/152/

Fregio

Re abissino

Capo XV.
Pel Beghemèder.

Memorie Vol. 1° Cap. 15.
Primi mesi 1850
Beghemedèr

1. Una cattiva notte. — 2. Invito di Abba Desta. — 3. Arrivo in casa di Abba Desta. — 4. Il monaco abissino. — 5. Convenienze con Abba Desta; sua risposta poco umile. — 6. Abba Desta riceveva e dava molto. — 7. Dubbj costumi di Abba Desta. — 8. Arrivo a Beklò-Fellega. — 9. Un viaggio per un altro. — 10. Cinque giorni fra i Zellàn, conversazione con giovani diaconi. — 11. Esortazioni a quei giovani. — 12. Necessità del precedente dialogo. — 13. Separazione dal P. Giusto e partenza. — 14. Arrivo a Doqquà ed al mercato di Waggarà. — 15. Incontro di una spia di Salâma. — 16. Premure e promesse ai servi. — 17. Avviso a chi viaggia fra i barbari.

Capolettera C

Contenti di avercela cavata solamente con un po’ di paura, passati all’altra sponda, ci trovammo di nuovo nel Beghemèder. Ma appena si potè uscire dal piano del fiume, che già era notte; onde fu forza fermarci in un piccolo villaggio, che non contava più di dieci case, e che case! Eravamo senza tenda, perchè il Fitoràri, ritornando al campo, se l’era riportata: quindi ci vedemmo costretti o entrare in quei covili, o pure dormire sotto le stelle. Vi era una casa un po’ grande, ma mezzo diruta; tuttavia, poichè poteva contenerci tutti, in mancanza di altro, vi entrammo; e, mangiata un po’ di polenta di farina d’orzo, mi stesi su di un giaciglio (specie di letto tessuto con corde o con liste di pelli) per riposarmi. Ma che riposo! Appena fu spento il fuoco, cominciò a caderci addosso tale pioggia di cimici, che ci vedemmo confusi. Cercai di ammazzarne quante me ne capitavano fra le dita: ma allora la puzza vinceva le /153/ punture. Più, un esercito di pulci ci assaltò da ogni parte; sicchè non potendone più, ci alzammo in fretta, accendemmo di nuovo il fuoco e vedendoci sempre assediati da quei molesti nemici, risolvemmo di andarcene a dormire all’aria aperta. Stese pertanto le pelli sull erba, si potè prendere un po’ di sonno. La mattina quei buoni paesani ci portarono del latte; e mentre gli altri si arrostivano qualche pezzo di carne, io feci la mia colazione con una zuppa di quel cattivo pane del paese, e con un buon corno d’acqua.

Torna su ↑

2. Abba Emnàtu, che da Gondar io aveva inviato a Râs Aly in Goggiàm, andando e venendo, erasi fermato in un villaggio non molto distante dalla nostra strada, ospitato da un certo monaco assai caritatevole e di austera vita. Tenendogli discorso di noi, mostrò desiderio di vederci, ed Abba Emnàtu gli aveva promesso di condurci qualche volta in casa sua. Egli mi descriveva questo monaco, che chiamavasi Abba Desta, per un gran santo, e come tale, dicevami, ch’era tenuto e venerato da tutto il paese. Risolvetti perciò di andarvi, anche per la curiosità di conoscere da vicino questi santi, e vedere un po’ a che grado di virtù possa giungere un eretico privo d’istruzione, imbevuto di errori, e senza l’ajuto dei Sacramenti, e di quelle grazie, che solo la Religione cattolica appresta ai suoi figli.

Torna su ↑

3. Camminammo quasi tutto il giorno, ed arrivammo in quel villaggio verso sera, mentr’egli stava a pregare in chiesa, dove passava quasi tutta la giornata. In casa sua trovammo una monaca, s’intende monaca secondo l’uso del paese, che presso a poco corrisponderebbe alle nostre Terziarie. Costei la faceva da padrona, ed al nostro arrivo fu tosto in faccende, per renderci gradita l’ospitalità. Ci diceva che Abba Desta desiderava di vederci, e che parlava sovente della nostra venuta, benchè non ne sapesse il giorno. Due giovanetti di casa, dai dieci a’ dodici anni, corsero subito alla chiesa per avvisare il monaco: ma egli non si mosse sino alla sua. Frattanto bevemmo un corno di birra, che ne avevamo bisogno; la monaca ci assegnò le stanze per dormire, dove ritiratici, potemmo recitare liberamente il nostro Breviario e le nostre preghiere.

