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Capo XII.
Apostolato fra i Zellàn.

1. Esortazioni ai genitori. — 2. Il giovane Melàk. — 3. Non voglio essere un caprone. — 4. Riforma esterna nella casa. — 5. Riforma interna. — 6. Visite alle mandrie dei pastori; Melàk mi ajuta nell’apostolato. — 7. Opposizioni dei Zellàn pel mio ritorno in Ifagh. — 8. Una confessione ed una lagnanza. — 9. Si sente il bisogno della Confessione. — 10. Partenza e ritorno di Maquonèn. — 11. Consigli ai genitori. — 12. Conferenza alle giovani. — 13. La questione del Battesimo. — 14. Agitazioni e timori. — 15. Esortazioni e promesse. — 16. Risoluzione sul Battesimo. — 17. Il digiuno dell’Assunta. — 18. Ultimi avvertimenti e Battesimo. — 19. Separazione. — 20. Arrivo in Ifagh; disposizioni per la partenza. — 21. Rigori del digiuno abissino. — 22. Moltiplicata dei digiuni in Abissinia. — 23. La dispensa del digiuno in Abissinia. — 24. L’uso della dispensa fra i Galla. — 25. La festa dell’Assunta. — 26. Cambiamento del giovane Maquonèn. — 27. Il giovane Maquonèn destinato mia guida. — 28. I due fratelli Zellàn. — 29. La Messa dell’Assunta. — 30. La dottrina dei Defteri. — 31. Comunione e baldoria.

Mi accorsi sin dai primi giorni che quel guasto e quei disordini, da me accennati più sopra, e che deturpavano principalmente la gioventù, non provenivano da malizia, ma da ignoranza; e quindi giudicai che un po’ di apostolato, fatto con avvedutezza, con carità, e con moderazione, avrebbe prodotto buoni effetti, molto più che alla semplicità univano una docilità di cuore non comune. Mi rivolsi pertanto pria di tutto ai genitori, e mostrai loro il danno che ne veniva al fisico ed al morale dei loro figli, permettendo ad essi certi atti contrarj alla modestia ed alla natura medesima. Feci loro conoscere la sconvenienza di mettere a dormire i giovani nelle stesse capanne, in cui dormivano i maritati; ed inoltre il brutto costume di /137/ lasciare negli stessi letti l’uno e l’altro sesso, anche quando giungevano ad un’età un po’ avanzata. Narrai loro la cautela e la diligenza che, sotto questo rispetto, si suole usare nei nostri paesi dai genitori, ed il bene che se ne ricava sì per la moralità, sì pel florido sviluppo materiale dei giovani. Queste esortazioni, nuove per quella buona gente, fecero una qualche impressione sull’animo loro, e riconosciutele savie e vantaggiose, mi promisero di metterle in pratica; e nel tempo stesso mi pregarono d’insinuare tali buone massime non solo ai giovani, ma anche al resto della famiglia. Io non volli altro, contento di trovare un terreno così ben disposto, mi misi all’opra, sperandone con la grazia di Dio un copioso frutto.

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2. In pochi giorni di paziente e paterno apostolato aveva già ottenuto molto; e quei giovani non solo si mostravano docili alle mie parole, ma mi si erano talmente affezionati, che non me li poteva togliere da canto. Il più piccolo dei figli principalmente non sapeva staccarsi da me un solo momento; egli aveva circa quindici anni, grazioso d’aspetto e di mente svegliata, e di un’indole sì dolce e mansueta, che potevate piegarlo dovunque si volesse. Si chiamava Melàk; e veramente il nome gli conveniva perfettamente: poichè Melàk in lingua abissina vuol dire Angelo, e quel caro giovane, tolta la nerezza della pelle, si aveva di angelo le forme ed il cuore. Era tanto avido di apprendere il bene, che non solo si mostrava assiduo ed attento a tutte le istruzioni, che io faceva in comune, ma voleva che in particolare gli raccontassi esempj di Santi, e gl’insegnassi quelle cose che avrebbe dovuto fare o tralasciare per diventar buono. In pochi giorni aveva già imparato i Comandamenti di Dio, il Pater noster, l’Ave Maria, e qualche parte del Credo; le quali cose poscia andava a ripetere con gioja ai genitori, e si affaticava insegnare ai suoi fratelli e compagni.

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3. Un giorno mentre io recitava il Breviario, Melàk corse affannato da me, invitandomi con premura a seguirlo. Andato, trovai un suo fratello maggiore che faceva certi atti riprovevoli: onde, preso un bastone, mi diedi a minacciarlo e rimproverarlo. Lì per li intimorito si allontanò fuggendo, ma poi avvicinatosi, mi disse con arroganza: — E perchè non posso fare io ciò che fanno le pecore e le capre? —

— Figlio mio, gli risposi; fra te e le capre vi è una gran differenza: tu parli, e le capre non parlano; tu ridi e piangi, e le capre nè ridono nè piangono: esse guardano sempre alla terra, in cui trovano i loro godimenti, e tu guardi al cielo, dove credi che ci sia qualche cosa superiore a te, di /138/ cui hai bisogno, ed in cui spesso trovi conforto e sollievo. Esse inoltre sono stupide, ed han bisogno di uno che le governi e le guidi; laddove tu sei intelligente, e fatto per governare non solo le capre e le pecore, ma tutti gli altri animali ed esseri, che sono sulla terra. Esse poi, fatto il loro tempo, s’ingrassano, e poscia vengono ammazzate e mangiate dall’uomo; tu non hai questo umile destino. Esse insomma sono bestie, e tu sei uomo. Vorresti adunque assomigliarti alle capre? saresti contento se ti chiamassi caprone? ebbene continuando ad imitare ciò che fanno le pecore è le capre, tu non sarai più un uomo, sarai un caprone. — Melàk, ch’era stato presente, ed aveva sentito tutto il discorso, corse subito dal padre, gridando: — Padre mio, io non voglio essere caprone, come pel passato, poichè ora comprendo che sono uomo. — Raccontò poscia con ingenuità e schiettezza tutto ciò ch’era accaduto, concludendo sempre: — Io non voglio essere un caprone. —

