua madre, rovinò con quell’atto crudele sè stessa. Ed ecco come. Gli encomiatori di lei avevano composto canti eroici in suo onore, i quali, divenuti popolari, pel paese non si sentiva cantare altro che quelle barbare canzoni. Inebriata la giovane di quelle lodi, ruppe il freno ad ogni riserbatezza, si abbandonò alle più triste compagnie, e si diede ai più deplorevoli disordini. Un mese circa dopo l’accaduto, quando io mi disponeva a lasciare il Goggiàm, vidi arrivare un buon numero di soldati, che dovevano accompagnarmi, cantando le lodi di quella disgraziata, ed imitando con gesti e contorcimenti i colpi dati da essa al condannato, e le convulsioni della vittima. Vidi inoltre lei stessa in mezzo ai soldati, acclamata come un’eroina, ma in verità fatta zimbello delle loro sfrenate voglie. Allora pregai il signor Bell di avvertire il Fitoràri a respingerla indietro; poichè non voleva vedere quelle scene immorali, ed essere accompagnato da simili scandali. Povera creatura! si era cangiata anche nella fisonomia, e chi sa qual fine avrà fatto!

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33. In questo viaggio di ritorno, non tenemmo più la via del Damòt, di Meccia e di Quaràta, ma un’altra più all’Est per Nazaret e Mota, a fin di passare il Nilo Azzurro sull’altro ponte costruito dai Portoghesi, e da me più sopra accennato. I soldati avendo tardato a radunarsi, per quel giorno non si potè camminare che circa due ore; e la sera si fece stazione su di una collina, ad un’ora da Devra-Work. Al domani si camminò tutta la giornata, salendo quasi sempre, ed arrivammo la sera a /150/ Nazaret, piccolo villaggio con santuario (1); dove il signor Bell aveva un amico, il quale ci trattò con un buon castrato, con birra ed idromele. Nazaret si trovava a circa un terzo dell’altezza per cui dovevamo passare, e la notte fu molto fredda. Non avevamo termometro, ma vi dovette essere un abbassamento di temperatura molto considerevole; poichè la mattina si trovò ghiaccio nei luoghi di acqua stagnante (2). Di ciò non è da far meraviglia; giacché eravamo alla fine di Gennajo, stagione la più fredda dell’anno, anche in quei paesi. Qui ci dividemmo dal signor Bell, il quale doveva ritornare al campo del Râs; e nel separarci ci raccomandò una donna ammalata, che si recava alle acque calde del Beghemèder (3).

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34. Si parti di buon’ora, sperando raggiungere di giorno la sommità della montagna, e pernottare dall’altra parte: ma a cagione di alcuni ammalati, che camminavano lentamente, fummo costretti fermarci la notte in un ripiano vicino alla sommità. Il cielo era nebuloso, e quindi il freddo meno intenso di Nazaret. Partiti al mattino, verso le dieci raggiungemmo la cima della montagna. Lassù la vegetazione era quasi simile a quella del Semièn, e l’altezza presso a poco la medesima del piano ordinario, non però delle più alte montagne di quella montuosa regione. Da quel punto si vedeva Mota, il Nilo e tutto il Beghemèder sino a Gondar: ma avevamo perduto di vista il lago Tsana.

La discesa era più facile, ed alle quattro pomeridiane si giunse ad un piccolo villaggio di pastori, dove ci fermammo per passare la notte. Quella buona gente ci offrì carne e latte, e dataci una capanna alquanto pulita, si potè dormire anche bene, perchè il freddo era del tutto scomparso. Il dì seguente giungemmo a Mota, una piccola città, con gran chiesa o santuario, la cui popolazione in maggior parte apparteneva alla casta sacerdotale, come già fu notato altrove di simili santuarj. Qui fummo ricevuti in casa di Degiace Gosciò, il quale aveva dato ordine al suo rappresentante di accoglierci, e darci il consueto trattamento dei forestieri ragguardevoli. La missione di Fitoràri Ciukal era di accompagnarci sino /151/ a questa città, che più in là non eravi pericolo di ribelli. Quindi fu da noi accomiatato con lettere di ringraziamento al Râs.

Modo singolare di pasare il fiume
Modo singolare di passare il fiume.