Torna su ↑

4. Niuno pensi che questo ritardo di Abba Desta fosse mancanza di riguardo e di educazione; anzi devesi ammirare in lui una scrupolosa esattezza nell adempimento dei suoi doveri. Il monaco abissino, sia per l’onore della casa di Dio, sia per un santo orgoglio che lo domina, non usa mai interrompere la sua preghiera in tali occorrenze. Egli non ha idea di quello spirito di discrezione e di santa latitudine, per cui l’uomo di perfezione cristiana, uso a star sempre unito con Dio nell’interno del suo /154/ cuore, sa all’uopo lasciare Dio per Dio, e sospendere ed anche omettere un’opera buona per un’altra, e tavolta anche solo per riguardi di sociali convenienze. L’Abissino, come gli Orientali in genere, e gli stessi mussulmani, sia nella preghiera, sia nel digiuno, sia in qualunque altra opera di culto, dà tutta l’importanza al compimento materiale ed esterno di esse, e ritiene per peccato il mancarvi in qualche maniera. Ciò sia detto per iscusare, non per criticare il nostro buon monaco, che in conclusione seguiva il costume del paese: ma almeno avrebbe potuto dare una risposta ai due giovanetti, che gli avevano recato la notizia!

Torna su ↑

5. Finalmente comparve verso l’Ave Maria (colà non si usa recitare questa devozione come fra noi), e con tutta cortesia e calma da anacoreta si congratulò con esso noi del nostro arrivo, ci domandò del nostro incontro con Râs Aly, e ci chiese altre notizie del suo campo. Egli era ancora digiuno, onde la monachella gli porse subito un corno di farina di linosa, sciolta nell’acqua e miele, bibita usata dai monaci per rompere il digiuno. Discorrendo di tante cose, gli domandai se nel paese vi fossero molti monaci? ed egli con tutta semplicità ed indifferenza mi diede questa risposta: — Di monaci nel paese ve ne sono molti, ma monaci perfetti come me non vi ha che io solo: prima eravamo tre, ma due son già morti. — Essendo io quasi nuovo in Abissinia, questa risposta, niente umile, mi fece meraviglia: ma dopoché conobbi meglio il paese, dovetti in qualche modo ricredermi, e scusare quel buon uomo. L’umiltà evangelica di perfezione in Abissinia è punto conosciuta, anzi di quel poco bene che taluni fanno, credono lor dovere il pavoneggiarsi e procacciarsi lode. Quindi, avuto riguardo all’educazione ed alla moralità del paese, Abba Desta, che in confronto degli altri era veramente pio e religioso, poteva pur dare quella risposta, anche senza colpa o demerito.

Torna su ↑

6. Questo monaco non possedeva nulla, tuttavia era ricchissimo, per le oblazioni spontanee, che gli venivano offerte dai facoltosi, come a uomo di grande perfezione. Molti altri in Abissinia e paesi vicini fanno il santo per ispeculazione: ma per quanto ostentino austerità di vita, lasciano sempre dubitare della loro affettata santità, ed il pubblico non sempre li seconda. Rispetto ad Abba Desta poi, vedendo io la gran carità che faceva ai poveri, e la generosità con cui trattava i forestieri, anche quando non avessero bisogno, dovetti confessare che su questo punto egli era degno di ammirazione. Solamente nascevami il dubbio che questa sua carità non fosse poi un fiore di virtù, vedendolo così insensibile ai bisogni spirituali di quelli che soccorreva: così santo com’era, o almeno come si riputava, /155/ avrebbe dovuto occuparsi in qualche maniera del bene de’ suoi simili; ma che! neppur per sogno. E di fatto mai sentivate uscire dalla sua bocca una parola d’istruzione; mai una correzione o un consiglio; mai un savio avviso per l’eterna salute.