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4. I genitori intanto, persuasi intimamente dell’utilità delle mie esortazioni, e delle verità che andava ogni giorno insegnando, avevano già cominciato ad allontanare tutto ciò che avrebbe potuto essere d’incentivo a quelle tenere creature, ed una riforma totale si era operata nella casa. Il padre e la madre e le altre schiave maritate dormivano a parte, e si avevano tolti di letto le figlie ed i figli grandicelli, come costumasi fra noi cristiani. I giovani poi dormivano separati vicini a me, e le giovanette in altra capanna con una vecchia schiava, tenuta in casa come una seconda madre. Non si permettevano più quelle libertà e quelle facezie, che prima del mio arrivo erano cose usuali fra i giovani, e si aveva cura di tener separati i più grandetti anche di giorno, occupandoli in servizj materiali, e più spesso ad ascoltare le mie istruzioni, ed imparare le cose pertinenti alla fede. In pochi giorni insomma era successo in quella famiglia un mutamento tale, che chi vi fosse capitato per la prima volta, l’avrebbe riputata una famiglia veramente cristiana.

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5. Lo stesso cambiamento avrei desiderato nel loro interno: ma ciò non dipendendo solamente dall’opera mia, ma ben anco dal lavoro della grazia, faceva d’uopo pregare ed aspettare, ed insieme attendere assiduamente ad illuminare quelle menti, e sanare quei cuori. Non trovava ostacoli ed opposizioni in quanto a dottrina; poichè erano menti vergini, e non guasti, come gli altri Abissini, dagli errori e dai pregiudizj dei mussulmani e degli eretici. Un po’ di difficoltà stava nel correggere i costumi e la viziata natura; e per ottener questo mi adoprava con modi semplici e familiari a gettare nei loro cuori continue massime, atte a calmare le /139/ passioni; e avvalorando sempre i miei discorsi con i dettami della legge naturale e con quelle ragioni che potevano essere comprese dalla loro limitata istruzione, mi sforzava persuaderli della necessità di raffrenare e vincere le cattive inclinazioni. — Vedete, diceva un giorno, ciascun di noi ha sempre a lato un Angelo che gli parla al cuore, che gli comunica la parola di Dio, e gli dice quello che deve fare o evitare, per crescere buono in questa vita, e meritare poi i veri godimenti che gli son preparati dopo la morte. E dall’altro lato a ciascuno sta a canto il demonio, il quale pure a sua volta gli fa sentire la sua voce bugiarda, lo lusinga con promesse e con piaceri, e gli parla un linguaggio tutto opposto a quello dell’Angelo, per indurlo a commettere il male ed offendere Dio. Or se noi diamo ascolto a quest’ultimo, e facciamo ciò ch’esso ci suggerisce e consiglia, l’Angelo si affligge e si allontana, e ci lascia in compagnia del demonio, il quale per averci ingannati, tripudia e se la ride. Il nostro cuore intanto resta in pena, prova dispiacere, si sente come in mezzo alle spine, e si accorge d’aver perduta la sua felicità. —

— Vero, vero, ripigliava subito a dire Melàk, l’ho provato io facendo alcune brutte azioni; prima sembrava tutto dolce e piacevole, ma poi dopo subentrava la pena, il dispiacere, ed una certa afflizione ed infelicità, che non sapeva spiegarmi donde fossero venute. Ora si lo comprendo, tutto ciò certamente proveniva dall’avere offeso Iddio, e dall’essersi allontanato l’Angelo. —

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6. Ogni giorno era solito fare una passeggiata accompagnato da Melàk, e da altri della famiglia, se si trovavano liberi: e spesso visitavamo or l’una or l’altra campagna, dove i pastori tenevano le mandrie e pascolavano gli armenti. Per istrada non si parlava che di Dio; poichè, principalmente Melàk, non volevano sentire che storie di Santi e cose di religione. Io raccontava loro le preghiere e le pratiche di pietà, che si facevano nelle nostre famiglie cristiane, qualche esempio di Santi più popolari, e principalmente i fatti della Sacra Scrittura, la vita di Gesù Cristo e della Madonna, ed altre cose, che meglio mi aprivano la strada ad opportune istruzioni. Melàk stava il più attento di tutti, e giunti alle mandrie, cominciava egli a parlare e a raccontare ai suoi compagni quello che io aveva detto sia nel giorno, sia nelle conferenze, che soleva fare la sera. Insegnava quindi, con una premura che mi riempiva l’animo di consolazione, i Comandamenti di Dio, e raccomandava a tutti di astenersi da certi atti, che ci fanno lasciare di essere uomini, e ci fan diventare caproni. Oh quanto avrei dato per condurre meco questo giovane! In /140/ poco tempo e con lieve fatica ne avrei fatto un fervoroso Missionario, cotanto necessario per quei poveri indigeni: ma non era neppure a pensarvi; poichè fra tutti i figli, esso era l’idolo dei genitori, e non l’avrebbero ceduto per tutto l’oro del mondo.

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7. Intanto senza quasi accorgermene, erano già passati quindici giorni che mi trovava fra quei buoni pastori, quando venne da Ifagh il figlio di Maquonèn per ricondurrai a casa. Appena si seppe ciò dalla famiglia dei Zellàn, fu una costernazione generale, e genitori, figli, schiavi cominciarono a scongiurarmi ed a pregarmi di non abbandonarli così presto. Melàk più di tutti non voleva sentirne di partenza, e minacciava d’inimicizia Maquonèn se avesse insistito a portarmi via. Finalmente tanto dissero e fecero presso di lui e di me, che fummo costretti sospendere la partenza, e restare ancora altri giorni in loro compagnia. Il giovane d’Ifagh doveva ripartir subito: ma vedendo quell’insolito entusiasmo da me suscitato nella famiglia dei Zellàn, volle restare sino al mattino seguente. A mezzogiorno dunque si pranzò più allegramente, e dopo si uscì per la solita passeggiata, ed andammo a visitare un’altra mandria di pastori, che non avevamo veduta. Per istrada Melàk e gli altri giovani erano sempre attorno al figlio di Maquonèn, raccontandogli tutto ciò che avevano inteso ed imparato da me: ed egli n’era così meravigliato, che stentava a credere quanto sentiva. Giunti al luogo, che dovevamo visitare, dopo avere osservato ogni cosa, dissi anche là alcune buone ed opportune parole, e poscia mi ritirai, per lasciare Melàk più libero a parlare delle cose di Dio; poichè la sua non sospetta parola, unita con quell’innocente e fervido zelo, faceva maggiore impressione della mia sull’animo di quegl’indigeni.