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35. Il ponte dei Portoghesi avendo rotto, come dicemmo, l’arco di mezzo, e non essendovi aggiustato un passaggio, almeno con legni, il Capo del paese mandò ordine ad alcuni paesani di scendere al fiume per ajutarci a tragittarlo. Noi intanto partiti da Mota la mattina, vi arrivammo alle due dopo mezzogiorno; ed essendo tutto pronto, in meno d’un’ora fummo all’altra sponda. Gennaio 1850 [Cozzani] È curioso il modo con cui ci toccò fare quel tragitto. A cento metri circa del ponte suddetto, il Nilo si trova talmente incassato tra due sponde di nuda roccia, che la distanza tra di esse non è che di sette od otto metri. Il passeggiere adunque vien legato sotto le ascelle con grossa corda, le cui estremità si tengono poscia da buon numero di persone poste alle due rive. Indi tirata la corda da una parte, mentre dall’altra a poco a poco si cede, il passeggiero si libra in aria, e così sospeso sull’acqua senza toccarla, vien trasporato all’altra riva. Naturalmente quando il peso è giunto a mezzo del valico, la corda si abbassa di più, e fa rabbrividire; ma non ci è pericolo, a causa della forza sufficiente e della perizia di quella gente. Solamente qualche volta, per ridere, quei buontemponi rallentano la corda e lasciano abbassare la persona sino a toccar l’acqua; ed allora viene naturale il grido di S. Pietro: Domine, salva nos, perimus. Io, prima di affidarmi a quella corda, volli veder passare altri; e poi, rassicurato, feci il mio tragitto. In simili casi non bisogna dimostrare nè timore, nè diffidenza, e soprattutto non adirarsi, e non dar motivo a qualche rancore. Meglio poi è far loro sperare qualche mancia, oltre la tassa consueta, se le cose andranno bene. In questo luogo nel 1844 un viaggiatore francese per nome Petit, compagno del signor Letèbvre, per non aver voluto servirsi di quel mezzo, e per aver prescelto piuttosto di passare il fiume a nuoto, scomparve nelle onde, forse divorato dai coccodrilli. E più tardi, quando io stava in Gudrù, il nostro giovane Berrù, padrino di Morka, per un miserabile risparmio di spesa, cimentandosi al nuoto, scomparve nella stessa maniera.

Chiusa

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[Nota a pag. 132]

(1) Santuario della Regina, così chiamato, perchè fatto inalzare da una Regina di Gondar in onore di Maria Santissima regina del cielo.

Devra Neghest, cioè Santuario della regina. Era quella una chiesa dedicata alla SS. Vergine, epperciò ho creduto naturalmente che il nome di Santuario della regina dovesse interpretarsi per Santuario della Madonna, come regina dei cieli, e tale era creduto volgamente. Tuttavia alcuni spiegavano diversamente questo nome, cioè Santuario della regina, perché di proprietà di una regina di Gondar, come [chiesa] stata fatta fare da essa in onore della Madonna SS. Memorie Vol. 1° Cap. 13 n. a p. 110

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[Note a pag. 134]

(1) Il nome che nel Goggiàm si dà a questo animale è Obbo Sciammàni. Obbo vuol dire signore, Sciammàni tessitore, cioè fabbricatore di tela. In Abissinia gli artigiani son tenuti in disprezzo, ed alcuni, come i tessitori ed i fabbriferrai si hanno per budda, ossia stregoni, che mangiano gli uomini, come noi diciamo delle streghe del Medio Evo. Quindi i Coggiamesi danno al leopardo il titolo di signore (Obbo) pel timore che hanno di lui, e lo chiamano tessitore (Sciammàni), perchè divora gli uomini. nel testo: uomini, il nostro Antinori Il nostro Antinori più volte mi chiese spiegazioni su questo nome, e se dovea darsi al leopardo, o ad altro animale feroce.

Dietro tutto ciò invalse nel paese l’opinione che simile animale, fosse non un leopardo, ma un’animale di altra specie. Il naturalista Scimper in qualche sua lettera ha dovuto seguire questa opinione. Il nostro Antinori mi domandò parecchie volte detagli a questo riguardo, e cercava questo animale più favoloso che reale. Memorie, Vol. 1° Cap. 13 nota a p. 113