Mandre abissine
Villaggio e chiesa del monaco abissino.

Torna su ↑

7. Questi miei dubbj poi si accrebbero, anche sul resto della sua santità, quando un anno dopo vi ripassai, e mi fermai due giorni in casa sua. Vidi allora che in quella casa vi era molto guasto, e quei due giovanetti parlavano in maniera si sconcia, e si permettevano atti sì immodesti, che faceva schifo: ed egli non solamente non li correggeva, ma vi rideva sopra. In queste cose non sapeva come scusarlo; perchè su tali materie è ben difficile l’ignoranza o la buona fede. Un monaco, che sta tutto il giorno a trattar con Dio, ed ha un cuore netto e puro, deve sentire ribrezzo ad ogni ombra d’impudicizia. Né punto edificavami quel costume che aveva di far bere per devozione l’acqua con cui si era lavate le mani! Ho voluto descrivere in tutti i suoi particolari il ritratto di questo monaco, per far conoscere quanto sia caduta basso la povera Abissinia dopo l’eresia, e quanto lo spirito evangelico sia lontano dalla medesima, anche in coloro che fanno professione di alta santità. Contenti di un’apparenza esteriore, più d’altro non si curano: è il sanctificamini farisaico dell’Antico Testamento, senza punto badare alla santificazione interiore.

Torna su ↑

/156/ 8. Dopo un giorno di riposo presso quel buon uomo, ci avviammo a Beklò-Fellega, grosso paese appartenente ad Ozoro (1) Menèn, madre di Râs Aly, alla quale eravamo particolarmente raccomandati. Essa non si trovava in casa, e fummo ricevuti dal suo rappresentante. Camminava con noi un Kalàtie, o portavoce del Re, con lettere anche pel Governatore di Gondar; il quale per ordine del Râs doveva darmi l’accompagnamento sino a Matàmma, avendo io concertato col medesimo di prendere la via del Sennàar, a fin di schivare le persecuzioni del vescovo Salâma, e non suscitare nuove questioni nel Tigrè, donde io era esiliato.

Torna su ↑

9. Da Beklò-Fellega in due giorni arrivammo ad un villaggio presso il torrente Rehèb, ed ivi passammo la notte. Qui voglio avvertire che io aveva in mente altri disegni di quelli manifestati a Râs Aly rispetto al viaggio, che allora stava per imprendere: poichè con quella gente, benchè amica, non è sempre bene fidarsi; perciò non aveva creduto prudente aprirmi intieramente col Râs. Acconsentii pertanto apparentemente di tenere la via di Matàmma, per divergere l’attenzione del pubblico dalla vera strada, che io intendeva fare per giungere a Massauah, senza correr pericolo di essere riconosciuto, e d’incappare tra le reti tesemi da Salâma: ma il disegno mio era tutt’altro. In quel villaggio adunque trattammo col P. Giusto di ciò che si aveva a fare, e si convenne che egli sarebbe partito con la carovana per Ifagh, dove mi avrebbe comprate le necessarie provviste pel viaggio: ed io con un solo servo, che non mi conoscesse, sarei rimasto qualche giorno nascosto presso i pastori Zellàn. Da Ifagh egli intanto avrebbe mandato il portavoce del Râs ai Governatore di Gondar, affinchè, secondo gli ordini reali, apparecchiasse il necessario alla mia partenza pel Sennàar; mentre io invece, ad un suo avviso, sarei ritornato in Ifagh, e poscia partito subito di notte per altra strada; la quale, girando intorno a Gondar, mi avrebbe portato direttamente al Waggarà.

Il P. Giusto, oltre a farmi le provviste del viaggio, doveva procurarmi un asino, ed un altro servo, che similmente non mi conoscesse; ed inoltre doveva togliere ogni sospetto nella carovana sulla mia assenza, dicendo che io, per sottrarmi alle mene del partito di Salâma in Gondar, non ci sarei entrato, ma che, essendo tutto pronto pel viaggio, avrei raggiunto l’accompagnamento procuratomi dal Governatore in luogo, che ad esso solo P. Giusto era noto.