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8. Poco dopo venne a trovarmi il fratello maggiore di Melàk, quello ch’era stato sorpreso nell’atto di commettere un fallo, e quasi piangendo: — Ella mi perdonerà, disse, e mi vorrà bene, come a tutti gli altri, poichè le giuro che non commetterò più quelle mancanze. Melàk dice ch’egli era prima un caprone: ma il vero caprone sono stato io, che ho scandalizzato tutti; per l’avvenire però neppure io sarò un caprone. — Vi era tanta ingenuità in questa confessione, che me lo abbracciai, e dandogli buoni consigli, ed assicurandolo che il Signore ed il suo Angelo lo avrebbero ajutato e custodito, gli feci coraggio e lo benedissi. Partito lui, venne il figlio di Maquonèn a lagnarsi meco, che ai Zellàn aveva dette ed insegnate tante belle cose, laddove in Ifagh, che pure ne aveva tanto bisogno, mi era sempre trattenuto in discorsi estranei alla religione ed al costumato vivere. — Hai ragione, risposi, ma questi son pagani e non hanno /141/ Kiès (1); laddove voi siete cristiani, ed avete molti Kiès, che possano istruirvi; e certamente essi si adonterebbero se venissero a sapere che io forestiero m’impicciassi degli affari, che appartengono a loro. —

— Si, è vero tutto questo, soggiunse quel povero giovane: ma sappia che se io sono un demonio, il Kiès, confessore di mia madre, è più demonio di me, essendo stato egli che mi ha eccitato a tante brutte cose. Insegni adunque anche a me quello, che ha insegnato ai Zellàn; poichè anch’io voglio essere buono. — Senza cercarla, mi accorsi di aver fatto un’altra conquista, e ne ringraziai Iddio. — Però, tu domani dovrai partire, gli dissi, quindi è inutile cominciare sta sera; ti basti per ora quello che hai inteso: se Ill. Il giovane Melàk. || tuo padre te ne darà permesso, ritornerai presto, e così vedremo di appagare il tuo desiderio. Intanto guardati dal far motto in Ifagh di ciò che hai veduto ed inteso, altrimenti non saremo più amici. —

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9. In tutto quel tempo, nelle istruzioni fatte non aveva mai parlato direttamente della Confessione: ma solo per incidenza, raccontando qualche fatto od esempio di Santi. Intanto tutti quanti sentivano il bisogno di manifestarmi le loro miserie, e narrarmi i casi della loro vita; ed appena la sera fummo ritornati e si cenò, vennero a pregarmi di ascoltarli /142/ separatamente. Ciò mostra quanto sia naturale all’uomo questo bisogno di aprire agli altri le piaghe del proprio cuore, principalmente quando la grazia ha cominciato in esso le operazioni della conversione e della salute. Stando pertanto nella capanna troppo ristretti, e non potendo parlare ad uno senza che gli altri sentissero, dissi al giovane d’Ifagh di prendere la mia pelle e stenderla fuori, alquanto distante dalla porta della capanna; e così cominciai ad ascoltarli ad uno ad uno. Senza saperlo, fecero tutti una vera Confessione della loro vita, con tanta sincerità e schiettezza che m’inteneriva: ebbi per tutti buoni consigli ed incoraggiamenti, e finito di ascoltarli, ci ponemmo a dormire.

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10. Il figlio di Maquonèn, che prima di tutti aveva fatto la sua Confessione, e che mostrava tanto desiderio d’istruirsi sulle cose di nostra religione, allo spuntar del sole ritornò in Ifagh, per dire al padre che mi sarei trattenuto con i Zellàn altri otto giorni, e per chiedergli il permesso di venire a tenermi compagnia sino a quando non fossi partito di là. Non era già notte che ce lo vedemmo dinanzi, tutto contento di avere ottenuto dal padre quanto desiderava. I giovani principalmente lo accolsero con gran festa, e massime Melàk gli era sempre attorno con quel suo fare dolce ed infantile, istruendolo e consigliandolo con tanto zelo e fervore, che sembrava uno dei giovani cristiani dei primi tempi della Chiesa. Ci portò inoltre la notizia che i rumori della guerra fra Râs Aly e Degiace Kassà ogni giorno aumentavano, e si facevano spaventosi apparecchi da ambedue le parti, onde vi era un timore generale per tutte le provincie.

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11. Melàk continuava il suo apostolato, ora con i pastori, ora con i fratelli e compagni, ed ora con gli stessi suoi genitori. Un giorno questi, tutti costernati per la mia partenza, vennero a chiedermi consigli sul come avrebbero dovuto diportarsi quando io li avessi lasciati. Ripetei loro le raccomandazioni fatte sin dai primi giorni rispetto alla custodia e vigilanza sui figli e sugli altri giovani; indi soggiunsi: — Quando essi toccheranno un’età competente, uniteli subito in matrimonio, e non permettete mai che se ne separino più. Gli schiavi teneteli ed amateli come vostri figli, e per qualunque motivo non sia mai che facciate di essi traffico e commercio, ma restino e muojano nella vostra famiglia. Cooperatevi affinchè anche fra di essi si mantenga sempre indissolubile il vincolo matrimoniale, e non permettete giammai in mezzo a loro la poligamia; che così la vostra famiglia si moltiplicherà, e sarà benedetta dal Signore. Quanto a voi, pregate sempre Iddio, affinchè vi dia la grazia di farvi cristiani, per poter osservare la sua legge e salvano. E poichè il /143/ cristianesimo di questi luoghi non è il vero, ed i preti non corrispondono al loro dovere, ritornando io dal Goggiàm, vi manderò un buon Padre, affinchè v’istruisca e vi battezzi. In questo tempo intanto mantenetevi fermi e costanti nelle vostre buone risoluzioni, e procurate di attirare a voi gli altri Zellàn. —