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(2) In tutta l’alta Etiopia, e principalmente nel Goggiàm questa superstiziosa credenza nei budda è così radicata, che anche se ne occupa la procedura penale. Degiace Berrù, contro cui Râs Aly combatteva, sulla fortezza di Tsomma, dov’erasi ritirato, condannò a morte otto persone, tenute per budda; e prima ne aveva fatto bruciar vivo un altro, appiccando il fuoco alla sua capanna. Io, trovandomi nei Galla, aveva ricoverati alcuni di questi poveretti, fuggiti dal loro paese per tali persecuzioni; ed anche là erano molestati, non solo dai forestieri, ma dai loro medesimi fratelli Goggiamesi. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 137]

(1) Nella prima conversazione ch’ebbi con lui, mi domandò se avessi visitato in Gondar i due grandi oracoli mussulmani; un certo Sceriffo, ed un altro chiamato Scialy, dei quali si spacciavano miracoli ridicolissimi. Esso stesso mi disse con grande serietà che il primo contava trecento anni di età e che non mangiava e non beveva da molto tempo. Del secondo poi mi raccontò il miracolo operato da lui sul fiume Takkazè, quando, entrando in Abissinia, e trovandolo in gran piena, divise le sue acque e lo passò a piedi asciutti. Questa sua stupida credenza alle imposture spacciate dai mussulmani, unita al favore che loro prestava e ad altri riprovevoli difetti, accelerarono la sua rovina.

Questa credenza non compare nelle Memorie, è però ricordata nel saggio De la propagande musulmane en Afrique et dans les Indes p. 33

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[Nota a pag. 143]

(1) Nei luoghi, dove il Governo non ha tanta forza da proteggere la vita dei privati, nasce in essi naturalmente il bisogno di unirsi insieme, e proteggersi da loro stessi a vicenda: quindi la necessità della legge del taglione, come la più efficace per trattenere dal mal fare. E posso dire che in tutta l’Etiopia fra i Galla, e tra i cristiani di nome e pagani di fatti, essa è un grande ritegno. E ciò sembrami che possa dar motivo a gravi meditazioni anche a noi d’Europa, dove i costumi cristiani si corrompono ogni dì più, i delitti di sangue si moltiplicano, ed il rigore della punizione pazzamente si mitiga. Io veggo già formarsi le caste nelle varie associazioni liberali e settarie. Diasi ad esse ancora un po’ di tempo, e scenderanno a lotta fra di loro, e quindi avranno bisogno del taglione. Anzi già lo veggo introdotto dai socialisti, nichilisti, ecc. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 144]

(1) Ecco in breve l’origine di quest’odio. Nella 1841-1842 A.Rosso prima guerra che vi fu tra Râs Aly e Degiace Ubiè, l’eretico Salâma, istigatore di questa guerra, aveva promesso a Berrù-Gosciò, che, se si fosse collegato con Ubiè, gli avrebbe dato in moglie la figlia del medesimo Ubiè, già sposata a Râs Aly, qualora questi fosse stato vinto. 9.2.1842 A.Rosso Fu vinto di fatti; e, costretto a fuggire, Salâma compì la promessa, prostituendogli la moglie. Radunati poscia il Râs altri soldati, mosse novamente contro Ubiè ed i suoi collegati, nov. 1846-lug. 1847 A.Rosso e li vinse. Onde la moglie ritornò al suo vero marito: ma l’odio restò, ed ora Râs Aly cercava di vendicarsi. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 148]

(1) Fitoràri è un titolo onorevole, che si dà al capo dell’avanguardia di un esercito. [Torna al testo ]

[Note a pag. 150]

(1) I cristiani abissini hanno dato il nome dei santuarj di Terra Santa a tutti quei luoghi, che nel loro paese avevano con essi una qualche somiglianza, come Nazaret, Cranio (Calvario) Devra-Tàbor, Betlihèm ecc. [Torna al testo ]

(2) La montagna Ciokkè, per la quale salivamo, è la più alta del Goggiàm, e vi cade molta grandine, che però presto si scioglie, come sulle alture del Semièn. Il ghiaccio si forma anche sulle altezze ordinarie nei mesi di Dicembre e di Gennajo; ma si trova solo al mattino, perchè, essendo sottilissimo come il vetro, lungo il giorno si scioglie. Gl’indigeni lo chiamano baraccò, che significa vetro. [Torna al testo ]

(3) Il Goggiàm manca di acque minerali e termali, forse perchè in questa regione non si vedono tracce di vulcani. Abbondano però nel Beghemèder, dove gli ammalati, passato il Nilo, le vanno a trovare. [Torna al testo ]