Torna su ↑

10. Il P. Giusto quindi partì con la carovana per Ifagh, ed io rimasi /157/ fra i Zellàn, ricchi pastori, mezzo pagani, i quali possedevano migliaja di vacche, e tenevano le loro mandre presso una chiesa dedicata a Dio Padre, chiamata Eghiabier-Ab. Fui ospitato da un povero prete abissino, che aveva casa lì vicino, ed in quei giorni il mio cibo non era che latte quagliato e pane fresco, ch’esso giornalmente mi dava.

Qui feci conoscenza con tre giovani diaconi dell’età tra i quindici ed i venti anni, e trattenendosi meco in conversazione, li volli interrogare su molte cose, per informarmi bene della disciplina e moralità di quel clero. Un giorno domandai loro se si confessassero; e ne nacque il seguente dialogo, che voglio riferire nella sua libera ingenuità, per conoscere qual clero si abbia l’eresia. Quei giovani dunque risposero:

— Noi non abbiamo confessore, perchè siamo giovani, e non ancora passati a nozze. —

— Cari miei, soggiunsi, io sentiva più da giovane che da uomo maturo il bisogno di confessarmi, ed è per me una notizia nuova che la Confessione sia necessaria ai soli maritati.... Ma fate voi la santa Comunione? —

— Essendo diaconi, rispose uno, necessariamente dobbiamo farla. —

— E ardite di accostarvi a ricevere la Comunione senza esservi confessati? —

— Fra noi si è sempre fatto così, e nessuno ci ha mai insegnato ciò che voi dite. E poi, nei nostri paesi, i giovani non si confessano nemmeno in punto di morte. —

— E da chi riceveste il diaconato? —

— Io, disse uno, lo ricevetti a Devra-Tàbor da Abba Salâma, prima della guerra con Ubiè. —

— Io, soggiunse un altro, lo ricevetti quando era piccolino, sicchè appena me ne ricordo, ed in quel giorno, che mio padre fu fatto prete. —

— Volete voi sempre restare diaconi? —

— Oh no, rispose il più adulto, io presto mi ammoglierò, e poi dopo mi farò prete. —

— E perchè piuttosto non vi fate monaci? —

— Eh, per farmi monaco son troppo giovane, disse uno. Nei nostri paesi si fanno monaci i preti, quando loro muore la moglie, ovvero quando son vecchi e stanchi del mondo. —

— Ebbene, io sono di un paese, dove si fanno monaci i giovani di quindici, e al più, di venti anni. — Sentendo questo, tutti si misero a ridere

— E come è possibile, esclamarono, mantenersi casti così giovani? Già nei vostri paesi avrete molte medicine per conservare la castità. —

/158/ — Io pure, soggiunse il più adulto, scrissi una volta un libro a un Deftera, che per paga mi avea promesso una di queste medicine; compito il lavoro, mi ci volle del buono per averla; ma dopo che l’ebbi presa, mi sentii più indiavolato di prima, e non pensai più a farmi monaco. —

— Io non ho danari da comprarne, prese a dire un altro, ma farei anche il servo due o tre anni per avere una di queste medicine. —

— E che ci guadagnereste? domandai io. —

— Che ci guadagnerei? Mi farei monaco, e quindi come monaco, entrerei in qualche gran casa, dove mangerei bene, beverei meglio e menerei allegra vita; e questo vi sembra poco?