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12. Il padre e la madre mi avevano anche portato le lagnanze delle giovani, perchè non mi era occupato pure di esse, con insegnar loro quello che aveva insegnato ai giovani. La sera pertanto, fatta stendere la pelle fuori della capanna, e lasciato Melàk con i suoi compagni, le radunai tutte attorno a me, e presi a parlare della modestia, che conviene ad una giovane nella persona, negli occhi, nella lingua e nelle mani, si in pubblico come in privato. Mostrai loro inoltre, quanto pregevole sia quella giovane, che custodisce non solo il suo cuore, ma anche il suo corpo da ogni brutto desiderio, e da cattive azioni. Raccontai alcuni esempj di verginelle cristiane, che soffrirono tormenti ed anche la morte, per non cedere a brutali pretensioni; diedi poi alcuni savj ed opportuni consigli, e le benedissi. I giovani di nascosto eransi posti a sentire quello che io aveva detto, e ne fui contento; poichè quegli insegnamenti servivano anche per loro. Volevano pur esse raccontarmi, come i giovani, le azioni della loro vita: ma noi permisi, dicendo che l’avrebbero fatto appresso e di giorno. Ascoltai poscia ad uno ad uno i giovani, che volevano parlarmi segretamente, e, alzatomi per rientrare nella capanna, Melàk mi trattenne, dicendo che doveva parlarmi di cose di grande importanza.

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13. Questo giovane, come si è veduto, era dotato di un’intelligenza non comune; e già in poco tempo aveva fatto tali progressi nella conoscenza delle cose religiose, che altri di certo vi avrebbe impiegato più anni. Non poteva adunque sfuggirgli la necessità di ricevere il Battesimo; e quella sera, dopo avermi ripetuto tutto ciò, che aveva imparato a dire ed a fare: — E che mi servirà tutto questo, soggiunse, se non sarò battezzato? — Egli aveva ragione; ma confesso che in quel momento mi trovai non poco impicciato. Capiva anch’io la necessità per lui di questo Sacramento, e nessuna difficoltà intrinseca vi si opponeva di amministrarglielo: ma molte difficoltà estrinseche mi trattenevano dal dare questo passo. Primieramente io era riputato da tutti come semplice secolare, il signor Bartorelli, e nessuno sospettava che fossi prete. Ora, in quei paesi l’amministrazione del Battesimo fatta da laici è cosa sconosciuta e scandalosa, ed anche sconosciuto è il Battesimo di necessità senza liturgia. Manifestare inoltre la mia qualità, e battezzarli solennemente, sarebbe stato /144/ lo stesso che dire, Abba Messias è già in Abissinia; e quindi addio miei disegni di penetrare nei Galla! In secondo luogo non mancavano che pochi giorni alla mia partenza; battezzarli quindi, e poi abbandonarli senza i soccorsi, che la nostra Religione appresta ai neofiti, sarebbe stato un altro inconveniente grandissimo. Permettere finalmente che venissero battezzati dai preti eretici, non sapeva nè poteva indurmi; poichè era lo stesso che lasciarli nel paganesimo, essendo io quasi convinto della sua invalidità. Che fare adunque? Ripeto che non sapeva a quale partito appigliarmi. Mi venne in pensiero di scriverne alla Missione Lazzarista di Gondar: ma oltreché in essa non era rimasto che il solo prete indigeno Tekla Haimanòt, e che i rumori della prossima guerra minacciavano di far fuggire anche lui, pure risolvendosi egli eziandio a fare quest’opera buona, per l’ingrossamento dei fiumi e dei torrenti, gli sarebbe stato impossibile venire in quella stagione. Lì per lì adunque non diedi alcuna risposta al buon Melàk, e gli dissi solo che ne avremmo parlato appresso.

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14. Recitate le preghiere, si dormi tranquillamente: ma il dovermi separare da quella buona gente mi teneva in gran pensiero: e pure bisognava fra poco partire. Il mese di Luglio già si avvicinava alla sua fine, e dicevasi da per tutto che la guerra sarebbe cominciata nei primi di Settembre; onde io, prima dei movimenti guerreschi, voleva ad ogni costo trovarmi sulle rive del Nilo, al Sud del Goggiàm, per passarlo non appena si fossero abbassate le acque. Questi pensieri mi tenevano in tale inquietudine, che quasi era tentato di non andare più avanti nel ministero dell’apostolato con quella buona gente. Ricorreva alla preghiera: ma l’animo mio soffriva sempre. Mi venne in mente di chiamare il P. Giusto, e commettere a lui di continuare ad istruire quei neofiti, fermandovisi alcuni mesi: ma fui costretto mettere da parte anche questo disegno per tante altre difficoltà, che ne sarebbero nate.