Prima ho domandato loro se si confessavano, e mi risposero che non essendo ancora maritati non avevano ancora il confessore, ma, cari miei, dissi, io aveva più bisogno di confessarmi quando era giovane che oggi; [mi risposero:] noi siamo ancora giovani epperciò non ci accostiamo a donne maritate, se faciamo qualche cosa è con figlie giovani ancora pure. Ma fate voi la S. Communione? [incalzai io.] Siamo diaconi per forza bisogna farla, alcuni dissero; ma e come potete fare la communione senza confessarvi? nei nostri paesi, rispose un’altro, anche quando siamo per morire i giovani non si confessano: oh questa sì che è bella, io dissi; quando bene volessimo confessarci i preti non vogliono; un giovane cosa può dare al confessore [ribatterono essi]; certo, dissi, che non dovete rubare per dare al Confessore. Dopo ho domandato da chi avevano ricevuto il diaconato, io l’ho ricevuto a Devra Tabor da Abba Salama prima della prima guerra di Ubiè, disse uno; un’altro mi disse che l’aveva ricevuto da molto piccolo quando il mio Padre è stato fatto prete, ed appena mi ricordo. Volete sempre essere diaconi? no, rispose uno, che era il più grande, io mi mariterò presto, e poi dopo mi farò Prete: e non vi fate monaco? io dissi, he! sono troppo giovane per farmi monaco, nei nostri paesi si fanno monaci dopo che è morta la moglie, oppure che sono già vecchi e stanchi del mondo. Io, dissi, sono di un paese, dove quelli che si fanno monaci sono di 15. o al più 20. anni: allora tutti si misero a ridere; come è possibile? dicevano: alcuni abissini prendono medicine per la castità. nei vostri paesi avete molte medicine, io, disse il più grande dei tre, ho scritto un libro senza paga per un deftera, che mi aveva promesso una di queste medicine, mi [ci] volle tutto per averla, e dopo che l’ho avuta sono stato più indiavolato di prima, per questo ho lasciato di farmi monaco. ... Sortì fuora un’altro e disse: io non ho denari da pagare, ma farei anche il servo due o tre anni per avere questa medicina: dopo cosa guadagnerai, io dissi; egli rispose[:] cosa guadagnerò? mi facio monaco, e dopo che sono conosciuto come monaco che non cerco più queste cose, allora trovo [modo di] entrare in qualche gran casa; il padrone mi lascia colle donne, mangierò bene, beverò bene, e vestirò ancor meglio, e tutto questo, è poco? Memorie Vol 1° Cap.15 pp. 132-133

Torna su ↑

11. A questo punto troncai il dialogo, da me introdotto per conoscere le miserie di quei poveri eretici addetti al santuario, e credetti opportuno parlar loro sul serio. Senza dire che io fossi prete, e più che prete, mi studiai di far loro comprendere quali fossero le vere medicine per acquistare e conservare la castità; ed acquistarla, non per mangiare e bere allegramente, ma per condurre vita angelica in terra, e poi esser compagni degli angeli in cielo. Incominciai con dire che, nel mio paese si conservava la castità non colle medicine, ma con la fede viva; fede che ci mette alla presenza di Dio giudice; fede che ci mostra l’inferno qual paga dei piaceri del senso; fede che ci apre il paradiso, il quale si chiama regno, perchè apparecchiato, non agli schiavi delle passioni, ma ai valorosi, che combattono e vincono le tentazioni del diavolo, le lusinghe del mondo e le ribellioni della carne. Quindi con la speranza in Dio, che dà forza a chi gli si raccomanda nei pericoli, e promette poi ai vincitori la meritata corona. Questa promessa incoraggia e consola; laddove i piaceri brutali non sono ancor gustati, che già passano, e lasciano il cuore immerso nelle amarezze dei rimorsi. — Il gran male, soggiunsi, è che qui non si hanno buoni Confessori, i quali assistano i giovani nelle battaglie col demonio e col senso. La Confessione, cari miei, non è fatta solo per i maritati, ma anche per voi giovani, perchè più deboli ed inesperti. Finalmente la gran medicina è il Kurvàn (l’Eucaristia) quale si consacra ed amministra dai preti, che sono uniti al gran prete stabilito da Gesù Cristo per successore di S. Pietro. Il Kurvàn ci unisce a Dio, c’infiamma del suo amore, e ci fa venire a nausea i piaceri della terra. Ma intendo il Kurvàn ricevuto con coscienza pura e mondata di una buona Confessione; che altrimenti, ricevuto col cuore pieno di affetti profani e disonesti, sarà un veleno di morte, come fu per Giuda. —

Io ho scritto queste mie memorie unicamente per obbedire ai miei superiori, risolto ad ogni costo di non publicarle colle stampe. Io pensava unicamente di lasciare queste mie memorie alla Chiesa di Dio per la sola utilità della medesima, e dei futuri missionarii apostolici. Scrivendo ho tenuto sempre secreto il mio lavoro; sono arrivato allora ad obligare alcuni giornali a ridirsi di certe espressioni che potevano in qualche modo sollevare l’opinione publica in contrario. Il mio lettore perciò non deve stupirsi nei vedere il mio stile poco misurato sopra certe materie, massime da principio. Ma le mie cautele per tener occulto il lavoro furono inutili, e dopo quasi 15. mesi mi sono veduto come trasportato dalla publica corrente a determinarmi a publicarlo. Fu quindi una vera necessità moderare un tantino lo stile per renderlo presentabile ad ogni ceto di persone. Io vecchio e stanco, non potendo risolvermi a rifarlo, l’ho consegnato a collaboratori maturi, pregandoli di purgarlo come conveniva al publico. Memorie Vol 1° Cap.15 nota a p. 133

Quei poveri diaconi, che non avevano mai sentito un simile linguaggio, a queste mie semplici esortazioni furono sì tocchi nel cuore, che se io /159/ non avessi dovuto uscir dall’Abissinia, i due più giovani mi avrebbero certamente seguito; e forse anche il più adulto, se non si fosse trovato compromesso in quel suo matrimonio (1).

Torna su ↑

12. Alcuni forse avranno notato come poco grave e poco conveniente la maniera, onde presi a catechizzare questi giovani: ma io, dopo una lunga esperienza, posso assicurare che il giovane abissino, principalmente avviato per la casta sacerdotale, va preso così, per cavarne qualche bene. Se mi fossi loro rivolto con aria grave, e massime se mi fossi dato a conoscere per uomo di chiesa, non mi avrebbero certo scoperto le piaghe del loro cuore: ma piuttosto avrebbero preso un contegno riservato ed anche ascetico, secondo il vento che avessero sentito spirare. Anche col prete e con un altro suo collega nel ministero tenni più volte discorsi di eterna /160/ salute: ma questi, come pezzi più duri, sono difficilissimi a spaccarsi; ed appena un lungo e faticoso ministero può ottenere da essi qualche frutto, e non sempre costante. Fra questa gente, avvezza a far mercato delle cose sacre, tutto è calcolo ed interesse; e quando sono meno convinti e disposti, allora ti simulano una sincera conversione. Non così l’umile popolo, anche adulto, e chiunque non ha studiato alla loro scuola; eglino ti si accostano con più sincerità, ed è facile convertirli.

Mandre abissine
Mandre abissine.

Torna su ↑

13. Passati cinque giorni, ecco arrivarmi un messaggiero con lettera del P. Giusto, nella quale mi diceva di recarmi in un dato luogo, vicino ad Ifagh, dove l’avrei trovato. Partii subito, e vi arrivai la stessa sera. Avendo apparecchiato e disposto ogni cosa, ci mettemmo d’accordo sulle ulteriori nostre risoluzioni, ci abbracciammo più volte, e mentr’egli faceva ritorno alla sua carovana, io con i due servi mi disponeva a partire. Toccata appena la mezzanotte, al chiarore della luna mi misi in viaggio, tenendo un’altra strada, più a Levante di quella, che menava a Gondar. Feci quasi un circolo, ma in distanza, attorno a quella metropoli, passando per quattro villaggi, che appartenevano al Vescovo Salâma, ma che aveva perduti nel 1844, quando era stato espulso da Gondar. Dai discorsi che si facevano, mi accorsi che quelle popolazioni ne desideravano il ritorno, non perchè lo amassero, ma perchè, quando erano soggetti al Vescovo, i soldati del Governo non potevano entrare nel loro territorio, e solamente vi dimoravano, con lieve molestia, quei pochi, che si aveva il Vescovo.