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15. La sera e lungo il giorno mi erano sempre attorno, vecchi e giovani, maschi e femmine con un’avidità di sentir parlare di Dio, che era una meraviglia. I giovani principalmente non sapevano saziarsi; e spesso mi manifestavano i loro timori di ritornare nelle mancanze di prima dopo la mia partenza. — Ma se parto io, diceva loro, resterà con voi Dio ed il vostro Angelo custode; e se voi vi manterrete fedeli alla loro voce, non soccomberete. Certamente il demonio non lascerà di molestarvi, e farà ogni sforzo per ripigliare su di voi il suo impero; ma se dal canto vostro sarete forti e costanti, Iddio verrà col suo ajuto, e vincerete. — Allora tutti quanti rinnovarono ad alta voce le promesse fatte di astenersi /145/ da ogni brutta azione, di ascoltare la voce dell’Angelo, e di mantenersi forti e fedeli nelle tentazioni, per non dispiacere ed offendere Dio. Io piangeva di consolazione, e sembravano un miracolo che in sì pochi giorni si fosse operato tanto bene in mezzo a quei pagani. « Forse Iddio, diceva fra me stesso, ha voluto darmi questo cucchiajo di miele per farmi coraggio, e per disporre l’animo mio ad altre amarezze; forse avrà voluto condurmi sul Taborre delle consolazioni per poi introdurmi nell’orto di Getsemani a sudar sangue con lui. » E commosso da queste riflessioni, e dal pensiero di dovere fra poco abbandonare quelle povere anime, mi scorrevano lacrime dagli occhi, non so se di contentezza e rassegnazione o di dolore e di cordoglio. Vedendomi piangere, Melàk mi disse: — E perché, signor Bartorelli, queste lacrime? forse vi abbiamo offeso? —

— No, figlio mio, non è pianto di dolore questo, ma di consolazione; perchè vedo il paradiso, che il Signore vi prepara, e dove ci troveremo un giorno tutti insieme, se vi manterrete fedeli alle promesse. — Allora fu un pianto generale.

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16. Intanto bisognava pensare alla questione del Battesimo: e dopo lunga riflessione, risolvetti di conferirlo al solo Melàk, il più disposto di tutti, e lasciare gli altri in buona fede sino all’arrivo di qualche Missionario. Chiamato pertanto il buon giovane: — Caro mio, gli dissi, tu mi hai domandato il Battesimo, e voglio dartelo; ma t’impongo di non farne parola con altri, poichè desidero che in faccia al pubblico compariate quali sempre siete stati, fino a tanto che il Signore non disponga altrimenti. Dichiarandovi cristiani, verrebbero subito i preti eretici, e voi stareste peggio di prima. Col Battesimo che ricevi, innanzi a Dio sei vero cristiano, e, venendo a morire potrai salvarti. Più, se qualcuno di coloro, che hanno ascoltato la mia parola, o che ascolteranno te dopo la mia partenza, sarà in pericolo di morte, tu potrai dargli il Battesimo, come io lo do a te, purché creda in Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo, nato e morto per noi; nel mistero della Santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, giusta gli articoli del Credo che hai imparato, e sia pentito e risoluto di lasciare il peccato, ed osservare la legge di Dio. E lo farai sino a tanto che non venga il prete cattolico per istruirvi, confessarvi e comunicarvi. — Ed affinchè egli lo ricevesse, e poi, occorrendo, lo amministrasse con piena cognizione di causa, cominciai ad istruirlo sul Battesimo di necessità, che può darsi in caso di bisogno anche da un secolare. Tutti quei giorni pertanto non feci altro che tenere conferenze sulla fede, sulla morale e /146/ sui Sacramenti, adattandomi sempre alla loro intelligenza e grado d’istruzione, e spendendo il maggior tempo col caro Melàk.

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17. Il calendario latino segnava il 4 Agosto, festa di S. Domenico; e quello abissino il 29 Luglio: cosicchè per essi, che contano il tempo secondo il calcolo giuliano, il mese di Agosto cominciava il giorno 6, festa della Trasfigurazione. Col primo del loro Agosto ha principio per gli Abissini il digiuno dell’Assunta, chiamato digiuno del Felsità, il quale dura quindici giorni, e viene da loro osservato rigorosamente. Io adunque non poteva restare fra i Zellàn, dove non si mangiava altro che latte e carne, senza scandalo degli Abissini d’Ifagh, i quali sapevano bene ch’io era cristiano. Il giorno appresso pertanto dovendo partire, avvertii Melàk, affinchè ne parlasse a tutti, e disponesse ogni cosa. Il più contento di questa mia risoluzione era il figlio di Maquonèn: ma i poveri Zellàn ne erano desolati; Melàk principalmente mi faceva compassione, e non bastavano ragioni per calmarlo e dargli coraggio.

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18. Passai il resto di quel giorno ed una gran parte della notte a ricevere ora gli uni ed ora gli altri; poichè tutti avevano qualche cosa da dirmi. La sera, dopo la cena, feci una conferenza a tutta la famiglia, radunatasi appositamente, dando loro varie regole pratiche di condotta. Dissi che lasciava a Melàk l’incombenza di molte cose importanti sino al mio ritorno dal Goggiàm, o fino a tanto che non fosse giunto un prete cattolico, da me mandato per istruirli. Li esortai a mantenersi costanti nei proponimenti fatti, dai quali dipendeva la loro eterna salute, e li benedissi. Ritiratomi poscia con Melàk, gli diedi le ultime istruzioni, e gli amministrai il Battesimo, con quanta gioja del suo cuore e consolazione mia, ciascuno il comprende. Egli in quel momento era un vero Angelo di nome e di fatto. Compito questo dovere, ci mettemmo a dormire.

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19. A stento potei prendere un’ora di sonno; l’affezione, le premure, il dispiacere di quella buona gente, mi avevano grandemente commosso. Prima di giorno la famiglia era tutta in moto per sentire ancora una volta la mia parola; poi, finite le faccende della mandra, e mandati gli armenti al pascolo, fu imbandita una colazione più solenne del solito, con pane, carne e latte in abbondanza. Indi, essendo tutto disposto per la partenza, rivolsi loro altre poche parole, promettendo di mandare il figlio di Maquonèn a portare i miei saluti e la mia benedizione prima di lasciare Ifagh. Mi accompagnarono tutti quanti circa un miglio di strada, e Melàk con suo fratello per un’ora di cammino; vedendoli stanchi, dissi che bisognava accomiatarci, ma vi volle del buono a farli ritornare, non vo- /147/ lendo assolutamente staccarsi da me. Finalmente li abbracciai piangendo, e così mi separai da quella buona gente, presso cui aveva passato giorni cotanto felici, e che mi aveva fatto gustare abbondantemente e senza sperarlo le più sante dolcezze del cattolico apostolato.