Torna su ↑

14. Dopo cinque giorni dalla partenza di Ifagh, si arrivò a Doqquà, dove io aveva già pernottato altra volta, venendo dal Semièn. Lasciata la strada Nord-Est, che portava a questa provincia, tenemmo quella di Nord-Ovest, e ci avvicinammo al gran mercato di Waggarà. Per istrada incontrai, con mio grande impiccio, alcuni della nostra carovana di Gondar, i quali mi dissero che il P. Giusto era arrivato felicemente in quella città, e già stavasi disponendo l’occorrente pel mio viaggio a Matàmma ed al Sennàar. Allora fui costretto rivelare in parte a questi il mio segreto avvertendoli inoltre severamente che si guardassero dal farne parola con chicchessia. Quella notte si passò in un villaggio vicino al mercato, ed al mattino, fatte alcune provviste, e scritta una lettera al P. Giusto, la consegnai a quegli uomini, e partii, prendendo la strada di Hammamò, per discendere al Wolkait.

Torna su ↑

15. Che orrida discesa è quella di Hammamò! Ci vollero due giorni per arrivare a Waldubbà, dove si trova uno dei più celebri monasteri dell’Abissinia. Vi giungeva anche in quel giorno una piccola compagnia /161/ di scolari, mandati da Abba Salâma; ed io, che avrei volentieri visitato quel monastero, dovetti astenermene, per quell’importuno arrivo. Mi recai invece a passar la notte in un villaggio vicino, appartenente al medesimo monastero. Temendo sempre di essere riconosciuto, cercava occultarmi quanto più potessi. E poichè in quel villaggio faceva gran caldo, sorgendo esso in una posizione assai bassa; colsi il pretesto di respirare l’aria fresca e di evitar le cimici, e così mi negai di entrare in casa di chi me la offriva. Ma quanto più uno cerca nascondersi, tanto più è ricercato.

Di fatto, quel padrone di casa mi portò un po’ di pane e latte e venne a sedermisi accanto, mostrando voglia di parlar meco. — Dove andate? mi domandò. —

— Ritorno al mio paese, risposi; poichè chi viene in queste parti per far fortuna, la sbaglia. L’uomo che ha danaro da spendere, può cavarsela in Abissinia, ma chi ci viene per far guadagni, non trova che miseria, e finisce con perderci anche la salute; quindi ho risoluto di ritornare donde venni. — Volli tenere questo linguaggio, per occultare il mio segreto, non solo a lui, ma anche ai due mici servi; i quali se ne avessero trapelato qualche cosa, con me certamente avrebbero dissimulato, ma, in confidenza, con altri si sarebbero aperti. Intanto mentre sperava che con quella risposta di disgusto dell’Abissinia il padrone se ne fosse andato, restò invece fermo lì, e seguitò a discorrere proprio su quello che io non voleva. Poichè di botto prese a dire: — Il vescovo Salâma è molto in collera con Abuna Messias, il quale, esiliato dall’Abissinia, trovò mezzo di ritornarci, e, passato a Gondar, parti, alcuni dicono, per lo Scioa, altri pel Goggiàm, ed altri aggiungono che deve ritornare a Gondar. —

— Io non so altro, risposi affettando indifferenza, se non che vidi un portavoce del Râs, il quale recava ordine al Governatore di Gondar di farlo accompagnare sino a Matàmma; ed al mercato di Waggarà, alcuni, venuti da Gondar, dicevano che si aspettava fra breve colà. —

Volendo troncare questo spinoso discorso, domandai qual fosse la strada più corta per Massauah. — Se non avete affari per Adua, mi rispose, passato il Takkazè, prendete la sinistra, che mena all’Amassen; questa vi condurrà a Gondèt, da Gondèt a Kajakeur, e di là in quattro giorni sarete a Massauah. — Chiestagli poscia un poco di paglia, generosamente mi fece portare un letto; e avendo a canto i due servi, mi posi a dormire all’aperto.

Torna su ↑

16. La mattina, spuntata l’aurora, noi già eravamo in viaggio. Non nascondo che camminava con gran timore, per paura di capitare nelle mani del mio nemico, il quale, già era ormai certo, mi dava la caccia. /162/ Quindi per affrettare il viaggio, dissi ai miei servi: — Se noi tra otto giorni saremo a Massauah, dove persone mi aspettano con premura, vi regalerò l’asino. Animo dunque per la via dell’Amassen; la quale mi dicono che sia la più corta. —

— Io conosco la via di Adua, non quella dell’Amassen, rispose uno di essi. —

— Se non la conoscete, informatevi dai viaggiatori, affinchè non accadano sbagli e ritardi. La strada di Adua è più lunga, e poi, giù per la discesa del Tarànta l’asino soffrirebbe, ed a vostro danno. Avanti dunque per l’Amassen, via più corta e più piana, ed all’arrivo vi avrete anche una buona mancia. — Allora, con la speranza in cuore della promessa, si accordarono di fare ogni sforzo a fin di giungere a Massauah fra otto giorni.