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20. La perdita del sonno, le commozioni di quei giorni e la fatica del viaggio mi avevano assai indebolito, e non mi sentiva la forza di dare un passo e proseguire innanzi. Rivolto pertanto al giovane Maquonèn: — Sarà meglio, gli dissi, di riposarci un poco, e poi ripiglieremo il cammino. — Ci adagiammo dunque sotto un albero, e tosto ci addormentammo. Svegliatici dopo un’ora di dolce sonno, ci rimettemmo in via, e Ill. Mandrie del Zellàn. || presto si arrivò ad Ifagh. Ivi appresi che la guerra era ormai inevitabile, e che gli eserciti presto si sarebbero messi in cammino. In Abissinia l’incontro di soldati, che si portano alla guerra, è pericolosissimo per i viaggiatori e forestieri; perchè in quel tempo più che prima, vivono e marciano senza disciplina e senza vigilanza militare, facendosi lecito ogni capriccio e soperchieria. Se non fosse stato questo motivo, io avrei potuto partire nel mese di Settembre; poichè le battaglie non cominciano che dopo il Maschàl abissino, cioè dopo la festa della Croce, che cade ai 25 del nostro Settembre. Ma il movimento delle truppe cominciando due settimane prima, bisognava che partissi dopo l’Assunta, per arrivare tran- /148/ quillamente all’estremità Sud del Goggiàm. Scrissi quindi al P. Giusto ed al P. Cesare informandoli di questa mia risoluzione, per essere eglino a conoscenza del viaggio, che stava per imprendere.

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21. Eravamo già entrati nel digiuno dell’Assunta. Esso, come ogni altro digiuno, in Abissinia si pratica con grande rigore; ed in sostanza non è che una specie di ritiro, in cui la più parte della giornata viene impiegata in salmodie e letture di certi loro libri, che i preti fanno al popolo raccolto nelle chiese. Non si mangia che stretto magro; ed in quei luoghi dove misera è la gente, e scarso l’olio, il pesce, ed altri simili commestibili, il digiuno riesce pesantissimo, segnatamente ad un Europeo. In Ifagh, per la vicinanza del lago Tsana, si poteva trovare un po’ di pesce; ma altrove non era da parlarne: bisognava cibarsi di legumi e di cattivo pane. In Oriente ed in tutta quella parte dell’Africa, eh’è stata guastata dallo scisma, la religione consiste tutta in qualche atto esteriore, e laddove nulla si bada alla cultura del cuore ed alla cristiana moralità, si dà grande importanza alle pratiche esterne, e si osservano, massime il digiuno, con una specie di fanatismo. Sicchè li vedete languire per intere quaresime, e praticare certi atti di penitenza con una scrupolosità e rigore monacale; ma della vera mortificazione evangelica, principalmente rispetto ai sensi ed alle basse inclinazioni, punto o poco si curano.

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22. Se i nostri delicati Europei fossero tenuti ad osservare i digiuni, che si praticano in Oriente, e massime in Abissinia, si darebbero per morti. La maggior parte dell’anno colà si passa in digiuno, e sempre con quel rigore, che sopra ho accennato. Gli Abissini hanno comune con l’Oriente il digiuno dell’Assunta, la quaresima di Pasqua di cinquantacinque giorni, e tutti i Mercoledì e Venerdì dell’anno, eccetto da Pasqua a Pentecoste. Più, hanno la quaresima dell’Avvento di quarantun giorno; quella degli Apostoli di quaranta giorni; il digiuno di Ninive di tre giorni, che si fa quindici giorni prima della quaresima di Pasqua. Quasi i due terzi adunque dell’anno si passano in digiuno. Oh se queste astinenze fossero accompagnate dalla bontà della vita, e da un vero spirito cristiano, e se quei popoli fossero uniti alla madre Chiesa. Romana, quanti meriti non si acquisterebbero pel cielo? Ma, come ho detto, non sono che sterili pratiche esterne, fatte più per lusso e per orgoglio di casta, che per mortificazione e per ispirito evangelico.

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23. Nè questa rigorosa astinenza può in qualche modo venir mitigata; poichè in Abissinia, come in Oriente, non si conosce e non si ammette facoltà di dispensare dal digiuno, sia in quanto al numero, sia in quanto /149/ alla qualità dei cibi. E poichè il trasgredirlo si ritiene colà per colpa grave, avviene che il Missionario latino, se non voglia essere causa di scandalo, è costretto rinunziare ad ogni dispensa, e adattarsi al loro rigido costume. Io feci di tutto per persuadere quei popoli che il digiuno, essendo, in quanto alla forma, un precetto ecclesiastico, è soggetto perciò alla potestà della Chiesa; e quindi essa può a sua volontà dispensarne o mitigarne la pratica: ma ciò in quei paesi non s’intende, ed è difficile farlo capire a popoli, che da una parte sono immersi nella più crassa ignoranza, e dall’altra sono dominati dagli erronei insegnamenti dei Copti e dei Greci. Anzi una delle armi, di cui si serve l’eresia orientale per combattere la Chiesa latina, è appunto questa del digiuno; accusandola di essersi allontanata dal primiero spirito cristiano, col mitigare la primiera rigorosità dell’astinenza.

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24. E gli stessi pregiudizi e difficoltà trovai appresso anche in alcuni paesi galla di mia giurisdizione; pregiudizi e difficoltà che mi fu difficile togliere e superare. La Missione Galla di fatto essendo di rito latino, nessun obbligo vi poteva essere nè per noi, nè per quei popoli di assoggettarci al digiuno abissino, e con tutta sicurezza potevamo servirci delle dispense, che la nostra santa Chiesa pietosamente accorda. E pure, trovandosi in quei paesi molti Abissini, o portativi dalle numerose emigrazioni, o venutivi per conquistare gradatamente quelle provincie, prevalse per mezzo di loro fra alcuni popoli galla la pratica del digiuno abissino; e noi quindi o per amore o per forza eravamo costretti assoggettarci a quelle astinenze, per non iscandalizzare quei poveri e fanatici ignoranti. Ed io, nel tempo stesso che dispensava con tutta facilità gli altri, mi sacrificava ad osservare scrupolosamente, anche ammalato, tutti i digiuni abissini, affinchè non si dicesse che voleva introdurre la dispensa per vantaggio mio proprio. Con tutto ciò non posso dire di aver persuaso quei popoli intorno alla potestà che ha la Chiesa su questa pratica disciplinare, e nemmeno di averli indotti a seguirla.

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25. Assunta è il nome che noi Latini diamo al passaggio glorioso, che la Vergine Santissima fece dalla terra al cielo: ma gli Abissini, che fermamente credono in questo meritato privilegio della Madre di Dio, chiamano una tale solennità con diversi nomi, secondo le diverse parti del mistero che vogliono esprimere. Primieramente le si dà il nome di Felsità, come in alcuni paesi d’Oriente: ma esso, principalmente verso il Sud, significa piuttosto i quindici giorni del digiuno che precedono la festa; i quali più comunemente vengono chiamati Felsità Fàssika (1), /150/ cioè Pasqua del digiuno Felsità. Gli Abissini inoltre il giorno sedici di ogni mese sogliono celebrare la commemorazione dell’Assunzione di Maria in cielo, e questo giorno, tanto di Agosto quanto degli altri mesi, lo chiamano Kidàna Marat (trionfo di Maria). Generalmente poi la massa del popolo non fa distinzione tra i quindici giorni di apparecchio e quello della festa; poichè per esso si gli uni come l’altro son tutti una cosa. Oltre l’Assunzione, vien celebrata anche la morte della Madonna, che colà credesi sia avvenuta il 21 Gennajo, e che chiaman Astoriò, nome copto che significa morte; e come nel sedici di ogni mese si commemora l’Assunzione di Maria, così nel ventuno se ne commemora la morte. Da ciò si conosce che, secondo gli Abissini, la Vergine Santissima sia morta il 21 Gennajo, e sia stata poi assunta in cielo il 16 Agosto.

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26. Ritornando ora ai miei ospiti d’Ifagh, soggiungo che, sin da quando arrivai, mi diedi a riformare il cuore e dirigere le azioni del giovane Maquonèn, che sì buona indole e si ardente desiderio d’istruirsi aveva dimostrato fra i Zellàn: ed in pochi giorni aveva fatto tanto profitto, e mi dava si consolanti segni della sua docilità e del suo fervore, che mitigava in parte nell’animo mio il dispiacere di aver lasciato quei buoni pastori. Laddove prima si vedeva irrequieto, ed in cerca sempre di divertimenti e piaceri, poscia se ne stava ritirato in casa, cogitabondo, ed intento solo alle mie istruzioni. Di questo cambiamento ne erano tutti meravigliati; ed un giorno venne la madre a domandarmi se non fosse per avventura effetto di malinconia. — Lasciatelo stare, le risposi, non è malinconia, ma segno che vuol diventare un uomo più assennato ed un cristiano più buono. La vita che sinora ha menato non poteva che nuocere all’anima sua ed alla sua salute, e se ora, mercè i miei consigli, vuol mutare condotta, sarà un bene per lui e per voi. —

— Ed a questo scopo, ripigliò la madre, io aveva molto faticato, ma sempre invano: voi siete stato più fortunato di me, e ve ne ringrazio. Nei nostri paesi non si trova chi sappia dare savj consigli; gli stessi nostri preti spingono al male, e perciò la nostra gioventù cresce così viziosa. — Partita la madre venne il giovane a chiedermi come avrebbe dovuto regolarsi, se il padre, com’era solito fare, lo avesse mandato in città, dove tanti pericoli e tante occasioni di peccato s’incontravano, principalmente per lui. — Andrai, risposi, perchè l’ubbidienza tel comanda, e tirerai dritto per la tua via senza guardare o fermarti dove credi esservi pericolo; e confidando in Dio e nell’assistenza del tuo Angelo Custode vincerai il demonio e le insidie di coloro, che ascoltano la sua voce. — E così fece: /151/ alcune ore dopo me ne diede la prova; poichè, mandato dal padre in città per alcuni affari, parti tremando: ma poi ritornato, tutto contento mi disse: — Signor Bartorelli, ho vinto. Strada facendo, mi veniva incontro una delle solite mie amicizie: ma l’Angelo mi ripeteva al cuore: Fatti coraggio; ed io, fedele al vostro consiglio, tirai dritto senza guardare. Mi aspettò al ritorno, e feci lo stesso, ed ora provo una consolazione grandissima. —

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27. Intanto si avvicinava il tempo della partenza, e bisognava che preparassi e disponessi ogni cosa. Quel giovane mi stava sempre attorno, pregandomi di condurlo meco sino al Goggiàm, a fin di allontanarsi per qualche tempo da Ifagh, dove, restando solo, temeva di perdere quello che aveva acquistato. Da parte mia ci avrei avuto piacere: e poichè nel patto di pace, che si era fatto col Nagadarâs in Enferàs, egli si era obbligato di farmi accompagnare da persona di sua fiducia, per non aver molestie dai doganieri, gli scrissi una lettera, ricordandogli la promessa, e pregandolo di destinarmi il giovane Maquonèn, figlio del suo Mesleniè d’Ifagh. Il giovane stesso, cavalcato un mulo, andò a portarla, ed il giorno appresso fu di ritorno con un’altra lettera del Nagadarâs, diretta a tutti i doganieri, con cui s’ingiungeva di riconoscere Ato Maquonèn per suo porta parola, e mia guida. Il buon giovane era fuor di sè per l’allegrezza, e non sapeva in qual modo mostrarmi la gioja che provava, ed intanto da quel giorno stesso si mise al mio servizio.