Torna su ↑

17. E questo il modo da tenersi, viaggiando fra le popolazioni barbare, segnatamente in occasioni difficili e luoghi pericolosi. Nei paesi cristiani e civili si può confidare sulla moralità dell’uomo, sul timor di Dio, e sull’onore ed onestà della persona. Non così fra i barbari; ad essi, per averli in vostro favore, bisogna far trasparire una speranza di lucro, non troppo grande, per non isvegliare altre passioni, ma misurato secondo il servizio, le circostanze e la qualità della persona. Ad un povero, e per un lieve servizio, basterà la promessa di qualche lira; ad un altro, e per un servizio più grave, non basterà un tallero; ad un gran Capo poi, e per qualche importante affare, non ne basterebbero forse dieci, e talvolta neppure cinquanta. Il principio di onore fra i barbari lo sentirà al più un qualche gran Capo; ma si rifletta che, se non vi farà egli un cattivo gioco, ha però tutte le file tese, per farvelo fare segretamente da altri, senza far comparire ch’egli vi abbia avuto parte. Né è da fare assegnamento sui beneficj che loro avrete fatto; i selvaggi generalmente non sentono la riconoscenza, che è figlia della educazione, massime cristiana: e quindi su quello che è stato dato o fatto, non si pensa più; fa d’uopo far loro sperare nuovi lucri. Il prudente viaggiatore tenga a mente questi avvisi; poichè altrimenti rischierebbe non solo i suoi affari, ma la stessa sua vita.

I miei due servi di fatto, appena sentirono parlar di mancia, sembravano aver cambiato natura, tanto si mostrarono affezionati e solleciti. Però mi guardai bene dal lasciar trapelare la mia qualità di Vescovo; perchè allora la mancia promessa non sarebbe stata sufficiente; e se essi avessero potuto subodorare la brutta condizione in cui mi trovava, ed avessero conosciuto chi veramente io era, mi avrebbero con certezza tradito, sperando di ritrarre maggior guadagno dal Vescovo eretico mio persecutore.

Torna su ↑

[Nota a pag. 156]

(1) Ozoro è il titolo che si dà alle donne di famiglia ragguardevole, e corrisponde ai nostri Signora, Madama, ecc. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 159]

(1) Il pregio dell’evangelica purità non è sconosciuto in Abissinia, nè dal popolo, nè dai suoi preti e monaci. Il popolo venera i monaci, perchè li crede veramente casti; la gioventù, ha da per tutto una grande inclinazione al celibato, ed il cercare medicine per conservare la castità ne è una prova. Che se poi la troviamo poco osservata, ciò deve attribuirsi al guasto, portato fra quei popoli dall’eresia e dal maomettismo; alla mancanza di apostoli che la predichino o la inculchino; ed alla privazione di quegli ajuti spirituali, che servono a fortificare l’inferma natura dell’uomo. Tanto nel Vicariato del Nord, quanto in quello del Sud, trovai monaci ch’erano veri tipi di castità: e se questi, oltre a pensare alla loro santità individuale, avessero esercitato un santo apostolato, e fatto comprendere all’Abissinia ed a tutto l’Oriente il gran Verbum, si sarebbero veduti, anche in quelle barbare regioni, miracoli di evangelica purità. Ma questo apostolato non può essere disimpegnato che da uomini celibi; i preti ammogliati, tollerati colà indulgentemente dalla Chiesa, potranno far qualche cosa pel servizio locale del ministero ecclesiastico: ma per l’Euntes docete ci vogliono colombe, che, candide come neve, si slancino per l’orizzonte senza vincoli e legami di sorta. [Torna al testo ]