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28. Prima di partire volli adempiere la promessa fatta ai Zellàn, e mandai il giovane Maquonèn a portare a quei buoni neofiti i miei saluti e la mia benedizione. Non so dire quanta gioja ne provassero tutti quanti; e mei mostrarono il giorno appresso, in cui mi vidi comparire Maquonèn con Melàk e suo fratello. Appresi da loro che tutti si erano mantenuti fedeli ai miei insegnamenti, e fermi e costanti nei loro propositi. Melàk mi pregò di dare il Battesimo anche al fratello, dicendomi che non solamente n’era degno pel gran desiderio con cui lo chiedeva, ma benanco per la premura e sollecitudine avuta nell’imparare le cose necessarie. Esaminatolo, conobbi che veramente aveva appreso tutto quello che da me era stato insegnato a Melàk; e riconosciutolo ben disposto e pieno di fervore, lo contentai, dopo aver fatta tutti e due la loro Confessione. Poscia, senza neppure visitare la città, fecero ritorno alla loro casa.

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29. La mattina dell’Assunta volli andare a vedere la funzione solenne di quella festa in una delle chiese principali d’Ifagh. Nulla vi si fa di particolare nella celebrazione della Messa; la parte liturgica è sempre la /152/ stessa, come nelle Messe feriali, ed i ministri, che salgono all’altare, sono i soliti cinque, cioè due sacerdoti, e tre diaconi. Il celebrante si chiama Kiès (prete) ed il suoassistente Nefica Kiès (sotto prete). La Messa abissina inoltre, o solenne o piana, non ha alcuna parte segreta; ma tutto vien detto con voce si alta, che sembra un canto, e con tali stroppiature da far compassione anche ai più rozzi ed idioti. E ciò non deve recar meraviglia, poichè generalmente, anche nelle grandi città, i sacerdoti sono ignoranti non meno dei secolari, e non hanno altro merito che di saper leggere stentatamente quella misera Messa, senza capirne un’acca; e lì mi accadde di sentir cantare dal celebrante alcuni tratti di rubrica come se fossero testo liturgico! La solennità inoltre si fa consistere nel minore o maggior numero di Defteri, i quali assistono alla Messa fuori del Sancta Sanctorum, cantando poesie e tratti di Scrittura. Questi Defteri sono laici, tenuti per dotti, i quali, oltre l’ufficio di scrivano e di dottore, hanno quello di assistere le chiese quando vi si tengono funzioni, e nelle grandi e principali ve ne sono addetti più centinaja, che lungo l’anno prestano il servizio a turno, ma nelle solennità maggiori devono intervenire tutti quanti.

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30. Ho detto che questi Defteri son tenuti per dotti, e tale suona il loro nome: ma deve intendersi di una dottrina a modo abissino; perché là tutta la scienza si fa consistere nel saper leggere un poco la lingua gheez e la Bibbia, e nella conoscenza di alcune leggi e tradizioni scritte in certi libri, compilati nelle ultime epoche di conflitto religioso. Di questi libri i principali sono Haimanòt Abbò (fides Patrum), ed il Sinodos, l’uno e l’altro composti con testi falsi e dubbj da alcuni Copti per sostenere la fede eutichiana. Più, il Fata Neghèest; un zibaldone di tradizioni orientali, di sentenze del codice giustiniano, e di altri testi sacri e profani, che formano il loro codice. Ma questi stessi libri non sono studiati che da pochissimi, talmentechè tra cento Defteri, è raro se li conoscano un due o tre. Gli stessi Giudici, che formano l’ultimo tribunale, non conoscono neppure di nome il codice; e perciò giudicano secondo l’uso tradizionale del paese.

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31. Quasi in fine della Messa, venne distribuita la Comunione, con pezzetti di pane preso dalle pagnottelle che si sogliono benedire prima di ogni Messa, e che poi servono per la distribuzione agli assistenti. La Comunione non si dà che a giovinetti dai sette ai dodici anni, a monache e monaci vecchi (1), ed a quelli che vi sono obbligati per beneficio ec- /153/ clesiastico. Non si creda che questo Sacramento abbia presso di loro quel valore che ha fra noi; si riceve piuttoso per uso, anzichè per compiere uno degli atti più santi e più sublimi di nostra religione; e perciò vi si accostano senza premettervi nè Confessione, nè altro devoto apparecchio. Gli stessi preti non dicono Messa se non quando vi sono obbligati per ragione di beneficio, sicchè molti stanno degli anni senza salire all’altare; e non celebrando, non vi è caso che si accostino alla Comunione. Anzi i preti ed i monaci di grande riputazione, credono avvilirsi, celebrando Messa od accostandosi alla Comunione, perchè presso il pubblico l’una e l’altra si tengono per atti mercenarj. Coloro poi che per beneficio sono obbligati a comunicarsi, non potendola ricevere essi, pagano e mandano altri all’altare!

Intanto fatta la Comunione e poscia la distribuzione, finisce la festa ecclesiastica, ed incomincia la baldoria. I ricchi, avendo gran famiglia con molti servi e schiavi, ammazzano uno o più bovi; i poveri una pecora od una capra; altri poi, uniti in società di dieci, venti ecc. comprano un bue, se lo dividono, e portano la loro parte in casa, dove le donne hanno già apparecchiato birra ed altri intingoli. In simili giorni anche i soldati hanno dritto ad una mensa sontuosa, ed i capi sono obbligati a dar loro carne, pane e birra in abbondanza. Io, per adattarmi all’uso, comprai un bue, e lo regalai alla famiglia Maquonèn; riservandomene un quarto per farne dono a quella perla di Confessore, e ad altri che frequentavano la mia casa.

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[Nota a pag. 141]

(1) Così chiamatisi i preti nell’eretica Abissinia; il quale nome sembra derivato dalla parola araba Kassìs, che similmente vuol dire prete. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 149]

(1) Fàssika vuol dire Pasqua, e chiamasi così quel giorno in cui ha fine qualunque lungo digiuno. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 152]

(1) Non solamente gli uomini, ma anche le donne, quando muore il loro sposo e non passano ad altre nozze, son tenute come monache. [Torna al testo ]